Dee Brown - Attorno al fuoco-Racconti degli indiani d'America

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Attorno al fuoco

Racconti degli indiani d’America trascritti da Dee Brown

® 1979 by Dee Brown 1981 Titolo dell’opera originale Campfire Tales of the American Indians I edizione Oscar Mondadori febbraio 1981


NOTE DI COPERTINA Dee Brown – che in Seppellite il mio cuore a Wounded Knee ricostruì l’episodio famoso e culminante del genocidio del popolo pellerossa – ha qui raccolto i più bei racconti di una ventina di differenti tribù (tra i primi a essere stati messi in forma scritta) volgendoli nel linguaggio che potrebbe essere usato da un narratore indiano dei nostri giorni. Sono storie di eroi e di eroine, di mostri e di fantasmi, di humor, di mistero e di audaci imprese, e ci riportano a un’imprecisata preistoria in cui uomini, piante, animali e gli stessi elementi della natura (lampo, vento, pioggia, fuoco) non erano ancora ben differenziati, ma altrettante manifestazioni di un unico Grande Spirito. E se al lettore occidentale l’ambientazione e certi ingredienti possono talvolta sembrare insoliti, le situazioni descritte sono tuttavia universali, riflettendo virtù e difetti comuni a tutti gli esseri umani. Così in molti racconti è possibile ritrovare gli echi di narrazioni bibliche, greche o germaniche, mentre in altri prevalgono temi autoctoni e peculiari del folclore indiano. Peculiari e distintivi sono soprattutto il senso della natura e della comunione universale, e quel misto di candore e di disincantata ironia che ne fanno il frutto inconfondibile di infinite generazioni.


Nota introduttiva Sembra opportuno illustrare il significato di alcuni termini amerindi ricorrenti nelle storie qui raccolte, e svolgere alcune brevi considerazioni di carattere etnologico e più genericamente culturale. L’abitazione, in primo luogo. Naturalmente, ambiente e sistema di vita erano determinanti al riguardo. I cacciatori nomadi delle Grandi Pianure, dagli Apache agli Arapaho, dai Corvi agli Arikara, dai Piedi Neri ai Comanci, dovevano avere un’abitazione rapidamente smontabile e facilmente trasportabile. Tale abitazione era il tepee o tipì, dai termini Sioux te, “abitare” e pee, “atto a, utile per”: una tenda conica di discrete dimensioni, eretta con un’intelaiatura di pali coperti generalmente da pelli di bisonte. I giacigli degli occupanti erano disposti alla periferia, al centro vi era un focolare, al di sopra del quale il culmine della tenda aveva un’apertura per la fuoriuscita del fumo che si poteva orientare in favore di vento, o chiudere, con una pelle manovrata da un’asta mobile. Tepees di grandi dimensioni erano riservati alle riunioni, ai concili. Due pali da tepee incrociati, fra i quali era tesa una rete o una pelle di bisonte, formavano una rudimentale slitta, il travois (corruzione del francese travail, lavoro), per il trasporto di viveri e masserizie, trainato dai cani prima (donde la necessità della leggerezza) e poi dal cavallo, dopo la sua reintroduzione in America. Diffuso nel Nord-Est, a causa delle più aspre condizioni climatiche, era il wigwam, spesso abitato da più famiglie, costruito in forma conica o ad arco con grossi pali orizzontali e verticali ricoperti da corteccia di betulla e, dove questa non era disponibile, da pelli o stuoie. Il wigwam aveva destinazione poco più permanente del tepee (anche gli abitanti del Nord-Est erano cacciatori nomadi); in qualche caso serviva per le riunioni dei consigli tribali. In parte dell’Ovest e nel Sud-Ovest, dove si praticava l’agricoltura – principalmente mais e patate – l’abitazione era adatta alla vita sedentaria: si trattava di capanne circolari con struttura fatta di pali, coperte da un tetto a cupola e rivestite di fango secco e argilla. Tipici del Sud-Ovest erano gli agglomerati chiamati dagli spagnoli pueblos (nome esteso alle tribù che li abitavano), villaggi di vere case costruite di pietre o mattoni essiccati al sole (adobe). Le case erano spesso parzialmente sovrapposte su quattro o cinque piani, e in genere addossate alla ripida parete di una montagna, per motivi di difesa. Un vasto locale sotterraneo detto kiva, cui si accedeva dal tetto, serviva per le molte cerimonie religiose e per i concili dei capi. Nei kivas o nei grandi tepees, nei wigwams o nelle grotte i medicine men, gli stregoni o meglio gli sciamani, celebravano i riti segreti, fumavano le loro


pipe offrendo il fumo “agli dei delle quattro direzioni”, danzavano danze sacre per invocare dagli spiriti, soprattutto dal Grande Spirito, il potere di guarire, di far cadere la pioggia, di attirare le mandrie di bisonti da cui dipendeva la sopravvivenza della tribù. Comune agli indiani del Nordamerica era la credenza in un essere supremo, creatore di tutte le cose, variamente denominato: il Vecchio, Nesaru, il Grande Sciamano, ma più spesso il Grande Manitù o Grande Manito. Comune era l’esperienza mistica, e così la “tecnica” – isolamento, digiuno, preghiera e mortificazione – per raggiungerla e ottenere le rivelazioni, sentire la voce del Grande Spirito. Poiché la voce o la visione dello Spirito, nell’estasi o anche in sogno, conferiva all’eletto parte degli stessi poteri dello Spirito. Quest’unico soffio creatore permeava tutta la natura, uomini piante e animali: da qui il rapporto armonioso, paritario ed “ecologico” (uccidere la selvaggina necessaria, non un capo di più) con ogni creatura vivente e con gli stessi elementi naturali, lampo, vento, pioggia, acqua, fuoco, considerati manifestazioni e partecipi dello Spirito. Sorprendentemente vicino a quello delle antiche culture del continente eurasiatico era il patrimonio mitologico. In questa raccolta si ritrovano, più che echi, versioni – adattate all’ambiente – di narrazioni mesopotamiche, bibliche, greche, germaniche, talora stranamente commiste: la creazione, dal fango plasmato dal Vecchio, dell’uomo, della donna e del bisonte; il Diluvio Universale, scatenato da Nesaru per sterminare gli orgogliosi Giganti salvando però uomini e animali (e qui l’Arca è una grotta immensa, sigillata dal dio); Giona nel ventre della balena, sostituito da un cacciatore ingoiato da un mostro fluviale; la Torre di Babele, in una leggenda che spiega la moltiplicazione e la confusione delle lingue. E vi sono anche i Nani della mitologia germanica, e i profeti e gli eroi. La scoperta del Cavallo, la venuta dei Bianchi sono naturalmente temi autoctoni e peculiari del folklore degli indiani d’America. E peculiare è lo spiccato senso dell’umorismo, sempre presente, che nelle storie di animali precorre certe trovate e situazioni comiche dei cartoni animati. Profondamente distintivi anche, e cattivanti nell’espressione, il senso della natura, della comunione universale, il candore di un’ingenuità che convive senza alcuna stonatura con un’ironia disincantata, frutto dell’esperienza di infinite generazioni. C.S.


Attorno al fuoco Racconti degli indiani d’America Per il piacere di Nicholas Lupo Coraggioso e Amici


Prefazione Se non fosse stato per pochi lungimiranti antropologi, etnologi, studiosi di folklore e semplici appassionati di bei racconti che vollero fissare in modo permanente le tradizioni degli indiani del Nordamerica, oggi non conosceremmo pressoché alcuna leggenda o racconto di questi popoli. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, i pochi appena accennati si resero conto che centinaia di storie indiane tramandate oralmente attraverso i secoli sarebbero andate perdute per sempre se non fossero state fissate sulla carta. Tra coloro che dedicarono anni e anni della propria vita a questo compito citiamo George A. Dorsey, George B. Grinnell, James Mooney, Alfred L. Kroeber, Robert H. Lowie, John R. Swanton, William O. Tuggle, Ruth Benedict, Louise McDermott, Henry Schoolcraft, Clark Wissler, Frank Hamilton Cushing, Washington Matthews e vari altri la cui opera ha reso possibile questa raccolta. Operando da soli o appoggiati da enti vari, quali l’U.S. Bureau of American Ethnology, la Carnegie Institution di Washington, l’American Museum of Natural History, l’American Folklore Society e il Field Columbian Museum di Chicago, essi si recarono nelle riserve e nei villaggi indiani avvicinando gli ultimi conoscitori degli antichi racconti delle varie tribù e guadagnandosene la fiducia. Nelle trascrizioni da loro raccolte ho cercato storie di avventure e di eroismo, di aspirazioni e di raggiungimenti, di mistero e di suspense, di magia e imbrogli, di fantasmi e mostri. Molte storie sono state scelte perché erano cosparse di quei deliziosi tocchi di umorismo e di allegria che sono caratteristici degli indiani d’America. I lettori che non hanno familiarità con storie indiane scopriranno che i cibi, le abitazioni, gli indumenti, gli animali, gli ambienti geografici sono differenti da quelli cui sono abituati attraverso la lettura di racconti d’altra origine. Ma in fondo si tratta delle virtù e dei difetti, dell’energia e delle debolezze di tutti gli esseri umani. Le situazioni descritte sono universali, riflettono la vita quale si svolge in ogni parte della terra. Molti dei racconti furono raccolti e trascritti, spesso con l’ausilio di interpreti, esattamente come erano narrati molte generazioni fa, e tali trascrizioni erano destinate agli studiosi. Poiché il linguaggio risultava talvolta arcaico, gli episodi sconnessi, gli intrecci e i significati oscuri, le ho a mia volta trascritte come credo che oggi queste storie sarebbero raccontate da un vecchio cantastorie indiano. Anni fa, pubblicando una raccolta di leggende dei Navaho, il dottor Washington Matthews invitò “poeti, romanzieri, viaggiatori e compilatori” a


frugare nel suo libro per trarne tutti i fatti e le fantasie che volevano. Chiedeva soltanto che non fosse falsato o distorto ciò che aveva scritto, che non si mettessero nella testa dei suoi eroi pensieri a loro estranei, che non li si armasse e non li si vestisse secondo i costumi di un’altra razza, che non li si facesse agire in ruoli sbagliati e incongrui. Ho seguito strettamente le raccomandazioni di Matthews, e mi auguro di esservi almeno in parte riuscito. Dee Brown


Quando gli animali vivevano da uguali con gli uomini Nei miti di alcune tribĂš indiane del Nordamerica, i primi animali sulla terra erano simili agli esseri umani per dimensioni e per intelligenza, parlavano il loro stesso linguaggio e spesso assumevano anche forma di persone. Per qualche ignota ragione, i primi animali scomparvero e furono sostituiti da quelli che conosciamo adesso. In questi sei racconti particolarmente significativi troviamo umorismo e senso del tragico, eroi, eroine e furfanti, una fiaba e un mito rituale, con gli animali in condizione di piena paritĂ rispetto agli esseri umani.


Il Gallo, il Tordo e la fanciulla (Hopi) Nei tempi antichi vivevano a Oraibi molti Hopi, e con loro e come loro vivevano anche uccelli e altri animali. Nella parte nord-occidentale del pueblo di Bakvatovi abitava una bellissima fanciulla che sistematicamente rifiutava ogni proposta di matrimonio. I giovani di Oraibi le portavano doni sperando di conquistarla, ma lei li respingeva e restituiva loro i doni. Lontano, nel nord, un potente capo udì parlare della sua bellezza e si mise in viaggio alla volta di Oraibi per convincerla a sposarlo. Portò con sé un carico di regali che depose fuori della casa della fanciulla prima di entrare a presentarsi. La trovò intenta a macinare mais. Senza interrompere il lavoro che stava facendo, essa alzò lo sguardo sul bel visitatore, ma non parlò. «Perché non mi parli?» domandò lui. «Chi sei tu che giri da queste parti?» replicò lei. «Sono venuto a chiederti in moglie» rispose l’uomo. «Ho lasciato qui fuori il mio carico di doni. Vai a guardarli.» La fanciulla smise di macinare il mais, uscì e trovò un grosso cesto intessuto con brillanti giunchi gialli. Lo portò dentro casa e lo aprì: vi trovò due abiti nuziali gialli, un paio di mocassini gialli e un’alta cintura pure gialla. Dopo aver osservato un po’ i doni, li rimise nel cesto che restituì al giovane capo. «Non li voglio» disse. «Non ti voglio. Adesso te ne puoi andare.» Il giovane chinò la testa, raccolse il cesto e se ne andò. Ora, in un’altra parte di Oraibi viveva un Gallo, un Gallo assai fiero che poteva assumere, a suo piacimento, sembianze umane. Quel pomeriggio il Gallo udì parlare della visita alla fanciulla da parte del capo che veniva dal nord e giudicò davvero strano che la bella fanciulla avesse respinto quel capo così potente. E la curiosità di sapere come erano andate le cose lo rose a tal punto che iniziò i preparativi per andare a trovare la fanciulla quella sera stessa. Trasformatosi in un bel giovane, il Gallo indossò una camicia rossa a strisce nere. Mise degli orecchini di turchese e sul capo un ciuffo di penne rosse. Quando arrivò alla casa della fanciulla, questa stava asciugando il mais in una pentola sul fuoco, ed egli capì subito che era rimasta favorevolmente impressionata dal suo aspetto. Il Gallo si comportò da vero gentiluomo: sedette accanto al focolare e si complimentò per le belle cose che lei aveva raccolto nella stanza. Compiaciuta e lusingata, la fanciulla prese a chiacchierare allegramente con lui. Quando il giovane si alzò e le chiese audacemente di sposarlo, essa gli disse che avrebbe accettato quando fosse tornato, di lì a quattro giorni.


Essendo molto superbo, il Gallo non fu affatto sorpreso che la fanciulla lo avesse accettato, invece di respingerlo come aveva fatto con tutti gli altri pretendenti. «Benissimo» disse. «Tornerò fra quattro giorni.» Ora, c’era un Tordo che viveva in un pescheto un po’ a sud di quel pueblo. Tre giorni dopo la visita del Gallo alla bella fanciulla, esso venne a conoscenza del fatto. Questo Tordo era un accanito rivale del Gallo e la notizia che la fanciulla aveva accettato di sposarlo lo irritò moltissimo. Come il Gallo, anche il Tordo aveva il potere di trasformarsi in uomo; cosa che fece subito. Indossò splendide vesti e si affrettò alla casa della fanciulla. Si era dato un aspetto così attraente e una voce così melodiosa che la fanciulla ne rimase proprio stregata, tanto che andò da sua madre e le disse che aveva cambiato idea, che avrebbe sposato il Tordo invece del Gallo. «D’accordo» disse la madre. «Se pensi di poterti fidare di lui…» Nel frattempo accadde che il Gallo, il quale si era innamorato della fanciulla a tal punto da trascorrere quasi tutto il suo tempo a spiarne la casa nella speranza di poterla intravvedere, notò che il Tordo si recava al pueblo di Bakvatovi. Dopo un po’, la curiosità si trasformò in gelosia, ed egli corse alla casa della fanciulla e bussò alla porta. Senza attendere il permesso, entrò e trovò il Tordo seduto presso il focolare. «Che cosa fai qui?» gli gridò. «Sono venuto a sposare questa fanciulla» rispose il Tordo. «Non così» replicò il Gallo. «Domani sarò io a sposarla. Tu non ne sei degno. Io posseggo tutte queste persone, qui ad Oraibi. Sono mie. Quando canto, al mattino, si alzano tutte.» «Ne sono più degno io di te» ribatté il Tordo. «Quando io cinguetto e canto, faccio sorgere il sole.» «D’accordo» disse il Gallo. «Allora sfidiamoci e vediamo chi di noi è più degno. Fra tre giorni faremo una gara, e vedremo chi fa sorgere il sole. Fino ad allora, nessuno sposerà la fanciulla.» Il Tordo accettò la sfida ed entrambi lasciarono la casa della fanciulla. Quando fu tornato a casa, il Gallo sedette e si mise a pensare come avrebbe potuto vincere il Tordo facendo sorgere il sole. Sapeva che era inutile chiedere aiuto al dio del clan dell’Aquila, il Grande Uccello del Tuono1, poiché costui parteggiava per i Tordi. Alla fine il Gallo decise di recarsi a Moenkopi per chiedere ai più saggi fra i Galli e le Galline lì residenti di insegnargli un modo per far sorgere il sole. La strada per Moenkopi era molto lunga e quando il Gallo arrivò al Colle dell’Arco era così stanco che temeva di non poter proseguire. Sedette su una pietra accanto a un altare paho per riposarsi un po’; nell’altare si aprì una fessura e il Gallo udì una voce che lo invitava: «Entra!». Entrò e fu accolto con letizia da molte belle fanciulle, una delle quali gli offrì un vassoio di


chicchi di mais. Egli lo prese e mangiò come mangiano i Galli e quando non ebbe più fame la fanciulla gli disse: «Eri molto stanco per quanto avevi corso. Ora avrai forze sufficienti per raggiungere la tua meta». Il Gallo ringraziò le fanciulle e uscì. Rinvigorito, proseguì il viaggio, correndo a gran velocità finché non giunse a Moen-kopi. Qui si recò a una ripida scarpata e scese per una scala fino a una grande roccia nella quale si vedeva una pesante porta chiusa. Il Gallo cantò ripetute volte, finché la porta si aprì e una voce lo invitò a entrare. All’interno trovò molti Galli e Galline di ogni età. Sembrarono contenti del fatto che era andato a trovarli, lo invitarono a sedersi e gli offrirono chicchi di mais. «Qual buon vento ti porta a onorarci della tua presenza?» domandò educatamente il Gallo capo. «A Oraibi un Tordo e io ci contendiamo l’amore di una fanciulla» rispose il Gallo. «Ci siamo sfidati a dimostrare chi di noi ha più poteri. Quando io canto, al mattino, tutti si alzano. Ma quando canta il Tordo, sorge il sole. Io voglio che mi insegniate come far sorgere il sole e portar luce al mondo.» «Bene» rispose il Gallo capo. «Ci proveremo, almeno. Il Tordo è assai potente e ha l’aiuto del Grande Uccello del Tuono. Ma noi ci proveremo, almeno.» Quando giunse la sera, i Galli e le Galline si riunirono e cantarono fino a notte fonda. Dopo che ebbero finito quattro lunghe canzoni, i Galli tutti insieme lanciarono un chicchirichì. Poi cantarono altre quattro canzoni, e fecero di nuovo chicchirichì. Dopo aver cantato ancora tre canzoni, fecero per la terza volta chicchirichì. A questo punto incominciò ad apparire l’alba gialla, e dopo che ebbero cantato ancora due canzoni, il sole sorse dalla linea dell’orizzonte. «Abbiamo fatto quel che andava fatto» disse il Gallo capo. «Ora puoi tornare a casa e mostrare al Tordo che sai far sorgere il sole.» Il Gallo si rimise in viaggio per Oraibi, correndo assai velocemente. E di nuovo, quando arrivò al Colle dell’Arco, si sentì sfinito vicino all’altare paho e vi entrò. «Sono troppo stanco per proseguire» disse alle fanciulle. «Non arriverò mai a casa in tempo.» Esse risero di lui e gli portarono dei chicchi di mais. «Certo che arriverai a casa in tempo» lo rassicurarono. «Ti vestiremo in modo che arriverai in tempo.» E mentre lui mangiava, esse gli si posero dietro, così che il Gallo non poté vederle mentre gli fissavano foglie secche di mais alle penne della coda. Quando il Gallo ricominciò a correre verso Oraibi, le foglie di mais fecero un gran rumore, ed egli ne fu così spaventato che corse come un fulmine, senza mai voltarsi indietro, finché non giunse a casa. Quando fu entrato, si volse e vide le foglie di mais che gli avevano legato alla coda e se le tolse.


Riposò tutta la notte e la mattina dopo si sentiva molto forte. Sul finire della giornata attraversò il pueblo e si recò al pescheto dove viveva il Tordo e gli disse di andare a casa sua per la gara quella notte. Quando il Gallo se ne fu andato, il Tordo si recò dal Grande Uccello del Tuono e lo informò che era venuto il momento in cui doveva dimostrare il proprio potere sul sole. Quella sera il Tordo venne alla casa del Gallo per aspettare l’alba dei giorno seguente. Per tutta la notte il Gallo cantò e fece chicchirichì, finché apparve la prima luce gialla dell’alba. Poi finì le ultime due canzoni che aveva imparato a Moenkopi e cominciò a fare chicchirichì con tutte le sue forze. Tuttavia proprio allora il Grande Uccello del Tuono si levò in volo e spalancò le sue grandi ali attraverso il cielo, a oriente, nascondendo così l’alba. Per quanto il Gallo strillasse il suo chicchirichì, il sole non poteva udirlo e non sorgeva. Il Tordo derise il Gallo. «Hai fallito» gli disse. «Ora è il mio turno. Vieni a casa mia stasera e ti farò vedere io come si fa.» Quella sera il Gallo si recò a casa del Tordo. Quando fu buio, il Tordo cantò quattro lunghe canzoni e poi fischiò. Aspettò un poco, cantò altre tre canzoni e poi fischiò; e l’alba incominciò ad apparire. Poi cantò le sue ultime due canzoni e a poco a poco il sole sorse all’orizzonte. «Vedi?» gridò trionfalmente il Tordo. «Solo io posso far sorgere il sole.» «Sì» ammise il Gallo. «Hai grandi poteri. Tu sai far sorgere il sole. Hai vinto la sfida, e la fanciulla di Bakvatovi è tua.» Così il Tordo sposò la bella fanciulla. Più avanti anche il Gallo prese moglie, ma non era certo bella come quella fanciulla. Nacquero poi i bambini. Quelli del Tordo strepitavano e ciarlavano senza posa come il padre, ma quelli del Gallo erano gentili e ben educati, e non parlavano tanto.


L’uomo orso (Cherokee) Una mattina di primavera un Cherokee di nome Turbine salutò la moglie e lasciò il villaggio, diretto alle Montagne Fumose per cacciare selvaggina. Nella foresta vide un orso nero e lo ferì con una freccia. L’orso si volse e cominciò a fuggire, ma il cacciatore lo inseguì lanciando una freccia dopo l’altra contro l’animale, senza però riuscire ad abbatterlo. Turbine non sapeva che quest’orso possedeva segreti poteri e sapeva parlare e anche leggere i pensieri delle persone. Alla fine l’orso si fermò, si tolse le frecce dal corpo e le diede a Turbine. «È inutile che me le lanci» disse. «Non puoi uccidermi. Vieni piuttosto con me, e ti farò vedere come vivono gli orsi.» “Quest’orso potrebbe uccidermi” disse Turbine fra sé, ma l’orso gli lesse nel pensiero e disse: «No, non ti farò del male». “Come potrò procurarmi qualcosa da mangiare se vado con quest’orso?” pensò Turbine, e l’orso seppe ciò che pensava il cacciatore e lo rassicurò: «Ho molto cibo». Turbine decise di seguire l’orso. Camminarono finché giunsero a una caverna nel fianco di una montagna, e l’orso disse: «Io non abito qui, ma qui ci riuniamo a concilio noi orsi, e tu potrai vedere quello che facciamo». Entrarono nella caverna, che diventava più grande man mano che vi si inoltravano, tanto che alla fine era vasta quanto una tenda comune dei Cherokee. Era piena di orsi, giovani e vecchi, bruni e neri, e un enorme orso bianco era il loro capo. Turbine sedette in un angolo, accanto all’orso nero che l’aveva condotto là, ma presto gli altri orsi fiutarono la sua presenza. «Cos’è questo cattivo odore d’uomo?» domandò uno; ma il capo degli orsi lo richiamò: «Non parlare così. È solo uno straniero venuto a trovarci. Lasciatelo stare». Gli orsi cominciarono a parlare fra loro, e Turbine si stupì di riuscire a capire quello che dicevano. Discutevano sulla scarsità di ogni sorta di cibo sulle montagne, e dovevano decidere che cosa fare. Avevano mandato esploratori in ogni direzione e due di essi erano già tornati per riferire su ciò che avevano trovato. In una valle a sud, dissero, c’era una vasta distesa di castagni e querce, e il terreno sotto le piante era coperto di castagne e ghiande. Felice della notizia, un grosso orso nero di nome Cosce Lunghe annunciò che avrebbe dato inizio a una danza. Mentre danzavano, gli orsi notarono l’arco e le frecce di Turbine e Cosce Lunghe si fermò e disse: «Ecco che cosa usa l’uomo per ucciderci. Vediamo se possiamo usarli anche noi. Potremmo combatterlo con le sue stesse armi».


Cosce Lunghe tolse l’arco e le frecce a Turbine; incoccò una freccia e tese la corda, ma quando la lasciò andare essa s’impigliò nei suoi unghioni e l’arco cadde a terra. Cosce Lunghe capì che non era in grado di usare l’arco e le frecce e li restituì a Turbine. Gli orsi nel frattempo avevano finito di danzare e stavano lasciando la caverna per recarsi ciascuno a casa propria. Turbine uscì con l’orso nero che lo aveva portato là e, dopo una lunga camminata, giunsero a una caverna più piccola sul fianco di una montagna. «Ecco dove abito» disse l’orso, e lo guidò all’interno. Turbine non vide nulla da mangiare, intorno, e si domandò come avrebbe potuto placare la fame. Leggendo nei suoi pensieri, l’orso si sedette sulle zampe posteriori e fece un movimento con quelle anteriori. Quindi porse le palme aperte a Turbine, ed erano piene di castagne. Ripeté ancora questa magia e le palme si riempirono di mirtilli che diede a Turbine. Poi gli offrì delle more e infine un po’ di ghiande. «Non posso mangiare le ghiande» disse Turbine. «E poi, mi hai già dato da mangiare a sufficienza.» Per molte lune, estate e inverno, Turbine visse nella caverna con l’orso. Dopo un certo tempo, notò che sul corpo gli crescevano peli come quelli degli orsi. Imparò a mangiare ghiande e a comportarsi come un orso, ma camminava ancora eretto come gli uomini. Il primo giorno tiepido di primavera l’orso disse a Turbine d’aver sognato il villaggio Cherokee giù nella valle. E d’aver udito, nel sogno, i Cherokee parlare di una grossa spedizione di caccia sulle montagne. «Mia moglie mi aspetta ancora?» domandò Turbine. «Aspetta il tuo ritorno» rispose l’orso. «Ma tu sei diventato un uomo orso. Se torni fra gli uomini devi chiuderti per sette giorni, senza mangiare e senza bere, lontano dalla vista della tua gente. Alla fine dei sette giorni tornerai a essere un uomo.» Alcuni giorni più tardi un gruppo di cacciatori Cherokee salì sulle montagne. L’orso nero e Turbine si nascosero nella caverna, ma i cani dei cacciatori fiutarono la tana e si misero ad abbaiare furiosamente. «Ho perso il mio potere contro le frecce» disse l’orso. «La tua gente mi ucciderà e mi toglierà la pelle, ma non potrà fare del male a te. Ti riporteranno a casa con loro. Ricorda quel che ti ho detto, se vuoi perdere la natura di orso e tornare a essere un uomo.» I cacciatori Cherokee cominciarono a scagliare pigne accese all’interno della caverna. «Mi uccideranno, mi trascineranno fuori e mi taglieranno a pezzi» spiegò l’orso. «Quando lo avranno fatto, tu dovrai coprire il mio sangue con delle


foglie. Se ti volterai indietro mentre ti portano via, potrai vedere qualcosa.» Come l’orso aveva predetto, i cacciatori lo uccisero con le frecce, trascinarono il suo corpo fuori della caverna, lo scuoiarono e squartarono la sua carne per portarla al villaggio. Temendo che essi potessero scambiarlo per un orso, Turbine rimase nella caverna, ma i cani continuarono ad abbaiare. Quando i cacciatori guardarono bene dentro la caverna, videro un uomo coperto di peli, e uno di essi riconobbe in lui Turbine. Pensando che fosse stato prigioniero dell’orso, gli domandarono se voleva tornare a casa con loro e liberarsi della natura d’orso. Turbine rispose che sarebbe andato con loro, ma spiegò che sarebbe dovuto restare solo in una casa per sette giorni senza cibo e senza bevande per poter tornare a essere un uomo. Mentre i cacciatori si caricavano in spalla i pezzi di carne, Turbine accumulò foglie nel punto in cui era stato ucciso e scuoiato l’orso, coprendo attentamente le gocce di sangue. E dopo aver camminato un po’ scendendo la montagna, si volse e vide un orso sorgere dalle foglie, scuotersi ed entrare nella caverna. Tornati al villaggio, i cacciatori condussero Turbine in un’abitazione vuota e, secondo i suoi desideri, sbarrarono la porta. Ma sebbene egli li avesse pregati di non parlare ad alcuno della sua natura e del suo pelame d’orso, uno dei cacciatori dovette raccontare di lui al villaggio, poiché il mattino dopo sua moglie già sapeva del suo ritorno. Essa si affrettò allora dai cacciatori e li supplicò di lasciarle vedere il marito da tanto tempo lontano. «Devi aspettare sette giorni» le dissero i cacciatori. «Fra sette giorni Turbine tornerà da lei così com’era quando lasciò il villaggio dodici lune orsono.» Amaramente delusa, la donna se ne andò, ma ritornò ogni giorno dai cacciatori, scongiurandoli di lasciarle vedere il marito. Li implorò a tal punto che il quinto giorno essi la condussero all’abitazione, tolsero le sbarre alla porta e dissero a Turbine di uscire a farsi vedere dalla moglie. Sebbene fosse ancora coperto di peli e camminasse, sia pure sulle zampe posteriori, come un orso, sua moglie fu così contenta di rivederlo che insisté perché tornasse a casa con lei. Turbine la seguì, ma pochi giorni dopo morì e i Cherokee capirono che gli orsi l’avevano reclamato perché aveva ancora natura d’orso e non poteva vivere da uomo. Se lo avessero lasciato chiuso nell’abitazione fino allo scadere dei sette giorni senza cibo e senza acqua, Turbine sarebbe ridiventato un uomo come gli altri. Questa è la ragione per cui in quel villaggio, nelle prime tiepide e nebbiose notti di primavera, si vedono sempre gli spiriti di due orsi, uno che


cammina su quattro zampe, l’altro su due.


Come Portatore di Antilopi salvò gli Uccelli del Tuono2 e divenne il capo delle creature alate (Arikara) Tra gli Arikara viveva un ragazzo i cui genitori erano così poveri che i Topi di Bosco si impietosirono di lui e gli fabbricarono quattro frecce magiche. Le frecce erano fatte con legno di corniolo e gli impennaggi, anziché di penne, erano di pelle di Topo di Bosco. Una delle frecce era nera, un’altra rossa, un altra gialla e un’altra bianca. Dopo aver donato le frecce al ragazzo, i Topi di Bosco gli fecero un arco di robusto legno di hickory3. Ogni volta che il ragazzo andava a caccia con le sue frecce magiche, uccideva tante antilopi quante ne occorrevano ai suoi genitori. Per quanto lontana fosse l’antilope, quando il ragazzo lanciava una delle sue frecce questa trovava sempre il bersaglio. La gente della tribù si meravigliò della sua bravura e lo chiamò Portatore di Antilopi. Dopo che i suoi genitori invecchiarono e morirono, Portatore di Antilopi decise di andare alla ventura verso il luogo dove tramonta il sole, per vedere com’era fatto il mondo. Un giorno, nel suo vagabondare, giunse a un lago assai grande circondato da cespugli e canneti. V’era molta selvaggina e le montagne che si specchiavano nelle acque del lago erano così belle che egli decise di fermarsi per parecchi giorni. Con l’arco e le frecce si procurò ben presto molta carne. Poi preparò un grande fuoco, arrostì la carne, mangiò fino a che non ebbe più fame e si mise a dormire. Mentre dormiva, due Uccelli del Tuono scesero silenziosi dal cielo, lo sollevarono e lo trasportarono sulla più alta delle montagne che circondavano il lago. Quando Portatore di Antilopi si svegliò, si trovò in un luogo molto strano. La cima della montagna era piatta, ma non più grande della base di un tepee, con precipizi rocciosi su tre lati e sul quarto una cupa foresta che scendeva in ripido pendio. Portatore di Antilopi si chiese se sarebbe mai riuscito a scendere dalla cima della montagna. Su un lato della cima piatta trovò un nido costruito con ramoscelli e piume morbide, e dentro il nido c’erano quattro piccoli Uccelli del Tuono. Mentre sedeva accanto a una piccola polla che sgorgava dalla roccia, udì un rombo come di forte vento, e un’ombra passò fra lui e il sole. Alzando lo sguardo, vide un Uccello del Tuono madre. Esso si posò accanto a lui e gli parlò: «Figlio mio, non temere. Ti ho portato in questo luogo per uno scopo. Ti osservo da molti giorni e so che sei un grande cacciatore. Ti ho portato qui perché tu mi aiuti a salvare i tuoi giovani fratelli in quel nido. Il dio delle creature alate, Nesaru, ha posto me e il mio compagno in questo luogo elevato. Siamo qui da molto tempo. Ho costruito molti nidi e deposto molte


uova, ma ogni volta che le uova si schiudono, poco dopo un mostro che vive nel grande lago viene sempre quassù a distruggere i miei piccoli. Non siamo mai riusciti a crescere dei giovani Uccelli del Tuono che prendano il nostro posto, e ora ti prego di aiutarmi. Se potrai salvare i miei figli, ti darò tutti i poteri che posseggo». «Che tipo di mostro è, quello che tu non puoi vincere?» chiese Portatore di Antilopi. «È un serpente d’acqua con due lunghe teste, protetto da una spessa copertura di selce. Quando gli scaglio il mio lampo, il mostro non ne è ferito. Non muore neppure quando glielo scaglio in bocca, poiché la copertura di selce protegge ogni parte del suo corpo. Stai qui e aiutami a uccidere il mostro, e possederai il lampo negli occhi e nel fiato, e allora avrai il dominio su tutti gli uccelli dell’intero mondo.» Portatore di Antilopi pensò per qualche istante. «Devo molto alle creature selvatiche della terra» rispose. «Starò qui e ti aiuterò.» L’Uccello del Tuono lo ringraziò e volò alto nel cielo per fare la guardia contro il mostro del lago. Poiché non mangiava da quando l’Uccello del Tuono l’aveva portato sulla cima della montagna, Portatore di Antilopi scese il pendio a oriente fino alla scura foresta in cerca di selvaggina. Il bosco era pieno di uccelli dai molti colori, ma egli li lasciò indisturbati e cercò finché non ebbe trovato un’antilope che uccise con una freccia. Portò la carne e dei bastoni di legno del bosco sulla cima della montagna e accese un fuoco servendosi di pietre focaie. Mentre stava arrostendo la carne, udì piangere i piccoli Uccelli del Tuono. Guardò nel nido e vide che avevano la bocca spalancata in attesa di cibo. Tagliata un po’ di carne a pezzetti, cominciò a nutrire i piccoli uccelli. Un momento dopo, udì un rombo d’ali. I genitori degli Uccelli scesero accanto a lui e lo ringraziarono per la sua gentilezza. «Siamo felici che tu sia qui ad aiutarci» disse l’Uccello del Tuono padre. «Le penne dei nostri piccoli cominciano a scurire, e sappiamo che fra poco il mostro striscerà fuori del lago e salirà quassù per uccidere e divorare i nostri figli. Se tu scorgerai una nebbia levarsi sul lago, saprai che il serpente sta per arrivare. Noi adesso voleremo alto nel cielo, così da poter scagliare contro di lui il nostro lampo più potente.» Il mattino seguente. Portatore di Antilopi si alzò di buon’ora e osservò il sole sorgere a oriente. Sedette a terra, con arco e frecce a portata di mano, e appena il sole incominciò a illuminare la foresta, qualcosa attirò il suo sguardo verso il lago. Vide un incresparsi di nebbia che saliva dal centro del lago. La nebbia si allargò e salì, e dopo un po’ coprì il lago e la terra intorno e parve raggiungere il cielo.


Portatore di Antilopi vide qualcosa trascinarsi fuori da un capo del lago, e poi, improvvisamente, ci fu un altro movimento a una certa distanza dal primo. Attraverso la nebbia Portatore di Antilopi notò che erano le due teste del mostro serpente. Lentamente esso saliva strisciando sulla roccia scoscesa. A questo punto, nubi scure rotolarono nel cielo da occidente, accompagnate da rapidi lampi e scoppi di tuono. La pioggia batté contro il mostro che strisciava e la bufera spazzò via la nebbia. Presto gli Uccelli del Tuono comparvero nel cielo, e Portatore di Antilopi seppe che erano stati loro a portare la tempesta. Spalancarono le immense ali e scagliarono guizzi di fulmine contro il mostro serpente, ma non riuscirono a fermarlo. Entro pochi minuti, una delle sue orribili teste raggiunse la cima. I piccoli Uccelli del Tuono caddero fuori del nido per la paura, e l’Uccello madre si tuffò con un urlo terrificante. Scagliò folgori nella bocca aperta del mostro, cacciandolo via dalla cima, ma esso testardamente ricominciò a strisciare lungo la parete di roccia. L’Uccello del Tuono madre, esausto, girò intorno alla cima gemendo. «È tutto finito» gridò disperato. «Non possiamo fare altro. Abbiamo fallito e dobbiamo andarcene. E tu, figlio mio, dovrai morire con i miei figli.» Portatore di Antilopi lo osservò finché le sue ali stanche lo sollevarono sopra le nuvole. Quindi raccolse da terra l’arco. Delle quattro frecce magiche scelse la nera. La incoccò, pronto a scagliarla nella bocca del mostro non appena questo fosse nuovamente strisciato fino alla vetta. Quando una delle teste del serpente scivolò sulla roccia piatta della cima, la bocca si spalancò per ingoiare Portatore di Antilopi. Egli tese la corda dell’arco e scoccò la freccia nel profondo della rossa gola del mostro. Un forte rumore risuonò per tutta la montagna. Fu come lo schianto di un albero che cade, e in realtà la freccia nera si era miracolosamente trasformata in un sicomoro irto di rami aguzzi. La testa del mostro scoppiò e cadde giù dalla parete di roccia. Ma ora si erse sopra l’orlo della cima la seconda testa, avventandosi contro Portatore di Antilopi. Rapidamente egli incoccò la freccia rossa sulla corda dell’arco e la forza della sua velocità impetuosa fece volar via la seconda testa del mostro che ruzzolò per la china andando a sfracellarsi contro le rocce aguzze in fondo al baratro. Gli Uccelli del Tuono, che avevano osservato tutto dalle nubi, si lanciarono giù con grida di gioia. Allo stesso tempo, dalla cupa foresta migliaia di uccelli variopinti volarono sulla vetta e unirono le loro voci melodiose in un canto di trionfo. «Figlio mio,» disse l’Uccello del Tuono madre «oggi tu sei il capo di tutte le creature alate. Io ti do il potere magico che gli dei hanno


concesso a me. Il lampo sarà nel tuo fiato e nei tuoi occhi. Ti do un bastone che avrà il lampo, in modo che tu possa far perdere i sensi a qualunque cosa colpirai. Dovunque andrai, gli uccelli ti seguiranno. Essi ti guarderanno dai mostri e da altri perfidi animali e ti difenderanno con i loro poteri. E ora scendiamo insieme là dov’è il serpente.» Trovarono il mostro serpente spaccato in due, con la copertura di selce frantumata in mille pezzi. Per la prima volta da molti anni, il lago era calmo e senza alcuna traccia di nebbia. Quando gli uccelli videro ciò che Portatore di Antilopi aveva fatto, gli portarono bacche e semi, e così trasferirono in lui la loro segreta magia. Portatore di Antilopi era ora il Capo di tutte le creature alate e dovunque andasse gli uccelli lo seguivano. Quando appariva un mostro o una bestia cattiva, gli uccelli glielo riferivano, e lui andava a ucciderli. Sebbene non fosse più tornato tra gli Arikara, finché vagò sulla terra come capo di tutte le creature alate, Portatore di Antilopi conservò sempre questo nome che la sua gente gli aveva dato.


Perché i cani hanno la lingua lunga (Caddo) Molto tempo fa, quando gli animali erano come gli uomini, la maggior parte dei cani erano dei chiacchieroni e amavano riferire tutto quello di cui venivano a conoscenza. A quell’epoca non c’erano tanti cani quanti ce ne sono adesso, ma quasi tutte le famiglie ne avevano alcuni che si portavano appresso per andare a caccia. Un Caddo di nome Falco Volante non aveva cani, perché non tollerava che qualcuno parlasse continuamente di lui e raccontasse tutto quello che faceva. Ma era un buon cacciatore, e sapeva che avrebbe potuto portare a casa molta più selvaggina per la sua famiglia se avesse avuto un cane di cui fidarsi che lo aiutasse a snidare gli animali del bosco. Un giorno gli si offrì la possibilità di scegliere un cucciolo da una cucciolata e così Falco Volante decise di prenderlo e di insegnargli a non parlare tanto. Portò il cucciolo a casa, e ogni giorno passava ore e ore a metterlo in guardia dall’essere un chiacchierone come gli altri cani. Il cucciolo crebbe in fretta e fu così in grado di imparare a cacciare; perciò Falco Volante cominciò a portarselo dietro per stanare conigli e altra piccola selvaggina. Ma ogni volta che Falco Volante uccideva una preda, il cane fuggiva di nascosto e andava al villaggio dei Caddo sul Fiume Rosso e raccontava tutto a tutti. Poi tornava da Falco Volante per vie traverse e lo raggiungeva alle spalle, come se fosse rimasto lì a cercar selvaggina tutto il tempo. Presto Falco Volante scoprì che il cane lo ingannava, lo sgridò e lo punì. Subito dopo ogni punizione il cane smetteva di allontanarsi di nascosto e di spettegolare, ma ben presto ricominciava. Passò un po’ di tempo e il cane diventò abbastanza grande per andare a caccia col padrone tra gli alberi alti. Un giorno Falco Volante preparò un’abbondante provvista di cibo e disse al cane che sarebbero andati a caccia nelle Montagne Ouachita per molti giorni. Caricò le provviste sui cavalli e si mise in viaggio in compagnia del cane. Dopo tre giorni giunsero alle montagne e lì si accamparono. «Siamo molto lontani dal nostro villaggio» disse Falco Volante al cane. «Ma se ci tornerai prima di me e se parlerai di questa caccia, ti strapperò la lingua.» Cacciarono così per diversi giorni e uccisero molti animali. Non appena i cavalli furono caricati con quanta carne potevano portare, Falco Volante e il suo cane levarono il campo e si incamminarono verso casa. Durante il primo giorno di viaggio il cane scomparve. Falco Volante lo chiamò e lo cercò per


ore; alla fine decise di tornare al luogo in cui avevano sostato pensando che il cane potesse essersi smarrito ed essere tornato lì. Ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte e, dopo un giorno di ricerche, diede per perso il cane e riprese il cammino. Falco Volante era così certo di esser riuscito a insegnare al cane a non precederlo al villaggio per raccontare ogni cosa, che non prese nemmeno in considerazione una simile eventualità. Ma pochi giorni dopo, quando giunse con i cavalli carichi al villaggio dei Caddo, scoprì il cane che, seduto sotto un albero, raccontava un sacco di fandonie circa il gran numero di orsi, leoni di montagna, cervi e coyote che aveva stanato per Falco Volante fra gli alberi alti. Alla vista del cane chiacchierone Falco Volante si infuriò più di quanto gli fosse mai capitato in vita sua. «Ti avevo avvisato!» gridò. «Ti avevo detto che se tornavi a casa prima di me e spifferavi quello che sapevi, ti strappavo la lingua.» Afferrò il cane e gli affibbiò una bella dose di frustate. E poi, essendo ancora arrabbiato, gli agguantò la lingua, la tirò quanto poté e gli mise un bastone da guancia a guancia. Da allora i cani hanno la lingua lunga e la bocca larga.


La grande conchiglia di Kintyel (Navaho) Nei giorni in cui Kinniki, il capo di tutte le Aquile, viveva sulla terra, egli mandò lo Spirito del Vento a persuadere un certo giovane Navaho a lasciare la sua gente per recarsi al Canyon di Chaeo. Qui fu detto al Navaho di vivere da mendicante appena fuori del pueblo di Kintyel. A Kintyel vi erano molte persone ricche, e da qualche parte in una estufa – uno dei loro luoghi segreti di riunione – era nascosta la più grande conchiglia marina del mondo. La conchiglia era stata trasportata per molte miglia attraverso montagne e deserti dal Grande Oceano dove tramonta il sole, e la gente di Kintyel la considerava il suo sommo tesoro. Poiché questi Pueblo saccheggiavano continuamente i nidi delle Aquile e catturavano i piccoli, il capo delle Aquile decise di punirli privandoli della loro grande conchiglia. Ma prima si doveva scoprire il luogo ove essa era stata nascosta, e questa fu la ragione per cui il giovane Navaho fu mandato là, a fingersi un misero mendicante mentre cercava di scoprire il luogo dov’era nascosta la conchiglia. Assunto il nome di Nahoditahe, il Navaho si vestì di stracci e prese ad aggirarsi per Kintyel, fingendo di frugare tra i rifiuti di cucina e la spazzatura degli alloggi in cerca di pezzetti di pane e chicchi di mais. Un pomeriggio, mentre stava uscendo dal suo rudimentale riparo fuori del pueblo, notò due giovani che, tutti eccitati, agitavano le braccia in direzione della Montagna della Roccia in Piedi. Avevano avvistato, altissima nel cielo, un’Aquila Guerriera. Nahodi-tahe osservò l’Aquila allontanarsi lentamente, diventare sempre più piccola contro l’azzurro, e poi scendere su uno dei picchi della Montagna della Roccia in Piedi. Nahoditahe vide anche i due giovani tagliare un ramo dritto e forcuto e piantarlo nel terreno con la forcella in alto, ponendolo in modo che, stando in una certa posizione e guardando al di sopra della forcella, si poteva vedere il punto esatto dove l’Aquila s’era posata. Lasciarono il ramo, allora, e si affrettarono verso Kintyel. Le Aquile erano scarse nella zona del pueblo perché la gente ne aveva catturate o uccise molte per via delle penne, e così la notizia che ne era stata avvistata una provocò grande eccitazione. La mattina dopo Nahoditahe vide quattro capi dei clan di Kintyel uscire dal villaggio e chinarsi a turno sulla forcella del ramo piantato a terra. Poco dopo partirono per la Montagna della Roccia in Piedi. Prima di notte tornarono, annunciando d’aver trovato un nido d’Aquila con dentro due begli Aquilotti. L’unico modo per raggiungere il nido, però, era di farvi scendere un uomo appeso a una corda. E poiché la corda avrebbe dovuto passare sopra un


lastrone di roccia sporgente, il compito sarebbe stato difficile e pericoloso. I capi chiesero dei volontari, ma nessuno sembrò disposto ad affrontare l’impresa, neppure con la prospettiva di un premio così ambito come due giovani Aquile. Mentre si discuteva il problema in un luogo di riunione, qualcuno suggerì di provare con quel mendicante Navaho. Mandarono a chiamare Nahoditahe, e quando arrivò nella sala della riunione gli offrirono tazze di carne e mais bollito, un cestino di ciambelle di pane azzimo e altri cibi prelibati. Nahoditahe non aveva più visto tante cose buone da mangiare da quando aveva lasciato il paese dei Navaho, e mangiò come non aveva mai mangiato prima. Quando ebbe finito, ringraziò i Pueblo della loro generosità. «Se farai quello che ti chiederemo,» gli dissero «avrai da mangiare con altrettanta abbondanza per tutta la vita e non dovrai più frugare fra le ceneri e la sporcizia in cerca di chicchi di mais.» E gli dissero del progetto per catturare gli Aquilotti, chiedendogli se sarebbe stato disposto a farsi calare fino al nido in un cesto trattenuto da corde. Nahoditahe capì subito che quella era un’occasione per aiutare le sue amiche Aquile, ma finse di aver paura di affrontare l’impresa. Se ne stette seduto a lungo in silenzio, come se soppesasse i rischi, e quindi, dopo che ciascuno dei capi l’ebbe pregato di accettare, rispose: «Quella che faccio è una vita povera, a dir poco» disse. «L’esistenza non è allegra per un uomo che è sempre affamato. Mi farebbe piacere mangiare per il resto della mia vita le cose che mi avete dato da mangiare oggi. Farò come desiderate.» Durante la notte i migliori cestai dei Pueblo fabbricarono un grosso e solido cesto rettangolare per grossi carichi, con quattro anelli intrecciati agli angoli superiori. La mattina dopo, il Navaho ricevette un’abbondante colazione, e quindi lui e i capi – e un folto gruppo che li accompagnava – si incamminarono verso la Roccia in Piedi. Portavano il cesto, della corda robusta e una larga rete. Quando raggiunsero un piccolo spiazzo, una sorta di cengia posta sotto il nido delle Aquile, coloro che portavano la rete vi si diressero, mentre gli altri salirono in cima alla rupe. Qui assicurarono la corda ai quattro anelli del cesto e dissero a Nahoditahe di entrarvi. «Quando ti caliamo nel nido,» gli dissero «tu prendi gli Aquilotti e gettali nella rete che gli uomini in basso avranno tesa.» Nahoditahe montò nel cesto e i Pueblo lo abbassarono lentamente oltre l’orlo della rupe, nel precipizio. Dopo un minuto o due il cesto si fermò. «Abbassatemi ancora un poco» gridò loro il Navaho. Il cesto fu abbassato ancora, finché non fu alla stessa altezza del nido. «Fermi!» urlò Nahoditahe. La voce e l’apparizione improvvisa spaventarono le giovani


Aquile. Il Navaho sentì un soffio d’aria fresca, e in quel momento lo Spirito del Vento gli fu tutto intorno, mormorando: «Questa gente, i Pueblo, non è tua amica. Non intendono mantenere la promessa di provvederti di buon cibo finché vivi. Se getti le giovani Aquile nella rete, non ti tireranno più su. Entra nel nido e stacci». Allora il Navaho gridò ai Pueblo che stavano sopra di lui: «Fate oscillare il cesto, così che vada più vicino alla roccia. Altrimenti non posso raggiungere il nido». Gli uomini mossero le corde facendo oscillare il cesto finché non toccò la roccia, e Nahoditahe balzò rapidamente nel grosso nido, lasciando andare il cesto che dondolò vuoto nell’aria. Pur vedendo il cesto vuoto che dondolava, i Pueblo se ne stettero tranquilli, aspettando che il Navaho vi rimontasse dentro. Ma dopo avere atteso a lungo, incominciarono a chiamarlo. «Figlio mio» dicevano i vecchi. «Getta giù gli Aquilotti.» E i giovani gridavano: «Fratello, getta giù gli Aquilotti!». Seguitarono a invocarlo fin quasi al tramonto, ma il Navaho non rispose mai. Se ne rimase quieto nel crepaccio dov’era il nido, e quando il sole fu tramontato i Pueblo smisero di chiamarlo e se ne tornarono a casa. La mattina dopo, presto, furono di nuovo lì, radunati in gran numero ai piedi della rupe. Tutto il giorno lo pregarono di gettar loro gli Aquilotti, facendogli molte promesse e mostrandogli ogni sorta di cibo per tentarlo. Ma il Navaho restò in silenzio. Per altri due giorni vennero alla base della rupe, e la loro ira contro Nahoditahe cresceva. Gli lanciarono maledizioni e quindi scagliarono frecce infocate nel crepaccio nell’intento di appiccar fuoco al nido e di costringere così Nahoditahe a gettarlo giù, con gli Aquilotti dentro. Ma il Navaho era assai attento, e ogni volta che una freccia infocata giungeva a segno lui la strappava in fretta e la gettava via. Il quarto giorno, il Navaho parlò ai giovani uccelli: «Non potete aiutarmi?». Gli Aquilotti risposero levandosi dal nido e agitando le ali, da cui si staccarono molte piccole penne e piume. Quando queste scesero volteggiando sui Pueblo che stavano sotto, essi se ne andarono temendo che le Aquile facessero piombare su di loro una maledizione. Mentre se ne andavano, urlarono a Nahoditahe che l’avrebbero lasciato lì a morire. Dopo che i suoi tormentatori se ne furono andati, il Navaho si domandò per quanto tempo ancora avrebbe potuto sopportare la fame e la sete. Mentre cadeva l’oscurità, un’onda di disperazione gli passò addosso, e allora udì un gran suono frullante, un rombo di ali gigantesco. Due Aquile, un maschio e una femmina, vennero a posarsi sul nido. «Grazie, fratello» disse l’Aquila maschio. «Per il tuo ardimento, noi ti chiamiamo Kinniki, come il capo di tutte le Aquile del cielo.»


«Ho fame» rispose il Navaho. «Ho sete.» L’Aquila si sciolse la cintura che portava alla vita e trasse un sacchetto di farina di mais, una tazza fatta con una conchiglia bianca e una pianta di quelle che son chiamate code di cavallo. I fusti della coda di cavallo, che cresce accanto ai ruscelli, erano pieni d’acqua, e l’Aquila mescolò un po’ di acqua e farina e porse la tazza al Navaho. Dopo che ebbe mangiato, egli bevve anche a sazietà dai fusti di coda di cavallo. Poiché ormai era buio, e un vento gelido soffiava tra le rocce, le Aquile lo invitarono a dormire in mezzo a loro nel nido. Per la prima volta da quando era venuto alla Montagna della Roccia in Piedi, Nahoditahe dormì al caldo, e non si svegliò finché non udì delle voci che chiamavano dalla sommità della rupe: «Dove siete? Il giorno è spuntato. Si sta facendo tardi. Perché non siete ancora partiti?». Al suono delle voci, anche le Aquile si destarono, e il Navaho si avvide ben presto che coloro che li chiamavano erano Aquile e Falchi. Infine presero a volteggiare a dozzine davanti al crepaccio, e poi un Aquila atterrò accanto al nido. «Ho portato al nostro fratello un vestito di penne e piume così che possa fuggire da qui» disse, e incominciò a mettere le penne sul corpo del Navaho. Ma l’Aquila maschio che era nel nido sollevò un’ala in segno di obiezione. «Questo non sarebbe utile» disse. «Il nostro fratello è pesante e non ha ancora imparato a volare.» I due argomentarono per qualche minuto, altre Aquile e Falchi si unirono alla discussione, e poi tutti salirono in vetta alla rupe per tenere consiglio. Quando tornarono, dissero al Navaho che avevano escogitato un piano migliore per salvarlo da quel crepaccio. «Mettiti lungo disteso sul ventre» ordinò l’Aquila maschio. Dopo che Nahoditahe si fu messo bocconi sulla roccia, un paio di Aquile scesero volando con un pezzo di lampo a zigzag e glielo posero sotto i piedi. Altre Aquile portarono un raggio di sole e glielo misero sotto le ginocchia, altre un arcobaleno per sorreggergli la fronte. Poi tre lampi diritti gli furono messi sotto il corpo. Quindi ciascuna Aquila afferrò un capo di questi sostegni – dodici Aquile in tutto – e le Aquile, con il Navaho e gli Aquilotti, si sollevarono in volo dal crepaccio. Descrissero due cerchi nell’aria col loro fardello prima di levarsi al di sopra della Roccia in Piedi, e quindi altri due cerchi salendo più in alto e dirigendosi a sud. Quando passarono sopra il Monte Taylor, fecero altri quattro giri alzandosi tanto che quasi toccarono il cielo. Ora incominciarono a essere stanche, e Nahoditahe le udì lamentarsi: «Siamo stanche; non ce la facciamo più a volare». Ma ben presto avvistarono il buco del cielo, e con rinnovato sforzo batterono le ali salendo fino a portarlo al di là dell’entrata nel Mondo Superiore che sta sopra il cielo.


Giunto sano e salvo, Nahoditahe si trovò circondato da quattro pueblos: uno bianco a oriente, uno blu a mezzogiorno, uno giallo a occidente, uno nero a settentrione. Egli andò con le Aquile nel villaggio bianco, e non appena esse furono nelle loro case si spogliarono degli abiti di penne, li appesero a pioli e se ne andarono in giro in abiti bianchi che portavano sotto il piumaggio. Gli servirono pane azzimo e altro cibo eccellente. Quella sera tornò un gran numero di Aquile Guerriere, che furono accolte con alti lamenti e lacrime. Presto il Navaho venne a sapere che una numerosa spedizione di guerra era uscita quella mattina, ma molte Aquile non erano tornate, poiché erano state uccise in battaglia. A causa di quel trambusto, provocato dalla guerra, la grande conchiglia di Kintyel fu dimenticata. Nahoditahe non trovò nessuno che avesse interesse a discuterne con lui. Nei giorni successivi, le Aquile dedicarono tutto il loro tempo a organizzare un’altra spedizione, e il mattino che si misero sul sentiero di guerra il Navaho decise di andare con loro. «Dove stai andando?» gli domandarono. «Desidero unirmi alla vostra spedizione» rispose. I guerrieri risero di lui e gli dissero: «Sei uno sciocco se pensi di poter far guerra ai terribili nemici che noi combattiamo. Noi ci muoviamo rapide come il vento, e tuttavia i nostri nemici sanno muoversi ancora più in fretta. Se possono sconfiggere noi, quali possibilità hai tu, povero uomo, di salvarti la vita?». Proseguirono, viaggiando a piedi, e il Navaho li seguiva a distanza. Quando si accamparono per la notte, si unì di nuovo a loro, e questa volta gli si rivolsero adirati, ordinandogli di tornare ai pueblos non appena si fosse fatto giorno. La mattina dopo, quando le Aquile Guerriere ripresero la marcia, Nahoditahe restò sul luogo dell’accampamento, per mostrare che intendeva fare come gli era stato detto, ma non appena le Aquile scomparvero alla vista si avviò nella loro direzione. Non aveva fatto molta strada, allorché scorse una piuma di fumo che si alzava dal terreno, e avvicinatosi trovò un buco per il fumo entro il quale stava una scala, ingiallita dal fumo. Guardò dentro e vide nella stanza sottostante una vecchia dall’aspetto strano e dalla grossa bocca. Denti ricurvi le uscivano dalla bocca, ed egli capì che quella era la Donna Ragno, colei che aveva insegnato ai Navaho l’arte della tessitura. Essa lo invitò a scendere la scala. Non appena fu sceso nella sua casa, la donna gli mostrò quattro grossi anelli magici, uno nero, uno blu, uno giallo, uno bianco. Attaccate agli anelli v’erano parecchie penne tutte rovinate. «Queste penne» disse «un tempo erano belle, ma ora sono vecchie e sporche. Devo avere nuove penne per i


miei anelli, e tu puoi procurarmele. Molte Aquile resteranno uccise nella battaglia a cui ti stai recando, e quando muoiono devi strappare le loro penne e portarmele.» Nahoditahe si trasse indietro. «No,» disse lei «non devi aver paura dei loro nemici.» Rise. «Sai contro chi le Aquile vanno a combattere? Contro calabroni e erba palla4.» Gli diede una lunga canna nera e uno stelo grosso di erba del serpente. «Con questa canna puoi vincere l’erba palla, e quando i calabroni ti vengono addosso, mastica lo stelo di erba del serpente e sputane il succo contro di loro, così non potranno pungerti. Ma prima di distruggere l’erba palla, prendi un po’ dei suoi semi, e dopo che avrai distrutto i calabroni prendi un po’ dei loro nidi pieni di piccoli. Avrai bisogno di queste cose quando tornerai sulla terra. E adesso vai sul campo di battaglia.» Il Navaho riprese il cammino, finché vide le Aquile che si nascondevano dietro una piccola collina. Stavano preparandosi alla lotta: si dipingevano la faccia e si mettevano addosso le penne. Di tanto in tanto una di esse s’arrampicava cautamente sulla cresta della collina e scrutava dall’altra parte. Poi tornava di corsa e riferiva: «I nemici stanno radunandosi. Ci aspettano». Curioso di vedere quei nemici, Nahoditahe strisciò sulla cresta della collina e sbirciò sul versante opposto. Non vide alcun nemico; non vide nulla tranne un’arida piana sabbiosa coperta su un lato da una massa di girasoli, dall’altro di globi d’erba palla. Più o meno a questo punto le Aquile lanciarono il loro grido di guerra e si gettarono oltre la collina nella piana sabbiosa. Guardando dall’alto, il Navaho vide un turbine d’aria alzarsi dal terreno; un numero sterminato di palle d’erba si levò in un vortice di polvere ruotando follemente nell’aria. Contemporaneamente, dalla massa dei girasoli si alzò in volo uno stormo di calabroni. Le Aquile caricarono in mezzo alle file dei loro nemici, e quando le ebbero attraversate si volsero e caricarono di nuovo. Alcune spalancarono le ali e sfrecciarono in alto per attaccare l’erba palla schizzata in vortice verso il cielo. Di tanto in tanto il corpo scuro di un’Aquila cadeva sfracellandosi al suolo. Dopo che il combattimento era iniziato da qualche tempo, alcune Aquile giunsero correndo verso la collina in cima alla quale Nahoditahe si era steso a osservare. In un attimo, altre presero a fuggire dal campo di battaglia, e ben presto tutta la banda, o quanto ne era rimasta, passò correndo accanto a Nahoditahe in fuga disordinata, lasciando molte Aquile morte sul campo. Quindi il vortice si placò, le palle d’erba tornarono immobili, sparse sul terreno, e i calabroni scomparvero in mezzo ai girasoli. Quando tutto fu quieto, il Navaho scese il pendio e raccolse alcuni semi d’erba palla, legandoseli in un angolo della camicia. Servendosi della canna


nera, ammucchiò i globi d’erba palla in una pila cui diede fuoco. Tirò fuori l’erba del serpente che la Donna Ragno gli aveva dato e la masticò finché non ebbe la bocca piena di succo. Quindi avanzò verso i gialli girasoli. All’improvviso i calabroni sciamarono intorno a lui cercando di pungerlo, ma egli sputò loro addosso il succo dell’erba del serpente. Quelli che colpì caddero tramortiti al suolo, gli altri fuggirono spaventati. Nahoditahe uccise tutti quelli che poté trovare, quindi scavò alcuni loro nidi. Catturò due piccoli calabroni, li legò insieme per i piedi e li chiuse in un angolo della sua coperta. Poi, ricordando ciò che la Donna Ragno gli aveva detto, andò in giro fra le Aquile morte, strappando dai loro corpi quante penne e piume poté portare. Iniziato il viaggio di ritorno, presto giunse alla casa della Donna Ragno e le diede le penne e le piume. «Grazie, nipote mio» disse lei. «Mi hai portato le penne e le piume che mi servivano, e al tempo stesso hai reso un gran servigio alle tue amiche Aquile facendo strage dei loro nemici.» Quella notte dovette dormire all’addiaccio, ma la mattina dopo raggiunse i pueblos delle Aquile. Avvicinandosi alle case, udì le Aquile gemere e lamentarsi per la perdita delle loro compagne. Si affollarono attorno a lui. «Abbiamo perduto tante del nostro stesso sangue» dissero «e piangiamo per loro. Abbiamo pianto anche per te, poiché quelle che sono tornate ci hanno detto che eri morto in battaglia.» Nahoditahe non rispose, ma trasse i due piccoli calabroni dalla coperta e li fece roteare sopra la testa. Vedendo gli insetti, le Aquile furono atterrite e fuggirono, e non smisero di correre finché non si furono nascoste dietro le loro case. Ma presto vinsero la paura e tornarono ad accalcarsi attorno al Navaho. Egli mostrò loro di nuovo i calabroni, e di nuovo esse fuggirono terrorizzate. Una terza e una quarta volta Nahoditahe giocò con i calabroni per far capire alle Aquile che non avevano più alcuna ragione di temerli. Quindi prese i due calabroni e li mise a terra, trasse i semi d’erba palla e li mise accanto ai calabroni. «Amiche mie,» disse «ecco i piccoli dei vostri nemici. Guardateli e sappiate che ho sterminato i vostri nemici.» Vi fu grande esultanza fra le Aquile quando ebbero udito ciò, e il capo del pueblo bianco condusse Nahoditahe nella propria casa e gli mostrò la più bella stanza che il Navaho avesse mai veduta. Le pareti, lisce, erano rivestite di terra bianca, e l’arredamento era della miglior qualità. Ceppi bruciavano allegri in un camino circondato da lastre di pietra per cuocere, bei vasi, anfore per acqua. «Figlio mio,» disse il capo «questa casa è tua.» Per tutto il giorno i capi e i notabili di tutti i pueblos vennero a ringraziare Nahoditahe del grande servigio che aveva reso alla comunità. Gli portarono otto grandi scodelle, ciascuna contenente un diverso cibo. Gli portarono


anche bei costumi di penne e coperte e le stesero sul pavimento perché gli facessero da letto. La mattina seguente egli si recò al buco del cielo, avendo preso con sé i giovani calabroni e i semi d’erba palla. Ai calabroni disse: «Andate alla terra dei Navaho e moltiplicatevi. Nei giorni che verranno, il mio popolo farà uso di voi e del vostro miele, ma se gli causerete triboli e sofferenze come quelli che avete causato alle Aquile io vi distruggerò di nuovo». E finito di dir questo li lanciò giù, verso la terra. Quindi prese in mano i semi d’erba palla, parlò ad essi come aveva parlato ai calabroni, e li lasciò cadere attraverso il buco del cielo. Per altri ventiquattro giorni Nahoditahe rimase nel Mondo Superiore con le Aquile. Durante questo tempo, esse gli insegnarono i loro canti, preghiere e sacrifici, che egli avrebbe dovuto portare al suo popolo per la cerimonia del canto delle perle di vetro. Una volta che ebbe appreso tutti i riti, le Aquile gli dissero che era tempo ch’egli tornasse sulla terra e continuasse la ricerca della grande conchiglia di Kintyel. Lo vestirono con una delle loro vesti di penne e piume d’aquila e lo scortarono fino al buco del cielo. «Quando ti portammo su dal Mondo Inferiore, eri pesante e ti dovemmo reggere noi» dissero. «D’ora in avanti galleggerai nell’aria come noi e ti sposterai con le tue forze.» Lui spalancò le ali e le Aquile soffiarono alle sue spalle un soffio possente. Sceso attraverso il buco del cielo, Nahoditahe veleggiò sopra le nuvole finché andò a posarsi lievemente in cima al Monte Taylor. Lì lo aspettava lo Spirito del Vento. «Le persone ricche di Kintyel soffrono di una strana malattia» disse lo Spirito del Vento. «Cercano un potente stregone che sappia guarirle. In cambio gli daranno i loro più preziosi tesori, fatta eccezione per la grande conchiglia. Non lasciarti ingannare se ti portano una conchiglia che puoi abbracciare toccandoti la punta delle dita. La grande conchiglia è più grande.» Quando Nahoditahe giunse a Kintyel e camminò tra le case, nessuno lo riconobbe. Ben nutrito, di bell’aspetto e vestito sfarzosamente, non somigliava affatto al povero mendicante che quelli di Kintyel avevano abbandonato a morire nel nido delle Aquile sulla Montagna della Roccia in Piedi. Egli notò che nel pueblo c’erano molti storpi, e quando ne chiese la ragione gli dissero che si era diffusa tra la gente una strana malattia. «Ho appreso i segreti di un potente stregone» disse Naho-ditahe «e credo di conoscere un rito che potrà curare questa malattia.» I capi lo invitarono al loro consiglio, e Nahoditahe disse che avrebbe potuto scacciare il morbo con una nenia notturna. «Io guiderò i danzatori,» disse «ma dovrò essere abbigliato in modo particolare. Dovrò portare fili di


belle perle di conchiglia e turchesi, in numero tale da coprirmi completamente le gambe e gli avambracci, e da girarmi attorno al collo così che non mi sia possibile piegare la testa all’indietro. Infine, devo appendermi sulla schiena la più grande conchiglia di Kintyel. Fra quattro giorni da oggi sarò pronto a eseguire la nenia notturna e a scacciare il male.» II giorno dopo i capi gli portarono collane di perle di conchiglia e turchesi, le più belle che poterono raccogliere fra il popolo, e il secondo giorno gli portarono parecchi grandi bacili di conchiglia fra i quali scegliere quello da appendersi dietro la schiena. Egli misurava le conchiglie abbracciandole, come gli aveva detto di fare lo Spirito del Vento, ma le sue mani si congiungevano facilmente. «Nessuna di queste è abbastanza grande» diceva Nahoditahe, e loro gli portavano conchiglie sempre più grandi, cercando ogni volta di persuaderlo che l’ultima che gli avevano portata era la più grande che avessero. Ma Nahoditahe le rifiutò tutte. L’ultimo giorno, con grande riluttanza, gli portarono infine la grande conchiglia di Kintyel, e quando egli l’ebbe cinta con le braccia, le punte delle sue dita non poterono toccarsi dall’altra parte. «Questa» disse «è la conchiglia che dovrò portare quando danzerò.» Quella sera Nahoditahe ordinò loro di preparare un grande cerchio di rami di pino, come quelli che oggi fanno i Navaho per i loro riti del canto della montagna. Quando cadde l’oscurità, una gran folla si raccolse nel recinto, e attorno ad esso furono accesi fuochi. Nahoditahe ora indossò la sua veste di penne e piume, si coprì le braccia e le gambe e il collo con le conchiglie e le turchesi dei Pueblo, e si legò dietro la schiena la grande conchiglia di Kintyel. Guidò i danzatori nel cerchio e diede inizio alla danza. E mentre danzava, cantava una nenia che parlava del crescere di uno strano mais bianco, blu, giallo e nero. I Pueblo pensarono che quel canto era strano, e tutti si domandarono che cosa potesse significare. Ben presto lo capirono. Con loro somma meraviglia, il Navaho danzante incominciò lentamente a sollevarsi da terra. Dapprima la sua testa e poi le spalle si alzarono al di sopra della testa della gente. Presto anche il petto e la vita furono al di sopra di loro, ma solo quando tutto il suo corpo si trovava ormai al di sopra delle loro teste i Pueblo incominciarono a capire quale perdita li minacciasse. Nahoditahe stava levandosi verso il cielo con la grande conchiglia di Kintyel e con tutte le ricchezze di molti Pueblo in conchiglia e turchesi. Urlarono a squarciagola ingiungendogli di scendere, ma più urlavano, più in alto Nahoditahe si levava. Una nube nera si era formata sopra di lui nel cielo altrimenti pieno di stelle, e da quella nube sfrecciarono lampi sotto i suoi piedi. Gli dei lo sollevavano verso il Mondo Superiore. Disperati, quelli di


Kintyel lanciarono corde per afferrarlo e trascinarlo di nuovo a terra, ma egli era al di lĂ della portata della loro corda piĂš lunga. I capi chiesero a gran voce frecce per poterlo abbattere, ma prima che una sola freccia potesse essere incoccata, il Navaho era scomparso alla vista dentro la nube nera. Da quel giorno la grande conchiglia di Kintyel non fu piĂš veduta sulla terra. Gli anziani dicono che si trova in uno dei pueblos del Mondo Superiore, strettamente sorvegliata dalle Aquile Guerriere di Kinniki.


La fanciulla che si arrampicò in cielo (Arapaho-Caddo) Una mattina parecchie ragazze uscirono dal loro villaggio di tepees per andare a far legna. Tra loro c’era Sapana, la più bella ragazza del villaggio, e fu lei la prima a vedere il porcospino seduto sotto un grande pioppo. Allora chiamò le altre dicendo: «Aiutatemi a prendere questo porcospino e dividerò con voi le sue spine». Il porcospino cominciò ad arrampicarsi sul pioppo, ma i primi rami dell’albero erano vicini al suolo e Sapana lo seguì senza difficoltà. «Svelte!» gridò. «Sta arrampicandosi. Dobbiamo prendere le sue spine per ricamare i nostri mocassini.» Tentò di colpire il porcospino con un bastone, ma l’animale si arrampicò di quel tanto che bastava per portarsi fuori tiro. «Voglio quelle spine» disse Sapana. «Se necessario seguirò il porcospino fino in cima all’albero.» Ma a mano a mano che essa si arrampicava, il porcospino saliva più in alto. «Sapana, sei troppo in alto» l’avvertì da terra una delle sue amiche. «Faresti bene a scendere.» Ma la fanciulla continuava a salire e le pareva che l’albero seguitasse ad allungarsi verso il cielo. E quando giunse alla cima del pioppo vide qualcosa sopra di sé, solida come un muro, ma brillante. Era il cielo. Di colpo Sapana si trovò nel bel mezzo di un accampamento. La cima dell’albero era scomparsa e il porcospino si era trasformato in un brutto vecchio. A Sapana non piacque l’aspetto dell’uomo porcospino, ma questi le rivolse parole gentili e la condusse a una tenda dove vivevano suo padre e sua madre. «Ti ho spiata da lontano» le disse. «Tu non sei soltanto bella, ma anche operosa. Qui abbiamo molto da fare e voglio che tu diventi mia moglie.» L’uomo porcospino la mise al lavoro quello stesso giorno, a raschiare e tirare le pelli di bisonte e a fare indumenti. Quando scese la sera, la fanciulla uscì dal tepee e sedette in solitudine, domandandosi se sarebbe mai potuta tornare a casa. Tutto nel mondo del cielo era color marrone e grigio e lei sentiva la mancanza dei verdi alberi e dell’erba della terra. Ogni giorno l’uomo porcospino si recava a caccia, e sempre ne tornava con un carico di pelli di bisonte che Sapana poi doveva lavorare, e al mattino, quando lui era via, era compito della fanciulla andare a scavare rape selvatiche. «Quando scavi in cerca di radici, bada a non scavare troppo a fondo» la mise in guardia l’uomo porcospino. Una mattina Sapana trovò una rapa insolitamente grossa. Con molta fatica riuscì a staccarla dalla terra con il suo bastone da scavo, e quando la


sollevò fu sorpresa nel vedere che la rapa aveva lasciato un buco attraverso il quale si poteva vedere, sotto, la verde terra. Molto lontano, lì sotto, essa vide fiumi, montagne, cerchi di tepees, persone che andavano qua e là. Adesso capì perché l’uomo porcospino l’avesse avvertita di non scavare troppo a fondo. Poiché non voleva che lui scoprisse che lei aveva trovato il buco nel cielo, Sapana rimise accuratamente a posto la rapa. Tornando al tepee, pensò a un progetto per poter tornare sulla terra. Quasi ogni giorno l’uomo porcospino le portava pelli di bisonte da raschiare, ammorbidire e lavorare per farne indumenti. Quando faceva i vestiti, avanzavano sempre strisce di nervi, e Sapana prese a nascondere e ad accumulare queste strisce, sotto il proprio giaciglio. Infine, accumulò tante strisce da farne una corda abbastanza lunga, secondo lei, per calarsi fino a terra. Una mattina, dopo che l’uomo porcospino fu uscito per la caccia, essa unì annodandole l’una all’altra tutte le strisce che aveva messo da parte e tornò al luogo in cui aveva trovato la grossa rapa. La staccò da terra e allargò il buco in modo che il suo corpo potesse passarvi attraverso. Posò il bastone da scavo di traverso sull’apertura e vi assicurò un capo della lunga corda di cui si legò l’altro capo attorno al petto, sotto le ascelle. Pian piano incominciò a calarsi svolgendo la fune. Passò molto tempo prima che fosse abbastanza bassa da distinguere chiaramente le cime degli alberi, e a quel punto la corda finì. Non l’aveva fatta abbastanza lunga da calarsi fino a terra; non sapeva che fare. Rimase lì appesa a lungo, dondolandosi avanti e indietro sopra gli alberi. In lontananza udiva, fioco, un latrare di cani e voci di persone che si chiamavano nel suo villaggio di tepees, ma la sua gente era troppo lontana per vederla. Dopo qualche tempo udì suoni provenire dall’alto; la fune incominciò a scuotersi violentemente. Una pietra scagliata dal cielo la mancò di poco, e poi Sapana udì l’uomo porcospino che la minacciava di morte se non fosse risalita subito. Un’altra pietra le sfiorò un orecchio. Più o meno in quel momento l’Avvoltoio incominciò a volteggiare sotto di lei. «Vieni ad aiutarmi» lo chiamò Sapana. L’uccello veleggiò sotto i suoi piedi varie volte e Sapana gli narrò tutto quello che le era capitato. «Monta sul mio dorso» disse l’Avvoltoio «e ti porterò sulla terra.» Essa montò sul dorso dell’uccello. «Sei pronta?» le domandò l’Avvoltoio. «Sì» rispose lei. «Lascia andare la corda» ordinò l’Avvoltoio, e incominciò a volare verso il basso, ma la fanciulla era troppo pesante per lui e la discesa si fece troppo veloce. L’Avvoltoio vide il Falco passare sotto di lui e lo chiamò; «Falco, aiutami a riportare questa fanciulla alla sua gente». Il Falco volò con Sapana sul dorso finché la fanciulla non riuscì a vedere


chiaramente il tepee della sua famiglia. Ma allora il Falco si sentì molto stanco e l’Avvoltoio dovette riprendersi sul dorso la fanciulla. L’Avvoltoio volò veloce verso il basso attraverso gli alberi e si posò appena fuori del villaggio di Sapana. Prima che essa potesse ringraziarlo, era già rivolato in cielo. Sapana riposò un poco, poi si avviò molto lentamente verso il tepee dei suoi genitori. Era debole, sfinita. Lungo il cammino vide una ragazza venirle incontro. «Sapana!» esclamò la ragazza. «Ti credevamo morta.» Poi l’aiutò a raggiungere il suo tepee. Dapprima la madre non voleva credere che si trattasse della figlia tornata dal cielo. Poi l’abbracciò piangendo. La notizia del ritorno di Sapana si sparse rapidamente nel villaggio e tutti vennero a darle il bentornato. Sapana narrò la sua storia e in particolare parlò della gentilezza dimostratale dall’Avvoltoio e dal Falco. Da allora, ogni volta che la gente della sua tribù andò alla grande caccia, lasciò sempre un bisonte perché l’Avvoltoio e il Falco potessero cibarsene.


Prima che arrivasse l’uomo bianco Molto tempo prima che gli europei giungessero in America, i narratori di quasi tutte le tribù avevano creato leggende su eroi nazionali, molte di esse probabilmente basate sulle imprese di persone reali. Questi eroi risalgono almeno all’VIII o al IX secolo della nostra èra, e come gli antichi eroi del mito classico sono loro attribuiti fatti e capacità prodigiosi. Essi salvarono i loro popoli da catastrofi, e spesso furono gli autori dell’organizzazione sociale e politica delle tribù. Una delle leggende eroiche tramandataci con maggiore completezza, in varie versioni, è quella di Motzeyouf, o Stregone Dolce. Fu Motzeyouf che portò agli Cheyenne le quattro frecce sacre e che istituì la società di guerrieri della tribù, fra cui quella famosa dei Cani Guerrieri. Come vari altri eroi nazionali, lo Stregone Dolce fu anche profeta e mise in guardia il suo popolo contro gli uomini barbuti di pelle chiara che sarebbero venuti da oriente. Strettamente collegati alle leggende eroiche sono i miti sull’origine del mondo, dell’uomo e delle cose. Per i Piedi Neri, “il Vecchio” fu il creatore di tutte le cose, ma altre tribù hanno elaborato varie leggende circa le origini degli elementi più importanti nella vita degli indiani quali il bisonte, il mais, il fuoco, i differenti idiomi.


Il profeta Cheyenne (Cheyenne) Molto tempo fa, quando il popolo Cheyenne per primo vagava nelle Pianure Occidentali, un ragazzo orfano di nome Motzeyouf viveva in un tepee con la nonna. Tutti i suoi abiti consistevano in un mantello fatto con la pelle di un giovane bisonte e in un paio di mocassini. Poiché usava bruciare l’erba dolce nella tenda di sua nonna e con il fumo profumarsi il mantello, alcuni dei suoi amici incominciarono a chiamarlo Erba Dolce. Più avanti, quando ebbe imparato a far magie, qualche volta lo chiamavano Stregone Dolce. Mentre Motzeyouf cresceva, sua nonna si accorse che spesso, durante la notte, spariva dal tepee. Quando tornava dalle sue misteriose escursioni notturne, spesso stupiva la gente del campo con fatti straordinari. Sapeva far comparire un bisonte e farlo sparire, e sapeva fare molte altre magie. Per assumere quei poteri, indossava il mantello di bisonte col pelo all’esterno, e metteva sempre nei capelli una morbida piuma d’aquila. Giovane Lupo, il capo degli Cheyenne, diventò geloso di Motzeyouf perché il ragazzo suscitava l’ammirazione di tutti quelli che lo conoscevano. Gli Cheyenne non avevano scelto Giovane Lupo a loro capo, ma anzi avevano paura di lui perché, con i suoi guerrieri, li dominava con la forza, prendendo loro tutto ciò che voleva. A quel tempo, gli Cheyenne non erano ancora organizzati come tribù, e sembrava che non ci fosse per loro alcun modo per sottrarsi alle ingiustizie di Giovane Lupo. Certe volte i vecchi stregoni del campo si radunavano in uno dei tepee più grandi a escogitare un modo per abbattere il tiranno, Giovane Lupo. Benché possedessero poteri straordinari, nessuno di loro era abbastanza esperto di magia da compiere cose sovrumane. Quando Motzeyouf arrivò a diciassette anni, gli stregoni decisero di fare una danza di incantesimo, e invitarono il ragazzo a prendervi parte. Erano curiosi di vedere quali fossero i suoi poteri nell’esecuzione di una danza d’incantesimo. Motzeyouf non mostrò sorpresa nel ricevere l’invito. In preparazione alla danza magica si dipinse il corpo di rosso, con strisce nere sulla faccia e intorno ai polsi e alle caviglie. Quindi si mise al collo una corda d’arco fatta con un tendine di bisonte, e una gialla piuma d’aquila nei capelli. Vestito con il logoro mantello di pelle di bisonte e portando un fascio d’erba dolce, si avviò senza paura all’alloggio degli stregoni. I vecchi lo accolsero cordialmente e gli domandarono in quale punto del loro cerchio desiderasse sedere. Egli scelse il lato destro della grande tenda. Dopo che ebbero banchettato con carne di bisonte e fumato dalla pipa cerimoniale, uno degli stregoni diede inizio agli incantesimi. Danzando,


ciascuno compì qualche fatto straordinario. Alcuni si fecero passare frecce attraverso il corpo, altri emisero dalla bocca grosse pietre, altri ingoiarono carboni ardenti. Presto fu la volta di Motzeyouf. Egli prese a danzare a un ritmo molto lento, accelerando man mano il tempo. Strinse il cappio formato dalla corda d’arco attorno al suo collo e diede i capi della corda a due degli stregoni, facendo loro cenno di tirare sempre più forte. Poi improvvisamente cadde in ginocchio, gettò nel fuoco l’erba dolce e quando il fumo fragrante salì dal focolare si coprì la testa col mantello. Fra lo sbalordimento degli stregoni, la testa di Motzeyouf parve rotolare dal corpo, il collo essendo stato reciso dalla corda d’arco stretta con grande forza. Il corpo di Motzeyouf cadde in avanti verso la testa mozzata, e un istante dopo egli balzò dal fumo e aveva il corpo di nuovo tutto intero. Gli stregoni batterono a terra con forza i piedi calzati nei mocassini e manifestarono la loro approvazione anche con degli «Ah Ah Ah!» ad alta voce. Avevano gli occhi accesi d’ammirazione. «Il ragazzo ha grandi poteri» disse uno dei vecchi. «Veramente, Motzeyouf è uno dei più grandi danzatori magici degli Cheyenne.» La mattina dopo, presto, gli Cheyenne levarono il campo e mossero verso occidente. I bisonti scarseggiavano nella valle in cui si erano fermati fin allora, e furono mandati esploratori davanti alla colonna alla ricerca di un nuovo branco. A quel tempo gli Cheyenne non possedevano cavalli, e usavano cani per trascinare tutto il loro equipaggiamento da campo su dei travois, slitte fatte con due pali da tepee fra i quali era teso un pezzo delle pelli usate per coprire i tepee stessi. Tutti, tranne i bambini più piccoli, andavano a piedi. Motzeyouf si unì a un gruppo di adolescenti che andavano in avanscoperta sul crinale di una catena di colline, e il mattino del secondo giorno lui e i suoi compagni avvistarono una piccola mandria di bisonti che pascolava lungo il letto di un torrentello asciutto proprio sotto di loro. Scesi furtivamente per il pendio, riuscirono a giungere a portata d’arco da parecchi giovani bisonti. Motzeyouf rivendicò il diritto di tirare a un piccolo bisonte nero, e lo abbatté con una freccia fulminea. «Finalmente,» esclamò «mi farò un nuovo mantello.» Gli altri piccoli fuggirono e raggiunsero gli adulti che si allontanavano al galoppo. Benché nessuno degli altri ragazzi avesse avuto la fortuna di Motzeyouf, tutti accorsero per aiutarlo a scuoiare la bestia con i loro coltelli d’osso. «Scuoiatelo con molta attenzione» li avvertì Motzeyouf. «Voglio un mantello che non abbia nemmeno il più piccolo buco.» Mentre stavano lavorando, sopraggiunse alle loro spalle Giovane Lupo, quello che si diceva capo degli Cheyenne.


Giovane Lupo aveva sentito i vecchi stregoni elogiare i poteri magici di Motzeyouf, e la sua gelosia per il ragazzo si era trasformata in viva antipatia. «Che bel piccolo di bisonte» disse Giovane Lupo. «È proprio il tipo di bestia che andavo cercando.» Ormai i ragazzi avevano staccato la lucida pelle nera, e Motzeyouf incominciò ad arrotolarla. «Favorisci, prendi anche tutta la carne,» disse gentilmente al capo «ma desidero tenermi la pelle. Come puoi vedere, il mantello che porto è a brandelli.» «No» rispose irato Giovane Lupo. «Voglio anche la pelle.» Cercò di strapparla al ragazzo, ed essa cadde a terra. Giovane Lupo si chinò a raccoglierla, ma Motzeyouf afferrò una delle zampe di bisonte che erano state tagliate e colpì Giovane Lupo alla nuca con il duro zoccolo. Il capo cadde a faccia avanti senza nemmeno un lamento. «L’hai ucciso!» gridò uno dei ragazzi. «I guerrieri di Giovane Lupo ti uccideranno, ora.» Tutti fuggirono impauriti, lasciando Motzeyouf solo. Il ragazzo non sapeva che fare. Con la pelle di bisonte gettata di traverso sulla spalla, camminò lungo il letto sabbioso del torrente in secca, tenendosi nascosto fra i salici finché non venne l’oscurità. Allora salì fino in cima alla collina. Vide in lontananza i fuochi da campo degli Cheyenne. Si avvicinò molto cautamente, affinché i cani non si mettessero ad abbaiare. Finalmente trovò il tepee di sua nonna e vi sgusciò dentro. «Ho colpito Giovane Lupo e l’ho ucciso» disse alla nonna. La vecchia scosse il capo. «Giovane Lupo non è morto. Il colpo l’ha soltanto stordito. È venuto qui a cercarti, ed era molto adirato.» Pur provando sollievo nell’apprendere che non aveva ucciso il capo, Motzeyouf sapeva che Giovane Lupo e i suoi guerrieri non si sarebbero data pace finché non l’avessero adeguatamente punito. Sicuramente l’avrebbero colpito coi bastoni fino a renderlo storpio o a ucciderlo. Sua nonna piangeva per lui mentre rimestava una gran pentola di zuppa. «Nessuno ti rimprovera per quello che hai fatto» gli disse. «I ragazzi che erano con te hanno detto a tutti che Giovane Lupo ha cercato di portarti via la tua pelle di bisonte.» «Lui e i suoi guerrieri torneranno a cercarmi.» Il ragazzo prese parecchi bastoncelli di legna secca e li pose sui carboni ardenti intorno alla pentola di coccio della zuppa. Il fuoco scoppiettò e scintille volarono verso il buco per il fumo in cima al tepee. «Nonna,» disse «quando tornano per prendermi, rovescia la pentola della zuppa nel fuoco.» Come Motzeyouf aveva previsto, il capo e i suoi guerrieri tornarono presto. Li udì arrivare, circondare il tepee e chiamare il suo nome. Un istante più tardi irruppero dentro, e la nonna, come stabilito, fece cadere la pentola


nel fuoco. Le braci ardenti esplosero e una nube di fumo riempì il tepee. In seguito, alcuni guerrieri dissero che Motzeyouf era semplicemente svanito nel fumo. Altri dissero che si era trasformato in una piuma d’aquila ed era salito in alto, oltre il buco per il fumo. Cercandolo, nella loro ira fecero a pezzi il tepee. Per tutta la notte Motzeyouf seguitò a correre, a correre finché il respiro non gli bruciava i polmoni. Salì la catena di colline, attraversò una valle scoscesa e corse finché non cadde esausto in una macchia d’alberi fra cespugli di saggina. Mentre giaceva sul terreno coperto di foglie pregò il Grande Stregone di dirgli che cosa fare. Nei giorni che seguirono, attorno agli accampamenti temporanei degli Cheyenne accaddero vari eventi misteriosi. Solo molto tempo dopo la gente capì il significato di quegli strani fatti. Una mattina Motzeyouf si mostrò distintamente ai bordi del campo. Sopra la testa aveva la pelle di una testa di bisonte, con le corna ancora attaccate. Intorno alla vita portava una cinghia di pelle di bisonte da cui pendeva la coda dell’animale. Legata a una caviglia aveva la barba di un bisonte maschio. La faccia e il corpo erano dipinti di un rosso vivace, e una piuma d’aquila spiccava fra i capelli. Non appena i guerrieri di Giovane Lupo ebbero avvistato Motzeyouf, si precipitarono a inseguirlo, e furono convinti di averlo intrappolato in una stretta valle a fondo cieco, fatta a forma di ferro di cavallo. Ma non trovarono altro se non un bisonte maschio che fuggì al galoppo, vanamente inseguito da un nugolo di frecce. Il giorno dopo i guerrieri, che stavano sul chi vive, videro Motzeyouf che arrostiva un pezzo di carne su un piccolo fuoco ai piedi della collina. Quando cercarono di prenderlo, il ragazzo si nascose in un boschetto di pruni selvatici. I guerrieri si affrettarono fra alberi e cespugli, battendo ovunque il terreno con i bastoni, ma dal boschetto uscì soltanto un coyote che sparì rapidamente lungo la valle. I guerrieri, sconcertati, tornarono al fuoco da campo dove un pezzo di carne fumava ancora. In direzione del fuoco vi erano le impronte dei mocassini di Motzeyouf, ma nella direzione contraria trovarono solo orme di coyote. Poi, per qualche giorno, non vi fu segno di Motzeyouf. Gli Cheyenne spostarono il campo di qualche miglio verso occidente, e allora Motzeyouf comparve di nuovo, questa volta con il corpo dipinto di nero. Portava uno zoccolo d’alce tintinnante e una lancia con la punta storta. Quando i guerrieri corsero all’inseguimento, videro soltanto un’alce che correva lontana sulla cresta di una collina. La volta successiva in cui comparve, portando la pelle e le piume di un gufo sulla fronte e in una mano un arco privo di corda, i guerrieri lo


aspettavano. Questa volta Giovane Lupo ordinò all’intera popolazione del campo di circondare la macchia d’alberi dentro la quale Motzeyouf si era nascosto. Batterono il sottobosco ed esaminarono ogni albero, ma quando arrivarono all’ultimo albero accadde solo che un gufo si levò in volo, lanciando un verso beffardo. Passarono parecchi giorni senza che vi fosse altro segno di Motzeyouf, e quindi una mattina Giovane Lupo vide del fumo alzarsi da un ciuffo di salici sulla sponda di un vicino ruscello. Raccolti i suoi guerrieri, il capo si gettò con loro giù per la china. Solo pochi passi innanzi, improvvisamente apparve Motzeyouf in un piccolo spiazzo privo di vegetazione. Portava a tracolla una larga fascia di cuoio non conciato, decorata con aculei di porcospino vivacemente colorati e con file di penne d’aquila. Quando i guerrieri balzarono per prenderlo, il ragazzo scomparve fra i salici. Pochi minuti dopo vi trovarono solo uno dei cani del campo, con la lingua fuori e il respiro affannoso come per una lunga corsa. Tutte queste magie Motzeyouf le operò perché il Grande Stregone gli era comparso in una visione e gliele aveva insegnate. Il ragazzo non fu più visto dagli Cheyenne per molte, molte lune. Solo dopo che fu tornato, essi compresero che con le sue misteriose apparizioni Motzeyouf aveva voluto mostrare loro le future società della tribù: i guerrieri dello Scudo Rosso, i Coyote, gli Alci, le Corde d’Arco e i Cani Guerrieri Cheyenne. Furono queste società che in seguito fecero degli Cheyenne una delle più forti tribù di tutte le Pianure Occidentali. Dopo la sua ultima apparizione, Motzeyouf si diresse verso il luogo dove sorge il sole, marciando e correndo finché non giunse ai Paha Sapa, i Colli Neri. Lì trovò una montagna sacra, quella che oggi la gente chiama Colle Orso. Su un fianco della montagna trovò una grossa lastra di pietra che era come una porta, e quando si avvicinò la montagna si aprì ad accoglierlo ed egli si trovò dentro un immenso tepee. Quattro anziani gli diedero il benvenuto. «Nipote,» disse uno di loro «ti aspettavamo.» Attorno a un fuoco da concilio, nell’enorme vano, sedevano dozzine di giovani. Alcuni erano di pelle rossa, altri di pelle nera e altri di pelle bianca con peli sulla faccia. Erano venuti da tutte le nazioni della terra per imparare dal Grande Stregone. In fondo al locale il Grande Stregone, dai lunghi capelli bianchi, era in piedi ad accogliere Motzeyouf. Il Grande Stregone gli additò un sedile di pietra, l’unico posto vuoto attorno al fuoco. Accanto al sedile v’era un fascio magico avvolto in una pelle di volpe, e Motzeyouf vide fasci come quello ai piedi di tutti gli altri giovani. «Se ti siedi a quel posto,» disse il Grande Stregone «dovrai restare con noi per molte lune, affinché possiamo insegnarti a diventare il profeta del tuo


popolo, gli Cheyenne.» Motzeyouf non ebbe esitazioni. Sedette al posto vuoto, e nei giorni che seguirono gli uomini dello spirito incominciarono a insegnargli le cose che doveva imparare per diventare un profeta. Il Grande Stregone – che aveva fatto il sole, la luna, le stelle e la terra – gli conferì i poteri soprannaturali. Egli imparò i canti e le danze sacre. Imparò a vedere lontano nel futuro. Gli fu comunicato il segreto delle quattro società e del concilio dei quarantaquattro capi, affinché potesse svelarli agli Cheyenne al suo ritorno e la tribù potesse proteggersi dalla tirannide di un unico capo crudele. Solo una prova Motzeyouf non riuscì a superare. Quando gli fu domandato a quale dei giovani seduti attorno al fuoco del concilio avrebbe scelto di assomigliare, meditò a lungo. Il più bello e il più forte di essi era uno di pelle chiara con peli sul viso, e alla fine Motzeyouf additò quello. Il Grande Stregone scosse il capo. «Hai fatto una scelta sbagliata» disse. «L’uomo dalla pelle chiara muterà tutto in pietra, e poi muterà anche se stesso in pietra.» Durante l’ultima luna che Motzeyouf trascorse nella montagna sacra, gli fu detto di aprire l’involto magico di pelle di volpe che stava accanto al suo posto intorno al fuoco del concilio. Dentro c’erano quattro frecce, ciascuna lunga quanto una gamba d’uomo. Le punte di selce erano coperte con morbide piume bianche d’aquila, e fissate alle aste erano penne intere di ali d’aquila. Le penne e le aste erano dipinte di blu e di marrone a rappresentare i colori del cielo e della terra. Su due frecce erano disegnati bisonti e altri animali; sulle altre due c’erano figure di uomini e di tepees. «Queste quattro frecce sono magiche» disse il Grande Stregone. «Due hanno potere sugli animali, due sugli esseri umani. Se il tuo popolo è minacciato da nemici, volgi verso di loro le punte delle frecce che hanno potere sugli uomini: la loro mente diverrà confusa e folle, ed essi fuggiranno. Quando sarà avvistata una mandria di bisonti, volgi verso di essi le punte delle frecce per i bisonti ed essi si metteranno a correre in cerchio, così che i cacciatori potranno camminare in mezzo ad essi e ucciderne tanti quanti saranno necessari. Le quattro frecce sono il simbolo del potere che porterai al tuo popolo. Dovranno essere custodite in un tepee sacro, e il potere magico che contengono dovrà essere rinnovato con canti e danze cerimoniali che noi ti insegneremo.» Non appena Motzeyouf ebbe appreso i riti per rinnovare il potere delle frecce, gli uomini dello spirito dipinsero il suo corpo di rosso e gli dissero di tornare al suo popolo. «Ti accoglieranno come profeta» disse il Grande Stregone. «Mentre tu sei stato qui, gli Cheyenne hanno vagato senza meta né scopo. La selvaggina li ha sfuggiti ed essi sono deboli e affamati. Giovane


Lupo e molti suoi guerrieri sono stati uccisi mentre tentavano di portar via carne a un’altra tribù. Va’ dalla la tua gente e mostrale come deve vivere.» Per molti giorni Motzeyouf andò in cerca degli Cheyenne, e finalmente trovò il loro misero campo in mezzo alle montagne. Mentre si avvicinava, vide quattro bambini che scavavano nella terra in cerca di radici. I loro vestiti erano logori e stracciati, le loro costole premevano contro la pelle e le loro guance erano incavate dalla fame. «È questo tutto ciò che potete trovare per cibarvi?» domandò Motzeyouf. «Radici e muschio?» I bambini smisero di scavare e lo guardarono. Benché Motzeyouf fosse diventato più alto e la sua capigliatura fosse molto più lunga di quando l’avevano visto per l’ultima volta, due dei bambini si ricordavano ancora di lui e lo riconobbero. «Tu sei Motzeyouf, lo Stregone Dolce, che fu messo in fuga dai guerrieri molte lune fa» disse uno dei quattro. «Sono tornato, solo per trovare il mio popolo che muore di fame.» «I bisonti se ne sono andati tutti» rispose il ragazzo. «Non troviamo neppure conigli o topi da mangiare. Nient’altro che radici e funghi e muschio. Durante le lune di gran freddo a momenti morivamo.» Motzeyouf si inginocchiò così che la sua faccia fu alla pari di quella dei bambini. «Cercate qualche vecchio osso di bisonte. Portatemi ossa di bisonte e avrete carne da mangiare.» Lo guardarono perplessi, ma andarono a cercare le ossa. Quando furono tornati portandone, Motzeyouf stese il suo mantello per terra e disse loro di porvele sopra. Ripiegò il mantello sulle ossa in modo che le quattro punte di esso fossero rivolte nelle quattro direzioni, e quando riaprì il mantello le ossa erano diventate carne essiccata e midollo. «Mangiate» disse Motzeyouf. Sbalorditi, i bambini mangiarono finché non sentirono più fame, eppure era rimasta ancora molta carne. «Portate questo cibo al campo» disse Motzeyouf «e dite ai vostri genitori che è tornato Motzeyouf il Profeta. Dite loro che io posso riportare i bisonti, così che gli Cheyenne non abbiano più né fame né freddo.» Non appena i bambini furono scomparsi alla vista, Motzeyouf si affrettò nella loro direzione e fece il giro del campo finché non trovò il tepee recante il contrassegno di sua nonna. Lei era lì fuori, seduta al sole, gli occhi chiusi, la faccia raggrinzita dagli anni. Motzeyouf entrò in fretta nel tepee e vi trovò un giaciglio di vecchie pelli di bisonte che la nonna teneva ancora steso per lui. Vi si gettò sopra e si tirò il mantello sulla faccia. Qualche tempo dopo udì voci all’esterno. La gente della tribù si stava radunando e chiedeva di lui. La nonna disse che non aveva visto Motzeyouf;


poi entrò nel tepee e vi trovò un giovane d’alta statura disteso sul giaciglio di suo nipote. Aveva gambiere rosse e mocassini e portava una piuma d’aquila fra i capelli. «Nipote mio!» gridò. «Sei tornato!» Udendo quell’esclamazione, la gente entrò nel tepee per dare il benvenuto a Motzeyouf il Profeta. Gli stregoni non avevano dimenticato i poteri magici che possedeva da ragazzo, e quando egli raccontò di essere stato con il Grande Stregone sui Colli Neri, essi seppero che adesso era un uomo di grandi visioni. «Abbi pietà di noi» supplicò un anziano. «Il popolo è in grandi lamenti e chiede cibo, e molti sono in lutto. Dicci che cosa dobbiamo fare perché gli Cheyenne possano tornare a vivere.» Motzeyouf mostrò loro il fascio di frecce magiche. «Vi ho portato quattro frecce potenti e sacre» disse. «Esse faranno di noi un grande popolo. Andate e disponete tutti i vostri tepees in cerchio, con le aperture rivolte verso oriente. In mezzo al cerchio, alzate il tepee più grande di tutti. Portatevi i vostri pifferi e i vostri cembali, e io vi insegnerò i canti e i riti delle sacre frecce che mi sono stati insegnati. Ricondurremo a noi il bisonte.» Tutto fu pronto quando il sole stava per tramontare. Gli stregoni raccolsero legna e accesero un grande fuoco al centro di un tepee grande il doppio degli altri. Sul far della notte, Motzeyouf portò un vecchio cranio di bisonte e un piccolo fascio d’erba dolce. Collocò il cranio di bisonte all’ingresso del tepee e sparse l’erba dolce sul fuoco così che l’aria fu piena della sua fragranza. Quindi prese a cantare uno dei canti che aveva appreso sui Colli Neri, e mentre cantava tolse una delle sacre frecce dall’involto di pelle di volpe e diede inizio alla prima cerimonia. Quando il canto fu terminato, gli uomini poterono udire in lontananza un rimbombare di zoccoli di bisonte. «Sono le vedette che precedono il branco» disse Motzeyouf, e iniziò a cantare il secondo canto sopra la seconda freccia. «Queste frecce» dichiarò «ci daranno nuova vita.» Quando il secondo canto fu terminato, il rimbombo degli zoccoli di bisonte era più forte. Mandrie di bisonti si stavano avvicinando dalle quattro direzioni. Durante il canto del terzo canto, poterono udire lo sbuffare e il grugnire dei bisonti. «Aspettate» ordinò Motzeyouf agli stregoni impazienti. «Restate nel tepee.» Iniziò il quarto canto, e mentre egli cantava il suono di grandi mandrie fuori del campo divenne come rombo di tuono. Infine Motzeyouf finì la quarta cerimonia delle frecce. «Adesso andate a dormire» disse. «I bisonti non sfuggiranno più il popolo Cheyenne. Ci daranno cibo, riparo e indumenti. Quando sorgerà il sole, andate e uccidete solo tanti bisonti quanti vi sono necessari.»


«I bisonti resteranno con noi per sempre. Stregone Dolce?» domandò uno degli anziani. Motzeyouf fissò lo sguardo nelle fiamme del falò. Dopo un lungo silenzio rispose: «I bisonti non ci lasceranno finché non arriveranno nella nostra terra stranieri con la barba». La mattina dopo la terra in tutte le direzioni era piena di bisonti, e i cacciatori uscirono con archi e frecce e ne uccisero secondo il bisogno. Per la prima volta da molte lune, gli Cheyenne banchettarono, per tutto il pomeriggio e fino a notte fonda, con la carne più prelibata, lingua di bisonte e gobba di bisonte e midollo. Per render forte la tribù, Motzeyouf ora incominciò a insegnarle come proteggersi da un cattivo capo qual era stato Giovane Lupo. C’era molto da imparare, li avvertì. Invece di un capo avrebbero avuto quaranta capi, e in più quattro capi per le guerre. E così gli Cheyenne si radunarono e si scelsero i capi, e poi Motzeyouf spiegò le misteriose apparizioni che aveva fatto prima di partire per la montagna sacra sui Colli Neri. Esse simboleggiavano le società di guerrieri che avrebbero tenuto unito il popolo Cheyenne in tutte le prove, contro tutti i nemici. Passarono molte lune e intanto gli uomini costituirono quattro associazioni di guerrieri: i Coyote o Volpi Veloci, gli Alci o Zoccoli Tintinnanti, le Corde d’Arco e gli Scudi Rossi. Durante questo tempo vi fu un gran disputare circa l’abbigliamento, i simboli, i canti e le danze delle diverse società, e soprattutto a proposito di quali giovani potessero diventarne membri. Alla fine, quando ogni cosa fu decisa, Motzeyouf notò che parecchi giovani non erano stati scelti da alcuna società. Questo perché erano poveri, o sfortunati nella caccia, o non avevano dato prova di alcun potere magico. Motzeyouf andò da uno di loro, un giovane chiamato Piccolo Falco, e gli disse di attraversare tutto il campo annunciando che cercava membri per un’altra società. «Ma io non sono nessuno» replicò Piccolo Falco. «Nessuno mi darà ascolto.» «Fai come ti ho detto e» promise Motzeyouf «troverai dei seguaci.» Il giovane andò per tutto il campo gridando che cercava seguaci, ma i membri delle società di guerrieri risero di lui. Nessuno volle seguirlo, e a sera Piccolo Falco sedette in mezzo al cerchio dell’accampamento cantando un canto sacro che gli aveva insegnato Motzeyouf. Mentre cantava, i cani del campo presero a ululare e a guaire. Quando fu mezzanotte, Piccolo Falco uscì dal cerchio dell’accampamento e tutti i cani lo seguirono. Lo seguirono perfino i cuccioli, e le femmine reggevano fra i denti quelli che non sapevano ancora camminare. Piccolo


Falco li guidò a uno spiazzo piano lungo il corso di un fiume, e quando arrivò a un albero dal tronco curvato verso nord si sedette a riposare, la schiena appoggiata al tronco. Con sua sorpresa, i cani gli si disposero ordinatamente davanti, a semicerchio. In un sogno, qualche potenza misteriosa fece sorgere un grande tepee intorno a lui e all’albero, e i cani accorsero nel tepee. Non appena vi entrarono, si trasformarono in esseri umani. Sul lato sinistro portavano a tracolla fasce di pelle non conciata decorate di penne d’aquila e di aculei di porcospino dai vivaci colori. In testa avevano acconciature con pietruzze colorate che decoravano la fronte e ornate sopra e ai fianchi con penne d’aquila, di corvo e di falco. Portavano fischietti fatti con ossa cave ornate di aculei di porcospino, e sonagli a forma di serpente. Le loro cinture erano fatte con pelli di moffetta in cui le teste degli animali erano state lasciate intatte. Fino all’aurora danzarono e cantarono in onore di Piccolo Falco, promettendogli che i Cani Guerrieri sarebbero stati la più potente di tutte le società Cheyenne. Quindi egli cadde in un sonno profondo. Quel mattino, al risveglio, gli Cheyenne furono stupiti del fatto che tutti i cani del campo erano spariti. Due uomini andarono a cercarli e in basso, sui piani erbosi, trovarono un misterioso tepee intorno a un albero incurvato verso nord. Di fronte ad esso, disposti a semicerchio, stavano accovacciati i cani della tribù. Ritornati in fretta al campo, i due Cheyenne andarono in cerca di Motzeyouf e gli raccontarono ciò che avevano visto. «Un giovane ci aspetta in quel tepee» disse Motzeyouf. «Egli obbedisce agli ordini del Grande Stregone, che si serve dei nostri cani per mostrarci come formare la più forte società di guerrieri, i Cani Guerrieri Cheyenne.» La notizia di questo strano fatto si diffuse rapidamente nel campo, e su consiglio degli stregoni gli Cheyenne trasferirono i loro tepees giù presso il fiume e li alzarono in un cerchio intorno al tepee magico di Piccolo Falco. I cani tornarono ai loro padroni, molti dei quali andarono allora da Piccolo Falco a chiedergli di sceglierli quali membri della sua società. Da quel giorno, i Cani Guerrieri furono la più valorosa delle associazioni Cheyenne e fino all’arrivo degli stranieri dalla pelle chiara da oriente nessuna tribù fu più prospera o più potente degli Cheyenne. Attraverso gli anni essi ascoltarono attentamente Motzeyouf il Profeta, che li guidò per mezzo delle sue visioni. Egli visse molto a lungo, fino a diventare uno degli uomini più vecchi mai vissuti fra gli Cheyenne, e quindi, un giorno d’autunno, quando la tribù era accampata presso il luogo che chiamiamo Torre del Diavolo (nel Wyoming), convocò tutti i membri della tribù per salutarli un’ultima volta. «Fratelli miei, bambini miei, ho vissuto sulla terra per il tempo che il


Grande Stregone ha desiderato. Il mio corpo è curvo e contorto, ma ho visto nel futuro per molte, molte lune. Ascoltate! Ascoltatemi e ricordate le mie parole, che sono acute come le punte delle quattro frecce sacre. Il Grande Stregone ci ha messo sulla terra. Egli ha fatto noi, ma ha fatto anche altri. Alcuni sono rossi come noi, altri neri, altri sono di pelle chiara con peli sulla faccia dei loro maschi. Un giorno, presto, incontrerete il popolo villoso di pelle chiara presso il Grande Fiume Fangoso. Saranno vestiti con abiti strani e porteranno ogni sorta di malattie. «Vi offriranno doni strani – una sabbia bianca che si scioglie in bocca e che ha sapore dolce – e cose che lampeggiano quando vi batte il sole e che riflettono le vostre facce come un’acqua tranquilla quando ci guardate dentro. Vi daranno qualcosa da bere, qualcosa che è come acqua ma che contiene un fuoco invisibile. Se ne berrete, diventerete pazzi come gli uomini che ve l’offriranno. Non accettate le cose che vi offrono. Incomincerete a comportarvi come dementi e scorderete tutte le persone vissute prima di voi. Se prenderete quelle cose, vi verrà addosso una malattia. «Questi stranieri di pelle chiara non parleranno lingua indiana, nessuna lingua indiana. Saranno irrequieti e crudeli, infaticabili, sempre in movimento, sempre in marcia verso il sole che tramonta. Andranno a caccia di pietre gialle nascoste sotto terra e si uccideranno tra loro per il possesso di quelle pietre. Uccideranno tutti i bisonti e tutta l’altra selvaggina. Non uccideranno pochi animali con frecce e giavellotti, ma più di quanti non gliene occorrano, con lunghi bastoni che fanno fumo e gran rumore e lanciano attraverso l’aria pezzi di metallo così veloci che l’occhio non può vederli. «Dal sud porteranno uno strano animale dagli occhi scintillanti, con lunghi peli sul collo e una coda che arriva fino a terra. I suoi zoccoli saranno tondi, non fessi come quelli del bisonte. Non abbiate paura di questo animale. Esso vi accoglierà sulla sua schiena e vi porterà in luoghi più lontani del bordo della terra. Gli uomini di pelle chiara porteranno anche un altro strano animale, chiazzato, con lunghe corna, occhi grandi e lunga coda. Essi mangeranno questi animali come noi mangiamo i bisonti, e dopo che avranno ucciso tutti i bisonti cercheranno di costringervi a mangiare la carne dura e tigliosa di questi animali macchiati. «Verranno da noi sui fiumi, galleggiando su strane cose che vanno su e giù per la corrente mandando fumo. Non ascolteranno quello che gli direte, ma vi costringeranno ad ascoltare quello che loro diranno a voi. Se li ascolterete, incomincerete a litigare tra voi come ai vecchi tempi, prima delle società di guerrieri e dei quarantaquattro capi. «Fratelli miei, bambini miei, mantenete le vostre usanze, non seguite le


usanze degli stranieri. Anche se voi sarete forti contro di loro, essi vi chiederanno i vostri piccoli per insegnargli a vivere come loro, per cancellare tutte le nostre imprese passate, le nostre credenze, il nostro modo di parlare. Allora i nostri piccoli non sapranno più nulla, e gli stranieri ci porteranno via ogni cosa. Uccideranno tutti gli animali, distruggeranno tutti gli alberi, insozzeranno le acque dei fiumi e dei ruscelli. Apriranno la terra, spaccandola, e costringeranno anche voi a farlo con loro. E allora loro e voi e la terra sarete mutati in pietra per sempre. «Ricordatevi delle sacre frecce. Rinnovate il loro potere. Conservate le mie profezie nei vostri cuori, e gli Cheyenne dureranno quanto dureranno i cieli azzurri.» Questo fu l’addio di Motzeyouf al suo popolo. Egli domandò ai capi delle società guerriere di costruirgli un riparo a una certa distanza dall’accampamento. Essi glielo costruirono con pali di cedro, coperto d’erba e di corteccia, e quindi fecero un mucchio di erba dolce sul pavimento di terra perché egli potesse stendervisi. «Lasciatemi» disse. Essi andarono via e nella luna successiva, quando tornarono, non trovarono più alcun segno di Motzeyouf. E nessuno lo vide mai più.


I fatti e la profezia del Vecchio (Piedi Neri) Il Vecchio venne da sud, diretto verso nord. Procedendo, fece i monti, le pianure, gli alberi e i cespugli, mettendo fiumi qua e là e sistemando il mondo così come lo vediamo adesso. Il Vecchio ricoprì le pianure di un manto d’erba perché gli animali se ne cibassero. Delimitò certi territori e fece crescere ogni sorta di radici e di bacche: carote selvatiche, rape selvatiche, sorbe, bacche del bisonte, ciliegie, prugne, bocci di rosa. Egli mise gli alberi dentro la terra. Dopo che il Vecchio ebbe fatto i Colli del Porcospino, prese un po’ di fango e lo plasmò in forma di uomini. Alitò il suo fiato su di essi, e divennero persone. Fece così uomini e donne, e li chiamò Siksika, o Piedi Neri. Essi gli domandarono: «Che cosa mangeremo?». Egli rispose fabbricando altri simulacri di fango in forma di bisonti. Alitò il suo fiato su di essi ed essi si alzarono, e quando egli fece un segno, incominciarono a correre. «Ecco il vostro cibo» disse il Vecchio ai Siksika. Dopo aver fatto il bisonte, il Vecchio andò nelle grandi pianure e fece la pecora a grandi corna, dalla grande testa e dalle corna ricurve. Ma essa era impacciata e non si muoveva agilmente sul terreno piatto delle praterie, e allora il Vecchio la afferrò per un corno e la portò sulle montagne, dove la lasciò andare. Lì essa prese a balzare da una roccia all’altra e si arrampicò con grande facilità sui luoghi più alti. «Questo è il posto che fa per te» disse il Vecchio. «A questo tu sei adatta: alle rocce e alle montagne.» Mentre si trovava sulle montagne, il Vecchio fece l’antilope e la lasciò andare, ma l’antilope corse così in fretta che precipitò da certe alte rocce, ferendosi. Il Vecchio capì che la cosa non andava, perciò accompagnò l’antilope nelle pianure e ve la liberò. Essa corse via in modo svelto e aggraziato, e il Vecchio disse: «Questo è il luogo cui sei adatta». Un giorno il Vecchio decise di fare una donna e un bambino. Andò sulla sponda di un fiume, raccolse un po’ d’argilla umida e la plasmò dandole forme umane. Poi coprì le forme con paglia. L’indomani mattina tolse la copertura e disse alle forme di alzarsi e di camminare, e così esse fecero, seguendolo fino alla riva del fiume. «Io sono Napi» disse lui. «Il Vecchio, colui che fa tutte le cose.» Mentre erano lì presso il fiume, la donna gli disse: «Com’è tutto questo? Vivremo per sempre? Non ci sarà mai una fine?». «Non ci ho mai pensato finora» rispose il Vecchio. «Bisognerà deciderlo in qualche modo.» Raccolse da terra un pezzetto di sterco di bisonte secco e lo gettò nel fiume. «Se quel pezzo di sterco galleggia,» disse «quando le


persone moriranno, torneranno in vita dopo quattro giorni. Se invece affonda, quando le persone moriranno sarà la loro fine per sempre.» Gettò il pezzetto di sterco nel fiume, e galleggiò. Alla donna non garbava l’idea di morire, fosse pure per quattro giorni soltanto. «No, non dovremmo decidere a questo modo» disse. E raccolse una pietra. «Se la pietra galleggia, vivremo per sempre. Se affonda, le persone moriranno per sempre» disse al Vecchio. Gettò nel fiume la pietra, che subito sprofondò. «Pazienza» disse la donna. «Forse è meglio che la gente muoia per sempre. Altrimenti non avrebbe dolore per la perdita degli altri e non ci sarebbe affetto nel mondo.» «Bene» disse il Vecchio. «Tu hai fatto la scelta. Sia così. Questa sia la legge.» Non molto tempo dopo, il bambino della donna morì, ed essa andò dal Vecchio a supplicarlo perché cambiasse la legge circa la morte delle persone. «Tu per primo dicesti che la gente che muore tornerà a vivere dopo quattro giorni» disse. «Sia quella la legge.» «Non così» replicò il Vecchio. «Ciò che è fatto legge deve restare legge. Non disfaremo nulla di ciò che abbiamo fatto. Il bambino è morto, e la cosa non si può cambiare. La gente deve morire.» All’incirca in quest’epoca molti Siksika, che erano stati fatti dal Vecchio, andarono da lui a lagnarsi del fatto che non sapevano cacciare il bisonte per procurarsi carne da mangiare. Anzi, erano i bisonti a dar loro la caccia, dissero, inseguendoli e ammazzandone alcuni. «Vi farò un’arma che ucciderà quegli animali» promise il Vecchio. Andò a tagliare alcuni rami di sorbo, li portò davanti alla gente e tolse loro la corteccia. Quindi prese un uccello e gli tolse qualche penna dalle ali. Legate queste penne a una delle asticelle di sorbo, ridusse a pezzetti una selce e assicurò un’aguzza punta di selce a uno dei capi dell’asticella. E la chiamò freccia. Quindi prese un grosso ramo, lo curvò, vi legò una corda tesa, e lo chiamò arco. Le persone guardavano, e il Vecchio mostrò loro come usare archi e frecce. «La prossima volta che darete la caccia al bisonte,» disse «portate con voi queste cose e usatele come vi ho insegnato. Non fuggite di fronte al bisonte. Quando corre contro di voi, aspettate finché non sia abbastanza vicino, e allora scagliategli addosso le frecce.» Dopo che gli uomini ebbero imparato a uccidere i bisonti, il Vecchio insegnò loro come scuoiarli per fare indumenti con le loro pelli. E mostrò anche come alzare pali e legare ad essi le pelli di bisonte per fare dei tepees entro i quali dormire.


Un giorno il Vecchio disse ai Siksika che doveva lasciarli e andare più a nord a fare altre terre e altri uomini. «Ho assegnato questo territorio a voi» disse. «I Colli del Porcospino, i Monti del Cipresso e le Piccole Montagne Rocciose, giù fino allo sbocco del fiume Yellowstone del Missouri, e quindi verso occidente fino alla sorgente dello Yellowstone e alle cime delle Montagne Rocciose. Questa è la vostra terra, ed è piena di ogni specie di animali, e molte cose vi crescono. Non permettete ad altri popoli di entrare in questa terra, o ne avrete dei guai. Questa terra è per le cinque tribù, i Piedi Neri, i Blood, i Piegan, i Gros Ventres e i Sarcee. Se altri popoli cercano di superarne i confini, prendete i vostri archi e le frecce e date loro battaglia e impedite loro di entrare. Se li lasciate venire e far qui i loro accampamenti, perderete ogni cosa.» Per molte lune le cinque tribù diedero battaglia a tutti i popoli che cercavano di superare il confine tracciato dal Vecchio, e li respinsero. Ma dopo un certo tempo arrivarono degli uomini barbuti con la pelle chiara, portando doni. Dissero che volevano stare solo poco tempo per mettere trappole e catturare animali da pelliccia. Le cinque tribù consentirono a costoro di fare il loro campo e, secondo la profezia del Vecchio, presto le tribù perdettero ogni cosa.


Come furono divisi il giorno e la notte (Creek) Dopo che fu fatto il mondo, alcuni animali volevano che fosse sempre giorno. Altri preferivano che fosse sempre notte. Perciò litigarono, e non riuscirono a trovare un accordo. Dopo un certo tempo decisero di riunirsi a concilio e chiesero a Nokosi, l’Orso, di presiedervi. Nokosi propose che votassero perché fosse sempre notte, ma MasticaMastica, lo Scoiattolo Terragnolo*, disse: «Vedo che Wotko l’Orsetto Lavatore ha sulla coda degli anelli tutti uguali, prima scuri e poi chiari. Penso che il giorno e la notte dovrebbero essere divisi come gli anelli sulla coda di Wotko». Gli animali furono sorpresi dalla saggezza di Mastica-Mastica. Votarono in favore della sua proposta e divisero il giorno e la notte come gli anelli chiari e scuri sulla coda di Wotko l’Orsetto Lavatore, che si susseguono regolarmente. Ma Nokosi l’Orso si arrabbiò a tal punto con Mastica-Mastica che aveva rigettato la sua proposta, che allungò una zampa e con gli unghioni affilati graffiò la schiena dello Scoiattolo Terragnolo. Questa è la causa della presenza di tredici strisce sulla schiena di tutti i suoi discendenti Scoiattoli Terragnoli.


Come i bisonti furono liberati sulla terra (ApacheComanci) Nei primi giorni un essere potente chiamato Gobbo possedeva tutti i bisonti. Li teneva in un recinto sulle montagne a nord di San Juan, dove viveva con il suo giovane figlio. Non un solo bisonte il Gobbo lasciava libero per il popolo della terra, né ne avrebbe diviso la carne con quelli che abitavano nei suoi paraggi. Coyote decise che si doveva far qualcosa per far uscire i bisonti dal recinto del Gobbo. Riunì la gente a concilio. «Il Gobbo non ci darà mai nessun bisonte» disse Coyote. «Andiamo tutti al suo recinto e prepariamo un piano per aprirlo.» Posero il campo sulle montagne presso il luogo dove abitava il Gobbo, e quando scesero le tenebre fecero un’attenta ispezione al recinto dei bisonti. I muri di pietre erano troppo alti perché si potesse scalarli, e il solo ingresso al recinto era attraverso la porta posteriore della casa del Gobbo. Dopo quattro giorni Coyote convocò il popolo a un altro concilio, sollecitando chiunque a suggerire qualcosa per liberare i bisonti. «Non c’è modo» disse un uomo. «Per liberare i bisonti dovremmo entrare nella casa del Gobbo, ed egli è troppo potente perché possiamo farlo.» «Io ho un piano» disse Coyote. «Da quattro giorni spiamo il Gobbo e suo figlio mentre vanno in giro per i lavori quotidiani. Non avete osservato che il ragazzo non ha nessun animale tutto per sé?» La gente non capiva che cosa avesse a che fare, questo, con la liberazione dei bisonti, ma sapeva che Coyote era un furbo di tre cotte e aspettò che si spiegasse. «Mi trasformerò in un piviere» disse Coyote. «Domattina, quando il figlio del Gobbo scende alla fonte per attingere acqua, vi troverà un piviere con un’ala spezzata. Desidererà tenere l’uccello come compagnia e lo porterà con sé nella casa. Quando sarò nella casa, potrò volare nel recinto, e i versi di un piviere spaventeranno i bisonti che impazziti passeranno alla carica attraverso la casa del Gobbo e saranno liberati sulla terra.» La gente giudicò buono il progetto, e la mattina dopo, quando il figlio del Gobbo scese il sentiero fino alla sorgente vi trovò un piviere con un’ala ferita. Come Coyote aveva previsto il ragazzo raccolse l’uccello e lo portò nella casa. «Guarda!» gridò il ragazzo. «Questo è un uccello molto buono!» «Non è buono per nulla» urlò il Gobbo. «Tutti gli uccelli e gli animali e le persone sono imbroglioni e profittatori.» Sopra il naso feroce il Gobbo portava una maschera blu, e attraverso le fessure di questa i suoi occhi


scintillavano. Sulla testa portava un cesto fatto come una nuvola e dipinto di nero con una riga gialla a zigzag per rappresentare il fulmine. Corna di bisonte sporgevano sui due lati. «È un uccello molto buono» insisté il ragazzo. «Riportalo dove l’hai trovato!» ruggì il Gobbo, e il figlio, spaventato, fece come gli era stato detto. Non appena il piviere fu liberato, ritornò dove il popolo era accampato e riassunse l’aspetto del Coyote. «Ho fallito,» disse «ma non fa differenza. Riproverò domattina. Forse un piccolo animale avrà migliore effetto di un uccello.» La mattina dopo, quando scese alla sorgente, il figlio del Gobbo vi trovò un cagnolino intento a leccare l’acqua. Subito il ragazzo lo raccolse e si affrettò verso casa. «Guarda!» esclamò. «Guarda che bella bestiolina ho trovato.» «Quanto sei stupido, ragazzo!» lo rimproverò il Gobbo. «Un cane non serve a nulla. Ora lo ammazzo col bastone.» Il ragazzo tenne il cane stretto a sé e si volse piangendo per scappare. «Oh, molto bene» disse il Gobbo. «Ma prima lasciami provare questa bestia per esser sicuro che è un cane. Tutti gli animali del mondo sono degli imbroglioni.» Prese un tizzone ardente dal focolare e lo avvicinò sempre di più agli occhi del cane finché questo non abbaiò tre volte. «È un vero cane» dichiarò il Gobbo. «Puoi tenerlo nel recinto dei bisonti, ma non in casa.» Naturalmente, era proprio ciò che voleva Coyote. Non appena fu buio e il Gobbo e suo figlio si addormentarono, egli aprì la porta posteriore della casa. Quindi si mise a correre tra i bisonti, abbaiando con quanto fiato aveva in corpo. I bisonti si spaventarono molto perché non avevano mai sentito abbaiare un cane. Quando Coyote si mise a mordicchiare i loro garretti, essi fuggirono precipitosamente verso la casa del Gobbo e passarono attraverso la porta posteriore. Il rimbombare degli zoccoli svegliò il Gobbo, che si gettò giù dal letto per cercare di fermarli, ma i bisonti fracassarono la porta sul davanti della casa e fuggirono. Dopo che l’ultimo dei lanosi animali fu scappato al galoppo, il figlio del Gobbo non riuscì a trovare il cagnolino. «Dov’è il mio amichetto?» si lamentò. «Dov’è il mio cagnolino?» «Non era un cane, quello» disse il Gobbo in tono afflitto. «Quello era Coyote l’Imbroglione. Ha fatto fuggire tutti i nostri bisonti.» Fu così che i bisonti furono liberati e si sparsero per tutta la terra.


Come il Mais arrivò sulla terra (Arikara) Molto tempo fa vivevano sulla terra dei giganti, ed erano così forti che non avevano paura di nulla. Quando smisero di far levare fumo in onore degli dei delle quattro direzioni, Nesaru abbassò lo sguardo su di loro e si adirò. «Ho fatto i giganti troppo forti» disse Nesaru. «Non li tengo più. Credono di essere come me. Li distruggerò coprendo d’acqua la terra, ma risparmierò la gente comune.» Nesaru mandò gli animali a guidare la gente comune in una caverna così grande che tutti gli animali e tutte le persone poterono abitarla insieme. Poi sigillò l’entrata della caverna e inondò la terra, così tutti i giganti, e solo loro, annegarono. Per ricordarsi che c’era gente sotterra in attesa di essere liberata quando l’inondazione fosse finita, Nesaru piantò del mais nel cielo. Appena il mais fu maturo egli tolse una pannocchia dal campo e la trasformò in una donna, che fu Madre Mais. «Devi scendere sulla terra» le disse Nesaru «e far uscire la mia gente dal sottosuolo. Guidala al luogo in cui tramonta il sole, perché la loro patria sarà in occidente.» Madre Mais scese sulla terra e udendo tuonare a oriente seguì l’indicazione del suono fino alla caverna dove la gente stava in attesa. Ma la porta della caverna si richiuse su di lei, che non riuscì a ritrovare la strada per ricondurre la gente fuori, sopra la terra. «Dobbiamo lasciare questo luogo, questo buio» disse loro. «C’è luce sopra la terra. Chi mi aiuterà a portare la mia gente fuori dalla terra?» Il Tasso si fece avanti e disse: «Madre Mais, io ti aiuterò». Anche la Talpa si alzò e disse: «Io aiuterò il Tasso a scavare il terreno, in modo che possiamo vedere la luce». Poi venne il Topo Nasolungo e disse: «Io aiuterò gli altri due». Il Tasso incominciò a scavare verso l’alto. Dopo un po’ ricadde sfinito. «Madre Mais, sono molto stanco» disse. Poi scavò la Talpa, finché non fu anch’essa esausta. Il Topo Nasolungo prese il posto della Talpa e scavò, e quando esso fu stanco il Tasso ricominciò a scavare. I tre lavorarono a turno, finché alla fine il Topo Nasolungo cacciò il naso attraverso il terreno e poté vedere un po’ di luce. Il Topo tornò giù e disse: «Madre Mais, ho spinto il naso attraverso la terra fino a vedere la luce, ma il grande scavare ha reso il mio naso piccolo e aguzzo. D’ora in poi tutti sapranno, dal mio naso, che sono stato io a raggiungere per primo la superficie della terra». Ora salì la Talpa fino al buco e completò lo scavo finché non fu fuori. Il


sole era salito alto nel cielo dall’oriente ed era così luminoso che accecò la Talpa, la quale corse indietro e disse: «Madre Mais, sono stata accecata dalla luminosità del sole, e non posso più vivere sulla terra. Devo farmi una casa sotterranea. Da questo momento tutte le Talpe saranno cieche e non potranno vedere alla luce del giorno, ma potranno vedere di notte. Durante il giorno resteranno sotto terra». Poi salì il Tasso e allargò il buco così che potessero passarvi anche le persone. Uscendo all’esterno il Tasso chiuse gli occhi, ma i raggi del sole lo colpirono scurendogli le gambe e tracciando una striscia nera sulla sua faccia. Egli tornò giù e disse: «Madre Mais, ho ricevuto questi segni neri su di me, e vorrei rimanere così, in modo che tutti si ricordino che io sono stato fra coloro che hanno aiutato la tua gente a uscire da sotto terra». «Molto bene» disse Madre Mais. «Sia come hai detto.» Poi ella guidò la gente fuori, all’aperto, e la gente si rallegrò di essere sulla terra all’aperto. Mentre tutti erano lì al sole, Madre Mais disse: «Popolo mio, ora faremo un viaggio verso occidente, verso il luogo dove tramonta il sole. Prima di incamminarci, coloro che desiderano restare qui - come il Tasso, il Topo e la Talpa – possono farlo». Alcuni animali decisero di tornare alle loro tane sotterranee, altri scelsero di seguire Madre Mais. Il viaggio era incominciato. Procedendo, a un certo punto videro delle montagne levarsi di fronte a loro. Giunsero a un profondo canyon. La china era troppo ripida perché gli uomini potessero scenderla, e anche se vi fossero riusciti, la china opposta era anch’essa troppo ripida per risalirla. Madre Mais chiese aiuto e un uccello grigio-azzurro salì volteggiando su ali che battevano rapide. Aveva un grosso becco, un folto ciuffo sul capo e il petto a strisce. L’uccello era il Martin Pescatore. «Madre Mais,» egli disse «sarò io a mostrarvi la strada.» Il Martin Pescatore volò sul fianco opposto del canyon e col becco batté molte volte sulla parete finché la terra cadde in fondo al canyon. Poi volò indietro e beccò l’altra parete finché cadde abbastanza terra perché si formasse un ponte. La gente lo ringraziò a gran voce. «Quelli che vogliono unirsi a me» disse il Martin Pescatore «possono rimanere qui. Faremo di queste montagne la nostra patria.» Alcuni rimasero con lui, ma la maggior parte proseguì il cammino. Dopo un po’ di tempo giunsero a un altro ostacolo, una cupa foresta, con alberi così alti che sembravano toccare il sole, molto fitti e così irti di spine da formare un groviglio impenetrabile. Ancora Madre Mais chiese aiuto. Questa volta si presentò davanti a lei un Gufo, che disse: «Io aprirò un sentiero per la tua gente attraverso questa foresta. E chiunque vorrà restare con me potrà farlo e vivere in questa foresta per sempre». Il Gufo poi volò dentro la


foresta. Agitando le ali spostò gli alberi, in modo da aprire un sentiero perché la gente potesse passarvi. Madre Mais allora guidò la gente oltre la foresta, e così andarono avanti. Proseguendo, d’un tratto si trovarono di fronte a un grande lago. La distesa d’acqua era troppo vasta e profonda perché si potesse attraversarla e la gente incominciò a parlare di tornare indietro. Ma non poteva farlo, perché Nesaru aveva ordinato a Madre Mais di condurre gli uomini sempre avanti, verso occidente. Un uccello acquatico con la testa nera e il dorso a quadri si presentò davanti a Madre Mais e disse: «Io sono la Strolaga. Farò un passaggio attraverso quest’acqua. La gente smetta di piangere; l’aiuterò». Madre Mais guardò la Strolaga e disse: «Preparaci un passaggio e alcuni di noi resteranno qui con te». La Strolaga volò via e saltò nel lago, muovendosi così in fretta da dividere le acque, e quando uscì dall’altra parte del lago lasciò dietro di sé un sentiero. Madre Mais condusse la gente attraverso il passaggio asciutto e alcuni tornarono indietro e restarono con la Strolaga. Gli altri invece proseguirono il cammino. Infine giunsero a un luogo piano accanto a un fiume e Madre Mais disse loro di costruire lì un villaggio. «Ora avrete il mio mais da piantare» disse. «Così, mangiandolo, crescerete e vi moltiplicherete.» Dopo che ebbero costruito il villaggio e piantato il mais. Madre Mais fece ritorno al Mondo Superiore. Le persone, tuttavia, non avevano né norme né leggi alle quali attenersi, né capi né stregoni che le consigliassero, e presto accadde che passassero tutto il loro tempo a giocare. Il primo gioco a cui giocarono fu una specie di hockey, nel quale si dividevano in due squadre e usavano bastoni ricurvi per buttare la palla nella porta degli avversari. Poi giocarono a scagliare giavellotti attraverso anelli messi sopra aste piantate nel terreno. Col tempo, i giocatori perdenti si arrabbiarono a tal punto che presero a uccidere i vincitori. Nesaru fu scontento del comportamento degli uomini e insieme con Madre Mais venne sulla terra. Disse agli uomini che dovevano avere un capo e qualche stregone che insegnasse loro come si deve vivere. Mentre Nesaru insegnava agli uomini a scegliersi un capo attraverso prove di coraggio e di saggezza, Madre Mais insegnò loro canti e cerimonie. Dopo che si furono scelto un capo, Nesaru diede a costui il suo stesso nome, quindi comunicò agli stregoni i segreti della magia. Insegnò loro a fare pipe per offrire fumo agli dei delle quattro direzioni. Quando tutto questo fu fatto, Nesaru se ne andò via verso il sole calante per preparare luoghi per nuovi villaggi. Madre Mais guidò gli uomini lungo sentieri attraverso le pianure e oltre corsi d’acqua fino a quel luogo dove


Nesaru aveva piantato radici ed erbe medicinali per gli stregoni. Lì essi costruirono villaggi lungo un fiume che più tardi i Bianchi chiamarono Fiume Republican, nel Kansas. Il primo giorno che giunsero in questo paese, Madre Mais disse loro di offrire fumo agli dei dei cieli e a tutti gli dei degli animali. Mentre così facevano, un Cane giunse correndo nell’accampamento e con alti lai accusò Madre Mais di essersi comportata male andando via e lasciandolo indietro. «Io sono venuto dal Sole» gridò «e il dio del Sole è così arrabbiato perché sono stato lasciato indietro che manderà il Turbine a disperdere gli uomini.» Madre Mais pregò il Cane di salvare gli uomini placando il Turbine. «Solo rinunciando alla mia libertà» rispose il Cane «potrò farlo. Non potrò più cacciare solo come mio fratello Lupo, o vagare libero come il Coyote. Dovrò sempre dipendere dagli uomini.» Ma quando giunse il Turbine rotando e tuonando attraverso la terra, il Cane si pose fra esso e gli uomini. «Rimarrò per sempre con gli uomini» gridò al Turbine. «Sarò il guardiano di tutto ciò che posseggono.» Quando il Gran Vento fu cessato. Madre Mais disse: «Gli dei sono gelosi. Se dimenticherete di offrire loro il fumo, si adireranno e manderanno tremende bufere». Nella ricca terra accanto al fiume la gente piantò il suo mais, ed ella disse: «Mi trasformerò in albero di Cedro per rammentarvi che sono Madre Mais, che vi ha dato la vita. Sono stata io, Madre Mais, a condurvi qui da oriente. Devo diventare un Cedro per poter restare con voi. Sul fianco destro dell’albero sarà messa una pietra perché vi ricordiate di Nesaru, che ha portato ordine e saggezza a voi uomini». Il mattino seguente, un Cedro già adulto sorgeva davanti alle dimore degli uomini. Accanto ad esso c’era una grossa pietra. Gli uomini seppero così che Madre Mais e Nesaru avrebbero vegliato su di loro attraverso tutti i tempi a venire e che li avrebbero tenuti uniti e fatti vivere a lungo.


Come Coniglio portò il fuoco agli Uomini (Creek) In principio non c’era il fuoco e la terra era fredda. Poi gli Uccelli del Tuono mandarono il loro fulmine a un sicomoro su un’isola dove vivevano le Donnole. Le Donnole furono le uniche ad avere il fuoco, e non volevano darne a nessuno. Gli Uomini sapevano che c’era fuoco sull’isola, perché vedevano il fumo uscire dal sicomoro, ma l’acqua era troppo profonda da attraversare. Quando giunse l’inverno, gli Uomini soffrivano tanto per il freddo che si riunirono a concilio, al fine di trovare un modo per ottenere il fuoco dalle Donnole. Tutti gli animali che sapevano nuotare erano stati invitati. «Come potremo ottenere il fuoco?» si chiesero gli Uomini. La maggior parte degli animali temeva le Donnole perché erano sanguinarie e mangiavano topi e talpe e pesci e uccelli. Coniglio fu l’unico abbastanza coraggioso da tentare di rubar loro il fuoco. «So correre e nuotare più veloce delle Donnole» disse. «E sono anche un buon danzatore. Ogni notte le Donnole fanno un grande fuoco e vi danzano intorno. Stasera attraverserò l’acqua a nuoto e mi unirò alle danze. Poi scapperò con un po’ di fuoco.» Considerò un po’ la faccenda, poi decise come si sarebbe comportato. Prima che il sole tramontasse, si strofinò la testa con resina di pino in modo da fare star dritti i peli. Poi, al cadere delle tenebre, attraversò l’acqua a nuoto e raggiunse l’isola. Le Donnole accolsero Coniglio con gioia, poiché avevano sentito parlare della sua bravura come danzatore. Presto un grande fuoco brillò e tutte cominciarono a danzarvi attorno. Mentre danzavano, le Donnole si avvicinavano sempre più al fuoco, al centro del cerchio. Vi si inchinavano davanti e poi, sempre danzando, se ne allontanavano. Quando Coniglio entrò nel cerchio delle danzatrici, le Donnole gli gridarono: «Guidaci tu. Coniglio!». Egli danzò in testa a tutte, facendosi sempre più vicino al fuoco. Si inchinò ad esso, abbassando sempre più la testa, come se avesse intenzione di prenderlo. Mentre le Donnole danzavano sempre più veloci tentando di stare al passo con lui, Coniglio all’improvviso si chinò così profondamente che la resina di pino sui suoi peli prese fuoco con un guizzo. Scappò con la testa in fiamme e le Donnole furiose lo inseguirono gridando: «Prendetelo! Prendetelo! Ha rubato il nostro fuoco sacro! Prendetelo e buttatelo a terra!». Ma Coniglio corse molto più svelto di loro e si tuffò in acqua, lasciando le


Donnole a riva. Nuotò attraverso l’acqua con le fiamme ancora vive sul capo. Le Donnole allora chiamarono gli Uccelli del Tuono perché facessero piovere in modo da spegnere il fuoco rubato da Coniglio. Per tre giorni la pioggia cadde violenta sulla terra e le Donnole erano sicure che non fosse rimasto alcun fuoco acceso oltre a quello nel loro sicomoro. Coniglio, tuttavia, aveva fatto un fuoco in un albero cavo e quando la pioggia fu cessata e tornò il sole, egli uscì e diede il fuoco a tutti gli Uomini. Da allora in poi, ogni volta che piovve, gli Uomini tennero il fuoco nei loro rifugi, e fu così che Coniglio portò il fuoco agli Uomini.


Godasiyo la donna capo (Seneca) Al principio del tempo, quando l’America era nuova, una donna capo di nome Godasiyo governava un villaggio indiano accanto a un grande fiume nell’Est. In quei giorni, tutte le tribù parlavano una stessa lingua e vivevano in pace e in armonia. Poiché Godasiyo era un capo saggio e moderno, molti venivano anche da lontano per vivere nel suo villaggio e non avevano difficoltà nel comprendersi a vicenda. Alla fine, il villaggio diventò così grande che metà della gente viveva sulla riva settentrionale del fiume e metà sulla riva meridionale. Trascorrevano molto tempo andando in canoa da una parte all’altra del fiume per scambiarsi visite, partecipando a danze e offrendosi vicendevolmente doni di cacciagione, pelli, pellicce, frutta secca e bacche. La casa del concilio della tribù era sulla riva meridionale del fiume, il che costringeva coloro che vivevano sulla sponda settentrionale a compiere frequenti traversate in canoa per consultare il loro capo. Alcuni si lamentavano di questo, e per rendere più facile a tutti l’attraversamento della rapida corrente, Godasiyo ordinò di costruire un ponte fatto di tronchi e virgulti saldamente uniti. Questo ponte rese di nuovo unita la tribù, e la gente elogiò Godasiyo per la sua saggezza. Non molto tempo dopo, un cane bianco fece la sua apparizione al villaggio e Godasiyo lo volle per sé. Dovunque lei andasse, il cane la seguiva e la gente della sponda settentrionale del fiume diventò gelosa dell’animale. Cominciarono a mettere in giro chiacchiere sull’animale, dicendo che era posseduto da uno spirito maligno e che avrebbe causato sciagura alla tribù. Un giorno, una delegazione della sponda settentrionale attraversò il fiume e andò alla casa del concilio e chiese a Godasiyo che il cane bianco fosse ucciso. Quando lei si rifiutò, i delegati tornarono alla loro riva del fiume, e quella stessa notte distrussero il ponte. Da quel momento gli abitanti della sponda settentrionale e quelli della sponda meridionale incominciarono a vedersi di malocchio. La tribù si divise in due fazioni, una che rifiutava il potere di Godasiyo e l’altra che lo sosteneva. Il malanimo fra loro si fece così profondo che Godasiyo previde che il prossimo passo avrebbe sicuramente portato alla lotta e alla guerra. Sperando di evitare spargimenti di sangue, convocò tutti i membri della tribù che la sostenevano a una riunione nella casa del concilio. «Il nostro popolo» ella disse «è diviso da qualcosa di più di un fiume. Tra noi non vi è più buona volontà né serenità. Poiché non desidero veder combattere fratello contro fratello, propongo che coloro i quali mi riconoscono come capo mi seguano a occidente risalendo il grande fiume, per


costruire un nuovo villaggio.» Quasi tutti coloro che erano presenti alla riunione la seguirono. Preparandosi alla migrazione, costruirono molte canoe di corteccia di betulla. Due giovani, che erano stati emuli in gare di canoa, si offrirono volontariamente di costruire una speciale imbarcazione per il loro capo. Con robusti pali, fissarono insieme due grandi canoe e poi allestirono una piattaforma che si estendeva sullo spazio fra le due canoe. Su di essa misero un seggio per Godasiyo e casse in cui riporre la sua roba, gambiere di scorta, cinture, vestiti, mocassini, mantelli, berretti, lesine, aghi e ornamenti. Alla fine, ogni cosa fu pronta. Godasiyo prese posto sulla piattaforma con il suo cane bianco accanto, e i due giovani che le avevano costruito l’imbarcazione incominciarono a spingere la doppia canoa con le pagaie. Dietro di loro i sostenitori e difensori di Godasiyo misero in acqua le loro canoe, che contenevano tutti i loro beni. Questa flotta di canoe copriva le rilucenti acque del fiume nelle due direzioni fin dove arrivava lo sguardo. Dopo che ebbero remato per un lungo tratto, giunsero a una biforcazione del fiume. Godasiyo ordinò ai due giovani rematori di fermarsi nel mezzo del fiume finché gli altri non li avessero raggiunti. In pochi minuti la flotta fu divisa, metà delle canoe a sinistra, metà a destra di Godasiyo. Godasiyo e la gente ai due lati di lei cominciarono a discutere sui vantaggi e gli svantaggi delle due direzioni del fiume. Alcuni volevano andare da una parte, altri dall’altra. Le discussioni si accesero d’ira. Godasiyo disse che lei avrebbe seguito la direzione che il suo popolo avrebbe scelto, ma non riuscirono a mettersi d’accordo. Finalmente quelli sulla destra volsero la prua delle loro canoe sul canale di destra, mentre quelli sulla sinistra presero a pagaiare verso sinistra. E così la tribù cominciò a dividersi. Quando questo movimento ebbe inizio, anche i due giovani che portavano la canoa di Godasiyo si trovarono in disaccordo circa la direzione da prendere e attaccarono una violenta discussione. Quello che stava a destra affondò la sua pagaia nell’acqua e prese a vogare verso destra, e contemporaneamente quello che stava a sinistra fece il contrario. All’improvviso la piattaforma su cui si trovava Godasiyo scivolò fuori dei supporti e precipitò nel fiume, trascinando con sé la donna capo. Udendo il grande tonfo nell’acqua, la gente sui due lati volse le canoe e tutti cercarono di salvare il loro amato capo. Ma Godasiyo e il suo cane bianco, la piattaforma e tutti i suoi averi erano andati a fondo e non si vedeva nell’acqua altro che pesci che nuotavano su e giù. Sconvolta dal tragico avvenimento, la gente delle due fazioni cominciò a cercare di parlarsi, ma benché gridassero parole da una parte e dall’altra, quelli di destra non capivano quelli di sinistra e quelli di sinistra non


capivano quelli di destra. Quando Godasiyo era annegata nel grande fiume, la lingua del suo popolo si era trasformata in piÚ lingue. Questo fu il modo in cui gli indiani si divisero in molte tribÚ sparse attraverso l’America, ciascuna delle quali con una lingua diversa.


Allegorie L’allegoria, quel genere letterario in cui le idee o le forze della natura sono rappresentate come persone, è una delle più antiche forme di narrazione. Gli Amerindi usavano brevi allegorie, molto diffuse soprattutto fra le tribù orientali del Nordamerica, per spiegare i mutamenti delle stagioni. Pienamente rappresentativi del simbolismo indiano sono la storia Cherokee sulla potenza dell’inverno e il racconto Chippewa sull’arrivo della primavera, qui riportati.


Il ritorno dell’Uomo del Gelo (Cherokee) Una volta, d’autunno, sui Grandi Monti Fumosi nel bosco presero fuoco delle foglie secche, e prima che la gente potesse spegnere le fiamme calpestandole, esse raggiunsero un grosso pioppo. L’albero bruciò fino a diventare cenere, e il fuoco scese anche alle radici scavando una grande buca nel terreno. Arse e arse, e la buca divenne sempre più grande, al punto che la gente si spaventò temendo che il fuoco bruciasse l’intero mondo. Molte volte tentarono di estinguere l’incendio, ma questo era sceso ormai troppo in profondità, e nessuno sapeva che cosa fare. Finalmente un capo disse che l’unico in grado di spegnere il fuoco era l’Uomo del Gelo, che viveva in una casa di ghiaccio molto lontano a nord. Il capo convocò il popolo a concilio per scegliere due messaggeri che andassero al nord a cercare l’Uomo del Gelo. Dopo un lungo viaggio i due messaggeri trovarono l’Uomo del Gelo. Era molto vecchio, con lunghi capelli annodati in due trecce che gli scendevano fino a terra. I messaggeri gli spiegarono perché erano venuti a chiedere il suo aiuto. «Sì,» rispose l’Uomo del Gelo «io posso aiutarvi a spegnere quell’incendio.» E cominciò a disfare le lunghe trecce. Quando ebbe finito, prese una ciocca di capelli in una mano e la batté sull’altra mano, e i messaggeri sentirono un vento gelido soffiare sui loro visi. Ancora una volta il vecchio batté i capelli sulla mano aperta, e cominciò a cadere una leggera pioggia. Per la terza volta batté i capelli contro la mano aperta, e piccoli chicchi di grandine risonarono sul terreno, e quando batté per la quarta volta cominciò a cadere fitta la neve, e pareva che i fiocchi uscissero dalle punte dei suoi capelli. «Tornate al vostro villaggio» disse l’Uomo del Gelo. «Sarò da voi fra pochi giorni.» I messaggeri tornarono in fretta alla loro gente, che era ancora raccolta, impotente, attorno alla grande buca incandescente. Pochi giorni dopo, mentre tutti sorvegliavano impauriti l’incendio, prese a soffiare un forte vento da nord, ed essi seppero che veniva dall’Uomo del Gelo. Ma il vento non fece altro che ravvivare il fuoco. Poi cominciò a cadere una pioggia sottile, ma sembrava che le gocce rendessero il fuoco più caldo, facendone scaturire vapori bollenti. Poi la pioggerella si mutò in una violenta grandinata che smorzò le fiamme ma fece sprigionare dalle rosse braci nuvole di fumo. Mentre le persone fuggivano a ripararsi nelle loro case, la bufera divenne un turbine che scagliò infiniti fiocchi di neve in tutti i crepacci infocati e coprì


le braci con una coltre bianca fino a che il fuoco non fu veramente morto. Allora, nella buca scavata dall’incendio non si vide più nemmeno un filo di fumo. Quando alla fine la bufera cessò, la gente ritornò e al posto della grande buca infocata trovò un laghetto. Oggi alcuni, sui Grandi Monti Fumosi, dicono che sotto le acque del laghetto si può ancora udire il crepitio di carboni ardenti.


L’Uomo del Gelo e il Messaggero della Primavera (Chippewa) L’Uomo del Gelo stava seduto nel suo wigwam di corteccia di betulla accanto a un ruscello ghiacciato. Il suo fuoco era quasi spento. L’Uomo era molto vecchio e molto triste e i suoi capelli erano lunghi e bianchi. Si sentiva solo, e giorno dopo giorno non udiva altro che gli urli delle bufere invernali che spargevano neve dappertutto. Un giorno, mentre il suo fuoco si consumava nell’ultima brace arancione, l’Uomo del Gelo vide un giovane avvicinarsi al suo wigwam. Il ragazzo aveva le guance rosse, gli occhi lustri di piacere, e sorrideva. Il suo passo era lieve e rapido. Intorno al capo portava una corona d’erba dolce e in mano aveva un mazzo di fiori. «Vieni dentro, vieni dentro» lo invitò l’Uomo del Gelo. «Sono lieto di vederti. Dimmi perché sei qui.» «Sono un messaggero» rispose il giovane. «Ah, allora ti parlerò dei miei poteri» disse l’Uomo del Gelo. «Delle meraviglie che so operare. E tu farai altrettanto.» Dal suo involto delle magie il Vecchio trasse una pipa splendidamente intagliata e la riempì di foglie aromatiche. L’accese con uno degli ultimi tizzoni del fuoco morente, soffiò fumo nelle quattro direzioni e quindi porse la pipa al giovane straniero. Dopo che la cerimonia della pipa fu conclusa, l’Uomo del Gelo disse: «Quando soffio il mio fiato, i ruscelli si fermano e l’acqua diventa dura e chiara come cristallo». «Quando respiro io» rispose il giovane «spuntano fiori su tutta la terra.» «Quando scuoto i miei lunghi capelli bianchi,» aggiunse il Vecchio «la neve ricopre la terra. Al mio comando le foglie diventano brune e cadono dagli alberi e il mio soffio le fa volar via. Gli uccelli acquatici si alzano dai laghi e migrano verso terre lontane. Gli animali cercano rifugio dal mio respiro e la stessa terra diventa dura come selce.» Il giovane sorrise. «Quando io scuoto la chioma,» disse «tiepide gocce di morbida pioggia cadono sulla terra. Le piante sollevano il capo gioiose. Il mio fiato fa sciogliere i ruscelli ghiacciati. Con la mia voce richiamo gli uccelli e dovunque io cammini, nei boschi, la loro musica riempie l’aria.» E mentre il giovane stava ancora parlando, il sole salì più alto nel cielo e un gentile calore avvolse tutto il luogo. L’Uomo del Gelo restò seduto in silenzio e ascoltò un pettirosso e un uccello azzurro cantare proprio sopra il suo wigwam. Fuori, i ruscelli ricominciarono a scorrere e la fragranza dei


fiori si sparse sulle ali della brezza di primavera. Il giovane guardò l’Uomo del Gelo e vide lacrime scorrergli dagli occhi. A mano a mano che il sole riscaldava il wigwam, il Vecchio divenne sempre più piccolo, le lacrime scesero più copiose, e alla fine egli scomparve. Nulla restò del suo fuoco. Al suo posto c’era un fiorellino bianco con il bordo rosa, quello che la gente chiama Bellezza di Primavera perché è tra le prime piante che annunciano la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.


I primi contatti con gli Europei La maggior parte delle tribù indiane d’America possiede almeno una leggenda che si riferisce al primo incontro con la gente di pelle chiara venuta dall’Europa, e le tre storie che seguono sono tra le più significative. Attraverso le molte generazioni che le trasmisero oralmente esse hanno assunto carattere mitico e possono non avere più alcuna somiglianza con gli eventi reali. Non era insolito che i primi esploratori della costa atlantica americana riportassero in Europa, con la forza o con l’inganno, degli indiani. Se gli avvenimenti narrati nella storia di Ioscoda siano veramente accaduti agli Ottawa – che risiedevano a grande distanza dalla costa – o a qualche altra tribù più orientale, non possiamo dirlo. La storia potrebbe essere passata da una tribù all’altra. Il racconto di Katlian e della Gente di Ferro si basa su fatti registrati che accaddero quando Aleksandr Baranof cercò di fondare una colonia in Alaska al principio del XIX secolo, ma il resoconto russo differisce notevolmente dalla narrazione tramandataci dai Tlingit. La leggenda Cheyenne circa l’arrivo del primo uomo bianco sicuramente trae origine dall’epoca dei primi mercanti di pellicce francesi. A tale riguardo è utile rifarsi agli ammonimenti del profeta Cheyenne Motzeyouf (pp. 53 – 68), evidentemente dimenticati quel giorno d’estate in cui un cacciatore di pellicce affamato capitò nell’accampamento degli Cheyenne oltre il fiume Missouri.


Come Ioscoda e i suoi amici incontrarono gli Uomini Bianchi venuti da oriente e viaggiarono attraverso le Grandi Acque (Ottawa) Una mattina prima dell’aurora, Ioscoda e cinque suoi giovani amici lasciarono il loro villaggio Ottawa e andarono a caccia con archi e frecce. Attraversarono una foresta e raggiunsero la cima di un alto costone proprio mentre il sole spuntava dall’oriente. L’aria era così limpida che il sole sembrava a poca distanza da loro. «Com’è vicino, il sole» osservò uno dei ragazzi. «Non può esser lontano» convenne Ioscoda. «Se verrete con me, troveremo il luogo dove dorme.» «Sì, sì» accettarono tutti con entusiasmo. Anche il più giovane dei ragazzi voleva partecipare alla spedizione. «Sei troppo giovane» gli dissero gli altri. «Se non mi farete venire con voi,» replicò il più giovane «dirò alle vostre famiglie quello che volete fare.» «Puoi venire con noi,» disse Ioscoda «ma non parlarne con nessuno.» Per parecchi giorni si prepararono al viaggio. Ciascun ragazzo raccolse frecce, provviste di carne secca, mocassini di riserva e quanti pezzi di pelle conciata poté che fosse adatta a servire da indumento. Trovarono un luogo asciutto nel folto della foresta e vi nascosero queste cose. Si servirono di quello stesso luogo per riunirsi segretamente e fare i loro progetti. Infine furono pronti a intraprendere l’impresa. Il mattino prescelto per la partenza, ciascun giovane lasciò il villaggio in una direzione diversa, ma presto si ritrovarono nel luogo di convegno segreto dentro la foresta. Caricarono in spalla le cose predisposte e si posero in marcia verso oriente. Andarono per giorni e giorni e ogni mattino, non appena desti, volgevano la faccia verso il sole nascente, eppure questo sembrava sempre trovarsi alla stessa distanza da loro. Alcuni si persero di coraggio e volevano tornare indietro, ma Ioscoda era fiducioso. «Se continuiamo ad andare verso oriente» diceva «o prima o poi arriveremo alla casa del sole.» Una mattina trovarono un sottile strato di ghiaccio lungo il bordo del ruscello presso cui si erano accampati per la notte. «Sta arrivando il freddo» notò il più giovane «e noi non abbiamo più carne secca. Penso che dovremmo costruirci un rifugio per l’inverno e passare il tempo cacciando.» Ioscoda non volle sentirne parlare. «Ci fermeremo solo il tempo necessario per uccidere un cervo» replicò. «Poi riprenderemo la marcia verso


il sole nascente.» Il giorno dopo giunsero a un grande fiume che scorreva verso oriente e ne seguirono la riva. Un tardo pomeriggio giunsero a un’alta duna di sabbia e, arrampicatisi attraverso una macchia di alberi contorti e piegati dal vento, videro una vasta distesa azzurra. Non si scorgeva terra all’orizzonte. Scesero fino all’orlo di quelle Grandi Acque. Due dei ragazzi si chinarono a bere. Non appena ebbero succhiato l’acqua in bocca la sputarono. «È salata» protestò uno di loro. Erano arrivati alla riva di un Grande Oceano. Si accamparono sulla spiaggia per la notte, e all’alba quando si svegliarono videro sorgere il sole come se uscisse dalla profondità delle acque. Con loro grande disappunto, appariva alla stessa distanza di sempre. Prima di levare il campo, tennero concilio per decidere se tornare o no al loro villaggio. «E’ vero» disse Ioscoda «che la casa del sole è al di là di questa grande acqua, ma non dobbiamo abbandonare la nostra impresa. Se cammineremo tutt’intorno alla sponda finiremo certamente col trovare il luogo che cerchiamo.» Tutti concordarono di proseguire ed egli li guidò a nord finché giunsero alla bocca del grande fiume5 che avevano seguito verso oriente. «Dobbiamo costruirci una barca» disse Ioscoda. Si accamparono e raccolsero quanta più legna poterono finché cadde l’oscurità. Ioscoda trascorse una notte inquieta, e il mattino seguente disse ai suoi compagni che un Manito, uno spirito buono, era venuto a lui in sogno. «Il Manito mi ha detto che dobbiamo andare a sud. A breve distanza dal luogo in cui ci accampammo sulla spiaggia c’è un fiume con rive alte. Dobbiamo andare là e vigilare alla sua foce finché non vedremo un’isola muoversi nel Grande Oceano. Il Manito mi ha detto che l’isola verrà a noi e che, se noi vi saliremo sopra, ci porterà al luogo dove nasce il sole.» I giovani ripercorsero il cammino fatto e a tarda sera raggiunsero un alto promontorio oltre il quale trovarono un fiume che si gettava nell’Oceano. Si accamparono e il mattino seguente videro il sole sorgere ancora dall’acqua. «Aspetteremo qui l’isola» disse Ioscoda. «Sì» assentì in tono scettico uno dei suoi amici. «Vedremo se quello che ti fu detto in sogno si avvererà.» Ioscoda si arrampicò sul punto più alto e tenne gli occhi fissi sul mare. Verso mezzogiorno gridò: «Eccola! Eccola!». Tutti lo raggiunsero correndo e videro qualcosa che poteva anche essere un’isola avanzare in direzione della foce del fiume. Quando fu più vicina, scorsero degli esseri stranamente vestiti che si aggiravano su di essa. «Quello era un cattivo Manito!» urlò il ragazzo più giovane. «Corriamo a nasconderci nei boschi!» «No, no» replicò subito Ioscoda. «Stiamo qui a vedere.»


Videro qualcosa tuffarsi nell’acqua sul fianco dell’isola, e questa fermarsi. Ormai era abbastanza vicina perché potessero distinguere tre alberi messi in fila che si alzavano su di essa. Questi alberi erano senza corteccia e, anziché foglie, dai loro rami pendevano enormi pezzi di stoffa. Una piccola barca fu quindi abbassata sul fianco dell’isola e mentre si avvicinava essi videro dei bastoni appiattiti muoversi su entrambi i lati della barca, come le ali di una strolaga nell’aria quieta. La barca penetrò nella bocca del fiume. Alcuni dei ragazzi si misero a scappare. «Tornate indietro!» ordinò Ioscoda. «Ci possiamo nascondere in questo anfratto fra le rocce. Dobbiamo vedere di che cosa si tratta.» Poco dopo che si furono acquattati, udirono ripetuti colpi e quindi lo schianto di un albero che cadeva. Udirono anche uno scricchiolio di passi e improvvisamente un uomo apparve su di loro profilandosi contro il cielo. La sua pelle era chiara e sulla parte inferiore del viso gli crescevano peli. Portava uno strano cappello e strani abiti, quali loro non avevano mai visto, e li fissava. E loro fissavano lui con meraviglia. Dopo pochi istanti lo straniero mosse qualche passo avanti protendendo una mano aperta. Ioscoda prese la mano dello straniero e la strinse. L’uomo parlò e Ioscoda rispose, ma nessuno dei due capiva le parole dell’altro. Poi l’uomo si volse e chiamò i suoi compagni. Parecchi altri uomini stranamente abbigliati si avvicinarono. Ridevano e chiacchieravano, ma i giovani non capivano quello che si dicevano. Essendo impossibile intendersi con le parole, gli stranieri additarono la piccola barca e la grande barca che Ioscoda e i suoi amici avevano pensato fosse un’isola. Gli uomini fecero segni di invito rivolti ai giovani perché andassero con loro. «Andiamo» disse Ioscoda del tutto tranquillo. «È proprio come mi ha detto in sogno il Manito.» Seguirono gli stranieri fino alla piccola barca che era stata caricata di legname e presto si trovarono a balzare sulle onde in direzione della grande barca. Gli uomini la chiamavano nave. Quando la barca si avvicinò al fianco della nave, dozzine di strane facce li scrutarono dall’alto. Uno parlò. più forte degli altri, e sembrava essere il capo. Fece cenno ai ragazzi di salire una scala di corda. Appena furono sul ponte, l’uomo, che gli altri chiamavano Capitano, li condusse giù da una scaletta di legno e diede loro del cibo. Li trattò con grande cortesia. Poi risalirono sul ponte e videro sulle loro teste le vele tutte gonfie, mentre la nave correva rapida sull’acqua. La terra che avevano lasciato stava già scomparendo in lontananza. Quella notte e il giorno seguente Ioscoda e la


maggior parte dei suoi amici soffrirono molto a causa del movimento della nave, ma poi si ripresero. Col passare dei giorni, impararono a capire e a dire alcune delle parole usate dagli stranieri e insegnarono loro alcune delle parole del popolo Ottawa. Un giorno un uomo su uno degli alti alberi della nave - quelli che il giovane a prima vista aveva creduto fossero piante – disse a gran voce: «Terra! Terra!». Subito dopo il capitano li portò in una cabina e mostrò loro indumenti simili a quelli che indossava lui stesso. A segni, li invitò a cambiare i loro logori indumenti di pelle con gli altri. Ioscoda conosceva ormai abbastanza della lingua del Capitano per domandargli la ragione di quella richiesta. «Per coprire le vostre nudità» rispose il Capitano, e indicò le loro gambe nude. «Stiamo arrivando al mio paese, e il mio re sarà contrariato se i vostri corpi non saranno convenientemente coperti.» Mentre la nave risaliva il corso di un fiume, videro lungo le rive di questo molte case fatte di pietra. Passarono accanto ad altre navi. Su una di esse sventolavano bandiere e sul suo ponte si vedevano oggetti neri a forma di tronchi. Improvvisamente uno di questi vomitò fumo e un rumore simile al tuono spaventò Ioscoda e i suoi amici. «Cannoni» spiegò tranquillo il Capitano, indicando i grossi oggetti neri disposti sul ponte dell’altra nave. «Salutano il nostro ritorno da un lungo viaggio.» Quando la nave attraccò, il Capitano li condusse a una grande casa non lontana e li precedette lungo dei gradini fino a una stanza arredata con un letto e vari altri oggetti strani che disse destinati a loro. Portò loro da mangiare e da bere. «Starete qui fino a mattina» disse il Capitano. «Poi vi porterò dal Re.» Ioscoda e i suoi amici dormirono molto poco quella notte. Fino a buio stettero chini alla finestra a guardare la gente che passava avanti e indietro; di tanto in tanto videro anche dei grossi animali, più grossi degli alci, i cui piedi rimbombavano sulle pietre della strada. Ogni tanto passava un uomo in groppa a uno di questi animali che avevano zoccoli; altri erano legati con strisce di cuoio a cose simili a slitte, con la differenza che correvano su ruote. La mattina dopo, il Capitano venne, li fece uscire e insegnò loro come montare su una di quelle slitte con le ruote. C’erano sedili ed era foderata di pelle. Corsero sulle pietre della strada quasi alla stessa velocità con cui avevano viaggiato con la nave. Dopo un po’ la carrozza si fermò e due uomini vestiti con abiti di colori sgargianti li aiutarono a scendere davanti alla più grande casa che avessero mai veduta. Seguirono i due uomini e il Capitano all’interno, dove pendevano dall’alto oggetti scintillanti. Furono quindi introdotti in una grande e


splendida sala dove li aspettava un uomo seduto in una grande sedia decorata con molti pezzi di metallo sfavillante. Il Capitano chiamò quell’uomo Re, e Ioscoda intuì che dovesse essere il capo di tutto quel popolo. Il Capitano si inchinò infatti davanti a lui e fece cenno ai giovani di fare altrettanto. «Diamo il benvenuto a questi giovani stranieri nella nostra terra» disse il Re. E poi parlò in fretta al Capitano. Per quel poco che Ioscoda riuscì a capire, il Re domandò se gli indiani erano venuti di loro volontà o se erano stati costretti a salire sulla nave. Il Capitano assicurò al Re che i ragazzi vi erano saliti spontaneamente. «Ah» disse il Re. «E dove pensavate di andare, voi giovanotti?» «Andavamo verso oriente» rispose Ioscoda «per trovare il luogo dove dorme il sole.» Usando gesti e le poche parole che aveva imparato, riuscì presto a farsi intendere dal Re. «Fare una cosa simile è impossibile» disse il Re. «Non potrete mai trovare quel luogo.» Ioscoda chinò il capo per un momento. «Padre mio,» disse al Re «siamo arrivati fino a questo punto nel nostro lungo viaggio e proseguiremo. Abbiamo consacrato la nostra vita a questa impresa.» Il Re sorrise al ragazzo e poi batté le mani e mandò uno degli uomini vestiti con abiti dai colori sgargianti fuori della stanza. «Io ti prego» continuò Ioscoda «di non impedirci di continuare il nostro viaggio.» Il Re assentì, sempre sorridendo, finché il cortigiano che aveva lasciato la sala ritornò con carichi di doni per i giovani. Il Re porse loro questi doni, osservando che avrebbe voluto vederli ancora prima che lasciassero il suo paese e quindi augurò loro una buona giornata. Quella notte gli amici di Ioscoda tennero concilio nella loro stanza alla locanda. «Io sono pronto a tornare a casa» disse il ragazzo più giovane. «I miei occhi hanno sete di verdi foreste e di fiumi, di animali e del canto degli uccelli. Ho voglia di vedere le facce della mia gente.» Un altro si dichiarò d’accordo. «Non siamo adatti a luoghi come questo. Se dovremo passare attraverso città di pietra piene di stranieri, non vivremo fino a vedere la casa del sole.» «Le nostre famiglie crederanno che siamo morti nella foresta» disse un altro. «Ci piangeranno per morti.» «Io non voglio abbandonare l’impresa» disse Ioscoda. «Domani andremo di nuovo dal capo di questa gente, quello che chiamano Re, e gli chiederemo un consiglio.» «È un uomo gentile» disse il ragazzo più giovane. «È un uomo saggio. Ha detto che non potremo mai trovare il luogo del sole.»


Il viso di Ioscoda si rattristò. «Forse ha ragione» disse. «Forse no.» La mattina dopo il Re li ricevette di nuovo nel suo palazzo. Quando Ioscoda gli chiese di consigliargli se continuare o no la loro ricerca, il Re lodò il coraggio e la fermezza di cui davano prova e li chiamò giovani cavalieri. «Fra un giorno o due» disse «una delle mie navi salperà per il vostro paese. La nave vi riporterà a casa. Questo è il mio consiglio.» Ioscoda gettò uno sguardo ai visi dei compagni e vide il desiderio nei loro occhi quando ebbero compreso le parole del Re. E così Ioscoda si rassegnò. Disse al Re che sarebbero andati su quella nave. Parecchie lune più tardi, dopo che la nave li ebbe sbarcati alla bocca del fiume dove avevano incontrato per la prima volta gli stranieri dalla pelle chiara, Ioscoda e i suoi amici risalirono l’alto promontorio e attraverso la foresta tornarono al loro villaggio. Dopo pochi minuti, sparsasi la notizia, ebbe inizio una festa che durò fino a notte fonda. Le loro famiglie e gli amici si rallegrarono, avendoli già da lungo tempo dati per morti, e il racconto che i giovani fecero delle avventure vissute diede loro grande fama. Tutti furono felici, tranne Ioscoda. Ogni mattina egli si alzava prima dell’alba e camminava fino all’alto costone per guardare a oriente e osservare il sole sorgere dalla terra. Un giorno, ripeteva a se stesso, avrebbe ripreso la ricerca e trovato il luogo dove dorme il sole.


Katlian e la Gente di Ferro (Tlingit) Quando i Russi, la Gente di Ferro, vennero in Alaska in barche molto più grandi delle canoe, avevano armi che fumavano e facevano il rumore del tuono. E sulle imbarcazioni avevano armi più grosse che scagliavano palle di ferro capaci di fare a pezzi gli alberi. Messo di fronte a questa grande forza, Katlian, il capo dei Tlingit dell’isola di Sitka, diede ai Russi tutte le pellicce e le pelli e le altre cose che chiedevano. Benché la Gente di Ferro non se ne andasse, per un certo tempo vi fu pace fra i Tlingit e gli stranieri barbuti. I Tlingit scambiavano pelli con le armi tonanti e le cartucce, e impararono a uccidere gli animali con queste armi portate dalla Gente di Ferro. Dopo un po’ gli stranieri costruirono un villaggio fatto di case lungo l’insenatura e vi fecero venire le loro famiglie da quella terra lontana al di là di dove tramonta il sole. Un giorno il nipote di Katlian visitò il villaggio e vide la figlia di uno della Gente di Ferro. Se ne innamorò. La seguì nella casa dove abitava e cercò di comprarla con delle pellicce, ma il padre della ragazza lo scacciò adirato. Quando il nipote di Katlian tentò di rubare la ragazza, la Gente di Ferro lo uccise. Questo nipote era come un figlio per Katlian, e alla prima occasione il capo uccise il figlio di uno della Gente di Ferro. Baranof, il capo di costoro, mandò a dire a Katlian di andare a consegnarsi prigioniero, oppure tutti i Tlingit di Sitka sarebbero stati uccisi dalle armi che fumavano e scagliavano pezzi di metallo. Katlian radunò il suo popolo e iniziarono a costruire muri fatti con tronchi di cedro. Costruirono case entro questi muri e accumularono lastre di pietra fra i cedri e i muri delle case. Poco dopo la Gente di Ferro venne con un’imbarcazione per distruggerli. Dieci volte fecero fuoco con le grosse armi che scagliavano palle di ferro contro le mura di cedro e di pietra. Il loro capo Baranof, dalla grossa barca, chiamò Katlian intimandogli di arrendersi, ma Katlian urlò di rimando che non poteva far questo. La Gente di Ferro allora scagliò altre palle di metallo contro le mura fatte di cedro e pietra. Dopo che ebbero seguitato a questo modo per un certo tempo, gli stranieri scesero dalla grande barca su tre barche piccole e vennero sulla spiaggia portando fucili con baionette. Katlian guidò i suoi contro gli stranieri, e mentre questi facevano fuoco solo quando glielo ordinavano, i Tlingit facevano fuoco sul gruppo di stranieri molte volte, gettando subito via i bossoli e facendo di nuovo fuoco. Uccisero così molti stranieri. Solo quelli che erano rimasti a guardia delle barche ritornarono alla grande barca da


guerra, che presto se ne andò. Per due lune i Tlingit lavorarono a rendere più solida la loro piccola fortificazione, e poi tornò la Gente di Ferro con due grandi barche da guerra. Questa volta essi spararono ai cedri e alle pietre da due direzioni diverse. Quindi Baranof gridò: «Katlian, sei ancora vivo?». «Sì» rispose il capo. «Non ho paura delle grosse armi che usi contro di me.» Di nuovo le grosse armi tuonarono, e ancora la Gente di Ferro venne a riva sulle barche. Ancora una volta, Katlian guidò i Tlingit contro gli invasori, e questa volta ne uccisero moltissimi e presero i loro fucili e i vestiti e i cappelli di ferro e le spade. I due vascelli da guerra ripartirono. Dopo che fu trascorso un certo tempo, la Gente di Ferro tornò con una barca più piccola che inalberava bianche bandiere di tregua. Senza armi di alcun genere, Baranof venne a riva sotto una bandiera di pace. «Katlian,» chiamò «sei ancora vivo?» Katlian uscì dalla fortificazione. Non portava armi. «Sì» rispose. «Sono ancora vivo. Ho vinto. Ora puoi anche uccidermi.» «Ti porto dei doni» disse Baranof. E diede a Katlian vestiti, cibo, rum e cartucce. Dopo quella volta, la Gente di Ferro non molestò più i Tlingit di Sitka.


Come i primi Uomini Bianchi arrivarono dagli Cheyenne (Cheyenne) In un’estate di molto tempo fa, gli Cheyenne erano accampati presso certi laghi oltre il Fiume Missouri. Un mattino, usciti dal sonno, Aquila Rossa e sua moglie videro una strana creatura coricata nel loro tepee. La donna, spaventata, stava per mettersi a urlare, ma Aquila Rossa la tranquillizzò e si avvicinò a quello strano essere che stava lentamente tentando di mettersi a sedere. Aquila Rossa vide che la creatura era un uomo, abbastanza simile nell’aspetto a uno Cheyenne, ma con la pelle bianca e peli sul viso, e che parlava in un modo incomprensibile. L’uomo era tanto magro da non avere praticamente carne sulle ossa e indossava solo, a mo’ di veste, erba e muschio. Era molto prossimo a morire. Aquila Rossa gli diede qualcosa da mangiare, ma l’uomo era così esausto che il suo stomaco non poteva reggere il cibo. Dopo poco tempo, tuttavia, ritrovò le forze. Aquila Rossa pregò la moglie di tener segreta la presenza dello straniero. Temeva infatti che qualcuno della tribù lo uccidesse, credendo che potesse portare sfortuna. Qualche giorno più tardi i capi mandarono in giro un banditore ad annunciare che gli Cheyenne avrebbero levato il campo l’indomani. Rendendosi conto che non sarebbe più stato possibile tener nascosto lo straniero, Aquila Rossa ne rivelò la presenza. «L’ho preso con me come fratello» spiegò. «Se qualcuno gli farà del male, lo punirò. Il Grande Spirito ci avrà certo mandato quest’uomo per qualche buona ragione.» E così Aquila Rossa lo vestì, lo nutrì e lo riportò alla vita. Dopo qualche tempo l’uomo imparò a dire qualche parola in lingua Cheyenne, e imparò anche il linguaggio a segni della tribù. Così fu in grado di raccontare ad Aquila Rossa che veniva da oriente, dalla terra dove nasce il sole. «Con altri sette uomini partii per metter trappole ai castori. Eravamo su un lago, in una barca, quando all’improvviso il vento salì, fece capovolgere la barca e tutti gli altri annegarono. Raggiunta a fatica la riva, vagai sperduto, nutrendomi di bacche e di radici finché tutti i miei indumenti furono logori e stracciati. Mezzo cieco e quasi morto di fame, entrai per caso nel vostro accampamento e caddi esausto nel tuo tepee.» Più di cento volte lo straniero ringraziò Aquila Rossa per avergli salvato la vita, e poi continuò: «Da molti giorni vedo quanto duramente tu e la tua gente lavorate. Per fare il fuoco dovete usare due bastoni. Tua moglie si serve degli aculei del porcospino per cucire. Usa recipienti di pietra per cucinare e


tu adoperi coltelli di pietra e punte di pietra per i giavellotti e le frecce. Il mio popolo, che è potente e numeroso, ha molte cose meravigliose che gli Cheyenne non hanno». «Che cosa sono queste cose meravigliose?» domandò Aquila Rossa. «Aghi che non si spuntano mai con cui tua moglie potrebbe cucire. Coltelli di metallo affilato con cui tagliare, acciarini con cui fare il fuoco, e un’arma che si carica con una polvere nera e scaglia duri pezzi di metallo dritti contro tutta la selvaggina di cui hai bisogno. Io posso portarti queste cose, se tu e il tuo popolo mi aiuterete a procurarmi pellicce di castoro. Il mio popolo ama le pellicce di castoro e in cambio mi darà per voi queste cose meravigliose.» Aquila Rossa riferì a quelli della sua tribù ciò che gli aveva detto lo straniero, ed essi raccolsero per lui molte pellicce di castoro. Le pellicce furono caricate su vari travois trainati da cani e un giorno lo straniero se ne andò verso il sole nascente con il suo carico di pellicce portato dai cani. Passarono parecchie lune e Aquila Rossa cominciò a chiedersi se lo straniero sarebbe mai tornato. Poi, una mattina di sole splendente, gli Cheyenne udirono vicino al loro campo un rumore simile allo scoppio di un fulmine. Su uno sperone di roccia, a oriente, videro un uomo che indossava un berretto e una giacca rossi. Portava alta sulla testa una strana arma simile a un bastone nero, e lanciò loro un saluto nella loro lingua. Quando si avvicinò, essi riconobbero in lui lo straniero che era andato via con le pellicce di castoro. Aveva portato agli Cheyenne tutte le cose meravigliose di cui aveva parlato – coltelli, aghi di metallo e acciarini – e mostrò loro come usarle. Poi fece loro vedere la polvere nera e il ferro forato con cui aveva fatto un rumore simile allo scoppio di un fulmine. Fu così che i primi Uomini Bianchi arrivarono dagli Cheyenne.


L’arrivo del cavallo Poiché i cavalli restarono sconosciuti agli indiani finché i bianchi non li portarono dall’Europa, le storie relative alle origini di questo importante animale sono tra le meno antiche. I Navaho e gli Apache furono le prime tribù a possedere cavalli, e le loro leggende narrano come il Sole e altri dei del Mondo Superiore li abbiano plasmati con argilla colorata lasciandoli poi andare liberi sulla terra. I narratori delle tribù Shoshone e Piedi Neri dicevano che il cavallo era un animale subacqueo (e credevano che anche i primi uomini bianchi fossero venuti di sott’acqua). Secondo un mito, gli Shoshone catturarono una donna dei Piedi Neri e la legarono a un palo sul fondo di un lago inaridito. Poco dopo un’alluvione colmò il lago, e quando l’acqua si fu ritirata la donna non c’era più, ma il fondo del lago era pieno di cavalli. Gli Shoshone li catturarono, e così ebbero inizio i cavalli. Ecco due storie dei Piedi Neri sull’origine del cavallo.


Come un guerriero Piegan trovò i primi cavalli (Piedi Neri) Tanto tempo fa un guerriero della tribù dei Piedi Neri Piegan sognò di un lago lontano dove vivevano grossi animali. Nel sogno una voce gli disse che quegli animali erano innocui e che egli avrebbe potuto servirsene per trainare i travois e per portare some come gli indiani allora usavano fare con i cani. «Vai a questo lago» gli disse la voce nel sogno «e portati una corda in modo da poter catturare questi animali.» Quando il Piegan si svegliò, prese una lunga corda fatta di strisce di pelle di bisonte maschio e percorse a piedi molte miglia finché arrivò alla riva del lago sognato. Lì scavò una buca nella spiaggia sabbiosa e vi si nascose. Spiando cautamente fuori, vide molti animali che venivano al lago ad abbeverarsi. Cervi, coyote, alci, bisonti venivano a placare la loro sete. Dopo un po’, incominciò a soffiare il vento. Le onde si gonfiarono sul lago e cominciarono a rotolare sulla spiaggia fra il sibilo del vento. Allora apparve davanti a lui un branco di grossi animali, diversi da tutti quelli che aveva visto prima: erano grandi come alci, avevano orecchie piccole, e lunghe code che scendevano fino a terra. Alcuni erano bianchi, altri neri e altri ancora rossi chiazzati. I giovani erano più piccoli degli altri. Quando raggiunsero la sponda del lago e abbassarono la testa per bere, la voce che il guerriero aveva sentito in sogno gli bisbigliò: «Getta la corda e catturane uno». Così il Piegan gettò la corda e prese uno degli animali più grandi. Questo lottò e tirò trascinando di qua e di là il guerriero, che non aveva forze sufficienti per trattenerlo. Alla fine la bestia gli strappò la corda di mano e tutto il branco corse nel lago e vi si immerse scomparendo alla vista. Molto triste, il Piegan ritornò al suo accampamento, entrò nel proprio tepee e pregò chiedendo aiuto alla voce del sogno. La voce gli rispose: «Quattro volte puoi tentare di catturare quegli animali, ma se anche la quarta volta fallirai non li vedrai mai più». Quella sera, prima di addormentarsi, il Piegan chiese al Vecchio di aiutarlo e mentre dormiva il Vecchio gli disse che lui, il Piegan, non era abbastanza forte per prendere un animale di quelli grandi. «Tenta con uno giovane» gli disse il Vecchio «e vedrai che potrai tenerlo.» La mattina dopo il Piegan si recò di nuovo sulla riva del grande lago e di nuovo scavò una buca nella sabbia dove stette nascosto mentre cervi, coyote, alci e bisonti venivano ad abbeverarsi. E di nuovo alla fine il vento prese a soffiare e le onde a gonfiarsi e ad abbattersi fischiando sulla riva. Allora arrivò il branco di quegli strani animali per abbeverarsi, e di nuovo il Piegan


lanciò la corda. Questa volta prese un animale giovane e riuscì a trattenerlo. A uno a uno catturò tutti i giovani del branco e li portò al suo accampamento. Erano da poco arrivati che anche le femmine, le madri dei puledri, entrarono trottando nell’accampamento. Le loro mammelle erano gonfie di latte per i puledri. Poco dopo, gli stalloni del branco seguirono anch’essi le femmine entro il campo. Dapprima i Piegan ebbero un po’ paura di quegli animali nuovi per loro e non osavano avvicinarli, ma il guerriero che aveva catturato i puledri disse a tutti che non avrebbero fatto loro alcun male. Dopo un po’ di tempo, gli animali si ammansirono e divennero domestici a tal punto che presero a seguire i Piegan dovunque andassero e si trasferissero con l’accampamento. Poi i Piegan incominciarono a mettere some sulle loro groppe e chiamarono quegli animali, po-no-kah-mita, cioè cani alci, poiché erano grandi e conformati come l’alce e sapevano portare carichi come i cani. Fu così che i Piedi Neri Piegan ebbero i loro cavalli.


Il dono dei cavalli dello Spirito dell’Acqua (Piedi Neri) Nei tempi prima dei cavalli, viveva tra i Piedi Neri un povero ragazzo orfano. Poiché era così povero, sapeva che non avrebbe mai potuto avere le cose che desiderava senza i segreti poteri degli dei. Un giorno lasciò il suo accampamento alla ricerca di una visione che gli dicesse che cosa doveva fare. Dormì in solitudine su un’alta montagna, pregò vicino a certe grandi rocce, digiunò presso un fiume, ma non gli giunse nessuna visione, nessuna voce gli parlò. Andò oltre le Colline dell’Erba Dolce, fino a un grande lago, e poiché nessun segno gli si era manifestato, si chinò e pianse. In quel lago viveva un potente Spirito dell’Acqua, un uomo molto vecchio, che udì il pianto del povero orfano. Lo Spirito dell’Acqua mandò il suo giovane figlio a cercare il ragazzo e a domandargli perché piangesse. Il figlio andò dal ragazzo piangente e gli disse che suo padre, che viveva nel lago, desiderava vederlo. «Ma come posso andare da lui se vive sotto il lago?» domandò il povero ragazzo. «Reggiti alle mie spalle e chiudi gli occhi» gli disse il figlio dello Spirito dell’Acqua «e non guardare finché non te lo dico io.» Cominciarono a scendere nell’acqua. Mentre andavano, il figlio dello Spirito dell’Acqua disse al ragazzo: «Mio padre ti offrirà di scegliere fra tutti gli animali di questo lago. Quando lo farà, assicurati di scegliere l’anatra più vecchia e tutti i suoi piccoli». Appena furono arrivati alla casa sommersa dello Spirito dell’Acqua, il figlio disse al ragazzo di aprire gli occhi. Così egli fece, e si trovò davanti a un vecchio dai lunghi capelli bianchi. «Siedi accanto a me» disse lo Spirito dell’Acqua, e poi domandò: «Ragazzo mio, perché sei venuto piangendo a questo lago?». «Sono un povero orfano» rispose il ragazzo. «Ho lasciato il mio accampamento per cercare i segreti poteri ed essere in grado di farmi strada nel mondo.» «Forse posso aiutarti» disse lo Spirito dell’Acqua. «Tu hai visto tutti gli animali di questo lago. Sono miei e posso darli a chi voglio. Qual è la tua scelta?» Ricordando il consiglio del figlio dello Spirito dell’Acqua, il ragazzo rispose: «Ti ringrazierei se tu mi dessi l’anatra più vecchia e tutti i suoi piccoli». «Non prendere quella» disse lo Spirito dell’Acqua scuotendo il capo. «È vecchia e di nessun valore.»


Ma il ragazzo insisté. Quattro volte chiese l’anatra e allora lo Spirito dell’Acqua sorrise e disse: «Sei un giovane saggio. Quando lascerai la mia dimora, mio figlio ti porterà fino alla riva del lago. Quando farà buio catturerà l’anatra per te. Ma quando lascerai il lago non dovrai guardarti indietro». Il ragazzo fece quanto gli era stato detto. Il figlio dello Spirito dell’Acqua raccolse un po’ d’erba palustre sulla riva del lago e ne fece una corda. Con questa corda prese la vecchia anatra e la trasse a riva. Mise la corda in mano al ragazzo e gli disse di incamminarsi, ma di non guardarsi indietro fino al sorgere del sole. Mentre camminava verso il suo accampamento nell’oscurità, il ragazzo udì le penne dell’anatra battere contro il terreno. Poi non udì più quel suono. Udì invece il suono di piedi pesanti che battevano sul terreno dietro di lui, e di tanto in tanto uno strano grido di animale. La corda di erba palustre intrecciata gli si trasformò in mano in una corda di cuoio non conciato. Ma egli non si guardò indietro fino all’alba. All’aurora si volse e vide all’estremità della corda uno strano animale, un cavallo. Una voce gli disse di montare in groppa all’animale ed egli ubbidì, usando la corda di cuoio grezzo come briglia. Allorché raggiunse l’accampamento, vide che molti altri cavalli lo stavano seguendo. Le persone del campo furono atterrite alla vista di quelle strane bestie, ma il ragazzo disse loro di non temere. Smontò e diede a ciascuno un cavallo preso dalla mandria che l’aveva seguito. Ce ne furono per tutti, e molti ancora ne rimasero per lui. Fino a quel tempo, il suo popolo aveva avuto soltanto i cani per trasportare i carichi e trainare i travois. Il ragazzo ora mostrò loro come usare i cavalli per portare some, come domarli per cavalcarli, e diede anche al cavallo il nome che ha nella lingua dei Piedi Neri, cane alce. Un giorno gli uomini gli domandarono: «Questi cani alci potrebbero esserci utili nella caccia al bisonte?». «Sì, lasciate che vi faccia vedere» rispose il ragazzo, e non appena i cavalli furono montati li condusse verso una mandria di bisonti, dove mostrò ai cavalieri come cacciare i bisonti a cavallo. Insegnò loro anche a fare briglie, fruste, selle, paraocchi e altre bardature per i loro cavalli. Una volta, quando giunsero a un fiume, gli uomini gli chiesero: «Questi cani alci possono esserci utili anche in acqua?». Egli rispose: «È lì che stanno meglio. Io li ho avuti dall’acqua». E mostrò loro come usare i cavalli per attraversare i corsi d’acqua. Quando il ragazzo fu cresciuto, il popolo lo elesse capo e da allora ogni capo Piedi Neri ha sempre posseduto molti cavalli.


Maghi e imbroglioni Forse le storie preferite dagli indiani dell’America settentrionale erano quelle aventi a protagonista un imbroglione. In termini più moderni, l’imbroglione era il truffatore, colui che usava della sua abilità per gabbare i creduloni. Prometteva e non manteneva, faceva doni solo per riprenderseli. Quando le sue attività lo cacciavano nei guai, sapeva uscirne grazie all’innata astuzia. Se esagerava, tuttavia, di solito l’imbroglione era punito. Il massimo, in fatto di storie di imbrogli, era quando l’imbroglio si rivolgeva contro lo stesso imbroglione per merito della vittima designata. In genere, però, per quanto abile fosse la trappola in cui cadeva l’imbroglione, egli riusciva in qualche modo a uscirne per continuare a combinarne di cotte e di crude in innumerevoli altre storie. Come si vedrà, le varie tribù avevano diversi Imbroglioni. La parte era di solito affidata al Coniglio, al Lupo o alla Volpe, ma andando verso l’ovest era più probabile che il maestro d’imbrogli fosse il Coyote. Gufi, tartarughe, serpenti erano pure usati da qualche narratore, e nelle regioni del sud-ovest la tarantola era quasi una scelta di rigore. In molti racconti compaiono pure, come Imbroglioni, i ragni, e non è forse senza significato il fatto che, dopo l’arrivo degli europei, gli Arapaho abbiano fatto del loro ragno imbroglione, Nihancan, un simbolo dei bianchi, ritenuti i maestri d’ogni inganno, i più grandi di tutti gli imbroglioni.


Come il Coniglio ingannò il Lupo (Creek) Due belle ragazze abitavano non lontano da Coniglio e da Lupo. Un giorno Coniglio passò da Lupo e gli disse: «Andiamo a trovare quelle belle ragazze su per la strada». «Va bene» disse Lupo, e s’incamminarono. Arrivati alla casa delle ragazze, furono invitati a entrare, ma tutte e due presero in gran simpatia Lupo e gli rivolsero ogni attenzione, mentre Coniglio dovette starsene seduto a guardare. Naturalmente Coniglio non ne fu contento, e presto disse: «Faremmo meglio a tornare». «Aspettiamo ancora un po’» rispose Lupo, e rimasero fino a tardi. Prima che se ne andassero, Coniglio trovò modo di parlare a una delle ragazze senza che Lupo potesse sentirlo, e le disse: «Quello con cui vi siete tanto divertite è il mio vecchio cavallo». «Penso che tu sia un bugiardo» rispose la ragazza. «No, non lo sono. Domani verrò qui cavalcandolo.» «Se ti vedremo arrivare in groppa a lui» disse la ragazza ridendo «allora crederemo che è solo il tuo vecchio cavallo.» Quando i due se ne andarono, le ragazze dissero: «Tornate a trovarci». La mattina dopo Lupo si alzò presto e bussò alla porta di Coniglio. «È ora che andiamo a trovare di nuovo quelle ragazze» annunciò. Coniglio si lamentò: «Sono stato male tutta la notte, e non me la sento di camminare». Lupo seguitò a sollecitarlo, e infine Coniglio propose: «Se mi porti in groppa, forse vengo, tanto per farti compagnia». Lupo accettò di portarlo in groppa. E allora Coniglio disse: «Vorrei metterti una sella, in modo da tenermi più saldo». E dopo che Lupo ebbe accettato anche questo, soggiunse: «Credo che sarebbe meglio se ti mettessi anche le briglie». Lupo da principio rifiutò di farsi metter le briglie, ma consentì quando Coniglio disse che non credeva di potersi reggere in sella fino alla casa delle ragazze senza le briglie. E infine Coniglio pretese anche di mettersi gli speroni. «Soffro troppo il solletico» protestò Lupo. «Ma io non ti spronerò» promise Coniglio. «Non ti toccherò neppure, con gli speroni, ma sarebbe più simpatico se li avessi.» Infine Lupo accettò anche questo, ma insistette: «Guarda che soffro molto il solletico. Attento a non toccarmi». «Quando arriveremo alla casa delle ragazze» assicurò Coniglio «ti toglierò


tutto di dosso e cammineremo normalmente.» E così si misero in strada, Coniglio tutto impettito in groppa a Lupo. Quando giunsero in vista della casa, Coniglio ficcò gli speroni nei fianchi di Lupo, e questi si mise al galoppo e passò a tutta velocità davanti alla casa. «Ormai le ragazze ti hanno visto» disse Coniglio. «Sarà meglio che ti leghi qui e che vada dalle ragazze a spiegar loro ogni cosa. Poi verrò a prenderti.» E così Coniglio tornò indietro fino alla casa e disse alle ragazze: «Mi avete visto tutte e due montare il mio vecchio cavallo, non è vero?». «Sì» risposero, e Coniglio si sedette e se la spassò con loro. Dopo un bel po’ di tempo, Coniglio pensò che doveva slegare Lupo, e tornò al luogo dove l’aveva legato. Sapeva che ormai Lupo doveva essere molto adirato, e pensò a un modo per slegarlo e liberarsi di lui senza correre pericoli. Trovò un sottile tronco vuoto e incominciò a battervi sopra come se fosse un tamburo. Quindi passò davanti a Lupo correndo quanto più velocemente poteva e gridando: «I soldati ti stanno dando la caccia! Hai sentito il tamburo? I soldati ti cercano!» Lupo aveva una gran paura dei soldati. «Slegami, lasciami andare!» implorò. Coniglio, di proposito, fu molto lento nello scioglierlo, e non appena l’ebbe liberato, Lupo schizzò via e s’infilò in gran fretta nel bosco. Allora Coniglio se ne tornò a casa, ridendo fra sé per il modo in cui aveva ingannato Lupo, e molto compiaciuto di aver potuto avere le ragazze tutte per sé quel giorno. Presso la casa delle ragazze c’era un frutteto piantato a peschi, e un giorno esse chiesero a Coniglio di cogliere le pesche per loro. Insieme andarono al frutteto, ed egli salì su un albero per scuoterne i rami e far cadere le pesche. Mentre era lassù, all’improvviso sbucò fuori Lupo, che gridò: «Coniglio, vecchio briccone! Voglio renderti la pariglia, e non mi darò pace finché non l’avrò fatto». Coniglio alzò a un tratto la testa e finse di vedere qualcosa in lontananza, delle persone. Allora dall’alto dell’albero gridò: «Lupo, quello a cui date la caccia, è qui!». Al che Lupo, tutto spaventato, se la diede a gambe. Qualche tempo dopo, Coniglio stava riposando appoggiato al tronco di un albero piegato verso terra. Quando vide Lupo venire verso di lui, si atteggiò in modo che il tronco piegato gli premesse contro la spalla. «Questa volta ci sei» esclamò Lupo, ma Coniglio subito gli disse: «Qualcuno mi ha detto che se riuscirò a reggere quest’albero con la grande forza che posseggo sarò compensato con quattro porci. Siccome a me la carne di porco non piace tanto quanto a te, se vuoi prendere il mio posto ti cedo volentieri i porci».


Essendo stata stimolata la sua ingordigia, Lupo disse che era disposto a reggere l’albero. Si affiancò strettamente a Coniglio per dargli il cambio, e Coniglio disse: «Devi tenerlo forte, altrimenti cadrà». Poi scappò via, e Lupo restò lì a premere forte con la schiena contro il tronco curvo finché gli parve di non farcela più. Si scostò in tutta fretta, così che il tronco non gli cadesse addosso, e solo allora si accorse che si trattava solo di un albero curvo con le radici ben affondate nel terreno. «Quel Coniglio è un grandissimo bugiardo!» esclamò. «Se riesco a prenderlo lo aggiusto io.» Dopo di che Lupo diede la caccia a Coniglio ogni giorno finché lo trovò sdraiato in un bel prato erboso. Stava per balzargli addosso, quando Coniglio disse: «Amico mio, speravo proprio di rivederti. Ho qualcosa di buono da mangiare per te. Qualcuno ha ucciso un pony là sulla strada. Se vuoi, posso aiutarti a portarlo via, fino a un posto dove tu possa godertelo». «Va bene» disse Lupo, e seguì Coniglio fino alla strada dove un pony, sdraiato, stava dormendo. «Non ho abbastanza forza per spostarlo da solo» disse Coniglio. «Perciò legherò la tua coda alla sua e ti aiuterò spingendo.» Coniglio legò le due code insieme, stando bene attento a non svegliare il pony. Quindi prese questo per gli orecchi come se volesse sollevarlo. Il pony naturalmente si svegliò, balzò in piedi e corse via trascinandosi dietro Lupo. Questi si indaffarò spasmodicamente per liberarsi la coda, ma tutto ciò che poté fare fu di raspare il terreno con le zampe. «Tira con tutta la tua forza» lo incitò Coniglio. «Come posso tirare con tutta la mia forza» gridò Lupo «se non riesco neppure a stare in piedi?» Piano piano, comunque, Lupo riuscì a liberarsi, e allora Coniglio dovette andare a nascondersi per molto, molto tempo.


Il Coyote e la Roccia Rotolante (Salish-Piedi Neri) Un giorno di primavera Coyote e Volpe andarono a spasso, e quando giunsero a una grande roccia liscia, Coyote vi stese sopra la sua coperta e vi si sedettero a riposare. Dopo un po’ il sole si fece molto caldo e Coyote decise che la coperta non gli serviva più. «Ecco, sorella,» disse alla Roccia «ti do la mia coperta perché sei povera e mi hai lasciato riposare su di te. Conservala sempre.» Poi Coyote e Volpe ripresero il cammino. Non avevano fatto molta strada quando una pesante nube coprì il cielo. Balenarono lampi e rimbombarono tuoni, e cominciò a cadere la pioggia. L’unico riparo che poterono trovare fu in una profonda gola, e Coyote disse a Volpe: «Torna di corsa a quella Roccia e chiedile di prestarci la coperta che le ho dato. Così potremo coprirci e stare asciutti». Volpe tornò di corsa alla Roccia e disse: «Coyote rivuole la sua coperta». «No» rispose la Roccia. «Me l’ha data in regalo, e la terrò. Digli che non può riaverla.» Volpe tornò da Coyote e gli riferì quello che aveva detto la Roccia. «Bene,» commentò Coyote «quella è proprio una Roccia ingrata. Io volevo servirmi della coperta solo per un po’, finché non avesse smesso di piovere.» Si adirò molto, tornò alla Roccia e le strappò la coperta. «Ne ho bisogno per stare all’asciutto» disse. «Tu non hai bisogno di coperte. Tu sei stata sotto la pioggia e la neve tutta la vita, e non ti farà nulla continuare a starci.» Coyote e Volpe rimasero asciutti sotto la coperta finché non smise di piovere e rispuntò il sole. Allora lasciarono la gola e ripresero il cammino verso il fiume. Dopo un po’ di tempo, udirono dietro di loro un forte rumore proveniente dall’altro versante della collina. «Volpe, sorella mia,» disse Coyote «torna indietro a vedere che cos’è questo rumore.» Volpe salì in cima alla collina e tornò correndo a perdifiato. «Corri, corri!» gridò. «Sta venendo quella grande Roccia.» Coyote si voltò e vide la Roccia superare rotolando la cima della collina e cominciare a scendere verso di loro. Volpe balzò nella tana di un Tasso, ma la Roccia le colpì la punta della coda, e questa è la ragione per cui la coda della volpe è bianca ancora adesso. Nel frattempo Coyote si era precipitato per la china della collina ed era saltato nel fiume. Andò fino all’altra sponda, dove contava di essere in salvo perché sapeva che le Rocce affondano nell’acqua. Ma quando la Roccia cadde nel fiume, schizzando acqua tutt’intorno, cominciò, a nuotare, e Coyote fuggì verso il bosco più vicino. Appena raggiunse il folto del bosco, si coricò per


riposare, ma si era appena steso quando udì rumore di alberi spezzati. Capito che la Roccia stava ancora inseguendolo, Coyote balzò in piedi e corse nell’aperta prateria. Passavano di là alcuni Orsi, e Coyote li scongiurò di aiutarlo. «Ti salveremo» gridarono gli orsi, ma la Roccia sopraggiunse rotolando e li schiacciò. A questo punto Coyote vide parecchi Bisonti maschi. «Oh, fratelli miei!» li chiamò. «Aiutatemi, aiutatemi! Fermate quella Roccia.» I Bisonti abbassarono la testa e caricarono la Roccia, ma essa fracassò loro il cranio e seguitò a rotolare. Quindi dei Serpenti a sonagli cercarono di soccorrere Coyote unendosi a formare un lazo, ma quando tentarono di catturare la Roccia, i Serpenti che facevano da cappio furono ridotti in pezzi. Coyote scappò lungo un sentiero, ma la Roccia gli era ormai addosso, tanto vicina che prese a battergli sui talloni. Proprio mentre stava per cedere, Coyote vide due Streghe che si trovavano ai due lati del sentiero. Tenevano in mano accette di pietra. «Ti salveremo!» esclamarono. Egli corse in mezzo a loro, e la Roccia era vicinissima. Coyote udì le Streghe colpire la Roccia con l’accetta, e quando si voltò a guardare la vide a terra sbriciolata. Allora Coyote si accorse che il sentiero l’aveva condotto entro un vasto recinto. Quando si sedette per riprendere fiato, colse ciò che una delle Streghe stava dicendo all’altra: «Sembra bello grasso. Avremo qualcosa di buono con cui pranzare. Mangiamocelo subito». Coyote finse di non aver udito nulla, ma spiò le Streghe attraverso un occhio socchiuso finché non entrarono nella loro tenda, da cui gli giunse all’orecchio l’acciottolio delle stoviglie. Allora balzò in piedi e rovesciò tutti i loro secchi d’acqua. Quando uscirono, disse: «Ho molta sete. Datemi un po’ d’acqua, per piacere». «C’è molta acqua, qui» rispose una Strega. «Puoi bere da uno di quei secchi.» Ma poi guardò dentro i secchi e li trovò tutti vuoti. «Laggiù in quella valletta c’è dell’acqua» disse Coyote. «Andrò a prendervene un po’.» Afferrò i secchi e si avviò, ma non appena fu fuori vista si mise a correre tanto svelto quanto le gambe lo portavano. In seguito venne a sapere che, quando ebbero scoperto il suo inganno, le Streghe incominciarono a rinfacciarsi l’una con l’altra la colpa della sua fuga. Litigarono e litigarono, si picchiarono e si picchiarono, e infine si uccisero a vicenda.


La Moffetta più astuta del Coyote (Comanci) Coyote se ne andava in giro un giorno, molto affamato, quando incontrò Moffetta. «Ciao, sorella» la salutò Coyote. «Hai l’aria affamata, e anch’io. Ci staresti a fare come dico io per procurarci qualcosa da mangiare?» «Farò qualsiasi cosa mi proporrai» disse Moffetta. «Proprio dietro quella collina c’è un villaggio di cani della prateria6. Tu ci vai, ti stendi a terra e ti fingi morta. Poi arrivo io e dico ai cani della prateria: “Avanti, facciamo una danza sul corpo della nostra nemica morta”.» Moffetta si domandò in qual modo si sarebbero procurati qualcosa da mangiare col fingersi morti e col danzare. «Perché dovrei far questo?» domandò. «Avanti» disse Coyote. «Vai lassù, appallottolati e fingiti morta.» Moffetta andò al villaggio dei cani della prateria e finse di essere morta. Dopo un po’ sopraggiunse Coyote e vide parecchi cani della prateria che giocavano fuori delle loro tane. Ma si tenevano a una certa distanza da Moffetta. «Ehi, guardate» esclamò Coyote. «La nostra nemica giace morta davanti a noi. Su, facciamo una danza per celebrare l’avvenimento. Venite tutti fuori e chiudete gli ingressi delle tane.» Gli stupidi cani della prateria fecero ciò che Coyote aveva detto. «Ora,» disse Coyote «facciamo un grande cerchio e danziamo, ma con gli occhi ben chiusi. Se qualcuno apre gli occhi per guardare, si trasformerà in qualcosa di brutto.» Non appena i cani della prateria si furono messi a danzare con gli occhi chiusi, Coyote ne uccise uno. «Bene. Adesso» gridò «apriamo gli occhi tutti quanti.» Così fecero i cani della prateria, e furono sorpresi nel vedere morto uno di loro. «Ahi ahi» disse Coyote. «Guardate questo poveretto. Ha aperto gli occhi ed è morto. E adesso, tutti quanti voi chiudete bene gli occhi e riprendete la danza. Ma non guardate, o morirete anche voi.» Ripresero a danzare, e a uno a uno Coyote li staccava dal cerchio dei danzatori e li uccideva. Alla fine, uno dei cani della prateria si mise in sospetto e aprì gli occhi. «Oh! È Coyote che ci sta uccidendo!» gridò, e tutti quelli che erano ancora vivi corsero a riaprire gli ingressi delle tane e a rifugiarsi nei loro cunicoli. Moffetta allora si alzò, ridendo per la facilità con cui Coyote aveva messo in atto il suo trucco. Lo aiutò a raccogliere un po’ di legna da ardere e insieme incominciarono ad arrostire i cani della prateria che Coyote aveva ucciso.


La carne che si cuoceva mandava un profumo così buono che Coyote decise di mangiarsi le parti migliori lui solo. «Facciamo una gara di corsa» disse. «Chi vincerà si sceglierà i migliori cani della prateria e se li mangerà.» «No» rispose Moffetta. «Tu sei troppo veloce. Io non so correre molto, e non potrei mai vincerti.» «Be’, vorrà dire che mi legherò una pietra al piede» disse Coyote. «D’accordo. Se ti leghi una pietra grossa, accetto la sfida.» Decisero di correre intorno alla collina. «Mentre io mi lego questa pietra al piede,» disse Coyote «tu vai pure avanti. Ti darò un certo vantaggio e poi ti inseguirò.» Moffetta si mise a correre e presto scomparve alla vista dietro le falde della collina. Coyote si legò la pietra al piede e la seguì, dapprima lentamente. Presto però gettò via la pietra e la sua velocità raddoppiò. Lungo la strada, intanto. Moffetta aveva trovato un cespuglio di saggina e vi era balzata dentro, nascondendosi. Non appena Coyote le fu passato accanto di gran carriera, Moffetta ritornò al fuoco. Trasse dalle braci tutti i cani della prateria arrostiti, salvo due, piccoli e tutti ossa, che non volle prendere. Quindi tagliò agli animali le code e le infilò fra le ceneri, prima di portarsi la carne nel cespuglio di saggina. Frattanto Coyote seguitava a correre attorno alla collina, sicuro che Moffetta lo precedesse di poco. Mentre accelerava la corsa, si domandò: “Chissà dove sarà quella stupida Moffetta. Non immaginavo che sapesse correre così svelta”. Presto ebbe finito il giro della collina e tornò al fuoco e vide le code dei cani della prateria che spuntavano dalla cenere. Ne afferrò una, e venne via. Provò con un’altra, ed ebbe lo stesso risultato. «Oh, ma allora sono proprio ben cotte» disse, e tirò via un’altra coda. Allora incominciò a sospettare qualcosa. Con un bastone, Coyote mosse tutte le braci, ma vi trovò soltanto i due cani della prateria piccoli e magri che Moffetta aveva rifiutati. «Qualcuno deve averci rubato la carne» disse, e quindi si mangiò i due piccoli animali, che per giunta erano senza sapore. Moffetta, che ormai si era rimpinzata con la carne più gustosa, era salita senza farsene accorgere in cima alla collina e di là stava osservando Coyote. Mentre questi incominciava a scrutare da ogni parte per scoprire chi avesse rubato la carne, Moffetta gli gettò addosso qualche ossicino di cane della prateria. Coyote alzò lo sguardo e la vide. «Tu hai portato via tutti i cani della prateria più buoni!» protestò. «Almeno dammene un po’.» «No» rispose Moffetta. «Abbiamo fatto una gara di corsa per stabilire chi dovesse prenderseli. Io ho vinto. E me li mangio tutti.» Coyote implorò Moffetta perché gli desse almeno una parte di quei


deliziosi cani della prateria, ma mentre stava ancora implorando, Moffetta ingoiò l’ultimo buon bocconcino. Si era dimostrata molto più astuta dell’astuto Coyote.


Nihancan e la freccia del Nano (Arapaho) Nihancan il Ragno era in giro a cercare il modo di compiere qualche cattiva azione per sentirsi soddisfatto. Presso un ruscello trovò una macchia di bacche dolci, e mentre stava assaporandole udì il rumore di qualcuno che stava tagliando legna. Il suono sembrava provenire da un boschetto di pioppi sull’altra sponda del ruscello. “Devo andare a vedere” si disse Nihancan. “Ho sentito dire che in quella zona abitano Nani che fabbricano frecce meravigliose. È ora che giochi loro qualche tiro.” Attraversò il ruscello e tra i pioppi trovò un Nano che stava traendo una freccia da un grandissimo albero che era stato abbattuto. «Be’, fratellino,» disse Nihancan «che cosa stai facendo?» «Hai occhi per vedere» rispose il Nano, mentre continuava a ricavare dall’albero una freccia lunga quanto dieci uomini e spessa come il tronco di un uomo. «Ho sentito dire che siete capaci di lanciare frecce molto grandi» disse Nihancan. «Ma certo non ti aspetterai che io creda che un ometto come te possa sollevare un albero così grosso. Fammi vedere come lo lanci. Io mi metterò lassù, contro quella collina di fronte, e tu mi tirerai addosso.» «Non voglio fare questo, Nihancan,» rispose il Nano «perché potrei accopparti.» A sentir ciò, Nihancan scoppiò a ridere e incominciò a prendersi gioco del Nano, che se ne stette in silenzio finché Nihancan non disse in tono sprezzante: «Proprio come immaginavo, non sei capace di sollevare una freccia così grossa, e quindi non puoi tirarmela. Me ne andrò per la mia strada». Allora il Nano disse: «Te la tirerò». Nihancan andò verso il fianco della collina e domandò in tono di derisione: «Devo mettermi qui?». «No, più lontano» rispose il Nano. «Lì dove sei potresti farti male.» Nihancan si allontanò, poi tornò a domandare: «Devo mettermi qui?». Ma il Nano seguitò più volte a farlo allontanare. Finalmente Nihancan gridò: «Più lontano di così non vado. Qui la tua voce arriva appena». Fece ancora qualche passo su per la collina, poi si voltò e osservò sbalordito il Nano, che sollevava il grosso albero con una mano sola. Immediatamente terrorizzato, urlò: «Non tirarmi addosso, fratellino. Io lo sapevo, che eri capace di farlo. Facevo solo finta di non crederti». «Ragno imbroglione» replicò il Nano. «Ora, stai facendo finta, e io lo so. Quindi lancerò la freccia.» «Ti prego di non farlo» supplicò Nihancan, ma il Nano gli rispose: «Ormai


devo tirare. Una volta che ho preso arco e freccia devo tirare, altrimenti perdo il mio potere». Quindi il Nano alzò la grande freccia, mirò e la scoccò. Quando Nihancan vide il grosso albero volare verso di lui attraverso l’aria, incominciò a strillare e a correre prima da una parte e poi dall’altra. Non sapeva dove andare, perché dovunque scappasse la freccia deviava nell’aria e prendeva la sua direzione. Seguitò a venire sempre più vicina, con la punta diretta proprio contro di lui. Allora Nihancan si buttò su un tratto di terriccio soffice. L’albero lo colpì e lo calcò dentro il terreno finché non ne sporse solo la testa di Nihancan. Il Ragno si dibatté per sfuggire, ma la freccia lo teneva inchiodato nel terreno. Poco dopo il Nano raggiunse Nihancan, e dopo averlo rimproverato per aver messo in dubbio la sua forza, lo aiutò a uscire di sotterra e gli diede una medicina per curarsi ferite e ammaccature. Quindi Nihancan proseguì il suo cammino, e non tornò mai più in quel luogo a giocare brutti tiri ai Nani.


Corridore Veloce e Tarantola l’Imbrogliona (Zuni) Nel tempo di molto tempo fa c’era una sola Tarantola sulla terra. Era grande quanto un uomo, e viveva in una grotta presso il punto dove due grandi colonne di roccia si alzano alla base del Monte del Tuono. Ogni mattina Tarantola si sedeva all’imbocco della sua tana aspettando il tintinnìo di una cintura di sonaglietti che annunciava l’avvicinarsi di un giovane Zuni il quale passava sempre di là correndo al levar del sole. Era abbigliato in maniera straordinariamente bella di rosso, bianco e verde, con una fascia pieghettata multicolore intorno alla testa, un ciuffo di penne di ara blu, rosse e gialle infilato nel nodo dei capelli, e una cintura di sonaglietti di corno. Tarantola era assai invidiosa del giovane, e trascorreva molto tempo pensando al modo di portargli via con qualche imbroglio quel bellissimo costume. Corridore Veloce era il nome del giovane Zuni, che studiava per diventare grande sacerdote come suo padre. Il costume che indossava era quello riservato alle danze sacre. Per mantenersi forte in occasione di queste danze, che sono molto faticose, Corridore Veloce indossava tutte le mattine le vesti sacre e faceva di corsa il giro del Monte del Tuono prima delle preghiere. Una mattina al levar del sole, Tarantola udì i sonaglietti della cintura di Corridore Veloce che tintinnavano. Uscì di qualche passo fuori della tana e quando il giovane Zuni gli fu più vicino lo chiamò: «Aspetta un minuto, mio giovane amico. Vieni qui!». «Vado di fretta» rispose Corridore Veloce. «Non pensarci. Vieni qui» ripeté Tarantola. «Che cosa c’è?» chiese il giovane con impazienza. «Perché vuoi che mi fermi?» «Ho una grande ammirazione per il tuo costume» disse Tarantola. «Non ti piacerebbe vedere come appare agli altri?» «E com’è possibile?» domandò Corridore Veloce. «Dai, che ti faccio vedere.» «D’accordo, però sbrighiamoci. Non voglio arrivare in ritardo alle preghiere.» «È una cosa che si può fare in un momento» gli assicurò Tarantola. «Togliti i vestiti, tutti. Poi io mi toglierò i miei. Metti i tuoi davanti a me, e io metto i miei davanti a te. Poi io metterò il tuo costume, e così potrai vedere come appari bello alla gente.» Se Corridore Veloce avesse saputo che razza d’imbrogliona era Tarantola, non avrebbe mai consentito a una proposta del genere, ma non lo sapeva, ed era curioso di sapere che impressione potesse fare il suo costume agli altri. Si


tolse perciò i mocassini rossi e verdi, le gambiere bianche con la frangia, la cintura con i sonagli e tutti gli altri bellissimi indumenti, e li pose di fronte a Tarantola. Nel frattempo Tarantola aveva fatto un mucchietto delle sue sudicie gambiere di lana, del suo perizoma e della mantella, il tutto di un brutto colore grigio azzurro. Incominciò a infilarsi in fretta gli eleganti abiti che Corridore Veloce gli aveva posto davanti, e quando ebbe finito si rizzò sulle storte zampe posteriori e disse: «Adesso guardami. Come ti sembro?». «Be’,» rispose Corridore Veloce «per quanto riguarda il vestito, piuttosto bello.» «Puoi avere un’idea più precisa se mi tiro un po’ indietro» disse Tarantola, e arretrò, come solo le Tarantole sanno fare, verso l’ingresso della sua tana. «E ora come ti sembro?» «Più bello» rispose il giovane. «Allora mi tirerò indietro ancora un po’.» E riprese ad arretrare. «E adesso, come ti sembro?» «Bellissimo.» «Ah ah!» ridacchiò Tarantola, e si lanciò a capofitto nell’oscurità della sua tana. «Esci fuori di lì!» urlò Corridore Veloce, ma sapeva che era troppo tardi. Tarantola l’aveva giocato. “Che cosa devo fare adesso?” si domandò. “Non posso andare a casa mezzo nudo.” La sola cosa che poteva fare e che fece fu di mettersi addosso i ruvidi, pelosi indumenti azzurri di Tarantola, e di tornare al proprio villaggio. Quando giunse a casa il sole era alto, e suo padre lo aspettava con ansia. «Che cos’è successo?» gli domandò il padre. «Come mai sei vestito con quella brutta robaccia?» «Tarantola, quella che vive sotto il Monte del Tuono, mi ha imbrogliato» rispose Corridore Veloce. «Mi ha portato via il costume sacro ed è scappata nella sua tana.» Il padre scosse la testa, contristato. «Dobbiamo mandare a chiamare il capo dei guerrieri» disse. «Lui ci dirà che cosa possiamo fare.» Venne il capo dei guerrieri e Corridore Veloce gli riferì l’accaduto. Il capo ci pensò sopra, poi disse: «Ora che Tarantola ha il tuo bel costume, è difficile che si faccia vedere lontano dalla sua tana. Dovremo stanarla». E così il capo dei guerrieri mandò messaggeri in tutto il villaggio, chiamando tutti a raccolta con zappe, bastoni da scavo e cesti. Riunitisi gli Zuni con tutte queste cose, il capo diresse la marcia verso la tana della Tarantola. Incominciarono rapidamente a scavare dentro la buca. Lavorarono e


lavorarono fino al tramonto, riempiendo cesti e cesti di sabbia che accumularono all’esterno fino a formare un gran cumulo. Infine, portata via tutta la sabbia, raggiunsero la viva roccia della montagna, ma non trovarono traccia di Tarantola. «Che altro possiamo fare?» disse la gente. «Smettiamola, visto che non possiamo fare diversamente. Andiamocene a casa.» Così, al calare del buio, gli Zuni tornarono al loro villaggio. Quella sera i capi si riunirono per discutere che altro si poteva fare per ricuperare il costume sacro di Corridore Veloce. Qualcuno suggerì di mandare a chiamare il Grande Martin Pescatore7. «È saggio, astuto e rapido nel volo. Se c’è uno che può aiutarci, questi è il Grande Martin Pescatore.» «È vero» approvarono gli altri. «Mandiamo a chiamare il Grande Martin Pescatore.» Corridore Veloce si mise immediatamente in viaggio, correndo alla luce della luna finché non raggiunse la collina dove abitava il Grande Martin Pescatore, e bussò alla porta della sua casa. «Chi è?» domandò il Grande Martin Pescatore. «Vieni in fretta» rispose Corridore Veloce. «I capi del nostro villaggio hanno bisogno del tuo aiuto.» E così il Martin Pescatore seguì il giovane al villaggio degli Zuni, che erano a concilio. «Perché avete bisogno di me?» domandò. «Tarantola ha rubato le vesti sacre di Corridore Veloce» gli dissero. «Abbiamo scavato nella sua tana fino alla roccia viva del Monte del Tuono, ma non possiamo scavare più a fondo, e non sappiamo che cosa fare. Ti abbiamo chiamato a causa della tua forza e della tua capacità di afferrare qualsiasi cosa, anche sott’acqua.» «È un’impresa difficile, quella che mi chiedete di fare» disse il Grande Martin Pescatore. «Tarantola è estremamente furba, e ha una vista acutissima. Farò del mio meglio, comunque, per aiutarvi.» L’indomani prima dell’alba, il Grande Martin Pescatore volò sulle due colonne di roccia alla base del Monte del Tuono e si nascose dietro una pietra, così che soltanto il suo becco spuntava oltre le colonne. Quando i primi raggi di sole apparvero da dietro l’orlo del mondo, Tarantola spuntò all’ingresso della sua tana. Spiò in giro con gli occhi acutissimi, finché scoprì il becco del Martin Pescatore. «Ah ah, gran fintone di un Martin Pescatore!» gridò. Nello stesso istante in cui capì d’essere stato scoperto, il Grande Martin Pescatore spalancò le ali e si lanciò come una freccia nel vento, ma riuscì appena a sfiorare la punta delle piume sulla testa della Tarantola prima che l’imbrogliona balzasse indietro nelle profondità della sua buca. «Ah ah!» rise Tarantola. «Cantiamo e danziamo!» E si mise a balzare su e giù per la tana,


danzando sulle storte zampe una tarantella, mentre all’esterno il Grande Martin Pescatore tornava al villaggio degli Zuni a dir loro: «Inutile. Ho fallito miseramente. Come vi dicevo, Tarantola è una creatura molto furba, e di vista acuta. Mi dispiace, ma non posso far altro». Dopo che il Martin Pescatore fu tornato alla sua collina, i capi decisero di mandare a cercare la Grande Aquila, la cui vista era sette volte più acuta di quella degli uomini. Essa venne subito, e ascoltò le richieste di aiuto. «Come ha detto il mio fratello Martin Pescatore, Tarantola è una creatura molto furba, e di vista acuta. Ma farò del mio meglio.» Invece di attendere il levar del sole presso il Monte del Tuono, l’Aquila si appollaiò a grande distanza, in cima al Monte del Tasso. Lì restò con la testa al vento, girando prima un occhio e poi l’altro in direzione della tana di Tarantola finché la vecchia imbrogliona non mise fuori il naso lanuginoso. Con la sua vista acuta, non le ci volle molto per scorgere l’Aquila in cima al Monte del Tasso. «Ah ah, gran fintona di un’Aquila!» urlò mentre l’Aquila si tuffava come una pietra scagliata nell’aria dritto verso la testa della Tarantola. Le sue ali sfiorarono l’Imbrogliona, ma quando allungò gli artigli non afferrò altro che una delle piume dell’acconciatura di Tarantola, e anche quella le sfuggì fra le rocce. Mentre Tarantola cantava e danzava nella sua tana e si compiaceva della propria astuzia ed eleganza, avvilita e delusa l’Aquila volò al concilio degli Zuni e confessò il proprio insuccesso. Il popolo si rivolse allora in cerca d’aiuto al Falco Pellegrino. Dopo che ebbe saputo quanto era già stato fatto, il Falco disse: «Se i miei fratelli Martin Pescatore e Aquila hanno fallito, è quasi inutile che provi io». «Tu sei la più rapida delle creature pennute» gli risposero i capi. «Più veloce del Martin Pescatore e forte quanto l’Aquila. Il tuo piumaggio è chiazzato di grigio e di bruno, come le rocce e la saggina, e così Tarantola potrebbe non vederti.» Il Falco acconsentì a tentare, e la mattina dopo, presto, si appostò in cima a uno strapiombo proprio sopra la tana di Tarantola. Quando spuntò il sole, l’uccello era quasi invisibile perché le sue penne grigie e brune si confondevano con le rocce e l’erba secca intorno. Egli mantenne un’attenta guardia finché Tarantola non cacciò fuori la sua brutta testa volgendo lo sguardo in tutte le direzioni. Non vide niente, e quindi continuò cauta a emergere dalla tana finché anche le sue spalle non furono fuori, ben visibili. In quel momento il Falco si lanciò e Tarantola lo vide, troppo tardi per salvare il ciuffo di penne di ara dagli artigli rapaci dell’uccello. Tarantola ruzzolò dentro la tana e si sedette, piegata in due dalla paura. Sconsolata, mosse la testa avanti e indietro e gemette: «Ahimè, ahimè, se n’è andata la mia bella acconciatura. Quel falco maledetto! Ma a che serve


preoccuparsi per un misero ciuffo di penne d’ara? Si sporcano e si rompono, i tarli se le mangiano, stingono. Perché rattristarmi per una sciocchezza senza valore? Ho pur sempre il più bel costume di tutta la valle: eleganti gambiere e camicia ricamata, collane che valgono cinquanta volte quell’acconciatura, e orecchini ciascuno dei quali vale una manciata di collane. Che il Falco si tenga pure quelle vecchie penne!». Frattanto il Falco, maledicendo la sfortuna, riportò le penne di ara agli Zuni. «Mi dispiace, amici miei, ma questo è quanto ho potuto fare. Possano altri riuscire meglio di me.» «Sei riuscito bene, non avvilirti» gli dissero. «Queste penne che vengono dal sud sono preziose per noi.» Quindi i capi si riunirono di nuovo a concilio. «Che altro ci resta da fare?» domandò il padre di Corridore Veloce. «Dobbiamo mandare tuo figlio al paese degli dei» sentenziò il capo dei guerrieri. «Soltanto loro ormai possono aiutarci.» Convocarono Corridore Veloce e gli dissero: «Abbiamo chiesto alle più sagge e alle più veloci e alle più forti tra le creature pennute di aiutarci, e tuttavia hanno fallito. Ora dobbiamo mandarti al paese degli dei, a implorare il loro aiuto». Corridore Veloce acconsentì a compiere il pericoloso viaggio fino alla cima del Monte del Tuono, dove vivevano, con la loro nonna, i due dei della guerra Ahaiyuta e Matsailema. Per il viaggio, i grandi sacerdoti lo munirono dei più preziosi tesori. La mattina seguente, Corridore Veloce li prese e li portò con sé, e verso mezzogiorno raggiunse il luogo dove vivevano gli dei della guerra. Trovò la loro nonna seduta sul tetto piatto della casa. Dal locale sottostante giungeva il suono degli dei della guerra che stavano facendo qualcuno dei loro giochi rumorosi. «Vieni, figlio mio.» Così la nonna degli dei salutò Corridore Veloce, e poi chiamò Ahaiyuta e Matsailema: «Venite su, bambini miei, in fretta, tutti e due. È arrivato un giovane uomo che porta dei doni». Gli dei della guerra, che erano piccoli come nani, salirono sul tetto e il più vecchio disse cortesemente: «Siedi e dicci il motivo della tua visita. Nessuno va a casa di un altro per nulla». «Vi porto offerte dal nostro villaggio qui sotto. E vi porto anche il fardello delle mie pene per ascoltare il vostro consiglio e implorare il vostro aiuto.» Poi raccontò agli dei della guerra la sua disavventura, di come Tarantola gli avesse rubato le vesti sacre, e di come le più sagge e le più veloci creature pennute non fossero riuscite a riprenderle. «Hai fatto bene a venire» disse il dio della guerra più giovane. «Solo noi possiamo vincere in astuzia la Tarantola imbrogliona. Nonna, per gentilezza,


muoviti, e preparaci della farina di pietra.» Sotto gli occhi di Corridore Veloce, la vecchia nonna raccolse alcune pietre d’arenaria, le ridusse a pezzetti e quindi le macinò fino a farne polvere. Impastò questa polvere con acqua e i due dei della guerra, con impressionante abilità, plasmarono l’impasto dandogli la forma di due cervi e di due antilopi, che indurirono man mano che essi finivano il loro lavoro. Diedero le statue a Corridore Veloce e gli dissero di metterle su uno spiazzo nella roccia di fronte alla tana di Tarantola. «Alla vecchia Tarantola piace cacciare. Nulla le dà maggior piacere dell’uccidere la selvaggina. Sarà indotta a uscire dalla tana quasi sicuramente. Una volta fatto questo, vai a casa e di’ ai capi di prepararsi ad attaccare Tarantola domattina.» Quella sera, dopo che Corridore Veloce fu tornato al suo villaggio ed ebbe riferito di come aveva collocato le statue di cervo e di antilope davanti all’imboccatura della tana di Tarantola, i capi convocarono i guerrieri e ordinarono loro di tenersi pronti a scendere sul sentiero di guerra prima dell’alba. Per tutta la notte essi prepararono le frecce e saggiarono la forza degli archi, e prima dell’alba si posero in marcia verso il Monte del Tuono. Corridore Veloce li precedette, e quando si avvicinò allo spiazzo nella roccia, fu meravigliato di vedere che le due antilopi e i due cervi erano diventati vivi. Stavano andando in giro qua e là, alla ricerca di qualche filo d’erba. «Io chiedo il vostro aiuto perché mi aiutiate a vincere la malvagia Tarantola» pregò gli animali. «Scendete davanti alla sua tana, vi prego, così che vedendovi sia tentata a uscirne.» Obbedienti, cervi e antilopi scesero il pendio verso la tana di Tarantola. Mentre si avvicinavano, essa li scorse. “Oh! Che cosa vedo mai!” disse a se stessa. “Guarda cervi e antilopi, pronti per esser cacciati. Se deve prenderli qualcuno, tanto vale che sia io.” Prese il suo arco, lo preparò, fece vibrare la corda e uscì. Mentre usciva dalla tana, si disse: “Santo cielo! Non può andare. Se vado là fuori gli Zuni mi saranno addosso”. Scrutò su e giù la valle. “Sciocchezze! Non c’è nessuno.” Balzò fuori dalla tana e corse verso i cervi, che seguitavano ad avvicinarsi. Quando il primo fu proprio vicino. Tarantola incoccò una freccia e la fece volare. Il cervo si abbatté subito al suolo. «Ah!» esclamò Tarantola. «Chi dice che non sono brava nella caccia?» Scoccò un’altra freccia e abbatté il secondo cervo. Con urla di gioia, abbatté poi anche le due antilopi. «Che bella selvaggina mi sono procurata oggi» disse. «Ora devo trasportarla nella tana.» Sfece una cinghia che si era portata appresso e con essa legò insieme le zampe del primo cervo che aveva ucciso. Si curvò, si collocò il cervo sulle spalle, ma quando stava per alzarsi e per tornare alla tana, ciac, cadde e fu quasi schiacciata sotto una massa di pietra bianca.


«Pietà!» invocò. «Che cos’è questo?» Si guardò intorno, ma non vide traccia del cervo; vide soltanto una massa informe di pietra bianca. «Va bene, proverò con quest’altro» disse, ma era appena riuscita a issarsi l’altro cervo sulle spalle quando anche questo si trasformò in una massa di pietra bianca che la schiacciò. «Che cosa può essere?» gridò Tarantola. Provò con una delle antilopi, ma le successe la stessa cosa. «Be’, ne resta ancora una, comunque» disse. Legò insieme le zampe dell’ultimo animale e stava per sollevarlo quando udì un grande urlio. Si voltò in fretta e vide tutti gli Zuni del villaggio che si raccoglievano intorno alla sua tana. Corse verso l’imboccatura con tutta la fretta che le consentivano le sue zampe storte, ma la gente le aveva già tagliato la strada. Le si avvicinarono, le si strinsero intorno, afferrarono le vesti che aveva rubate, le strapparono gli orecchini dalle orecchie, finché essa non alzò le mani gemendo: «Pietà, pietà! Mi fate male, mi fate male! Non trattatemi così. D’ora in poi sarò buona! Mi toglierò questo costume e ve lo restituirò senza fare resistenza, se solo mi lascerete appartare un momento». Ma gli uomini le davano addosso, adirati. La tirarono di qua e di là, le tolsero di dosso, pezzo per pezzo, il costume di Corridore Veloce, finché non rimase nuda e così malconcia che a malapena poteva muoversi. Quindi i capi si raccolsero in cerchio intorno a lei, e uno disse: «Non sarà una buona cosa se consentiremo a quest’imbrogliona di andarsene così com’è. È troppo grossa e potente, è troppo astuta. Per liberare il mondo dalla Tarantola, una volta per tutte, dobbiamo farla arrostire». E così gli uomini alzarono un gran mucchio di legna secca, gli diedero fuoco facendo ruotare nelle mani il bastone per il fuoco e presto le fiamme divamparono. Allora afferrarono Tarantola, che si dibatteva, e ve la gettarono, ed essa squittì e sfrigolò e sibilò e si gonfiò fino a diventare enorme. Ma Tarantola aveva in serbo ancora un ultimo trucco. Quando scoppiò, con tremendo rumore, schizzò milioni di frammenti del proprio corpo su tutto il mondo, fino al Messico e all’America del Sud e più lontano, fino a Taranto, in Italia. Ogni frammento riprese la forma della vecchia Tarantola, ma naturalmente in dimensioni molto più piccole, più o meno come quelle delle tarantole di oggi. Certuni dicono che Taranto prese nome dalla Tarantola, altri dicono che le tarantole presero nome da Taranto; comunque tutti sanno che la frenetica danza chiamata tarantella fu inventata dalla Tarantola, l’Imbrogliona del Monte del Tuono, nella terra degli Zuni.


Donna Bisonte, storia di magia (Caddo) Uccello di Neve, lo stregone dei Gaddo, aveva un figlio di bell’aspetto. Quando il ragazzo fu abbastanza grande perché si potesse imporgli un nome d’uomo, Uccello di Neve lo chiamò Ardimento a causa del coraggio che dimostrava come cacciatore. Molte ragazze del villaggio dei Caddo avrebbero voluto accaparrarsi Ardimento come marito, ma egli non badava molto a nessuna di loro. Una mattina uscì per una spedizione di caccia, e mentre andava guardando qua e là in cerca di selvaggina, vide qualcuno davanti a lui che sedeva sotto un giovane olmo. Avvicinatosi, fu sorpreso di scoprire che la persona era una giovane donna, e fece per evitarla. «Vieni qua» lo chiamò lei con una bella voce. Ardimento si avvicinò e osservò che la donna era molto giovane e molto bella. «Sapevo che saresti passato di qua» disse lei «e perciò sono venuta per incontrarti.» «Tu non sei una della mia gente» rispose lui. «Come facevi a sapere che sarei passato da queste parti?» «Io sono Donna Bisonte» disse lei. «Ti ho già visto molte volte, da lontano. Voglio che mi porti a casa con te e che mi lasci stare con te.» «Posso portarti a casa con me,» le rispose Ardimento «ma devi chiedere ai miei genitori se puoi stare con noi.» Partirono subito alla volta di casa sua, e quando vi furono giunti Donna Bisonte chiese ai genitori di Ardimento se poteva stare con loro e diventare la moglie del giovanotto. «Se Ardimento ti vuole come moglie, ne saremo compiaciuti» disse Uccello di Neve, lo stregone. «È tempo che abbia qualcuno da amare.» E così Ardimento e Donna Bisonte furono uniti in matrimonio secondo il costume dei Caddo e vissero insieme felici per parecchie lune. Un giorno essa gli disse: «Farai qualsiasi cosa io ti chieda, Ardimento?». «Sì,» rispose lui «se ciò che chiederai non sarà irragionevole.» «Voglio che tu venga con me a visitare la mia gente.» Ardimento disse che sarebbe andato, e il giorno dopo partirono per la patria di lei, che gli mostrava la strada. Dopo che ebbero fatto un lungo cammino arrivarono davanti a certe alte colline, e improvvisamente lei si voltò, guardò Ardimento e gli disse: «Hai promesso che avresti fatto qualsiasi cosa io ti dicessi di fare». «Sì» rispose lui. «Bene» disse lei. «La mia terra è dall’altra parte di questa alta collina. Ti


dirò quando saremo arrivati da mia madre. So che molti verranno lì a vedere chi sei, e qualcuno cercherà di provocarti in modo da indurti all’ira, ma tu non devi cedere alla provocazione né adirarti con alcuno di loro. Potrebbero tentare di ucciderti.» «E perché dovrebbero farlo?» domandò Ardimento. «Ascolta bene quello che sto per dirti» rispose lei. «Io ti conoscevo prima che tu conoscessi me. Per mezzo di una magia ti ho attirato a me, quel primo giorno. Ho detto che qualcuno cercherà di farti adirare, e se mostrerai ira anche contro uno solo di loro, gli altri si uniranno per combatterti finché non ti avranno ucciso. Saranno gelosi di te. La ragione è che ho rifiutato molti che mi volevano.» «Ma adesso sei mia moglie» disse Ardimento. «Ti ho detto che cosa fare quando arriviamo» continuò la Donna Bisonte. «Ora voglio che tu ti stenda a terra e che ti rotoli se te stesso due volte.» Ardimento le sorrise divertito, ma fece come lei gli aveva detto. Rotolò due volte su se stesso, e quando si rialzò scoprì di essersi trasformato in Bisonte. Per un istante Donna Bisonte lo guardò, scorgendo lo stupore nei suoi occhi. Quindi si rotolò anch’essa a terra due volte, e anche lei divenne un Bisonte. Senza una parola, lo condusse fino in cima alla collina. In una valle che si apriva a occidente, Ardimento poté vedere centinaia e centinaia di Bisonti. «Sono la mia gente» disse Donna Bisonte. «Questa è la mia patria.» Quando i membri della mandria più vicina videro arrivare Ardimento e Donna Bisonte, incominciarono a stringersi in un punto, ad aspettarli guardinghi. Donna Bisonte fece strada e Ardimento la seguì, finché raggiunsero una vecchia femmina di Bisonte, e Ardimento seppe che quella era la madre della sua bella moglie. Per due lune restarono col branco. Ogni tanto, quattro o cinque giovani maschi venivano attorno a loro e stuzzicavano Ardimento, cercando di provocarlo all’ira, ma egli fingeva di non vederli. Una notte, Donna Bisonte gli disse che era pronta a tornare alla casa di lui, e così scavalcarono furtivamente il ciglio della collina. Raggiunto il luogo dove si erano trasformati in Bisonti, si rotolarono due volte a terra e divennero di nuovo uomo e donna. «Promettimi di non dire a nessuno di questa trasformazione magica» disse Donna Bisonte. «Se lo si sapesse, ci accadrebbe qualcosa di brutto.» Stettero nel villaggio di Ardimento per dodici lune, e quindi Donna Bisonte gli chiese di andare ancora con lei a visitare la sua gente. Erano da poco nella valle dei Bisonti quando lei gli disse che i giovani maschi gelosi di


lui avevano in mente di sfidarlo alla corsa. «Ti sfideranno alla corsa e se ti lascerai superare da loro ti uccideranno» gli disse. Quella notte Ardimento non poté dormire. Se ne andò a fare una lunga camminata. Era una notte molto buia, senza luna e senza stelle, ma lui avvertì la presenza dello Spirito del Vento. «Sei giovane e forte,» gli mormorò lo Spirito del Vento «ma non puoi vincere i Bisonti alla corsa senza il mio aiuto. Se perderai, ti uccideranno. Se vincerai, non oseranno mai più sfidarti.» «Che devo fare per salvarmi la vita e tenermi la mia bella moglie?» domandò Ardimento. Lo Spirito del Vento gli diede due cose. «Una di queste è un’erba magica» disse lo Spirito del Vento. «L’altra è del fango secco proveniente da un trogolo magico. Se un Bisonte sta per raggiungerti, per prima cosa getta dietro di te l’erba magica. E se torna a farsi troppo vicino, getta il fango secco.» Il giorno successivo era quello della corsa. Al levar del sole i giovani Bisonti si radunarono nel luogo di partenza. Quando Ardimento li raggiunse, incominciarono a farsi gioco di lui, dicendogli che era un Uomo Bisonte e che perciò non poteva vincerli nella corsa. Ardimento ignorò le loro frecciate e con calma si allineò con loro alla partenza. Un vecchio Bisonte diede il via con un forte muggito, e in principio Ardimento, correndo con tutte le sue forze, occupò la prima posizione. Ma presto gli altri incominciarono a recuperare terreno, e quando il loro sbuffare gli fu sui garretti, egli gettò dietro di sé l’erba magica. Ma ormai si sentiva molto stanco e temeva di non farcela più a correre. Volse la testa indietro e vide un Bisonte che, lanciato a testa bassa, stava rapidamente riducendo la distanza che li separava. Proprio mentre quel Bisonte stava per raggiungerlo, Ardimento gettò il fango secco proveniente dal trogolo magico. Presto fu di nuovo avanti di molte lunghezze, ma sapeva di aver esaurito i poteri donatigli dallo Spirito del Vento. Mentre andava avvicinandosi al traguardo, udiva il rimbombo degli zoccoli farsi sempre più vicino. All’ultimo momento, sentì in faccia un forte vento che, superato lui, sollevò la polvere e impedì ai Bisonti di raggiungerlo. Con l’aiuto dello Spirito del Vento, Ardimento passò per primo il traguardo e vinse la corsa. Dopodiché, nessuno dei Bisonti osò più sfidarlo, e lui e Donna Bisonte vissero in pace con il branco finché non furono pronti a ritornare presso il popolo dei Caddo. Non molto tempo dopo il ritorno alla casa di Ardimento, Donna Bisonte diede alla luce un bel figlio maschio. Lo chiamarono Piccolo Bisonte, e presto fu abbastanza grandino per poter giocare con gli altri bambini del villaggio. Un giorno, mentre Donna Bisonte era occupata a preparare il pranzo, il


bambino sgusciò fuori e andò a giocare con gli altri bambini. Fecero parecchi giochi, e poi decisero di giocare ai Bisonti. Alcuni di loro si stesero a terra rotolandosi come i Bisonti, e così fece anche Piccolo Bisonte. Non appena si fu rotolato su se stesso due volte, si trasformò in un vero piccolo Bisonte. Spaventati, gli altri bambini corsero alle loro abitazioni. La madre stava proprio allora uscendo a cercare Piccolo Bisonte, e vedendo i bambini fuggire spaventati capì che era accaduto qualcosa. Andò a vedere e trovò il suo bambino mutato in Bisonte. Lo prese in braccio e con lui scappò giù per il pendio, e non appena fu fuori vista per quelli del villaggio mutò se stessa in Bisonte e con Piccolo Bisonte si avviò verso occidente. Quella sera, al ritorno dalla caccia, Ardimento non trovò più né la moglie né il figlio. Andò fuori a cercarli, e qualcuno gli raccontò del gioco a cui avevano giocato i bambini e della magia che aveva trasformato suo figlio in un vero piccolo Bisonte. Da principio, Ardimento non riuscì a credere a ciò che gli raccontavano, ma dopo che ebbe seguito le impronte di sua moglie giù per la collina ed ebbe trovato il punto in cui si era rotolata per terra, capì che quella storia era vera. Per molte lune Ardimento cercò Donna Bisonte e Piccolo Bisonte, ma non li trovò mai più.


Eroi ed eroine Tutti i popoli del mondo hanno i loro racconti popolari di eroi e di eroine. Nei tre che seguono, i lettori troveranno analogie con storie di altri tempi e di altri paesi. “Il Cacciatore e il Dakwa”, per esempio, è la versione Cherokee della storia biblica di Giona inghiottito dalla balena e poi salvatosi. Molti racconti eroici si basano su fatti storici delle tribù indiane. “I prigionieri della Roccia del Tribunale” riferisce un fatto vero della storia dei Pawnee in cui coraggio e sagacia resero possibile la fuga e la salvezza a un gruppo di guerrieri assediati. La storia di “Scudo Rosso e Lupo che Corre” deriva probabilmente da una serie di fatti reali occorsi nei lunghi e travagliati rapporti fra le tribù dei Corvi e dei Sioux.


Il Cacciatore e il Dakwa (Cherokee) Ai vecchi tempi c’era un grosso pesce chiamato Dakwa che viveva nel Fiume Tennessee vicino alla foce del Torrente Toco. Questo pesce era così grande che poteva facilmente ingoiare un uomo. Un giorno parecchi cacciatori stavano navigando in una canoa sul Tennessee quando il Dakwa improvvisamente colpì la canoa da sotto e li scaraventò tutti in aria. Quando gli uomini ricaddero, il pesce ne inghiottì uno in un solo boccone e si tuffò con lui sul fondo del fiume. Quest’uomo era uno dei più coraggiosi cacciatori della tribù e non appena scoprì dov’era cominciò a pensare se vi fosse un modo per sopraffare il Dakwa e fuggire dal suo ventre. A parte qualche scalfittura e qualche graffio, il cacciatore non era rimasto ferito, ma dentro il grosso pesce era così caldo e senz’aria che temeva di soffocare. Mentre brancolava nel buio, le sue mani trovarono delle conchiglie di muscoli che il Dakwa aveva inghiottito. Queste conchiglie avevano bordi molto taglienti. Usandone una come coltello il cacciatore cominciò a tagliuzzare il ventre del pesce. Presto il Dakwa cominciò a sentirsi poco bene a causa di quel raschiare che sentiva nel ventre e salì alla superficie del fiume in cerca d’aria. L’uomo continuò a tagliare con la conchiglia finché il pesce ebbe tali dolori che si mise a nuotare pazzamente da una parte all’altra del fiume sollevando spruzzi di minute goccioline con i suoi furiosi battiti di coda. Finalmente il cacciatore aprì un foro nel fianco del Dakwa. L’acqua entrò a fiotti, quasi annegando l’uomo, ma a quel punto il grosso pesce era così sfinito che si fermò. Il cacciatore guardò fuori dal buco e vide che il Dakwa era ora fermo in acque basse presso la riva. Alzandosi, l’uomo si spinse attraverso il buco nel fianco del pesce, muovendosi con molta cautela per non disturbare il Dakwa. Poi raggiunse a guado la riva e tornò al suo villaggio dove gli amici stavano piangendo la sua morte perché erano sicuri che fosse stato mangiato dal grande pesce. Ora lo chiamarono eroe e diedero una festa in suo onore. Sebbene il coraggioso cacciatore fosse sfuggito alla morte, i succhi dello stomaco del Dakwa gli avevano bruciato tutti i capelli, e da allora egli rimase calvo.


I prigionieri della Roccia del Tribunale (Pawnee) Lontano, nelle pianure del Nebraska occidentale, si erge una formazione di roccia e argilla che i primi mercanti di pellicce chiamarono la Roccia del Tribunale poiché la sua forma ricordava loro quella del primo tribunale di Saint Louis. Negli anni precedenti la venuta degli Uomini Bianchi, e prima che il vento e la pioggia la erodessero, era molto più difficile salire e scendere dalla Roccia del Tribunale. Le sue pareti, salvo una, erano tutte lisce, levigate, senza sporgenze che potessero servire come appigli per i piedi o le mani. Solo da un lato ci si poteva arrampicare fino alla cima piatta della roccia e questo poteva essere fatto unicamente scavando gradini nella dura argilla con un’accetta o con qualche altro oggetto tagliente. Un giorno durante quel tanto tempo fa si accampò vicino alla Roccia del Tribunale un gruppo di cacciatori Pawnee. Improvvisamente un nutrito gruppo di guerrieri Sioux apparve e circondò i Pawnee. I Sioux li strinsero verso la roccia e i Pawnee scamparono alla morte arrampicandosi in cima alla roccia. I Sioux non osarono tentare la scalata della roccia, ma misero delle guardie nell’unico punto dove i Pawnee avrebbero potuto scendere, mentre il resto dei guerrieri si accampò tutt’attorno alla base della roccia con lo scopo di costringere i Pawnee ad arrendersi per fame. I Pawnee avevano poco cibo e niente acqua e dopo due o tre giorni cominciarono a soffrire tremendamente la fame e ancor più la sete. Cavallo Chiazzato, il loro capo, soffriva più degli altri perché era responsabile della vita di tutti i guerrieri del suo gruppo di cacciatori. Non gli importava di morire, ma sapeva che la sua memoria sarebbe stata macchiata se avesse perduto i giovani di cui era a capo. Ogni notte si recava, solo, al bordo della roccia e pregava Tirawa, lo Spirito Supremo. Una notte, mentre stava pregando, una voce gli parlò dall’oscurità: «Se guarderai attentamente scoprirai un punto grazie al quale potrai fuggire da questa roccia e salvare così tutti i tuoi uomini e te stesso». Alle prime luci Cavallo Chiazzato esaminò tutto il perimetro della roccia cercando un punto da dove fosse possibile scendere senza che i Sioux li scoprissero. Infine trovò, non distante dalla cima, una sporgenza di argilla tenera. Guardando dalla cima, Cavallo Chiazzato vide che proprio sotto la sporgenza di argilla c’era un fianco di roccia levigata che per questa ragione era stata lasciata incustodita dai Sioux. Con il suo coltello cominciò a intagliare l’argilla e prima di notte era riuscito ad aprirvi un foro grande quanto il corpo di un uomo.


Cavallo Chiazzato allora chiamò a raccolta i suoi guerrieri e chiese loro di dargli tutte le loro funi. Legate queste l’una all’altra, fissò la prima con un cappio attorno a una sporgenza della roccia e si calò giù attraverso il buco che aveva scavato. Poiché era troppo buio per vedere se la roccia toccava terra o no, Cavallo Chiazzato scese lentamente finché i suoi piedi toccarono il suolo. Tutto intorno a lui vedeva brillare i fuochi da campo degli assedianti Sioux e udiva le voci lontane delle vedette che sorvegliavano il luogo da cui i Pawnee si erano arrampicati in cima alla Roccia. Risalendo la fune bracciata per bracciata, Cavallo Chiazzato raggiunse di nuovo la cima. Avvertì i suoi guerrieri di non far rumore durante la discesa o dopo aver toccato terra, quindi li fece scendere. Ordinò di calarsi per primo al più giovane, poi a quello che lo seguiva immediatamente per età e così via finché, per ultimo, scese egli stesso. Completata la discesa, tutti attraversarono strisciando l’accampamento degli ignari Sioux e fuggirono. Cavallo Chiazzato e i suoi coraggiosi Pawnee non seppero mai con certezza quanto tempo i Sioux rimasero accampati intorno alla Roccia del Tribunale aspettando che si arrendessero per fame. Molto probabilmente i Sioux scoprirono le funi penzolanti già il mattino dopo e capirono che erano stati vinti in abilità da degni nemici.


Scudo Rosso e Lupo che Corre (Corvi) In anni passati i Sioux e i Corvi erano nemici e solo con atti eroici un giovane delle due tribù poteva diventare amico o amante di una giovane dell’altra. Tale fu la storia di Scudo Rosso, figlia di un capo Sioux, e di Lupo che Corre, figlio di un guerriero dei Corvi. Scudo Rosso sentì parlare di Lupo che Corre per la prima volta da una donna Sioux che era stata fatta prigioniera dai Corvi e alla quale era stato consentito di tornare dalla sua gente. Questa donna aveva fatto la serva nella famiglia di Lupo che Corre quando questi era ancora un ragazzo. «Era un ragazzo pigro» raccontava la donna a Scudo Rosso. «Suo padre doveva spingerlo fuori del letto ogni giorno punzecchiandogli gli stinchi con un bastone. Una mattina lo sgridò molto severamente, dicendogli che anziché a letto avrebbe dovuto esser fuori a cacciare cervi per la famiglia. Quella mattina stessa, non appena suo padre lasciò il tepee, Lupo che Corre venne da me e mi chiese se gli cucivo una maschera fatta di pelle di cervo. E così io gli feci la maschera e lui passò la giornata a dipingerla con argilla bianca e a fissarvi sopra corna di cervo. La mattina dopo si alzò prima dell’alba, prese il fucile e il coltello di suo padre e se ne andò su un cavallo, tirandosi dietro due cavalli di scorta. Arrivò a un laghetto vicino al villaggio, legò i cavalli agli alberi del bosco e scese in un punto dove gli animali andavano ad abbeverarsi. Quando spuntò il sole arrivarono dei cervi, e non scapparono, perché pensarono che il ragazzo fosse uno di loro. Lupo che Corre ne uccise due, li caricò sui due cavalli di scorta e li portò a casa, proprio quando suo padre si stava svegliando.» «Il padre di Lupo che Corre fu contento?» domandò Scudo Rosso. «Oh sì. Disse al figlio che aveva fatto bene e che avrebbe dovuto dividere la caccia con i vicini. Ma non finì lì. Il mattino dopo il ragazzo tornò al luogo di abbeverata e rientrò a casa con altri due cervi, e così la mattina seguente.» La donna Sioux sorrise. «Quella volta suo padre gli disse di smetterla o avrebbe incominciato a puzzare come un cervo.» «E che cosa rispose Lupo che Corre?» «Non rispose nulla, ma ricominciò a dormire fino a tardi, finché un mattino suo padre lo punzecchiò di nuovo agli stinchi e gli rimproverò la sua pigrizia. Disse a Lupo che Corre che non avrebbe più potuto servirsi dei cavalli della famiglia, e che se voleva una bestia da cavalcare doveva andare a portarla via ai Nasi Forati. Quel giorno, non appena suo padre si recò a caccia, Lupo che Corre venne da me e mi chiese se gli facevo un paio di mocassini nuovi. Io glieli feci e lui passò la giornata a decorarli con colori e pietruzze


colorate in un certo modo speciale. Al tramonto lasciò il tepee con il suo fucile senza dire una parola a nessuno. Il mattino seguente, tornò con venti cavalli che aveva preso ai Nasi Forati.» «Suo padre ne sarà stato contento» disse Scudo Rosso. «Oh sì. Dopo che il ragazzo gli ebbe dato i cavalli, il padre cantò canzoni in sua lode per tutto il giorno. Ma non finì lì. Quella notte Lupo che Corre uscì di nuovo e la mattina dopo riportò quaranta cavalli e li diede tutti a suo padre. E la notte seguente ne catturò cinquanta e li diede tutti al padre. E ancora una quarta notte andò e questa volta riportò ottanta cavalli, e li diede tutti al padre. Oh, posso ben dirtelo, il padre di Lupo che Corre ebbe un bel da fare per badare a tutti quei cavalli. “Basta, basta!” gridò al figlio. “Mi hai dato retta anche troppo.”» Scudo Rosso rise. «Mi sembra che questo Lupo che Corre mi piaccia, anche se è un Corvo» disse. «Oh, ma dopo questo diventò grande in fretta» narrò la donna Sioux. «Dopo che suo padre morì, sua madre e io gli facemmo un nuovo tepee, e poi a me fu detto che potevo tornare dalla mia gente. Lupo che Corre dipinse il suo tepee di nero, legò penne all’ingresso e pose acconciature da guerra e altri ornamenti tutt’intorno all’interno, per mostrare che intendeva diventare un potente guerriero.» Non molto tempo dopo che Scudo Rosso aveva udito questi racconti a proposito di Lupo che Corre, suo padre annunciò che i Sioux stavano per partire per la grande caccia estiva al bisonte. La tribù partì e si accampò in una stretta valle entro la quale alcuni cacciatori avrebbero spinto i bisonti, mentre gli altri li avrebbero aspettati, nascosti sui due fianchi della valle, per ucciderli al passaggio. Fu un periodo di grande lavoro per Scudo Rosso e per le altre donne, giovani e vecchie, poiché toccava a loro scuoiare i bisonti, tenderne le pelli e porle ad asciugare al sole. Un pomeriggio, mentre metà dei cacciatori Sioux erano alla ricerca di un branco di bisonti, a un tratto si sparse l’allarme in tutto il campo: «Stanno arrivando dei Corvi ladri di cavalli! Attenti ai cavalli!». Non appena gli uomini ebbero portato i cavalli entro il campo, fu compito delle donne e dei bambini sorvegliarli mentre gli uomini uscivano per difendere il campo dall’incursione dei Corvi. Scudo Rosso montò sul suo pony pomellato e si unì alle altre donne. In lontananza nella valle vedeva la polvere sollevata dai Corvi che sopraggiungevano di gran carriera contro la linea difensiva dei Sioux. Un momento più tardi udì gli alti gridi di guerra dei contendenti. Vide uno dei guerrieri Corvi, su un cavallo nero, irrompere attraverso la linea dei Sioux e avanzare verso il branco di cavalli che essa aiutava a sorvegliare. Non lontano dietro di lui, due guerrieri Sioux galoppavano al suo


inseguimento. Quando il Corvo fu più vicino, Scudo Rosso vide che portava fra i capelli delle penne d’aquila. Assicurata dietro la cintura, aveva una striscia di cuoio nero tanto lunga che toccava terra. La criniera e la coda del suo cavallo erano dipinte di bianco. Il giovane impugnava una lancia dall’asta nera decorata con fasci di penne di corvo, e quest’arma era puntata diritto contro Scudo Rosso. La fanciulla tenne saldo il suo cavallo pomellato, sfidando il Corvo che stava arrivandole addosso. All’ultimo momento, il Corvo arrestò di botto il suo cavallo nero, quando la punta della sua lancia era distante meno di un braccio dal corpo di Scudo Rosso. La faccia del giovane Corvo era dipinta a strisce bianche e nere. Per un attimo egli fissò attentamente, con occhi sfavillanti, la fanciulla, poi gettò indietro la testa e rise. Frattanto i suoi inseguitori lo avevano raggiunto; uno di essi gli scagliò una freccia ma lo mancò, poi entrambi gli andarono contro con le clave da guerra levate e pronte a colpire. Facendo caracollare in cerchio la sua bestia, il Corvo, con la lancia, sbalzò da cavallo prima l’uno e poi l’altro Sioux. La sua cavalcatura batté forte il terreno con gli zoccoli, poi si lanciò come un gatto entro il branco di cavalli dei Sioux. Prima che Scudo Rosso e le sue compagne potessero muoversi, Il Corvo aveva già separato sei cavalli dal branco e li sospingeva lungo la valle. Adirata e avvilita perché non poteva far nulla per contrastare l’audace Corvo, Scudo Rosso lo osservò allontanarsi. A un certo punto, il giovane si voltò e la salutò con la mano. Al di sopra del martellio degli zoccoli, essa udì la sua aperta risata, e la sua indignazione si trasformò in riluttante ammirazione. Un gruppo di guerrieri Sioux sopraggiunse all’inseguimento, ma il padre di Scudo Rosso li richiamò «Troppi dei nostri cacciatori sono via» disse. «Siamo pochi per rischiare di lasciare le donne, i bambini e i cavalli esposti a un altro attacco.» «Hai visto quel Corvo?» esclamò un vecchio stregone Sioux. «Sia lui, sia quel suo cavallo sono protetti da una potente magia.» La donna Sioux che un tempo era stata prigioniera fra i Corvi e che si trovava davanti al suo tepee disse: «Io lo conosco, quello». «Con che nome è conosciuto?» domandò lo stregone. «Sì, chi è?» aggiunse il padre di Scudo Rosso. «Lupo che Corre: così lo chiamano.» Scudo Rosso, che era ancora in groppa al suo pony pomellato, sussurrò fra sé: “Lupo che Corre… Sapevo che doveva essere Lupo che Corre”. Non molto tempo dopo i Sioux tornarono al loro villaggio sul Fiume Missouri. A tutti i giovani della tribù la figlia del capo, Scudo Rosso, apparve improvvisamente diventata una grande bellezza, e uno alla volta vennero al tepee del capo a chiederla in moglie. Il padre esortava Scudo Rosso a scegliere


fra i pretendenti, ma lei non ne voleva nessuno. Una sera, dopo che la fanciulla aveva respinto un giovane guerriero di bell’aspetto, il padre le ordinò di svelargli il perché di tanta ostinazione. «Perché non lo amo!» gridò lei, e in uno scatto d’ira gettò nel focolare la sua cena. «Se ami qualcun altro,» insisté pazientemente il padre «allora dimmene il nome.» «Amo solo Lupo che Corre» gli rispose. «Voglio sposare lui.» «Ma non puoi sposare Lupo che Corre. È un Corvo, e i Corvi sono nostri nemici…» Il capo pensò che questo avesse posto fine alla questione, ma i giorni passavano e Scudo Rosso non diceva una parola, e mangiava così poco che cominciò a deperire. Alla fine il padre si rese conto che la ragazza era decisa a sposare Lupo che Corre o a lasciarsi morire. «Bene» disse. «Se non altro, sei una donna di carattere. Tu non sai se Lupo che Corre ti vuole in moglie, ma sei decisa a provare. Sta bene.» La mattina dopo prese due bei cavalli, un mulo e preparò dei pacchi contenenti mocassini e altri doni. Convocò la donna che un tempo era stata prigioniera dei Corvi e le disse di andare con Scudo Rosso a cercare l’accampamento dei Corvi dove viveva Lupo che Corre. Le due si misero in cammino e al finire del terzo giorno avvistarono i tepees dei Corvi lungo un ruscello. Si addentrarono in un fitto bosco dove legarono i cavalli e il mulo che portava la soma. Scudo Rosso si dipinse con molta cura e indossò i suoi abiti migliori. Ormai era caduta la notte, ma la luna piena stava alzandosi sopra gli alberi. «È tempo che io vada all’accampamento dei Corvi» disse Scudo Rosso. «Ricorda di cercare un tepee nero» le rammentò la donna Sioux. «Vedrai un fascio di penne d’aquila fissato in cima a uno dei pali.» «Se non tornerò,» sussurrò Scudo Rosso «saprai che Lupo che Corre non mi vuole in moglie e che sono prigioniera dei Corvi come lo fosti tu un tempo.» «Ti aspetterò» rispose la donna Sioux. Scudo Rosso uscì dal bosco ed entrò nella piena luce della luna che inondava l’accampamento dei Corvi. Al centro del campo trovò un tepee nero con le penne d’aquila fissate in cima a uno dei pali di sostegno. Nessuno si accorse di lei che si avvicinava all’apertura del tepee. All’interno, alcuni giovani stavano parlando e fumando attorno a un fuoco. Scudo Rosso sapeva che uno di loro era Lupo che Corre. Rimase seduta fuori della tenda. Dopo un po’ i giovani cominciarono ad andarsene, uno o due per volta, senza fare particolare


attenzione alla sua presenza. Poi Lupo che Corre uscì, stiracchiandosi e sbadigliando. La luce della luna gli illuminava la faccia e Scudo Rosso sentì il cuore batterle forte. A un tratto lui la vide e le disse nella lingua dei Corvi: «Entra», ma Scudo Rosso non capì e non gli rispose né si mosse. Allora Lupo che Corre alzò le spalle e rientrò nella tenda. Scudo Rosso lo sentì dire qualcos’altro. Gli rispose la voce di una vecchia. Allora Scudo Rosso si alzò ed entrò nel tepee. Il fuoco si era ridotto a poche braci, così che Scudo Rosso poté solo vedere in modo indistinto Lupo che Corre e sua madre. Andò accanto al fuoco e si sedette come per scaldarsi. Questa volta fu la vecchia che le parlò nella lingua dei Corvi: «Togliti i mocassini e riposati». Ma naturalmente Scudo Rosso non capì. «Riattizza il fuoco in modo che possiamo vedere questa fanciulla» disse Lupo che Corre. Sua madre pose della legna secca sulla brace e una fiamma brillante illuminò l’interno del tepee. «Questa non è una donna dei Corvi» esclamò la madre di Lupo che Corre. «No,» disse il figlio «ma io so chi è. L’ho vista solo una volta, ma da allora la sua faccia ha visitato i miei sogni molto spesso. È una donna Sioux.» Scudo Rosso sollevò il capo e fece dei cenni per significare che non capiva quello che stavano dicendo, e fece loro segno che aveva nei pressi un’amica la quale avrebbe potuto parlare per lei. Alla fine Lupo che Corre capì e la seguì oltre la radura dove si levava il campo nel fitto del bosco, nel luogo in cui la donna Sioux stava aspettando con i cavalli e il mulo. Lupo che Corre si ricordò della prigioniera della sua adolescenza e quando tornarono al tepee la vecchia Sioux e la madre di Lupo che Corre furono felici di ritrovarsi. «Perché tu e questa figlia di un capo Sioux venite nel nostro accampamento?» domandò la madre. «È Scudo Rosso» rispose la vecchia Sioux. «Ha portato molti doni. È venuta per sposare tuo figlio, Lupo che Corre.» «E mio figlio Lupo che Corre che cos’ha da dire? Sposare una nemica?» Lupo che Corre guardò Scudo Rosso. «Sapevo che era bella e si mostrò coraggiosa quel giorno che presi i cavalli ai Sioux. Ora ha mostrato anche più coraggio di quanto ne avrei avuto io venendo, sola, nell’accampamento dei suoi nemici. La voglio in moglie.» Mentre la vecchia Sioux portava dentro gli involti con i doni, la madre di Lupo che Corre andò per tutto il campo. «Venite a vedere la moglie di mio figlio!» gridava. «Una delle figlie del nemico è venuta a sposarlo!» Tutti i Corvi vennero a vedere Scudo Rosso, e tutti dissero che era molto bella e che aveva dimostrato grande coraggio. La mattina dopo, presto, la donna Sioux si rimise in cammino per il lungo


viaggio fino al Fiume Missouri per dire alla gente della fanciulla che la loro figlia era sana e salva e che adesso era la moglie di Lupo che Corre, guerriero dei Corvi. Pochi giorni dopo il padre di Scudo Rosso, il capo Sioux, mandò due messaggeri al capo dei Corvi per dirgli che lui e molti suoi parenti sarebbero andati dai Corvi in visita di amicizia. Il capo dei Corvi disse a Lupo che Corre di portare il suo tepee nero al posto d’onore, al centro dell’accampamento. Quando i Sioux arrivarono, i Corvi si posero in cerchio e li osservarono montare i loro tepees. Quando questo fu fatto. Scudo Rosso accompagnò Lupo che Corre a dare il benvenuto ai suoi genitori e tutti si scambiarono molti doni. Lupo che Corre portò parecchi fucili e i cavalli che aveva preso ai Sioux e li diede al padre di Scudo Rosso. Per quattro giorni e quattro notti i Sioux rimasero accampati con i Corvi e le due tribù danzarono insieme ogni sera. Dopo che i Sioux furono tornati al Fiume Missouri, Lupo che Corre e Scudo Rosso e vari loro amici e parenti andarono a visitarli di tanto in tanto, e il padre e la madre Sioux vennero a visitare la figlia, e più avanti negli anni a vedere i loro nipoti. In entrambe le tribù, il giovane guerriero dei Corvi e la sua moglie Sioux furono considerati rispettivamente un eroe e un’eroina, e i loro popoli vissero in pace per un certo tempo.


Storie di animali All’inizio di questa raccolta abbiamo posto varie storie a proposito di animali che trattano in condizioni di parità con gli esseri umani. I quattro racconti che seguono parlano soltanto di animali, non di persone. Fra le storie di animali preferite dagli indiani d’America vi sono quelle in cui i più piccoli e deboli riescono a spuntarla con l’ingegno sui più potenti, o in cui i perfidi imbroglioni, come il Coyote, finiscono col fare la figura degli stupidi. Alcune sono umoristiche e trattano di gare fra rivali. Altre premiano il lavoro assiduo e il senso di giustizia, come avviene nella favola Cochiti “Corvo e Falco”.


L’Uccello Azzurro e il Coyote (Pima) Molto tempo fa, le penne dell’Uccello Azzurro8 erano di un brutto colore spento. L’uccello viveva vicino a un lago con le acque di un azzurro delicatissimo che non cambiava mai perché non vi era alcun corso d’acqua che vi entrasse o ne uscisse. Ammirando l’acqua azzurra, l’uccello si bagnò nel lago quattro volte ogni mattina per quattro giorni consecutivi, e ogni mattina cantò: C’è un’acqua azzurra, si trova qui. Ci sono entrato, sono tutto azzurro. Il quarto giorno perse tutte le penne e uscì dall’acqua con la pelle nuda, ma il quinto giorno ne uscì con tutte le penne e le piume azzurre. Per tutto questo tempo, Coyote aveva osservato l’uccello. Voleva tuffarsi e prenderselo per farci un pranzetto, però aveva paura di quell’acqua azzurra. Ma la quinta mattina disse all’Uccello Azzurro: «Com’è che tutto quel brutto colore se n’è andato dalle tue penne e ora sei tutto azzurro e sgargiante e bello? Sei più bello di ogni altra cosa che vola nell’aria. Anch’io voglio diventare azzurro». «Io sono solo entrato nell’acqua quattro volte» rispose l’Uccello Azzurro. E poi insegnò a Coyote la canzone che aveva cantato. E così Coyote si fece coraggio e si tuffò nel lago. Per quattro mattine lo fece, cantando la canzone che l’Uccello Azzurro gli aveva insegnato, e il quinto giorno diventò azzurro come l’uccello. Ciò lo fece sentire molto fiero. Era così fiero di essere un Coyote azzurro che camminando si guardava attorno dappertutto per osservare se qualcuno notava quanto fosse bello e azzurro. Poi incominciò a correre a gran velocità guardando la propria ombra per vedere se anche quella era diventata azzurra. Ma non guardava dove stava andando e così infine andò a sbattere contro un ciocco d’albero caduto, così forte che ne fu respinto al suolo e divenne color polvere in tutto il corpo. E ancor oggi tutti i coyote hanno il colore di terra polverosa.


La storia del Pipistrello (Creek) Gli uccelli sfidarono gli animali a quattro zampe a una partita a palla. Ciascun gruppo fu d’accordo sul fatto che tutte le creature che avevano denti dovevano giocare nella squadra degli animali a quattro zampe e tutti quelli che avevano penne dovevano giocare nella squadra degli uccelli. Scelsero un giorno adatto, ripulirono una radura per farne un campo da gioco, eressero dei pali per segnare le mete e si fecero dare delle palle dagli stregoni. Quando i giocatori si riunirono, tutti quelli che avevano denti si misero da una parte e quelli che avevano penne si misero dall’altra. Quando giunse il Pipistrello, si unì agli animali muniti di denti. «No» dissero gli animali a Pipistrello. «Tu hai le ali, e tu devi giocare con gli uccelli.» Pipistrello andò dalla parte degli uccelli, ma questi dissero: «No, tu hai i denti. Devi giocare con gli animali». E lo respinsero aggiungendo: «Sei così piccolo che non potresti esserci d’aiuto in nessun modo». E così Pipistrello tornò dagli animali, pregandoli di lasciarlo giocare con loro. Alla fine essi acconsentirono: «Sei troppo piccolo per esserci d’aiuto, ma siccome dopo tutto hai i denti ti lasceremo stare nella nostra squadra». La gara ebbe inizio e gli uccelli furono ben presto in vantaggio, perché potevano afferrare la palla in aria, dove gli animali a quattro zampe non potevano raggiungerla. La Gru era quella che giocava meglio, e prendeva la palla così spesso che gli uccelli sembravano i sicuri vincitori. Poiché nessuno di loro sapeva volare, gli animali erano disperati. A questo punto entrò nel gioco il piccolo Pipistrello, volando in fretta e prendendo la palla mentre la Gru svolazzava con lentezza. Pipistrello si impadronì della palla moltissime volte e vinse la partita per gli animali a quattro zampe. Questi convennero che, se pure era piccolo e aveva le ali, Pipistrello sarebbe sempre stato considerato come appartenente agli animali che hanno denti.


Corvo e Falco (Cochiti) Madre Corvo aveva un nido in cui depose due uova. Per un giorno o due sedette sulle uova per covarle, ma poi se ne stancò e andò a caccia di cibo. Passavano i giorni e Madre Corvo non tornava, e ogni mattina Madre Falco volava accanto al nido e vedeva le uova senza alcuno che le tenesse al caldo. Una mattina Madre Falco disse tra sé: “Madre Corvo, che possiede quel nido, non se ne interessa più. Ma le uova non dovrebbero esser lasciate senza alcuno che le covi. Mi ci siederò sopra e, quando si schiuderanno, i piccoli saranno figli miei”. Per molti giorni Madre Falco sedette sulle uova e Madre Corvo non fece mai ritorno al nido. Finalmente le uova cominciarono a schiudersi. Madre Corvo non veniva ancora. Nacquero i due piccoli, e Madre Falco andò in giro per procacciar loro cibo. I piccoli crebbero e crebbero, finché le loro ali diventarono forti. Allora Madre Falco li portò fuori del nido e insegnò loro a volare. Pressappoco in questo periodo, Madre Corvo si ricordò del suo nido e vi tornò. Trovò le uova già schiuse e Madre Falco che si curava dei piccoli. Madre Falco era a terra e nutriva i piccoli corvi. «Madre Falco, cosa credi di fare?» gridò Madre Corvo. «Non faccio niente di male» disse Madre Falco. «Devi restituirmi questi piccoli corvi che stai portando in giro.» «Perché?» «Perché sono miei» replicò Madre Corvo. «A dire il vero, tu hai deposto le uova,» disse Madre Falco «ma poi te ne sei andata e le hai abbandonate. Non c’era nessuno seduto sulle uova per tenerle al caldo. Io sono venuta, mi sono seduta sul nido e le ho covate. Quando si sono schiuse, ho nutrito i piccoli e ora sto insegnando loro a procacciarsi il cibo da soli. Sono miei, e non li restituirò.» «Me li riprenderò» minacciò Madre Corvo. «Non rinuncerò a questi piccoli. Ho lavorato per loro. Per molti giorni sono rimasta digiuna, seduta sulle uova. Per tutto quel tempo tu non ti sei nemmeno avvicinata al tuo nido. E proprio ora, che ho fatto tutto il lavoro di covarli e allevarli, li pretendi indietro?» Madre Corvo guardò i piccoli. «Figli miei,» disse «venite con me. Sono io vostra madre.» Ma i piccoli risposero: «Non ti conosciamo. Madre Falco è nostra madre». Infine, quando si convinse che non sarebbe riuscita a persuadere i piccoli ad andare con lei, Madre Corvo disse: «Va bene. Porterò questa faccenda


davanti ad Aquila, Re degli Uccelli, e sarà lui a decidere. Vedremo chi ha diritto a questi piccoli corvi». «Bene» disse Madre Falco. «Sono disposta ad andare dal Re degli Uccelli perché decida.» E così Madre Corvo e Madre Falco e i due giovani uccelli andarono da Aquila. Fu Madre Corvo a parlare per prima: «Quando sono tornata al mio nido,» disse «ho trovato le mie uova schiuse e Madre Falco che badava ai miei piccoli. Sono venuta da te, Re degli Uccelli, per chiederti di ordinare a Madre Falco di restituirmi i miei figli.» «Perché avevi lasciato il nido?» chiese Aquila a Madre Corvo. A questa domanda Madre Corvo non rispose. Si limitò a chinare il capo in silenzio. «Molto bene. Madre Falco,» disse Aquila «come hai trovato questa nidiata?» «Molte volte ho volato sopra il nido e l’ho visto vuoto» rispose Madre Falco. «Per molto tempo non è venuto nessuno, e così mi sono detta: “La madre che ha fatto queste uova non può più badarvi. Sono lieta di covare io i piccoli”. Perciò mi sedetti sul nido e tenni al caldo le uova finché si schiusero. Poi andai in giro a procurare cibo per i piccoli. Ho lavorato sodo e ho insegnato loro a volare e a procurarsi il cibo.» «Ma sono figli miei» la interruppe Madre Corvo. «Io ho deposto le uova.» Aquila fissò Madre Corvo. «Aspetta il tuo turno per parlare» disse severamente, e poi si rivolse ancora a Madre Falco. «È questo tutto ciò che hai da dire?» «Sì, ho lavorato sodo per allevare i due piccoli. Proprio ora che sono in grado di badare a se stessi, questa torna e li vuole lei. Ma sono stata io digiuna un giorno dopo l’altro per stare sul nido e tenere al caldo le uova. Questi uccellini sono figli miei. Non voglio rinunciarvi.» Aquila restò a pensare qualche istante, borbottando fra sé: «Sembra che Madre Falco non sia disposta a rendere i piccoli a Madre Corvo. Se Madre Corvo avesse veramente voluto questi piccoli, perché lasciò il nido per tanti giorni? E ora chiede che le vengano dati? In verità, Falco è la vera madre dei piccoli, perché stette senza cibo per scaldarli e covarli e poi andò in cerca di cibo per loro. Perciò sono figli suoi». Udendo questo, Madre Corvo si fece più vicino ad Aquila. «Oh, Re degli Uccelli,» disse «perché non domandi ai piccoli quale madre preferiscono seguire? Sono abbastanza cresciuti per sapere che sono Corvi e non Falchi.» Aquila assentì e si rivolse ai piccoli. «Quale madre preferite?» domandò. Entrambi i Corvi risposero all’unisono: «Madre Falco è nostra madre. È lei la sola madre che conosciamo.»


«Io,» gridò Madre Corvo «sono io la vostra vera madre!» I giovani Corvi allora le dissero: «Tu ci abbandonasti nel nido. Madre Falco ci covò e si prese cura di noi, ed è lei nostra madre». «E’ deciso» dichiarò Aquila. «I giovani hanno scelto Falco come madre. E così sia.» A questo, Madre Corvo scoppiò a piangere. «Inutile piangere» disse Aquila. «Tu abbandonasti il nido, ed è colpa tua se hai perso i tuoi figli. È decisione del Re degli Uccelli che essi vadano con Madre Falco.» E così i giovani Corvi rimasero con Madre Falco e Madre Corvo perse i suoi figli.


Perché Coyote smise di imitare i suoi amici (Caddo) Coyote e Corvo erano buoni amici. Un giorno che Coyote si era stancato di cercare cibo senza trovarne, decise di salire in cima alla Montagna Azzurra per far visita al suo amico Corvo. «Benvenuto» disse Corvo. «Ma perché hai l’aria così stanca e triste, amico mio?» «Sono stato a caccia di cibo, ma non ho trovato nulla.» Sentito questo, Corvo mise una freccia all’arco e la scagliò dritta in aria, poi rimase ad aspettare che ricadesse. La freccia cadde e trapassò la parte alta della sua stessa ala. Quando Corvo estrasse la freccia, questa aveva sulla punta un grosso pezzo di carne di bisonte. Corvo la diede a Coyote, che schioccò la lingua e mangiò di gusto. «Quello sì che era un bel pezzo di carne» disse Coyote. «Devo ricambiare, una volta o l’altra. Verrai presto a trovarmi?» «Sì, verrò» promise Corvo. Coyote non sapeva che Corvo possedeva poteri magici sul bisonte, e pensava di poter ricorrere alla stessa tecnica per ottenere della carne. In attesa della visita di Corvo si fabbricò un arco nuovo e pochi giorni dopo Corvo scese dalla Montagna Azzurra a fargli visita. «Benvenuto, benvenuto!» lo salutò Coyote. «Non ho carne perché non ti aspettavo, ma se hai pazienza un momento rimedierò.» Coyote prese il suo arco nuovo e scagliò una freccia dritta verso il cielo. Poi stette ad aspettare che ricadesse; Corvo lo osservava senza dire una parola. La freccia ricadde proprio sulla coscia di Coyote, che scappò via ululando di dolore e abbandonando l’ospite. Corvo lo aspettò, poi se ne tornò a casa senza carne, ma di buon umore perché il tentativo di Coyote per imitarlo lo aveva divertito. Per giorni e giorni rise fra sé ogni volta che ci ripensava. Quanto a Coyote, corse per miglia e alla fine ebbe il buon senso di fermarsi e di strapparsi la freccia dalla coscia. Era così umiliato che la fece a pezzi e poi andò a nascondersi nei boschi. Dopo un po’ gli venne fame, e quando vide che non riusciva a trovare nulla da mangiare decise di salire sulla Montagna Ricca per far visita a Orso Nero. «Benvenuto, vecchio amico» lo accolse Orso Nero. «Vedrò se posso procurarmi un po’ di cibo da offrirti.» Mentre parlava si appoggiò a una pianta di cachi i cui rami pendevano fin quasi a terra per i molti frutti maturi. Con il corpo scosse l’albero e così i frutti maturi caddero a terra.


Orso Nero sorrise e invitò l’amico a mangiare. Coyote mangiò cachi finché non ebbe più fame e poi se ne riempì un fagotto. «Grazie davvero, amico» disse Coyote. «Ora devo proprio andare, ma insisto: promettimi che verrai a trovarmi presto.» Il giorno dopo Coyote girovagò alla ricerca di un albero di cachi. Ma non ne trovò neppure uno che avesse frutti e così ne tagliò uno senza frutti, lo trascinò a casa e lo infilò nel terreno. Quindi prese i cachi che aveva portato nel fagotto e li legò a uno a uno ai rami in modo che sembrassero proprio frutti di quell’albero. Non molto tempo dopo Orso Nero venne a fare la visita promessa. «Sono contento di vederti» disse Coyote. «Aspetta un momento e cercherò di trovarti qualcosa da mangiare.» Coyote cominciò a battere con la testa contro la pianta di cachi. Batteva sempre più forte, ma i cachi erano legati così bene che non volevano staccarsi. Infine scosse la pianta con le zampe, sebbene provasse imbarazzo a ricorrere a quel sistema. Diede all’albero un forte scossone e quello precipitò sulla sua testa. Coyote finse di non aver provato nessun dolore e si diede da fare a raccogliere frutti per Orso Nero, ma quasi non ci vedeva dal gran male. Il bernoccolo che gli si era formato in testa diventava sempre più grosso. Orso Nero mangiò, ma fece una gran fatica a inghiottire, per la voglia di ridere che aveva a causa del modo goffo in cui Coyote aveva cercato di imitarlo. Dopo un po’ disse a Coyote che doveva andarsene. In realtà non se la sentiva di restare oltre per il timore che Coyote lo vedesse ridere a crepapelle. Quando Orso Nero se ne fu andato, Coyote si sedette reggendosi la testa dolorante, ma era felice perché aveva saputo procurare cibo al suo amico Orso Nero. Pochi giorni dopo, mentre era nella foresta in cerca di qualcosa da mangiare, Coyote si imbatté in una casetta d’erba che non aveva mai visto prima. Chiedendosi chi mai potesse abitare la nuova casetta e se potesse avere del cibo da dividere con lui, andò davanti all’ingresso e chiamò: «Ehi, lì dentro, sono Coyote!». «E io sono Picchio» rispose una voce. «Entra pure.» Coyote entrò e vide un uccello che andava in giro con una luce brillante sulla testa. «Di’, amico,» gridò Coyote «hai la testa in fiamme, e tu e la tua casa brucerete se non la spegni.» Il Picchio Testarossa sorrise e rispose con voce calma: «Ho sempre avuto questa luce sulla testa. Mi fu data in principio. Non brucerà nulla». Poi Picchio diede a Coyote qualcosa da mangiare. Dopo che Coyote ebbe mangiato quanto più poteva, si alzò e disse che


doveva andarsene. «Ti prego di venire a farmi visita» disse «e ricambierò la tua ospitalità.» Un po’ di tempo dopo, Picchio si recò a casa di Coyote. «C’è nessuno in casa?» domandò davanti alla porta. «Solo un momento» rispose Coyote. Picchio lo sentì agitarsi all’interno e poi dire: «Ora vieni pure dentro e siediti!». Picchio entrò e fu sorpreso di vedere un fascio di paglia in fiamme sulla testa di Coyote. «Ehi, toglitelo!» gridò. «Ti brucerai la testa.» Coyote sorrise e rispose con voce calma: «No, no, non mi brucerò la testa. Lo porto sempre. Mi fu detto in principio che avrei portato una luce sulla testa di notte, per poter fare quello che mi piace mentre gli altri sono al buio». Coyote non aveva ancora finito di parlare che i peli sul capo gli presero fuoco. Cominciò a urlare dal dolore e tentò di spegnere il fuoco, ma non vi riuscì. Corse fuori di casa, ululando disperato, fino al fiume. Picchio attese a lungo il suo ritorno, ma Coyote rimase al fiume tutto il giorno a cercare di lenire il dolore che provava alla testa bruciacchiata. Dopo di che Coyote smise di cercar di imitare i suoi amici.


Storie di fantasmi Nelle fredde sere invernali, quando strideva e ululava il vento, i narratori davanti al fuoco del tepee avevano sempre in serbo almeno una storia di fantasmi che faceva correre brividi di paura lungo la spina dorsale degli ascoltatori. AnzichÊ apparire sotto forma di bianchi lenzuoli, i fantasmi degli indiani d’America erano piÚ spesso scheletri, e si comportavano in modi diversi. Talvolta compivano buone azioni. Altre volte erano capricciosi, proclivi a far male, o semplicemente si divertivano terrorizzando i viventi che capitavano sulla loro strada.


Il Guerriero Zoppo e lo Scheletro (Arapaho) Nei tempi prima dei Cavalli una squadra di giovani Arapaho si mise in marcia un mattino d’autunno alla ricerca di selvaggina sulle montagne occidentali. Portavano grosse scorte di cibo e mocassini di ricambio e un giorno mentre attraversavano il letto roccioso di un torrentello uno dei giovani guerrieri sentì improvvisamente un acuto dolore alla caviglia. Questa si gonfiò e il dolore peggiorò finché piantarono il campo per la notte. La mattina dopo la caviglia si era così gonfiata che fu impossibile al guerriero proseguire il viaggio con gli altri. I suoi compagni decisero che la miglior cosa da fare fosse di lasciarlo lì. Tagliarono giovani salici e erbe alte per fargli un riparo, e quando questo fu finito raccolsero un mucchio di legna secca perché potesse tenere acceso il fuoco. «Quando la tua caviglia sarà guarita,» gli dissero «non tentare di seguirci. Ritorna al nostro villaggio e aspettaci lì.» Dopo parecchi giorni in solitudine, il guerriero zoppo provò se la caviglia lo sosteneva, ma era ancora troppo dolente per consentirgli di camminare. E poi una notte venne una forte bufera di neve che in pratica lo imprigionò nel rifugio. Poiché non era stato in grado di uccidere selvaggina, le sue riserve di cibo erano quasi esaurite. Un pomeriggio sul tardi guardò fuori e vide un folto branco di bisonti che scavavano nella neve in cerca d’erba, proprio vicino al suo rifugio. Allora allungò il braccio e, preso l’arco, scagliò una freccia al bisonte più grasso e lo uccise. Poi si trascinò strisciando fuori del rifugio, raggiunse la preda, la scuoiò e portò dentro la carne. Preparato un bel letto di braci, vi pose sopra delle costate ad arrostire. Quando queste furono cotte, era già buio, e proprio mentre il guerriero zoppo stava per prenderne una da mangiare, udì uno scricchiolio di passi sulla neve ghiacciata. I passi si fecero sempre più vicini alla tenda che chiudeva il rifugio. “Chi potrà mai essere?” si chiese il guerriero. “Sono qui solo, non posso correre, ma mi difenderò se sarà necessario.” Impugnò l’arco e una freccia. Un momento più tardi la tenda si aprì e comparve uno scheletro avvolto in un mantello scuro che fissò il guerriero zoppo. Il mantello era puntato stretto al collo, così che erano solo visibili in alto il cranio e in basso i piedi dello scheletro. Atterrito, il guerriero ne distolse lo sguardo. «Non devi aver paura di me» disse lo scheletro con voce roca. «Io ho avuto pietà di te e tu ora devi avere pietà di me. Dammi da mangiare una di quelle costate, perché ho molta fame.»


Ancora molto preoccupato per la presenza del visitatore inatteso, il guerriero pose un grosso pezzo di carne su una mano fatta solo di ossa che era protesa verso di lui. E fu meravigliato nel vedere lo scheletro masticare il cibo con i denti nudi e ingoiarlo. «Sono stato io a provocarti il male alla caviglia, in modo che tu non potessi continuare la spedizione di caccia» disse lo scheletro. «Se tu avessi proseguito con i tuoi compagni, saresti stato ucciso. Il giorno che ti abbandonarono qui, un gruppo di nemici li attaccò e li uccise tutti. Sono stato io a salvarti la vita.» Di nuovo la mano di ossa dello scheletro si protese, questa volta per massaggiare la caviglia del guerriero. La pena e il gonfiore scomparvero all’istante. «Ora puoi di nuovo camminare» disse il fantasma. «I tuoi nemici sono sparsi qui attorno, ma se mi seguirai ti ricondurrò sano e salvo al tuo villaggio.» All’alba lasciarono il rifugio e si incamminarono sulla neve, e lo scheletro faceva strada. Camminarono attraverso fitti boschi, lungo ruscelli ghiacciati e scavalcando alte colline. Il pomeriggio, sul tardi, lo scheletro condusse il guerriero in cima a un ripido costone. Quando il guerriero raggiunse la vetta, il fantasma era sparito, ma giù, nella valle sottostante, egli poté vedere il fumo dei tepees del suo villaggio Arapaho.


Collare Pesante e la Donna Fantasma (Piedi Neri) Un’estate, mentre i Piedi Neri erano accampati sul Fiume del Vecchio Uomo, un capo chiamato Collare Pesante scelse sette giovani guerrieri perché lo accompagnassero in una caccia al bisonte. Gli otto viaggiarono per i Monti dei Cipressi, ma non avendo trovato alcun bisonte iniziarono il viaggio di ritorno verso il loro campo. In avanscoperta andava Collare Pesante, poiché avevano visto tracce del passaggio di folti gruppi di nemici scesi sul sentiero di guerra, e il capo voleva che il suo piccolo gruppo si spostasse il più possibile vicino al coperto, sul fondo di valli e burroni e altri luoghi bassi. Un pomeriggio, mentre precedeva i suoi guerrieri lungo il corso di un largo fiume, Collare Pesante avvistò tre vecchi bisonti maschi che giacevano sopra una ripida scarpata. Avanzò a un trotto veloce, attraversando uno scoscendimento per portarsi vicino ai bisonti. Ne uccise uno con una freccia e lo squartò. Avendo fame, tagliò un grosso pezzo di carne e se lo portò in fondo allo scoscendimento, dove preparò un fuoco senza fumo per arrostirlo. Prima che i suoi sette giovani guerrieri lo avessero raggiunto, scese repentinamente la notte. «Forse avrei dovuto aspettare i miei giovani,» disse ad alta voce «ma avevo paura che i bisonti fuggissero. Prima che sia buio del tutto, dovrei risalire la scarpata e cercare di far loro dei segnali. Potrei anche strappare un po’ di peli dalla testa di quel bufalo e con essi nettare la canna del fucile.» Mentre se ne stava lì seduto pensando a queste cose e parlando a se stesso, una palla di peli di bufalo volò attraverso l’aria nella sua direzione, cadendo a terra proprio di fronte a lui. Quando ciò accadde, egli si sentì alquanto scosso, pensando che forse dei nemici l’avevano preso in trappola e che erano stati loro a gettargli quella palla di peli. Dopo un po’, raccolse i peli e con essi pulì il fucile. Ricaricò l’arma e rimase seduto, guardando in giro e ascoltando con attenzione mentre l’oscurità si faceva più profonda. Si sentiva a disagio e decise di risalire di un tratto il corso del fiume per ispezionarne le rive. Quando arrivò all’imboccatura del Fiume Santa Maria, la notte era molto avanzata. Era così stanco che si trascinò fino a una chiazza di loglio per nascondervisi e dormire. Ora, Collare Pesante non sapeva di trovarsi sul luogo di un accampamento dove un’altra tribù indiana aveva vissuto l’estate precedente. Quegli indiani erano stati sorpresi da una spedizione nemica. Una donna era rimasta uccisa nei combattimenti e il suo corpo era stato abbandonato proprio in quella chiazza di loglio su cui Collare Pesante si era gettato a riposare. Benché molto stanco, il capo non riusciva a prendere sonno. Gli sembrava di udire rumore


di cose che si muovevano, ma di che si trattasse, non riusciva a farsene un’idea. Ogni volta che stava appisolandosi, gli sembrava di sentire qualcosa lì vicino. Così passò la notte, e non appena venne la luce vide uno scheletro proprio accanto a sé. Era quello della donna che era stata uccisa l’estate prima. Tormentato dalla paura, Collare Pesante salì verso le alture oltre il Fiume della Pancia, una zona molto accidentata dove era stato convenuto che egli e i suoi guerrieri si sarebbero trovati nel caso che avessero perso contatto. Tutto il giorno seguitò a pensare al fatto di aver dormito accanto alle ossa di una donna sconosciuta, e questo lo rendeva sempre più nervoso. Non riusciva a toglierselo dalla mente. Alla fine della giornata era stanchissimo, avendo dormito così poco la notte prima. Al tramonto, guadando le acque basse, raggiunse un’isola in mezzo al fiume e decise di passarvi la notte. All’estremità a monte dell’isola trovò un tronco d’albero che vi era stato portato dalla corrente. Usando la biforcazione a un’estremità del tronco si fece un riparo contro il vento, allestì un fuoco, lo accese e si sedette su una gamba sola con la schiena alla fiamma, scaldandosi. Ma intanto seguitava a pensare allo scheletro accanto al quale aveva passato la notte precedente. A un certo momento, udì un suono improvviso dietro di sé, il suono di qualcosa che veniva trascinata sul terreno verso il fuoco. Era simile al rumore che fa una tenda da tepee trascinata sull’erba. Ed era sempre più vicino. Collare Pesante provava più paura di quanta non ne avesse provata da un pezzo. Aveva tanta paura che non riusciva a volgere la testa indietro per vedere che cosa fosse a produrre il rumore. Quel suono di cosa strascicata sembrò arrivare fino al tronco abbattuto presso il quale ardeva il fuoco. Lì si fermò, e a un tratto lui sentì qualcuno che fischiava un motivo musicale. Allora si voltò e guardò verso il rumore e là, seduto su un’altra biforcazione del tronco, proprio di fronte a lui, c’era quello stesso scheletro accanto al quale aveva cercato di dormire la notte prima. Questo fantasma indossava ora un pezzo di una vecchia copertura da tepee, dalla quale sporgeva un laccio di quelli che servono ad assicurare le coperture ai pali di sostegno, e questo laccio era stretto attorno alla gola del fantasma. Gli orli della copertura da tepee sembravano spalancarsi e svanire nell’oscurità. Il fantasma cominciò a fischiare una canzone e mentre fischiava muoveva le gambe a tempo Quando Collare Pesante vide questa strana apparizione, il suo cuore quasi smise di battere. Finalmente raccolse abbastanza coraggio per proferir parola: «Oh, fantasma, vattene via e non molestarmi. Sono molto stanco. Voglio riposare, dormire». Ma le sue parole ottennero solo l’effetto che il fantasma prese a fischiare


più forte e a muovere le gambe con maggior violenza. Il teschio ruotò da una parte all’altra, qualche volta guardando lui, qualche volta guardando le stelle nel cielo, ma senza smettere di fischiare. Vedendo che il fantasma non prestava attenzione alle sue suppliche, Collare Pesante si adirò e disse: «Ebbene, fantasma, visto che non hai pietà di me, dovrò scacciarti sparandoti». Prese il fucile e sparò a bruciapelo contro il fantasma. Questo cadde all’indietro nell’oscurità, ma gridò: «Mi hai sparato, Collare Pesante, mi hai ucciso! Non sei meglio di un cane, Collare Pesante. Ti maledico. Non c’è posto sulla terra, dovunque tu possa andare, in cui io non ti troverò; non potrai nasconderti in nessun luogo senza che io lo scopra». A queste parole, Collare Pesante balzò in piedi e fuggì il più in fretta possibile. Dietro di sé udiva ancora la voce del fantasma che gridava nella notte: «Sono stata uccisa una volta, Collare Pesante, e ora tu cerchi di uccidermi di nuovo». La voce lo seguì a lungo, e finalmente svanì in lontananza. Egli corse e corse nel buio, e ogni volta che si fermava per riprender fiato udiva ripetere lontano il suo nome da una voce lugubre. Aveva molto sonno, ma non osava stendersi a riposare, ricordando la minaccia del fantasma di seguirlo ovunque. Alle prime luci del giorno osò infine sedersi a riposare e cadde subito addormentato. Frattanto i sette giovani guerrieri che accompagnavano Collare Pesante si erano recati al luogo di convegno sui colli oltre il Fiume della Pancia per attendere l’arrivo del capo. Quel mattino uno dei giovani, di vedetta in cima a una collina per avvistare chi potesse arrivare, vide due persone giungere nella sua direzione. Quando furono più vicine, il guerriero riconobbe in una di loro Collare Pesante. L’altra era una donna. La vedetta chiamò gli altri del gruppo: «Sta arrivando il nostro capo! E porta con sé una donna». Tutti risero e scherzarono a proposito del modo in cui avrebbero potuto portargliela via. Quando le due persone furono giunte in cima a un costone dov’era un tratto piano. Collare Pesante incominciò a camminare a passo molto svelto. La donna riusciva a seguirlo solo per poco, poi restava indietro e doveva mettersi a correre per riportarsi alla pari con lui. Proprio di fronte al luogo dove i giovani guerrieri si erano accampati c’era una valle stretta e profonda, che il capo e la donna avrebbero dovuto traversare. I guerrieri li videro scendere nella valle fianco a fianco, ma quando Collare Pesante uscì dall’altra parte della valle era solo. Lanciò un saluto ai giovani e si affrettò al loro campo. «Collare Pesante,» disse uno di loro «dov’è la tua donna?» Il capo aggrottò la fronte, sorpreso. «Non ho nessuna donna» rispose. Tutti si misero a ridere, e lui soggiunse: «Non capisco di che cosa stiate parlando».


Uno dei giovani disse: «Il capo deve averla nascosta giù nella valle». Un altro domandò: «Dove l’hai catturata, e di che tribù è?». Collare Pesante volse lo sguardo sorpreso dall’uno all’altro, poi disse: «Credo che siate tutti impazziti. Non ho catturato nessuna donna. Che cosa avete in mente?» Un guerriero rispose: «Tutti noi ti abbiamo visto scendere con quella donna nella valle qui sotto. Da dove veniva, e dove l’hai lasciata? È laggiù nella valle? L’abbiamo vista con i nostri occhi ed è inutile negare che fosse con te». Ormai Collare Pesante aveva capito che la donna veduta dai giovani guerrieri doveva essere il fantasma da lui incontrato. Sedette e raccontò loro quello che era accaduto la notte prima. Alcuni non vollero credergli, e corsero in fondo alla valle dove avevano visto la donna poco prima, ma benché trovassero le impronte dei mocassini di Collare Pesante, non vi erano altre orme accanto a quelle. Infine si convinsero che quella donna era proprio un fantasma, ma quella notte non vi furono sue manifestazioni. La mattina dopo intrapresero il viaggio di ritorno al campo dei Piedi Neri, sul Fiume del Vecchio Uomo. Era già buio quando raggiunsero l’accampamento, e amici e parenti li invitarono a banchettare con loro. Dopo i festeggiamenti Collare Pesante si sedette davanti al suo tepee a godersi la pace della notte illuminata dalla luna. All’improvviso udì un rumore fra i cespugli, ma con sollievo constatò che si trattava soltanto di un orso uscito dai boschi. Si guardò in giro alla ricerca di una pietra da scagliare contro l’animale per spaventarlo e cacciarlo via. Trovò un pezzo di osso e lo gettò all’orso, colpendolo duramente. «Bene bene, Collare Pesante» disse l’orso. «Già mi hai ucciso una volta, e adesso mi colpisci. Ti ho detto che non c’è posto al mondo dove tu possa nasconderti da me. Non importa dove andrai, ti ritroverò sempre.» Avendo compreso che quella era la donna fantasma che aveva assunto le sembianze di un orso, Collare Pesante corse dentro il suo tepee gridando a squarciagola: «Correte! Fuggite! C’è un orso fantasma contro di noi». Tutta la gente corse verso il tepee di Collare Pesante, che pochi minuti dopo fu gremito. Un gran fuoco ardeva sotto il buco per il fumo, e un forte vento occidentale faceva tremare il tepee. Uomini, donne e bambini si stringevano gli uni agli altri, per la paura del fantasma della cui presenza erano appena stati avvertiti. Fuori si sentivano i passi del fantasma che si avvicinavano. «Questa gente non è meglio dei cani» gridò il fantasma. «Li ucciderò tutti. Nessuno sfuggirà.» I passi si avvicinarono ancora di più, finché


non sembrarono proprio davanti all’ingresso del tepee che era stato serrato. Allora il fantasma disse: «Vi farò morire tutti soffocati». Detto questo, spostò i pali di sostegno orientando la punta del tepee verso occidente, così che il vento poteva entrarvi liberamente attraverso il buco per il fumo. Mentre il tepee si riempiva di fumo, il fantasma seguitò a pronunciare tremende minacce. I bambini piangevano, tutti lacrimavano e tossivano a causa del fumo soffocante. «Alziamo un uomo che possa raddrizzare le coperture del tepee» disse Collare Pesante «così che il fumo vada via.» Sollevarono un uomo sulle spalle, ma era così accecato e soffocato dal fumo che faceva fatica a muovere le estremità delle coperture. E mentre l’uomo stava facendo questo, il fantasma diede un gran colpo al tepee, spaventando coloro che tenevano issato l’uomo sulle loro spalle, al punto che lo fecero cadere. «È inutile» disse Collare Pesante. «Quella donna fantasma è decisa a farci morire soffocati.» Ormai il fumo era così denso dentro il tepee che potevano a malapena vedersi in faccia l’un l’altro. «Non c’è nessuno che possieda poteri abbastanza grandi da sopraffare il fantasma?» chiese Collare Pesante con voce disperata. «Io sono la più vecchia di tutta la tribù» rispose sua madre. «Proverò io.» Trovò subito il suo involtino delle cose magiche e si dipinse il corpo nel modo opportuno. Poi caricò e accese la pipa del marito morto e ne cacciò l’imboccatura attraverso uno strappo nella copertura d’ingresso del tepee. «Fantasma!» disse con voce tremula. «Fuma questa pipa e vattene.» «No, no, no» rispose il fantasma. «Voi siete dei cani, tutti quanti. Non vi darò ascolto. Dovrete morire tutti.» «Fantasma, abbi pietà di noi» invocò la vecchia. «Fuma questa pipa e vattene in pace.» Allora il fantasma disse: «Come potete aspettarvi che la fumi se sono fuori del tepee? Portatemela qui. Non ho il becco lungo come un uccello, per poter raggiungere il cannello della pipa». La vecchia alzò la tenda d’ingresso e uscì dal tepee. Con la debole mano porse la pipa in direzione della voce del fantasma. «Portami la pipa più vicino» ordinò il fantasma. «Se vuoi che la fumi, devi portarmela.» Allora la vecchia mosse verso il fantasma, che arretrò e disse con voce irosa: «No, no, non voglio fumare quel genere di pipa». Mentre parlava, il fantasma si allontanò ulteriormente e la vecchia si sentì trascinata dietro di esso da una forza potente e misteriosa. Allora gridò spaventata: «Bambini miei! Il fantasma mi sta portando via!». Mentre accorreva ad aiutarla, Collare Pesante chiamò gli altri. «Venite e


aiutatemi a salvare mia madre dal fantasma». Afferrò la madre per la vita e la trattenne finché un altro non venne ad afferrare lui per la vita. Tutti gli altri uscirono man mano dal tepee finché non formarono una lunga catena, ciascuno tenendo chi lo precedeva con tutte le sue forze. Ma per quanto si sforzassero, lentamente il fantasma li trascinava verso di sé. E allora all’improvviso la vecchia lasciò andare la pipa e cadde morta al suolo. In quel preciso istante il fantasma scomparve. Dopo di allora, Collare Pesante non fu più tormentato dalla Donna Fantasma. Anche la pipa non fu vista mai più.


Il Sioux che lottò con un fantasma (Sioux) Un giovane guerriero Sioux se ne andò da solo per vivere un certo tempo con gli animali e gli uccelli. Sperava ardentemente che Wakantanka, il Grande Mistero, gli mandasse una visione, così che egli potesse conoscere quale direzione prendere nella vita. Dopo aver incontrato e superato molti punti difficili, giunse in un luogo selvaggio. Un giorno, mentre camminava attraverso una foresta, udì una voce. Scrutò attentamente intorno, ma poté solo vedere un gufo appollaiato su un albero. Venuta la notte, preparò un fuoco e vi si sedette davanti a scaldarsi. A un tratto udì di nuovo la voce, che stavolta cantava molto forte. Il Sioux lanciò un grido per chiamare colui che cantava, ma nessuno rispose, e dopo un po’ di tempo il canto si perse in lontananza. Le sole provviste che il Sioux aveva con sé consistevano in un sacchetto di wasna, grasso di bisonte con carne essiccata e ciliegie selvatiche. Stava per afferrare il sacchetto allorché il canto riprese, anche più forte di prima, e quando egli alzò gli occhi vide un fantasma che stava in piedi al limite del cerchio di luce irradiato dal fuoco. «Voglio un po’ del tuo cibo» disse il fantasma. «Non ho niente di niente» replicò il giovane guerriero. «Non è così» disse il fantasma. «Io so che hai del wasna.» «Va bene. Lo spartirò con te.» Dopo che ebbero mangiato un po’ di wasna, il Sioux caricò di tabacco la propria pipa e la offrì al fantasma. Quando il fantasma si mosse per afferrare il cannello della pipa, il giovane vide che la mano non aveva carne, ma era fatta soltanto di ossa. In quel momento il mantello del fantasma gli cadde dalle spalle alla vita, così che tutte le sue costole furono visibili, e non avevano carne addosso. Benché il fantasma non avesse schiuso i denti nel fumare, il fumo gli usciva fuori attraverso le costole. Quando ebbe finito di fumare, il fantasma disse al Sioux: «Dobbiamo fare una gara di lotta. Se riuscirai a gettarmi a terra, ti farò ricco di cavalli». Poiché non possedeva cavalli, il giovane accettò di lottare con il fantasma, ma prima di iniziare la lotta accumulò una pila di sterpi per il fuoco, in modo da illuminare la foresta. Mentre stava facendo ciò, il fantasma gli si precipitò addosso afferrandolo con le mani di ossa e stringendolo in modo molto doloroso. Il giovane cercò di spingerlo via, ma le gambe del fantasma erano molto possenti. Dopo un certo tempo, il Sioux notò che quando lottavano vicino al fuoco, il fantasma diventava debole, ma più si allontanavano dal fuoco, più la sua


forza si accresceva. Il giovane lottò con grande energia, ma le ossa del fantasma si serravano sempre di più attorno a lui. Con uno sforzo disperato, riuscì ad avvicinarsi abbastanza al fuoco per far schizzare sulle braci, con un calcio, un pezzo di legna secca. Non appena il fuoco levò le sue lingue, il fantasma cadde a terra come se stesse andando a pezzi. «Hai vinto» disse con voce roca. «Ora seguimi.» Proprio mentre spuntava il giorno, il fantasma aveva ormai guidato il Sioux attraverso la foresta fino a una valle dov’erano centinaia di cavalli. Il giovane ne legò con la corda quanti poteva portarne al villaggio. Non vide mai più il fantasma, ma dopo quella volta credette ai fantasmi e a qualsiasi cosa possano dire alla gente.


1

L’Uccello del Tuono, nella mitologia di alcune tribù indiane, era la personificazione del lampo, del tuono e della pioggia. (N.d.T.) 2 Vedi nota a p. 19. 3 “Noce d’America.” (N.d.T.) 4 Si tratta di certe piante del genere Amaranthus le cui foglie e rami secchi formano palle sollevate e spinte qua e là dal vento della prateria. (N.d.T.) 5 Il San Lorenzo. (N.d.T.) 6 Cinomi è il loro nome, in zoologia. Si tratta di piccoli roditori simili a scoiattoli che per il verso abbaiante sono chiamati cani della prateria. (N.d.T.) 7 Il martiri pescatore vero e proprio non esiste in America, dove vive un suo stretto affine dal nome scientifico di Megaceryle alcyon. (N.d.T.) 8 Uccello del genere Siaia, di piumaggio azzurro, che vive nel Nordamerica. (N.d. T.)



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