GERONIMO. LA MIA STORIA Nel 1906 Stephen Barrett, sovrintendente scolastico in Arizona, incontrò il vecchio capo indiano Geronimo, confinato nella riserva indiana di Fort Sill. Mosso dalle migliori intenzioni, Barrett chiese a Geronimo di raccontargli la sua vita, allo scopo di far conoscere al mondo la storia delle guerre indiane dal punto di vista dei nativi americani. Geronimo acconsentì e i due si sedettero a gambe incrociate, l’uno raccontando una vita avventurosa, densa di eventi epocali e contrassegnata da battaglie e azioni ardimentose, l’altro riportando fedelmente le parole dell’indiano e successivamente perorando la causa della pubblicazione del volume presso il presidente degli Stati Uniti, Roosevelt. Geronimo, l’uomo che aveva tenuto in scacco per decenni gli eserciti combinati del Messico e degli Stati Uniti, adottando una tattica di guerriglia che ispirò nel Novecento rivoluzionari di tutte le latitudini, il capo indiano Apache al cui fischio «i cavalli accorevano come posseduti», narra qui la sua giovinezza in una terra fertile e generosa; la sua maturità mentre le guerre indiane si profilano all’orizzonte in tutta la loro durezza; e la sua vecchiaia, da prigioniero di guerra, ostaggio di uomini bianchi incapaci di comprendere il grande dolore della sconfitta di un popolo. Eccezionale documento storico e al tempo stesso avvincente testimonianza in presa diretta di un mondo che non cessa mai di affascinare, Geronimo. La mia storia non mancherà di interrogare il lettore sulle sue certezze da viso pallido. GERONIMO Nato libero con il nome di Goyahkla nel 1829, fu soprannominato «Geronimo» dai visi pallidi. Combattè furiosamente contro messicani e statunitensi nella seconda metà dell’Ottocento e il suo nome divenne sinonimo di guerriero Apache. Circondato da cinquemila uomini dell’esercito americano si arrese il 4 settembre del 1886. In quel momento la sua banda non superava la cinquantina di individui, donne e bambini compresi. Trascorre i successivi vent’anni della sua vita a Fort Sill. Morì da prigioniero di guerra nel 1909.
GERONIMO LA MIA STORIA Autobiografia di un guerriero Apache Raccolta da Stephen Melvil Barrett A cura di Dario Morgante EDIZIONE INT EGRALE
Geronimo. La mia storia Autobiografia di un guerriero Apache Raccolta da Stephen Melvil Barrett Edizione a cura di Dario Morgante Titolo originale: Geronimo’s Story of His Life, Duffield & Company, New York, 1906
Geronimo. La mia storia INDICE INTRODUZIONE
Cosa state per leggere di Dario Morgante
GERONIMO. LA MIA STORIA PREFAZIONE ORIGINALE NOTA INTRODUTTIVA ORIGINALE
Parte prima. Gli Apache L’origine degli indiani Apache Suddivisioni della tribù degli Apache I primi anni Divertimenti, usi e costumi della tribù La famiglia Parte seconda. I messicani Kas-ki-yeh Combattimenti difficili Incursioni vittoriose Alti e bassi della sorte Altre incursioni (un capitolo scritto da Stephen M. Barrett) Duri combattimenti La più violenta battaglia di Geronimo Parte terza. L’uomo bianco L’arrivo dei bianchi Il torto più grave Trasferimenti In prigione e sul sentiero di guerra La lotta finale Prigioniero di guerra Parte quarta. Il vecchio e il nuovo Le leggi che gli Apache si trasmettono oralmente All’Esposizione Universale La religione Speranze per il futuro Appendice La resa di Geronimo
NOTE
INTRODUZIONE
Cosa state per leggere di Dario Morgante
«Non avrei mai dovuto accettare la resa, avrei dovuto combattere sino alla fine». GERONIMO, sul letto di morte
Geronimo, il temuto capo indiano, non sapeva scrivere e se è per questo non si chiamava nemmeno Geronimo. Quindi prima di leggere le pagine che seguono è bene chiarire cosa avete davanti. La sua autobiografia venne raccolta nel 1906 da Stephen Melvil Barrett, un supervisore scolastico che si trovava a Lawton, nell’Oklahoma, a poca distanza da Fort Sill, dove Geronimo era prigioniero di guerra assieme alla sua intera tribù da ben vent’anni, essendosi arreso al generale Miles nel 1886. Nato nel 1829, Geronimo aveva all’epoca più di settant’anni, ed era un uomo psicologicamente provato, dipinto come uno degli ultimi grandi «malvagi» dell’epopea western americana. Barrett si accostò al vecchio guerriero con rispetto, e sembrerebbe che questa «autobiografia» riporti piuttosto fedelmente quello che Geronimo davvero disse. Si noterà anche che il testo ha un andamento incostante e spesso lacunoso, tipico del racconto orale, che era appunto la maniera indiana di narrare le cose. Per poter pubblicare il libro Barrett arrivò ad appellarsi al presidente Roosevelt, visto lo status di «prigioniero di guerra» del capo Apache. L’autorizzazione arrivò e la casa editrice newyorchese Duffield & Company mandò alle stampe il volume negli ultimi mesi del 1906. Nel corso del volume – a partire dalla stessa dedica – Geronimo ha per Roosevelt parole di grande rispetto, quasi si ammirazione. Bisogna riflettere sulla concezione del mondo tipica dei nativi americani, per i quali un «capo» è sempre un uomo di grande saggezza, rettitudine e integrità morale, giacché sono queste le doti che tra gli Apache portano a diventare un capotribù. Sfuggivano a Geronimo le sfumature della democrazia rappresentativa, anche se – va riconosciuto – il presidente Theodore Roosevelt proprio in quel fatidico 1906 vinse il premio Nobel per la pace. Il nome indiano (Chiricahua) di Geronimo era Goyahkla che a dispetto delle attitudini militari e guerriere del suo possessore, voleva dire letteralmente «Uomo che sbadiglia». Fu l’ultimo grande leader militare nella stagione del crepuscolo definitivo della nazione Apache, al culmine del genocidio dei nativi americani. Nel testo Goyahkla racconta di come crebbe libero seguendo le usanze e le tradizioni della sua gente, e di come visse in prigionia gli ultimi anni della sua vita.
Nel libro le note a piè di pagina sono quelle originali di Barrett, mentre quelle numerate riportate alla fine del volume sono mie. Ho cercato dove possibile di spiegare il contesto delle parole di Goyahkla, che per Barrett dovevano essere più chiare di quanto non lo siano per noi oggi. Ho deciso di inserire un capitolo che era presente nell’edizione originale del 1906, ma che è poi stato espunto dall’edizione del 1970, curata da Frederick W. Turner III. Questo capitolo, Altre incursioni, a pagina 113, è scritto direttamente da Stephen Barrett e nella sua ingenuità chiarisce molto bene il contesto nel quale ha operato il compilatore di questo volume. Bisogna leggere questo libro avendo ben chiaro in mente che Goyahkla, per gli statunitensi dell’inizio del secolo scorso, era come Vercingetorige per i romani del I secolo a.C.: un nobile re nemico, sconfitto e portato a Roma in catene per poter essere mostrato al popolo nel corso delle celebrazioni in onore di Cesare. Nella prefazione di Barrett si scorge questa visione del mondo. Le sue intenzioni sono quelle del documentarista che raccoglie la testimonianza di un mondo che va scomparendo. Roosevelt autorizzò la pubblicazione del libro perché poteva ben permettersi di essere magnanimo. Non era possibile che Geronimo «sobillasse» nessuno, gli Apache erano stati sterminati, le guerre indiane definitivamente vinte. Alle vicende umane di Goyahkla e al contorto rapporto tra i vincitori di allora e la memoria del grande condottiero Apache, c’è una sorprendente e al tempo stesso disgustosa coda. Il teschio di Geronimo fu trafugato dalla tomba a Fort Sill nel 1916 da alcuni giovani militari di leva appartenenti alla potente confraternita universitaria nota come Skull and Bones. Tra di loro anche Prescott Bush, il nonno di George Bush (le elezioni presidenziali del 2004 furono soprannominate «The Bones Election» visto che vedevano contrapposti due ex membri della confraternita, George Bush e John Kerry). La confraternita ha sempre ufficialmente smentito che il teschio di Geronimo sia custodito nell’inviolabile sede della società segreta, nota come La Tomba. Ciononostante nel 2009 Ramsey Clark, ex Ministro della giustizia, ha avviato un’azione legale per chiedere la restituzione delle spoglie del guerriero Apache. Geronimo non sapeva dunque scrivere, posava in costumi tradizionali allo scopo di raggranellare qualche dollaro, ringraziava il presidente Roosevelt come un suddito leale. Eppure era stato un leader tribale, un grande guerriero e un uomo rispettato. Nella sua autobiografia possiamo scorgere quel senso di profonda sconfitta storica, così lontana dagli stereotipi hollywoodiani, che parla direttamente ai nostri cuori e alle nostre coscienze. Ribaltando i luoghi comuni per cui gli indiani erano «malvagi» e ribaltando i luoghi comuni successivi per cui erano «buoni» questo libro racconta, più di molti film, quanto il crepuscolo segni il cammino delle esistenze. Eppure la voce di Geronimo esce con decisione da queste pagine. «Mi sono battuto», sembra dire, «perché era giusto farlo. Ho perso. Gli dei hanno abbandonato il popolo Apache. Ora ci resta solo la magnanimità dell’uomo
bianco. Come spettri popoliamo le terre che un tempo attraversavamo orgogliosamente». Se in questo libro c’è una morale è che le nostre vite sono preda di un destino più grande, dove le semplificazioni non sembrano trovare posto. E che Usen accompagni il nostro cammino e, se possibile, sia buono con noi.
GERONIMO LA MIA STORIA Autobiografia di un guerriero Apache
Perché mi ha concesso di raccontare la mia storia; perché ha letto questa storia e sa che cerco di dire la verità; perché ho la certezza che sia leale e disposto ad adoperarsi per rendere nel futuro giustizia al mio popolo; e perché è il capo di un grande popolo, dedico questo racconto della mia vita a Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti. GERONIMO
PREFAZIONE ORIGINALE
L’idea iniziale, nella compilazione di quest’opera, era di offrire ai lettori un documento autentico sulla vita privata degli indiani Apache e di accordare a Geronimo il diritto che hanno tutti i prigionieri di guerra: esporre i motivi che lo indussero a resistere alla nostra civiltà e alle nostre leggi. Se la causa degli indiani è stata presentata in modo corretto, se la difesa dei prigionieri è stata esposta in modo chiaro e se la quantità d’informazioni generali concernenti un tipo di uomini che va scomparendo è aumentata, mi dichiaro soddisfatto. Desidero attestare la mia riconoscenza per i loro preziosi consigli al maggiore Charles Taylor, Fort Sill (Oklahoma); al dottor J.M. Greenwood, Kansas City (Missouri); e al preside David R. Boyd dell’università di Oklahoma. In quest’occasione desidero in modo particolare dichiarare che, senza il cortese consiglio e aiuto del presidente Theodore Roosevelt, questo libro non si sarebbe potuto scrivere. Rispettosamente S.M. BARRETT Lawton, Oklahoma 14 agosto 1906
NOTA INTRODUTTIVA ORIGINALE
Incontrai Geronimo la prima volta nell’estate del 1904, quando gli feci da interprete dall’inglese allo spagnolo, e viceversa, per la vendita di un copricapo da guerra. Dopo di ciò mi rivolse sempre qualche parola gentile quando m’imbattevo in lui, ma non entrò mai con me in una vera conversazione finché non venne a sapere che una volta ero stato ferito da un messicano. Appena glielo dissero, venne da me ed espresse con veemenza la sua opinione sul messicano medio e la sua avversione per tutti i messicani in generale. Gli dissi di ritornare a trovarmi, cosa che fece; poi, in seguito a un suo invito, lo visitai nel suo tepee, nella riserva militare di Fort Sill. Nell’estate del 1905 il dottor J.M. Greenwood, sovrintendente alle scuole di Kansas City (Missouri), mi venne a trovare e io lo portai a vedere il capo. Geronimo si comportò in modo formale e riservato, finché il dottor Greenwood disse: «Sono amico del generale Howard, e l’ho sentito parlare di Geronimo». «Venite», ci invitò allora Geronimo, e ci precedette in un angolo all’ombra, ci fece portare dei sedili, si mise il copricapo da guerra e ci servì angurie à la Apache (tagliate a grosse fette), sempre chiacchierando liberamente e allegramente. Quando ce ne andammo ci invitò insistentemente a tornare da lui. Qualche giorno dopo il vecchio capo venne a chiedermi notizie di «mio padre». Gli risposi: «Se parli del vecchio signore di Kansas City… è tornato a casa sua». «È tuo padre?» mi chiese Geronimo. «No», dissi, «mio padre è morto venticinque anni fa; il dottor Greenwood è soltanto un amico». Dopo un momento di silenzio, il vecchio indiano parlò di nuovo, e questa volta con un tono di voce che intendeva essere convincente, o almeno a non permettere altre discussioni. «Il tuo padre naturale è morto, quest’uomo è stato tuo amico e consigliere fin da quando eri giovane. Egli è tuo padre per adozione. Digli che sarà un ospite gradito tutte le volte che verrà a casa mia». Non sarebbe servito a nulla dargli altre spiegazioni, poiché il vecchio era determinato a non comprendere i miei rapporti con il dottor Greenwood se non conformemente agli usi indiani; lasciai quindi cadere l’argomento. Verso la fine di quell’estate chiesi al vecchio capo il permesso di pubblicare alcune delle cose che mi aveva detto, ma Geronimo si oppose, dicendo però che, se l’avessi pagato e se gli ufficiali del campo non avessero obiettato, mi avrebbe raccontato l’intera storia della sua vita. Mi recai immediatamente a Fort Sill, e
chiesi all’ufficiale responsabile, il tenente Purington, il permesso di scrivere la vita di Geronimo. Mi fu subito detto che quel privilegio non mi sarebbe mai stato concesso. Il tenente Purington mi spiegò quante razzie avessero commesso Geronimo e i suoi guerrieri, e quanto fosse costato in termini di vite umane sottomettere gli Apache, aggiungendo che il vecchio capo meritava di essere impiccato, invece che viziato dalle eccessive attenzioni dei civili. Gli feci notare che il nostro governo aveva pagato molti soldati e ufficiali perché andassero nell’Arizona a uccidere Geronimo e gli Apache, e che questi avevano dimostrato di non saperlo fare; tale osservazione non fu molto gradita all’orgoglio di quell’ufficiale di carriera, e io risolsi di rivolgermi altrove per il permesso. Scrissi dunque al presidente Roosevelt che a questo vecchio indiano, da vent’anni prigioniero di guerra, non era mai stata offerta l’opportunità di narrare la sua versione degli avvenimenti; chiesi che a Geronimo fosse concessa l’autorizzazione di raccontare in un libro la storia della sua vita a modo suo, e che gli fosse garantito che la pubblicazione dell’autobiografia non avrebbe influito sfavorevolmente sul destino dei prigionieri di guerra Apache. Per mezzo di corriere mi fu comunicato che il permesso era stato concesso. Qualche giorno dopo da Fort Sill ricevetti notizia che il Presidente aveva ordinato al comandante del forte di dare l’autorizzazione richiesta. Fu fissato un incontro per darmi le disposizioni del dipartimento della Guerra. Quando mi recai a Fort Sill il comandante mi consegnò un documento che conteneva le mie istruzioni. Al principio d’ottobre mi procurai l’aiuto di un indiano istruito, Asa Daklugie, figlio di Whoa, capo degli Apache Nedni , come interprete, e il lavoro di compilazione del libro cominciò. Geronimo si rifiutò di parlare alla presenza di uno stenografo, o di aspettare correzioni o domande mentre raccontava la sua storia. Ogni giorno aveva in mente che cosa avrebbe detto e lo diceva in modo chiarissimo e conciso. Decideva di volta in volta di parlare nel suo tepee o a casa di Daklugie o in qualche forra montana o galoppando a ritmo serrato nella prateria; in qualsiasi luogo lo portasse il capriccio, raccontava quel che desiderava raccontare e niente di più. La volta che narrò la prima parte dell’autobiografia non si lasciò fare domande su nessun particolare, e non volle aggiungere neppure una parola, ma si limitò a dire: «Scrivete quel che ho detto», e ci lasciò soli a ricordare e a scrivere i fatti senza darci il minimo aiuto. Tuttavia accettò poi di venire un altro giorno nel mio studio, o in qualsiasi altro posto indicato da me, ad ascoltare la ripetizione (in Apache) di ciò che era stato detto; in quelle occasioni soleva rispondere a tutte le domande, o aggiungere qualche informazione, tutte le volte che riuscivo a convincerlo della necessità. Presto la compilazione del libro lo stancò talmente che avrebbe voluto abbandonare l’opera; non lo fece solo perché aveva acconsentito a raccontare la
storia intera. Quando Geronimo dà la sua parola, nulla riesce a impedirgli di mantenere la promessa. Me ne diede un’impressionante prova al principio di gennaio del 1906. Ci eravamo messi d’accordo che Geronimo sarebbe venuto nel mio studio un determinato giorno, ma all’ora fissata l’interprete arrivò solo, e disse che Geronimo stava molto male, era raffreddato e aveva la febbre. Era venuto a chiedermi di fissare un altro giorno, poiché temeva che il vecchio guerriero avesse la polmonite. Era una giornata gelida; l’interprete avvicinò una sedia al caminetto per scaldarsi dopo essersi esposto al freddo della lunga cavalcata. Proprio mentre si stava sedendo guardò fuori della finestra, si rialzò di colpo e senza parlare indicò una figura che si avvicinava rapidamente a noi. Poco dopo riconobbi il vecchio capo che cavalcava impetuosamente (nell’evidente tentativo di arrivare contemporaneamente all’interprete), con il cavallo schiumante che barcollava esausto. Smontò, entrò e disse con un rauco bisbiglio: «Avevo promesso di venire. Eccomi». Gli spiegai che non mi ero aspettato di vederlo arrivare con un tempo tanto burrascoso, e che in quelle condizioni fisiche non doveva cercare di lavorare. Rimase un momento in piedi, poi senza parlare lasciò la stanza, salì sul suo cavallo stanco, e a capo chino s’incamminò per il lungo viaggio di ritorno: più di quindici chilometri sotto un vento freddo del nord. Aveva mantenuto la promessa. Quando Geronimo terminò la sua storia, sottoposi il manoscritto al maggiore Charles W. Taylor, del Diciottesimo Cavalleria, comandante di Fort Sill (Oklahoma), il quale mi diede preziosi suggerimenti per altre informazioni sull’argomento. Chiesi a Geronimo di fornirmele, e in molti casi il vecchio capo mi diede le notizie desiderate, ma in altri si rifiutò, specificando i motivi per cui rifiutava. Dopo aver aggiunto al testo queste nuove informazioni, sottoposi il manoscritto al presidente Roosevelt, dalla cui lettera cito queste parole: «Lei ha il manoscritto di un libro interessantissimo, ma consiglierei di declinare ogni responsabilità in tutti i casi in cui si lede la reputazione di un individuo». In seguito a questo suggerimento, in tutto il libro ho aggiunto note per declinare la responsabilità di ogni giudizio ostile su tutte le persone menzionate da Geronimo. Il 2 giugno del 1906 trasmisi il manoscritto completo al dipartimento della Guerra. Cito dalla mia lettera d’accompagnamento il seguente brano: «Conformemente alla clausola numero otto delle istruzioni comunicatemi dall’ufficiale comandante di Fort Sill, clausola che conteneva le disposizioni del dipartimento, sottopongo qui accluso il manoscritto dell’autobiografia di Geronimo. II manoscritto è stato sottoposto all’approvazione del Presidente, e per suo consiglio ho declinato qualsiasi responsabilità per i giudizi (espressi da Geronimo)
sugli individui citati». Sei settimane dopo che il manoscritto era stato spedito, il generale di brigata Thomas C. Barry, aiutante del capo di stato maggiore, mandò al Presidente il seguente: MEMORANDUM PER IL SEGRETARIATO ALLA GUERRA
Oggetto: Manoscritto dell’autobiografia di Geronimo. Si rende l’accluso documento, che fu rimesso a questo ufficio il 6 luglio con l’ordine di riferire se vi si trova qualcosa di criticabile. Il manoscritto è un’interessante biografia di un eminente indiano, scritta da lui. Vi sono molti punti che, secondo il modo di vedere di questo dipartimento, non sono approvabili in alcun modo. Si trovano alle pagine 73, 74, 90, 91 e 97, e sono segnati da linee rosse in margine. L’intero manoscritto sembra in un certo senso importante, in quanto mostra il lato indiano di un conflitto prolungato, ma si pensa che il documento, sia nel complesso sia parzialmente, non debba essere approvato dal dipartimento della Guerra.
Stampo il memorandum perché il pubblico possa conoscere le obiezioni del dipartimento della Guerra. I punti controversi erano: a pagina 132 del libro, l’accenno a un attacco contro indiani in una tenda ad Apache Pass o Bowie, da parte di soldati degli Stati Uniti. Le affermazioni di Geronimo sono però, sostanzialmente, confermate da L.C. Hughes, editore di «The Star», di Tucson (Arizona). Alle pagine 143, 144 e 147 del libro, Geronimo critica il generale Crook. Questa critica è semplicemente l’opinione personale di Geronimo sul generale Crook. La reputiamo una questione privata e la lasciamo senza commenti, poiché non riguarda affatto la storia degli Apache. A pagina 152 del libro, Geronimo accusa il generale Miles di malafede. Senza dubbio, il generale Miles concluse il trattato con gli Apache, ma sappiamo benissimo che non è responsabile del modo in cui il governo in seguito trattò i prigionieri di guerra. Tuttavia, Geronimo questo non lo può capire, e attribuisce al generale Miles il biasimo di ciò che definisce un trattamento ingiusto. Non si può pretendere che il dipartimento della Guerra approvi giudizi ostili alle sue azioni, ma ci riesce particolarmente gradito che nel memorandum abbia manifestato un’opinione tanto liberale su questi giudizi, e che ammetta tanto francamente i meriti dell’autobiografia. Senza dubbio né il Presidente né il dipartimento della Guerra sono in alcun modo responsabili di quanto dice Geronimo, al quale è semplicemente stata concessa l’occasione di esporre il suo caso secondo il suo modo di vedere. La sola scusa che è necessario premettere per le numerose caratteristiche poco convenzionali di quest’opera è che Geronimo ha raccontato la sua storia a modo suo.
PARTE PRIMA
GLI APACHE
L’origine degli indiani Apache
In principio il mondo era coperto di tenebre. Non c’era il sole, non c’era la luce del giorno. La notte perpetua non aveva né luna né stelle. C’era però ogni sorta di bestie e di uccelli. Tra le bestie c’erano molti mostri orrendi e senza nome, oltre a draghi, leoni, tigri, lupi, volpi, castori, conigli, scoiattoli, ratti, topi, e tutte le qualità di esseri striscianti come le lucertole e i serpenti. Il genere umano non poteva prosperare in queste condizioni, perché le bestie e i serpenti distruggevano tutta la prole dell’uomo. Ogni creatura aveva il dono della parola ed era fornita di ragione. C’erano due tribù di creature: gli uccelli, ossia la tribù piumata, e le bestie. I primi erano organizzati sotto il loro capo, l’aquila. Queste tribù tenevano sovente consigli, e gli uccelli desideravano che si introducesse la luce. Ripetute volte le bestie rifiutarono di accettarla. Finalmente gli uccelli fecero guerra alle bestie. Le bestie erano armate di bastoni, ma l’aquila aveva insegnato alla sua tribù l’uso dell’arco e delle frecce. I serpenti erano talmente saggi che qualcuno riuscì a sopravvivere. Uno si rifugiò su una rupe scoscesa in una montagna dell’Arizona e il suo occhio (convertito in pietra brillante) può ancora oggi essere visto su quella roccia. Ogni orso, quando veniva ucciso, si trasformava in molti altri orsi, cosicché, quanti più orsi la tribù dei pennuti uccideva, tanti più ce n’erano. Neppure il drago poteva essere ucciso, poiché era ricoperto di quattro strati di squame cornee che le frecce non riuscivano a penetrare. Uno dei mostri più orrendi e più abominevoli (senza nome) era a prova di frecce: allora l’aquila si librò alta nell’aria con una pietra bianca e rotonda e la lasciò cadere sul capo del mostro, uccidendolo all’istante. Il servigio reso da questa pietra fu tanto buono, che la pietra fu dichiarata sacra.* Molti giorni durarono i combattimenti, poi finalmente agli uccelli toccò la vittoria. Finita questa guerra, nonostante ci fossero ancora alcune bestie malvagie, gli uccelli poterono prevalere nei consigli, e la luce fu introdotta. Così il genere umano poté vivere e prosperare. L’aquila aveva condotto questa favorevole battaglia: per conseguenza, le sue penne furono portate dall’uomo come simbolo di saggezza, giustizia e potenza. Fra i pochi esseri umani ancora vivi c’era una donna cui erano concessi molti figli, i quali però venivano sempre uccisi dalle bestie. Se con tutti i suoi sforzi la madre riusciva a evitare le altre belve, arrivava il drago stesso, che era astutissimo
e assai malvagio, e le divorava i bambini. Dopo molti anni le nacque un figlio, generato dal temporale. Per lui ella scavò una profonda caverna, sbarrò l’ingresso di questa caverna e vi accese un fuoco da campo. Questo fuoco teneva caldo il bambino e ne celava il nascondiglio. La madre tutti i giorni disfaceva il fuoco e scendeva nella caverna dov’era il giaciglio del bimbo, per allattarlo; poi usciva e riaccendeva il fuoco del bivacco. Ripetutamente il drago venne a interrogarla, ma la madre soleva rispondergli: «Non ho più figli; tu me li hai divorati tutti». Quando il bambino fu più grande, non rimaneva sempre nella caverna, poiché desiderava poter ogni tanto correre e giocare. Una volta il drago vide le sue orme. Questo rese perplesso il vecchio drago e lo fece arrabbiare, perché non riusciva a scoprire il nascondiglio del ragazzo; minacciò allora di uccidere la madre se non gli avesse rivelato il luogo in cui nascondeva il figlio. La povera madre ne fu turbatissima; non poteva rinunciare al suo bambino, ma, conoscendo la potenza e l’astuzia del drago, viveva costantemente nel terrore. Poco tempo dopo, il ragazzo annunciò che desiderava andare a caccia. La madre non avrebbe voluto dargli il permesso e gli parlò del drago, dei lupi, dei serpenti. Ma il ragazzo disse: «Domani vado». Pregato dal ragazzo, suo zio (che era l’unico uomo vivente in quei tempi) gli fabbricò un piccolo arco e qualche freccia, e il giorno seguente i due andarono a caccia. Inseguirono il cervo su per i monti, e infine il ragazzo uccise un maschio. Lo zio gli insegnò a scuoiare il cervo e a cuocerne la carne. Arrostirono sul fuoco la parte posteriore della bestia, metà per il ragazzo e metà per lo zio. Quando la carne fu cotta, la misero a raffreddare sui cespugli. Proprio in quel momento apparve l’immensa sagoma del drago. Il bambino non si spaventò, ma lo zio fu talmente paralizzato dal terrore, che non parlò e non si mosse. Il drago prese la porzione di carne del ragazzo, e con questa si allontanò un poco. Mise la carne su un altro cespuglio e vi si accovacciò vicino. Poi disse: «Questo è il bambino che ho tanto cercato. Ragazzo mio, sei grasso e gustoso; quando avrò mangiato questa carne di cervo, ti divorerò». Il ragazzo rispose: «No, non mi mangerai, e non mangerai quella carne». Così mosse qualche passo verso il punto in cui stava il drago, e riportò la carne vicino al proprio sedile. Il drago disse: «Ammiro il tuo coraggio, ma sei sciocco: che cosa pensi di poter fare?». «Be’», rispose il ragazzo, «posso fare quanto basta per proteggermi, come puoi vedere». Allora il drago prese di nuovo la carne e il ragazzo gliela ritolse. In tutto il drago prese la carne quattro volte; il ragazzo, dopo aver riportato al suo posto la carne la quarta volta, gli disse: «Drago, vuoi combattere con me?». Il drago rispose: «Sì, nel modo in cui tu preferisci». Il ragazzo disse: «Mi metterò alla distanza di cento passi da te; potrai tirare quattro volte contro di me con il tuo arco e le tue frecce, purché poi tu prenda il mio posto e mi conceda quattro colpi». «Bene», disse il drago, «stai
dritto». Allora il drago afferrò l’arco, che era fatto di un grosso pino. Scelse quattro frecce dalla faretra; erano fabbricate con giovani alberelli di pino, e ogni freccia era lunga sei metri. Prese lentamente la mira, ma proprio mentre la freccia scoccava dall’arco, il ragazzo emise uno strano suono e saltò in aria. Immediatamente la freccia si spezzettò in mille frammenti; e il ragazzo fu visto in piedi in cima a uno scintillante arcobaleno proprio sul punto contro cui il drago aveva diretto il tiro. Di colpo l’arcobaleno scomparve e il ragazzo fu di nuovo in piedi nello stesso posto. Questo si ripeté quattro volte, poi il ragazzo disse: «Drago, stai qui, adesso tocca a me tirare». Il drago rispose: «Benissimo; le tue piccole frecce non possono trapassare la mia prima corazza di corno, e io ne ho altre tre… tendi pure il tuo arco». Il ragazzo scagliò una freccia, colpì il drago proprio sopra il cuore, e uno strato delle grosse squame cornee cadde al suolo. Il secondo tiro infranse un altro strato, il terzo un altro ancora, e il cuore del drago rimase esposto. Allora il drago tremò, ma non poté muoversi. Prima di lanciare la quarta freccia, il ragazzo disse: «Zio, tu sei irrigidito dalla paura e non ti sei mosso; vieni qui, altrimenti il drago ti cadrà addosso». Lo zio corse verso di lui. Allora il ragazzo scoccò la quarta freccia con mira sicura e trapassò il cuore del drago. Con un tremendo urlo il drago rotolò giù lungo il fianco della montagna… giù per quattro dirupi fino a un canyon sottostante. Immediatamente nubi temporalesche strisciarono sulle montagne, i fulmini diedero bagliori, il tuono rimbombò e la pioggia cadde a rovescio. Quando il nubifragio cessò, laggiù in fondo al canyon si poterono scorgere i frammenti dell’enorme corpo del drago sparpagliati tra le rocce. Le ossa di quel drago si possono ancora vedere in quel luogo. Il nome di questo ragazzo era Apache. Usen* gli insegnò a preparare le erbe
medicinali, a cacciare, a combattere. Egli fu il primo capo degli indiani e portò le penne dell’aquila come simbolo di giustizia, di saggezza, di potenza. A lui e alla sua gente, quando fu creata, Usen diede dimora nelle terre dell’occidente. * Un simbolo di questa pietra è usato nel gioco tribale Kah. Si veda il capitolo Divertimenti, usi e costumi della
tribù, a pagina 38.
* «Usen» è la parola Apache che significa Dio. La usiamo qui perché implica gli attributi della divinità contenuti
nella loro primitiva religione. «Apache» significa «nemico».3
Suddivisioni della tribù degli Apache
Gli indiani Apache sono divisi in sei sottotribù. Io appartengo a una di queste, i Be-don-ko-he.4
La nostra tribù abitava quella zona di terreno montuoso che si trova a ovest del confine orientale dell’Arizona, e a sud delle sorgenti del fiume Gila. Più verso oriente vivevano gli Apache Chi-hen-ne (Ojo Caliente, Hot Springs). La nostra tribù non ebbe mai scontri con loro. Victorio 5, il loro capo, fu sempre
mio amico. Venne in aiuto della nostra tribù tutte le volte che glielo chiedemmo. Perse la vita difendendo i diritti del suo popolo. Era un uomo buono e un bravo guerriero. Suo figlio Charlie ora vive qui con noi in questa riserva. A nord rispetto a noi vivevano gli Apache White Mountain. Questi non sempre andavano d’accordo con la nostra tribù, però raramente combattemmo contro di loro qualche guerra. Conobbi personalmente il loro capo, Hash-ka-ai-la6, e lo reputai un buon guerriero. Il loro territorio confinava con quello degli indiani Navaho, che non sono dello stesso sangue degli Apache. Noi tenevamo consigli con tutte le tribù Apache, ma mai con gli indiani Navaho. Però commerciavamo con loro e talvolta li visitavamo. A occidente del nostro paese si schieravano gli Apache Chi-e-a-hen7. Nella mia
epoca ebbero due capi, Co-si-to e Co-da-hoo-yah. Erano in buoni rapporti con la nostra tribù, ma non erano grandi amici. Più a sud di noi vivevano gli Apache Cho-kon-en (Chiricahua) il cui capo nei vecchi tempi era Co-chise8, e in seguito suo figlio Naiche9. Questa tribù fu sempre
in ottimi rapporti con noi. Eravamo spesso insieme, negli accampamenti e sulle piste. Naiche, che fu mio compagno in guerra, è ora mio compagno di schiavitù. A sud e a ovest vivevano gli Apache Ned-ni. Il loro capo era Whoa10, chiamato dai messicani Capitan Whoa. Erano nostri amici sicuri. Il territorio di questa tribù si estende parte nel Messico, parte nell’Arizona.* Whoa e io sovente ci accampavamo
e combattevamo fianco a fianco come fratelli. I miei nemici erano suoi nemici, i miei amici suoi amici. Ora è morto, ma suo figlio Asa mi fa da interprete per questa storia. Le quattro tribù (Bedonkohe, Chokonen, Chihenne, Nedni), che erano legate da un’amicizia saldissima nei giorni della libertà, sono ancora unite mentre calano di numero. Soltanto la distruzione di tutta la nostra gente potrebbe sciogliere i nostri
vincoli d’amicizia. Stiamo scomparendo dalla terra, eppure non posso pensare che siamo inutili, perché in questo caso Usen non ci avrebbe creati. Egli creò tutte le tribù degli uomini: certamente ebbe uno scopo giusto quando creò ciascuna tribù. Per ogni tribù di uomini che Usen creò, fece anche una dimora. Nella terra creata per ciascuna delle tribù egli pose tutto ciò che ci fosse di meglio per il suo benessere. Quando Usen creò gli Apache, creò anche le loro dimore nell’occidente. Diede loro quei cereali, quei frutti, quella selvaggina che costituivano il loro cibo necessario. Perché riacquistassero la salute quando la malattia li assaliva, fece sì che crescessero molte erbe differenti. Insegnò loro dove trovarle, e come preparare con queste le medicine. Egli diede agli Apache un clima piacevole, e mise loro a disposizione tutto ciò che occorreva per vestirsi e per ripararsi. Così fu all’inizio: gli Apache e i loro paesi creati gli uni per gli altri dallo stesso Usen. Quando sono strappati da questi loro paesi si ammalano e muoiono. Quanto tempo passerà ancora, prima che si possa dire: non ci sono più Apache?11 * Le linee di confine segnate in tempi diversi tra il Messico e gli Stati Uniti non corrispondevano naturalmente alle
linee di confine di queste tribù Apache, e presto gli indiani si accorsero delle questioni internazionali prodotte dai conflitti d’interessi tra i due governi, e ne approfittarono.
I primi anni
Sono nato nel giugno del 1829 nell’Arizona, nel canyon Nodoyohn. Fui allevato in quel territorio che si stende intorno alle sorgenti del fiume Gila. Questo spazio era la nostra patria; fra queste montagne erano nascosti i nostri wigwam; le vallate sparse racchiudevano i nostri campi; le praterie sconfinate, che si stendevano all’infinito in ogni direzione, erano i nostri pascoli; le caverne rocciose erano le nostre sepolture. Fui il quarto di una famiglia di otto figli: quattro ragazzi e quattro ragazze.* Di
quella famiglia, siamo ancora vivi soltanto io, mio fratello Porico (Cavallo Bianco) e mia sorella Nahda-ste. Siamo tenuti prigionieri di guerra in questa riserva militare (Fort Sill). Quand’ero piccolo mi rotolavo sullo sporco pavimento del tepee di mio padre, pendevo dalla schiena di mia madre oppure era sospeso al ramo di un albero con il mio tsoch (il nome Apache della culla). Era scaldato dal sole, cullato dal vento, riparato dagli alberi come gli altri piccoli indiani. Durante l’infanzia mia madre m’insegnò le leggende del nostro popolo, mi parlò del sole e del cielo, della luna e delle stelle, delle nubi e dei temporali. M’insegnò anche a inginocchiarmi per pregare Usen chiedendogli forza, salute, saggezza e protezione. Non pregavamo mai contro nessuno: se avevamo qualcosa contro un individuo, prendevamo noi stessi la nostra vendetta. Ci hanno insegnato che Usen non si occupa dei meschini litigi degli uomini. Mio padre mi aveva parlato tante volte delle coraggiose gesta dei nostri guerrieri, dei piaceri della caccia, e delle glorie del sentiero di guerra. Giocavo intorno alla casa di mio padre con i fratelli e le sorelle. Qualche volta giocavamo a nascondino tra le rocce e i pini, qualche altra gironzolavamo all’ombra dei pioppi oppure cercavamo il shudock (una specie di ciliegia selvatica) mentre i nostri genitori lavoravano nei campi. Talvolta giocavamo a fare la guerra. Ci addestravamo a strisciare di soppiatto verso qualche oggetto che rappresentava per noi il nemico, e con le nostre imitazioni infantili eseguivamo azioni militari. Talvolta ci nascondevamo alla vista di nostra madre per vedere se riusciva a trovarci, e mentre eravamo acquattati ci addormentavamo e rimanevamo per molte ore nel nostro nascondiglio. Quando fummo grandi abbastanza da poter essere d’aiuto andammo nei campi con i genitori, non più a giocare, ma a faticare. Quando bisognava seminare, dissodavamo la terra con zappe di legno. Seminavamo il granturco in file dritte, i
fagioli tra il granturco, e i meloni e le zucche in ordine irregolare in tutto il campo. Coltivavamo questi raccolti nelle quantità che ci occorrevano. Il nostro campo si estendeva su circa due acri di terra12. I campi non erano mai
recintati. Era cosa abituale che molte famiglie coltivassero la terra nella medesima valle per dividersi la fatica di proteggere il raccolto durante la crescita e non lasciarlo distruggere dai cavalli della tribù oppure dai cervi e da altri animali selvatici. Raccoglievamo i meloni man mano che li mangiavamo. In autunno raccoglievamo e riponevamo in sacchi o ceste le zucche e i fagioli; legavamo insieme per le foglie le pannocchie di mais, poi portavamo il raccolto a dorso di cavallo fino alle nostre case. Qui il granturco veniva sgranato, e tutta la messe riposta in grotte o altri luoghi appartati per usarla durante l’inverno. Non davamo mai ai nostri cavalli il granturco, ma se li mantenevamo anche d’inverno li nutrivamo con foraggio secco. Non avevamo bovini o altri animali domestici, eccetto i cani e i cavalli. Non coltivavamo il tabacco, ma lo trovavamo allo stato selvatico. Lo tagliavamo in autunno per conservarlo, ma se le provviste finivano ci accontentavamo delle foglie lasciate sugli steli rimasti dritti. Tutti gli indiani fumavano, uomini e donne.* Non si lasciavano fumare i ragazzi finché non avevano cacciato da soli e non avevano ucciso qualche grossa preda, come lupi e orsi. Alle donne non sposate non si proibiva di fumare, ma se lo facevano erano considerate immodeste. Quasi tutte le matrone fumavano. Oltre a macinare il granturco (a mano, con mortai e pestelli di pietra) per fare il pane, talvolta lo schiacciavamo e ammollavamo, e quando era fermentato ne spremevamo il succo e facevamo il «Tis-win», una bevanda intossicante, che gli indiani apprezzano moltissimo. Questo lavoro toccava alle donne e ai bambini. Quando bisognava raccogliere bacche o noci i bambinetti e le squaw si riunivano in gruppi per andarle a cercare, e qualche volta rimanevano via tutto il giorno. Quando si recavano in luoghi molto distanti dall’accampamento prendevano i pony per caricarli di ceste. Io mi univo spesso a questi gruppi. Una volta, durante una di queste spedizioni, una donna di nome Cho-ko-le si smarrì e si allontanò dalla compagnia. Mentre, a cavallo del suo pony e seguita dal suo cagnolino, stava attraversando un folto d’alberi alla ricerca delle amiche e procedeva lenta fra il fitto sottobosco e i tronchi dei pini, un orso grigio le sbarrò tutto a un tratto il sentiero e attaccò il cavallino. La donna saltò a terra e il pony fuggì, ma l’orso l’attacco. Essa si difese come meglio poté con un coltello. Il cagnolino, azzannando le zampe della belva e attirando su di sé l’attenzione, aiutò la donna a tenersi fuori della portata degli artigli dell’orso. Infine la belva la colpì sulla testa e le strappò quasi tutto lo scalpo. La donna cadde, ma non perse la conoscenza, e da terra gli inferse quattro buone coltellate, tanto da
costringerlo ad andarsene. Quando l’orso si fu allontanato, la donna si rimise a posto lo scalpo strappato e lo fasciò il meglio possibile, ma in quel momento si senti malissimo e dovette coricarsi per terra. Quella notte il suo cavallino ritornò all’accampamento con un carico di noci e bacche, ma senza padrona. Gli indiani la cercarono ma riuscirono a trovarla soltanto dopo due giorni. La portarono a casa, e dopo le cure degli uomini di medicina tutte le ferite guarirono. Gli indiani sapevano quali erbe usare come medicina, in che modo prepararle, in che modo somministrarle. Lo avevano imparato da Usen in principio, e ogni generazione che si succedeva aveva uomini che erano esperti nell’arte della guarigione. Mentre si raccoglievano e si preparavano le erbe, e mentre si somministrava il rimedio, si aveva fede nella preghiera tanto quanto nell’efficacia della medicina. Di solito circa otto persone lavoravano insieme per fare la medicina, e ogni stadio del procedimento era accompagnato da formule di preghiera e da incantesimi. Quattro si occupavano delle formule magiche e quattro della preparazione delle erbe. Alcuni degli indiani erano esperti nell’estrarre pallottole, punte di frecce, e altri proiettili che avevano prodotto ferite ai guerrieri. Io stesso l’ho fatto molte volte, usando un comune pugnale o un coltello da macellaio.* I bambini piccoli erano vestiti pochissimo nell’inverno e non avevano nulla addosso d’estate. Le donne di solito portavano una gonna primitiva, che consisteva in un pezzo di stoffa di cotone legato alla vita, che arrivava fino alle ginocchia. Gli uomini portavano soltanto un perizoma e mocassini. D’inverno aggiungevano camicie e gambali. Sovente, quando la tribù era accampata, un certo numero di ragazzi e ragazze si mettevano d’accordo e si allontanavano furtivamente per radunarsi in un luogo distante molte miglia, dove potevano giocare tutto il giorno liberi da ogni impegno. Non erano mai puniti per queste monellerie; ma se i loro nascondigli erano scoperti venivano presi in giro. * Geronimo è il quarto di una famiglia di quattro ragazzi e quattro ragazze; ebbe quattro mogli che erano Apache
Bedonkohe di sangue puro e quattro che erano in parte di sangue Bedonkohe e in parte di altro sangue Apache. Quattro dei suoi figli sono stati uccisi dai messicani e quattro sono stati tenuti in prigionia dal governo degli Stati Uniti. Egli crede fermamente nel fato e nella magia del numero quattro. Oltre a Geronimo, sopravvivono ora soltanto quattro Apache di puro sangue Bedonkohe. Essi sono: Porico (Cavallo Bianco), Nahdeste, Mah-taneal e To-klo-nen.
* Gli Apache non fumavano la pipa della pace se non quando qualche altro indiano lo proponeva. Non avevano
grosse pipe; in realtà, fumavano di solito delle sigarette ottenute arrotolando il tabacco in foglie di quercia.
* Questo è l’unico fatto su cui si fonda l'asserzione, sovente ripetuta, che Geronimo era un uomo di medicina.
Divertimenti, usi e costumi della tribù
Per festeggiare ogni evento importante davamo un banchetto e una danza. A volte invitavamo soltanto la nostra gente, a volte le tribù vicine. Questi festeggiamenti duravano di solito circa quattro giorni. Di giorno banchettavamo, di notte danzavamo sotto la direzione di qualche capo. Il ritmo della danza era segnato dal canto condotto dai guerrieri e accompagnato dai colpi di esadadedne (pelle tesa su un cerchio). Non cantavamo parole, davamo soltanto il tono. Terminati il banchetto e la danza, partecipavamo a corse a cavallo, corse a piedi, lotte, salti, e a ogni sorta di gioco (d’azzardo). Tra questi giochi il più importante era il gioco tribale Kah (piede). Si gioca così: si dispongono quattro mocassini lontani l’uno dall’altro più di un metro in buche scavate in fila nella terra da un lato dell’accampamento, e si forma una consimile fila parallela sul lato opposto. Quando è notte, si accende un fuoco tra queste due file di mocassini e i giocatori si allineano dalle due parti in due gruppi di qualsiasi numero da uno in su. I punti si segnano con un fascio di bastoncini, da cui ogni squadra prende un bastoncino tutte le volte che fa un punto. Uno dei due gruppi prende l’osso,* drizza delle coperte tra i quattro mocassini e il fuoco in modo che
la parte avversaria non possa osservare i suoi movimenti, e poi incomincia a cantare le leggende della creazione. La parte che ha l’osso rappresenta la tribù dei pennuti, la parte opposta rappresenta le bestie. I giocatori che raffigurano gli uccelli sono gli unici che cantano, e intanto nascondono l’osso in uno dei mocassini, poi abbassano le coperte. Continuano a cantare, ma appena le coperte sono calate il giocatore scelto dalla squadra avversaria, armato di una mazza da guerra, va dalla loro parte di là dal fuoco e con il bastone colpisce il mocassino in cui pensa che sia nascosto l’osso. Se mena la botta sul mocassino giusto, la sua squadra ottiene l’osso, e a sua volta rappresenta gli uccelli, mentre gli avversari devono stare fermi e cercare d’indovinare. Ci sono soltanto quattro possibilità di gioco: tre perdenti e una vincente. Quando si sono tolti tutti i bastoncini dal mucchio, la squadra che ha il maggior numero di bastoncini ha vinto. Non facciamo quasi mai partite di questo genere se non per giocare d’azzardo; proprio per questo motivo, però, è il gioco più popolare che la tribù conosca. Di solito la partita dura quattro o cinque ore. Non giochiamo mai durante il giorno. Quando tutti i giochi sono finiti, gli ospiti dicono: «Siamo soddisfatti», e la riunione si scioglie. Io ero sempre felice quando si annunciavano danze e banchetti. E altrettanto felici erano gli altri giovani.
La nostra vita aveva anche un aspetto religioso. Non possedevamo chiese né organizzazioni religiose né giorni festivi né il giorno del riposo, eppure avevamo una forma di culto. Talvolta l’intera tribù si raccoglieva per cantare e pregare; talvolta ci radunavamo in minor numero, anche solo in due o tre. I canti contenevano qualche parola, ma non erano formali. Il cantore di quando in quando introduceva parole a suo piacimento invece del solito coro senza voci. Talvolta pregavamo in silenzio; talvolta ciascuno pregava ad alta voce; talvolta una persona anziana pregava per tutti noi. In altre occasioni un individuo si alzava e ci parlava dei nostri doveri l’uno verso l’altro * e verso Usen. I nostri servizi religiosi erano
brevi. Quando c’erano troppe malattie o pestilenze i nostri capi ci radunavano e ci interrogavano per accertare quali mali avessimo commesso, e in che modo fosse possibile soddisfare Usen. A volte appariva necessario un sacrificio, altre si puniva colui che aveva commesso l’offesa. L’Apache che aveva fatto soffrire i suoi anziani genitori per mancanza di cibo o di un riparo, oppure aveva trascurato o offeso gli ammalati, oppure aveva profanato la nostra religione o era stato infedele, poteva essere bandito dalla tribù. Gli Apache non avevano prigioni come le hanno gli uomini bianchi. Invece di mandare in carcere i loro criminali, li cacciavano lontano dalla tribù. Questi membri della tribù, sleali, crudeli, pigri o codardi, venivano respinti in modo che non si potessero unire a nessun’altra tribù. E non potevano neppure essere protetti dalle nostre leggi tribali tramandate oralmente. Molto spesso questi indiani proscritti si riunivano in bande e commettevano saccheggi di cui era accusata la tribù regolare. A ogni modo, la sorte dei fuorilegge indiani era dura e le loro bande non diventavano mai molto numerose; per di più queste bande provocavano frequentemente l’ira della tribù e si assicuravano la propria distruzione. Quando ebbi otto o dieci anni all’incirca, incominciai a seguire la caccia, e questo per me non fu mai un lavoro. Fuori nelle praterie che si stendevano fino alle nostre dimore montane erravano mandrie di cervi, antilopi, alci, bufali, che potevamo uccidere quando ne avevamo bisogno. Di solito andavamo a cavallo a caccia dei bufali, e li ammazzavamo con frecce e lance. Usavamo le loro pelli per costruirci i tepee e per i nostri giacigli; ci cibavamo della loro carne. Per andare a caccia del cervo occorreva più abilità che per gli altri animali. Non cercavamo mai di avvicinare un cervo eccetto che controvento. Molte volte ci occorrevano ore e ore per accostarci di soppiatto ai cervi che pascolavano. Se questi erano in terreno aperto, percorrevamo lunghi tratti strisciando per terra, tenendo davanti a noi un cespuglio o un ciuffo d’erba, perché non si accorgessero del nostro avvicinamento. Sovente riuscivamo a uccidere parecchie bestie della
stessa mandria prima che le altre scappassero. Ne facevamo seccare la carne e la riponevamo in vasi, conservandola in questa condizione per molti mesi. Ammollavamo la pelle del cervo in acqua e cenere, toglievamo i peli, e continuavamo il processo di conciatura finché la pelle diventava soffice e flessibile. Forse nessun altro animale ci era più prezioso del cervo. Nelle foreste e lungo i corsi d’acqua vivevano molti tacchini selvatici. Noi li spingevamo verso la pianura, poi cavalcavamo lentamente verso di loro finché erano sfiniti. Quando i tacchini incominciavano a lasciarsi cadere e a nascondersi, ci buttavamo su di loro a cavallo e, dondolando dalla groppa, li afferravamo con le mani. Se un tacchino si metteva a fuggire gli cavalcavamo dietro veloci e lo ammazzavamo con un bastone corto, cioè con una mazza da caccia. In questa maniera potevamo di solito catturare tanti tacchini selvatici quanti ne potevamo portare a casa sul nostro cavallo. Nella nostra zona c’erano molti conigli, e anche di questi andavamo a caccia a cavallo. I nostri cavalli erano addestrati a seguire i conigli a tutta velocità; quando eravamo abbastanza vicini, ci mettevamo a penzoloni da un fianco del cavallo e colpivamo i conigli con la mazza da caccia. Se c’era un coniglio troppo lontano, gli lanciavamo contro il bastone e lo uccidevamo in questo modo. Questo era un gran divertimento per noi ragazzi, ma quando diventavamo guerrieri andavamo raramente a caccia di animali piccoli. Nei corsi d’acqua abbondavano i pesci, ma siccome non li mangiavamo non cercavamo di prenderli o di ucciderli. I ragazzini talvolta lanciavano pietre o si allenavano a scagliare frecce con i loro archi contro i pesci. Usen ha stabilito che i serpenti, le rane e i pesci non siano mangiati. Io non li ho mai mangiati. Sulle montagne c’erano molte aquile. Le cacciavamo per le loro penne. Occorre molta destrezza per avvicinarsi di soppiatto a un’aquila, che non soltanto ha la vista acuta, ma è scaltra e non si posa mai in punti da cui non possa spaziare con gli occhi su tutto il territorio circostante. Ho ucciso molti orsi con la lancia, ma non sono mai stato ferito lottando con una di queste belve. Ho abbattuto parecchi puma con le frecce, e uno con la lancia. Sia gli orsi sia i puma sono buoni come cibo e preziosi per la pelliccia. Quando li uccidevamo, li trasportavamo a casa sui nostri cavalli. Sovente ci fabbricavamo faretre per le frecce con la pelle del puma: erano molto belle e resistentissime. Finché io fui in minore età non avevamo mai visto né un missionario né un prete. Non avevamo mai visto un uomo bianco. Così vivevano tranquilli gli Apache Bedonkohe. * È il simbolo della pietra bianca usata dall’aquila per uccidere il mostro senza nome: si veda il capitolo
L’origine degli indiani Apache a pagina 25.
* Gli Apache non riconoscevano alcun dovere verso nessun uomo fuori della loro tribù. Non costituiva peccato
uccidere nemici o derubarli. Tuttavia, quando accettavano un qualsiasi favore da un estraneo, o gli permettevano di condividere i loro agi in qualsiasi modo, questi diveniva (per adozione) un parente della trib첫, la quale doveva riconoscere i suoi doveri verso di lui.
La famiglia
Mio nonno, Maco, era stato nostro capo. Io non lo vidi mai, ma mio padre mi parlò spesso della grande statura, della forza e della sagacia di questo vecchio guerriero. Avevano combattuto le loro guerre più importanti con i messicani. Avevano avuto combattimenti anche con altre tribù indiane; con le città messicane, però, erano raramente rimasti in pace per un lungo periodo di tempo. Maco morì quando mio padre non era che un giovane guerriero, e MangasColoradas13 divenne capo * degli Apache Bedonkohe. Mio padre morì quando io ero soltanto un ragazzetto, dopo una malattia piuttosto lunga. Quando spirò, coloro che l’avevano vegliato gli chiusero con cura gli occhi, poi lo rivestirono dei suoi abiti migliori, gli ridipinsero la faccia, lo avvilupparono in una ricca coperta, sellarono il suo cavallo favorito, misero in testa al corteo le sue armi e, conducendo per la briglia il suo cavallo, trasportarono il suo corpo in una caverna nelle montagne mentre ripetevano in tono lamentoso le sue gesta valorose. Infine trucidarono i suoi cavalli. Noi distribuimmo tutte le altre cose di sua proprietà, come si usava nella nostra tribù, dopo di che il suo corpo fu deposto nella caverna, con le armi accanto.* La sua tomba è nascosta da mucchi di pietre. Avvolto nel suo
splendore, giace in solitudine, e il vento frusciando tra i pini mormora al guerriero morto il canto del riposo. Dopo la morte di mio padre ebbi cura di mia madre, la quale non si sposò un’altra volta, sebbene, secondo gli usi della nostra tribù potesse farlo immediatamente dopo la morte del marito. Di solito però la vedova che ha figli, dopo la morte del marito, non si risposa per due o tre anni; invece la vedova senza figli passa immediatamente a seconde nozze. Dopo la morte di un guerriero la vedova ritorna dai suoi e può essere concessa o venduta dal padre o dai fratelli. Mia madre preferì abitare con me e non desiderò mai risposarsi. Continuammo a vivere vicino alla nostra vecchia dimora e io la mantenni. Nel 1846, all’età di diciassette anni, fui ammesso nel consiglio dei guerrieri. Fui allora molto felice, poiché potevo andare dove volevo e fare tutto ciò che mi piaceva. Non ero stato sottoposto all’autorità di nessuna persona, ma le usanze della tribù mi vietavano di partecipare alle glorie del sentiero di guerra prima che il consiglio mi ammettesse. Ora invece sarei potuto scendere sul sentiero di guerra con la tribù quando se ne fosse presentata l’occasione. Questo sarebbe stato meraviglioso. Speravo di poter presto essere utile al mio popolo in battaglia. Da lungo tempo desideravo combattere con i nostri guerrieri.
Ora avrei potuto sposare la bella Alope, figlia di No-po-so, e questa fu forse per me la gloria più grande. Era una ragazza snella e delicata, e ci amavamo da molto tempo. Così, appena il consiglio mi concesse questi privilegi, andai a trovare suo padre per parlargli del nostro matrimonio. Forse il nostro amore non aveva interesse per lui; forse desiderava tenere con sé Alope, perché era una figlia ubbidiente: a ogni modo, chiese per lei molti pony. Io non replicai, ma dopo qualche giorno ricomparvi davanti al suo wigwam con una mandria di cavallini e mi presi Alope. La cerimonia nuziale richiesta dalla nostra tribù era tutta qui.14
Non lontano dal tepee di mia madre avevo costruito per noi una nuova casa. Il tepee era fatto di pelli di bufalo e conteneva molte vesti di pelliccia d’orso, pelli di puma e altri trofei di caccia, oltre alle mie lance, ai miei archi e frecce. Alope aveva fatto tante piccole decorazioni di perline e dipinto pelli di cervo, che dispose nel nostro tepee.* Decorò anche di disegni le pareti della nostra casa. Fu una buona
moglie ma non fu mai robusta. Seguimmo le tradizioni dei nostri padri e fummo felici. Ci nacquero tre figli: figli che giocarono, oziarono, e lavorarono come avevo fatto io. * Maco era capo degli Apache Nedni. Suo figlio (il padre di Geronimo) aveva sposato un’Apache Bedonkohe (la
madre di Geronimo) ed era entrato a far parte della tribù della moglie, perdendo con ciò il diritto al comando ereditario. Di qui si capisce perché Geronimo non potesse diventare capo per diritto ereditario, pur avendo avuto un nonno capotribù. Questo spiega anche perché il padre di Geronimo non fosse potuto diventare capo al posto di Mangas-Coloradas.
* Gli Apache non tengono nessun bene di un parente defunto. Lo proibiscono le leggi tribali orali, per il motivo
che, secondo loro, i figli o gli altri parenti di chi ha molti beni potrebbero altrimenti essere felici quando il loro padre o un altro congiunto muore.
*
Gli Apache ottenevano le perline dai messicani. Da loro ricevevano anche denaro, ma non gli attribuivano alcun valore, e lo davano ai bambini perché lo usassero per giocare, oppure lo gettavano via.
PARTE SECONDA
I MESSICANI
Kas-ki-yeh
Il massacro
Nell’estate del 1858, essendo in pace con le città messicane e anche con le tribù indiane confinanti, andammo a sud, nel Messico, per commerciare. La nostra tribù al completo (gli Apache Bedonkohe) oltrepassò Sonora diretta verso Casa Grande, la nostra meta; ma poco prima di giungere in questo luogo ci fermammo in un’altra città messicana che gli indiani chiamavano Kas-ki-yeh15. Qui restammo parecchi
giorni, accampati appena fuori della città. Tutti i giorni ci recavamo in città a far baratti, lasciando l’accampamento sotto la protezione di poche sentinelle, perché durante la nostra assenza non si danneggiassero le armi e le provviste, e non si disturbassero le donne e i bambini. Una sera sul tardi, mentre ritornavamo dalla città, ci vennero incontro alcune donne e bambini: ci raccontarono che truppe messicane di un’altra città avevano attaccato il campo uccidendo tutti i guerrieri di guardia, catturando tutti i nostri cavalli, impadronendosi di tutte le armi, distruggendo le scorte di viveri, massacrando molte donne e molti bambini. Subito ci separammo, nascondendoci come meglio potemmo fino al calar della notte, poi ci radunammo in un luogo d’incontro prestabilito: un bosco sulla riva del fiume. A uno a uno, silenziosi, entrammo nel campo: ponemmo sentinelle e, quando terminammo di contare i morti, seppi che la mia vecchia madre, la mia giovane moglie e i miei tre bambini erano stati trucidati insieme con gli altri. Nel campo non c’erano luci; mi allontanai allora senza che nessuno mi vedesse e andai vicino al fiume. Non saprei dire quanto vi restai, ma quando vidi che i guerrieri stavano sedendosi a consiglio andai a prendere posto. Quella notte non votai né pro né contro alcuna azione da parte nostra; fu anzi stabilito che, essendo rimasti in vita soltanto ottanta guerrieri, non avendo noi né armi né viveri, e trovandoci per di più circondati dai messicani, molto all’interno del loro territorio, non potevamo sperare nella vittoria se avessimo combattuto. Pertanto il nostro capo, Mangas-Coloradas, ci diede ordine di metterci subito in cammino verso i nostri villaggi dell’Arizona, lasciando i morti sul terreno. Rimasi lì finché tutti se ne furono andati, senza sapere che fare: non avevo armi, anzi non avevo neppure voglia di combattere; e non mi proponevo neanche di recuperare i corpi dei miei cari, perché mi era stato proibito. Non pregai, non presi nessuna speciale risoluzione, poiché ero rimasto senza volontà. Finii col seguire in silenzio la tribù, a distanza, tenendomi a portata d’orecchio del leggero rumore dei
passi degli Apache in ritirata. Il mattino seguente qualche indiano uccise un po’ di selvaggina. Ci fermammo il tempo sufficiente perché la tribù cuocesse la carne e si sfamasse, poi riprendemmo la marcia. Io non avevo ammazzato nessuna preda e non mangiai. Tanto durante la prima marcia quanto durante la sosta in quel luogo non parlai a nessuno e nessuno mi parlò: non c’era nulla da dire. Procedemmo a marce forzate due giorni e tre notti, fermandoci solo per i pasti, poi ci accampammo vicino al confine messicano, dove riposammo due giorni. Qui assaggiai un po’ di cibo e poi parlai con gli altri indiani che avevano perso qualcuno nel massacro ma nessuno aveva perduto tanto quanto me, che avevo perso tutto. Dopo qualche giorno arrivammo al nostro villaggio. C’erano le decorazioni che Alope aveva fatto… e c’erano i giocattoli dei nostri bambini. Bruciai tutto, anche il nostro tepee.* Bruciai anche la tenda di mia madre e distrussi tutte gli oggetti di sua
proprietà. Non fui mai più contento nel nostro tranquillo villaggio. Potevo, sì, visitare la tomba di mio padre: ma avevo giurato di vendicarmi dei soldati messicani che mi avevano così crudelmente offeso, e tutte le volte che mi avvicinavo alla sua tomba o che mi capitava sotto gli occhi qualcosa che mi ricordasse i giorni felici di prima, mi sentivo ardere in cuore il desiderio di vendicarmi del Messico.
La vendetta Appena avemmo raccolto un po’ di armi e di viveri, Mangas-Coloradas, il nostro capo, convocò il consiglio, e riscontrò che tutti i nostri guerrieri desideravano scendere sul sentiero di guerra contro il Messico. Io ricevetti l’incarico di cercare l’aiuto di altre tribù in questa guerra. Quando arrivai dagli Apache Chokonen (Chiricahua), il loro capo, Cochise, convocò il consiglio al primo spuntar del giorno. Silenziosamente, i guerrieri si radunarono all’aperto in una valletta montana, e presero i loro posti per terra, ordinati in file secondo i loro gradi. Rimanevano seduti e fumavano senza parlare. A un cenno del capo, io mi alzai e perorai la mia causa con queste parole: «Fratelli, avete saputo quel che i messicani hanno fatto poco tempo fa senza provocazione. Voi siete miei parenti: zii, cugini, fratelli. Siamo uomini come sono uomini i messicani… possiamo fare a loro quel che hanno fatto a noi. Facciamoci avanti, inseguiamoli; vi condurrò nella loro città, li aggrediremo nelle loro abitazioni. Io combatterò in prima fila… vi chiedo soltanto di seguirmi per vendicare questa offesa perpetrata da questi messicani… verrete? Va bene… tutti quanti verrete. Ricordate la legge della guerra; può darsi che gli uomini ritornino, può darsi che
siano uccisi. Se qualcuno di questi giovani rimarrà ucciso, non voglio che i suoi parenti mi biasimino, poiché loro stessi hanno deciso di andare. Se muoio io, nessuno deve piangermi. La mia famiglia è stata tutta uccisa in quel paese, e anch’io, se necessario, morirò». Ritornato all’accampamento, riferii il buon esito del mio incarico al capotribù, e immediatamente partii verso sud per andare nella terra degli Apache Nedni. Il loro capo, Whoa, mi ascoltò senza commenti, ma subito diede ordine di convocare il consiglio, e quando tutti furono pronti mi diede con un segno il permesso di parlare. Mi rivolsi a loro come mi ero rivolto alla tribù dei Chokonen, e anch’essi promisero di aiutarci. Nell’estate del 1859, quasi un anno dopo il giorno del massacro di Kaskiyeh, queste tre tribù si radunarono lungo il confine messicano per scendere sul sentiero di guerra. Avevano i visi dipinti, le fasce da guerra legate intorno alla fronte, le lunghe ciocche di capelli* pronte per la mano e il coltello del guerriero che li
avesse sopraffatti. Le loro famiglie erano state nascoste in un punto prestabilito vicino al confine messicano. A queste famiglie era stata assegnata una scorta, e si era fissato un certo numero di luoghi di raduno nel caso che l’accampamento fosse disturbato. Quando tutti furono pronti, i capitribù diedero l’ordine di avanzare. Nessuno di noi era a cavallo; ogni guerriero calzava mocassini e portava un lembo di stoffa intorno ai fianchi. Questo panno gli serviva da coperta quando dormiva, e in marcia era tutto quanto gli occorreva come vestiario. Combattendo, se la lotta era dura, non desideravamo essere molto vestiti. Ogni guerriero portava viveri per tre giorni, ma, poiché frequentemente abbattevamo animali durante la marcia, non rimanevamo quasi mai senza cibo. Viaggiavamo in tre reparti: gli Apache Bedonkohe condotti da MangasColoradas, gli Apache Chokonen guidati da Cochise, gli Apache Nedni comandati da Whoa; non c’era però un ordine regolare all’interno delle distinte tribù. In un giorno marciavamo di solito quattordici ore, ci fermavamo tre volte per mangiare, e percorrevamo sessantacinque-settanta chilometri. Io feci da guida per entrare nel Messico; seguimmo il corso dei fiumi e le catene delle montagne per riuscire a nascondere meglio i nostri movimenti. Entrammo nel Sonora, e continuammo verso sud oltrepassando Quitaro, Nacozari, e molti abitati minori. Quando fummo nelle vicinanze di Arispe ci accampammo; otto uomini cavalcarono fuori della città per parlamentare. Li catturammo, li uccidemmo e li scotennammo. Questo doveva servire ad attirare le truppe fuori della città; il giorno successivo arrivarono. La scaramuccia durò tutto il giorno senza trasformarsi in un vero combattimento, ma verso sera ci impadronimmo della carovana con i loro rifornimenti: ci procurammo così viveri in abbondanza e qualche altro fucile.
Quella notte ponemmo sentinelle e non spostammo l’accampamento; riposammo però tranquilli tutta la notte, poiché prevedevamo duri combattimenti per il giorno dopo. Molto presto, il mattino seguente, i guerrieri furono chiamati a pregare: non per chiedere di essere aiutati, ma di avere salute e di evitare gli agguati e le insidie tesi dal nemico. Come avevamo previsto, verso le dieci del mattino uscirono le forze messicane al completo. C’erano due compagnie di cavalleria e due di fanteria. Riconobbi nella cavalleria i soldati che avevano ucciso la mia gente a Kaskiyeh. Lo dissi ai capitribù, che mi diedero il permesso di dirigere la battaglia. Non ero un capo e non lo ero mai stato ma, poiché ero stato offeso più crudelmente degli altri, ricevetti questo onore. Mi proposi di dimostrarmi degno della fiducia che mi era conferita. Disposi gli indiani in cerchio vicino al fiume, e i messicani allinearono la fanteria su due righe, con la cavalleria di riserva. Noi eravamo tra gli alberi; gli altri avanzarono fino a circa quattrocento metri, poi si fermarono e aprirono il fuoco. Subito guidai una carica contro di loro, mandando contemporaneamente qualche valoroso ad attaccare la loro retroguardia. Durante tutta la battaglia pensai a mia moglie, a mia madre, ai miei bambini trucidati, pensai alla tomba di mio padre e al mio giuramento di vendetta, e combattei con furore. Molti caddero per mano mia, e costantemente guidai l’avanzata. Molti valorosi furono uccisi. La lotta durò circa due ore. Alla fine quattro indiani rimasero soli nel centro del campo: io e altri tre guerrieri. Le frecce erano state tutte scagliate, le lance spezzate dentro il corpo dei nemici uccisi. Non ci restavano per combattere che le mani e i coltelli: ma tutti coloro che ci erano venuti contro erano morti. In quel momento ci attaccarono, venendo da un’altra parte del campo, due soldati armati. Spararono colpendo due dei nostri uomini; noi, i restanti due, fuggimmo verso i nostri guerrieri. Il mio compagno fu abbattuto da una sciabolata, io invece raggiunsi i nostri guerrieri, afferrai una lancia e mi voltai. Quello che mi inseguiva fallì il colpo e fu ucciso dalla mia lancia. Armato della sua sciabola, andai contro il soldato che aveva ucciso il mio compagno, mi avvinghiai a lui e cademmo insieme. Lo uccisi col coltello, poi mi alzai fulmineo sul suo corpo e, brandendo la sua sciabola, cercai altri soldati da uccidere. Non ce n’erano. Ma gli Apache avevano vinto. Sull’insanguinato campo di battaglia, ricoperto di cadaveri messicani, risuonò il fiero grido di guerra degli Apache. Grondante ancora del sangue dei nemici, brandendo ancora la mia arma vittoriosa, e ancora acceso dalla gioia della battaglia, della vittoria e della vendetta, fui circondato dai combattenti Apache e acclamato capo di guerra di tutti gli Apache. Diedi allora l’ordine di scotennare gli uccisi.* Non potevo richiamare in vita i miei cari, non potevo far rivivere gli Apache uccisi, ma potevo rallegrarmi della vendetta. Gli Apache avevano vendicato il
massacro di «Kas-ki-yeh». * Per seguire le usanze, non avrebbe dovuto conservare gli oggetti di proprietà dei parenti defunti, ma non era
obbligato a distruggere il proprio tepee o i giocattoli dei suoi bambini.
*
A quei tempi il governo messicano offriva un premio in oro per gli scalpi degli Apache: cento dollari per lo scalpo di un guerriero, cinquanta dollari per quello di una squaw, e venticinque dollari per quello di un bambino.
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Presso gli Apache, dal momento in cui si dà il comando di combattere, tutto assume un aspetto religioso. Si prescrive esattamente il modo di accamparsi, di cuocere, eccetera. Ogni oggetto attinente alla guerra è chiamato con il suo nome sacro; come se, per esempio, noi, invece di cavallo, dovessimo dire destriero o cavallo da battaglia, e, invece di freccia, missile mortale. L’indiano non viene chiamato con il suo nome normale, ma con un nome sacro cui si aggiunge «valoroso» o «capo» secondo il caso. Il nome indiano di Geronimo era Go-khlä-yeh, ma i messicani in questa battaglia lo chiamarono Geronimo, nome che da allora gli è rimasto, sia tra gli indiani sia tra i bianchi.
Combattimenti difficili
Dopo la battaglia di Kaskiyeh tutti gli altri Apache erano soddisfatti, io invece desideravo vendicarmi ancora. Per parecchi mesi fummo occupati nella caccia e in altre faccende pacifiche. Finalmente riuscii a persuadere due altri guerrieri, Ahkoch-ne e Ko-deh-ne, a venire con me per invadere il territorio messicano. Lasciammo le nostre famiglie con la tribù e scendemmo sul sentiero di guerra.* Andavamo a piedi portando razioni di viveri per tre giorni. Entrammo nel Messico al confine nord del Sonora e seguimmo le montagne della Sierra de Antunez fino al limite meridionale della catena. Qui prendemmo la risoluzione di attaccare un piccolo villaggio. (Non so il nome di questo villaggio.) All’alba lo avvicinammo scendendo dalle montagne. C’erano quattro cavalli legati fuori delle case. Avanzammo con circospezione, ma proprio prima che raggiungessimo i cavalli i messicani aprirono il fuoco dalle case. I miei due compagni furono uccisi. I messicani irruppero da ogni parte, qualcuno a cavallo, qualcuno a piedi, e tutti sembravano armati. Quel giorno fui accerchiato tre volte, ma non smisi di combattere, schivare, nascondermi. Parecchie volte durante quella giornata, mentre mi nascondevo, ebbi l’opportunità di prendere bene la mira verso qualche messicano che, tenendo in mano il fucile, mi stava cercando: penso di non aver sbagliato il colpo in nessuna occasione. Quando si fece buio trovai modo di ritirarmi verso l’Arizona. Ma i messicani non rinunciarono all’inseguimento. Parecchie volte, il giorno seguente, messicani a cavallo tentarono di intercettarmi; molte volte mi spararono contro, ma io non avevo più frecce. Dovetti quindi fare affidamento sulla corsa tenendomi al coperto, benché fossi stanchissimo. Non avevo più mangiato da quando era incominciata la caccia, e non avevo più osato fermarmi per riposare. La seconda notte mi liberai degli inseguitori, ma non rallentai affatto la marcia fino a quando non giunsi a casa, nell’Arizona. Arrivai all’accampamento senza bottino, senza i miei compagni, esausto, ma non scoraggiato. Delle mogli e dei figli dei miei due compagni morti si presero cura le loro famiglie. Qualche Apache mi biasimò per il cattivo esito della spedizione, ma non dissi nulla. Avendo sbagliato, era più che conveniente che io tacessi. Ma i miei sentimenti nei riguardi dei messicani non cambiavano… li odiavo ancora e bramavo la vendetta. Non smisi mai di fare piani per punirli, ma era difficile convincere gli altri guerrieri ad ascoltare le mie proposte di incursioni. Qualche mese dopo quest’ultima avventura persuasi due altri guerrieri a
partecipare con me a una razzia alla frontiera messicana. Nella spedizione precedente avevamo attraversato la zona degli Apache Nedni ed eravamo entrati nel Sonora. Questa volta percorremmo la regione dei Chokonen e ci addentrammo nelle montagne della Sierra Madre. Ci dirigemmo a sud, ci procurammo altri viveri e ci preparammo alle prime incursioni. Avevamo scelto un villaggio vicino alle montagne con l’intenzione di attaccarlo all’alba. Quella notte, mentre dormivamo, degli esploratori messicani scoprirono il nostro bivacco e spararono su noi, uccidendo un guerriero. Il mattino avvistammo una compagnia di truppe messicane che arrivavano da sud. Erano a cavallo e portavano viveri per un lungo viaggio. Seguimmo il loro percorso finché fummo sicuri che si stavano dirigendo verso il nostro territorio nell’Arizona. Allora li superammo veloci e in tre giorni raggiungemmo il nostro villaggio. Arrivammo a mezzogiorno, e quello stesso pomeriggio, verso le tre, le truppe messicane attaccarono le nostre abitazioni. La prima raffica uccise tre bimbetti. Molti guerrieri della nostra tribù erano lontani da casa, ma quei pochi di noi che erano nell’accampamento riuscirono a respingere le truppe dalle montagne prima di notte. Noi uccidemmo otto messicani e perdemmo cinque dei nostri: due guerrieri e tre bambini. I messicani cavalcarono verso sud in piena ritirata. Quattro guerrieri furono incaricati di inseguirli; dopo tre giorni gli inseguitori ritornarono, riferendo che la cavalleria messicana aveva lasciato l’Arizona diretta a sud. Eravamo del tutto sicuri che non sarebbero tornati tanto presto. Poco dopo questi fatti (nell’estate del 1860) mi fu di nuovo possibile scendere sul sentiero di guerra contro i messicani, questa volta con venticinque guerrieri. Ci mettemmo sulle tracce delle truppe messicane di cui ho parlato poco fa ed entrammo nelle montagne della Sierra de Sahuaripa. Dopo due giorni tra questi monti i nostri esploratori scoprirono soldati messicani a cavallo. Queste truppe erano costituite da un’unica compagnia di cavalleria: pensai che sorprendendola al momento buono avremmo potuto sconfiggerla. Tendemmo un agguato sulla pista che doveva percorrere, in un punto dove l’intera compagnia era obbligata a passare in una gola tra le montagne. Non sparammo finché tutte le truppe non furono passate, poi lanciammo il segnale. I soldati messicani, si sarebbe detto senza ricevere nessun ordine, smontarono, disposero i cavalli all’esterno della compagnia per usarli come riparo, e ingaggiarono contro di noi un duro combattimento. Mi resi conto che non saremmo riusciti a cacciarli senza usare tutte le nostre munizioni e guidai i miei all’assalto. I guerrieri all’improvviso li aggredirono da tutte le parti; combattemmo corpo a corpo. Durante questo scontro sollevai la lancia per uccidere un soldato messicano proprio mentre spianava il fucile contro di me; stavo avanzando rapidamente, quando scivolai con il piede su una pozza di sangue e caddi sotto il soldato messicano, che mi colpì alla testa con il calcio del fucile, tramortendomi. Proprio in quel momento un guerriero che mi seguiva da vicino
uccise il messicano con un colpo di lancia. Dopo qualche minuto non rimaneva più un solo soldato messicano vivo. Quando il loro grido di guerra si spense, e quando i loro nemici furono scotennati, gli Apache si occuparono dei morti e dei feriti. Mi trovarono steso senza conoscenza dove ero caduto. Mi bagnarono il capo con acqua gelida e mi fecero riprendere i sensi. Poi mi fasciarono la ferita. Il mattino seguente, sebbene fossi debole per la perdita di sangue e soffrissi di forti dolori al capo, fui in grado di marciare sulla via del ritorno verso l’Arizona. Non guarii bene che dopo molti mesi; ancora adesso ho la cicatrice della ferita prodotta da quel fuciliere. In quel combattimento le nostre perdite furono tanto gravi, che la vittoria non ebbe in realtà nulla di glorioso. Ritornammo in Arizona. Sembrava che per quell’anno nessuno avesse voglia di scendere di nuovo sul sentiero di guerra. Nell’estate (1861) penetrai nuovamente nel Messico con dodici guerrieri. Entrammo nel Chihuahua e proseguimmo verso sud lungo il fianco orientale delle montagne della Sierra Madre con quattro giorni di marcia, poi piegammo verso la catena della Sierra de Sahuaripa, nelle vicinanze di Casa Grande, a est. Qui riposammo un giorno, e mandammo esploratori in ricognizione. Ritornarono a riferire che c’erano colonne di rifornimenti accampate a otto chilometri da noi. Il mattino successivo, proprio all’alba, mentre i conducenti mettevano in marcia la loro colonna di muli, li attaccammo. Fuggirono al galoppo per salvarsi la vita, lasciandoci il bottino. I muli erano carichi di rifornimenti, la maggior parte dei quali portammo con noi. Due muli avevano una soma di lardo o prosciutto, che buttammo via.* Ci incamminammo per guidare queste colonne di rifornimenti a
casa, dirigendoci a nord attraverso il Sonora, ma quando ci trovavamo vicino a Casita fummo raggiunti da truppe messicane. Il giorno sorgeva, noi stavamo finendo la nostra colazione. Non ci eravamo affatto accorti di essere stati inseguiti, e neppure dell’avvicinarsi dei nemici, finché non aprirono il fuoco. Alla prima raffica una pallottola mi sfiorò proprio l’estremità dell’occhio sinistro in basso e mi fece cadere svenuto. Tutti gli altri indiani fuggirono al riparo. I messicani, credendomi morto, si misero a inseguire gli indiani in fuga. Dopo qualche minuto recuperai i sensi, e mi avviai di gran carriera verso i boschi; ma ecco sopraggiungere un’altra compagnia che si mise a spararmi addosso. In quel momento ritornarono i soldati che avevano inseguito gli altri indiani, di modo che io mi trovai tra due fuochi: ma non rimasi a lungo tra le due compagnie nemiche. Le pallottole fischiavano in ogni direzione e mi passavano vicinissime. Una pallottola mi provocò una ferita superficiale sul fianco, ma continuai a correre, a schivare e a combattere, finché mi sbarazzai degli inseguitori. Mi arrampicai su per un ripido canyon, dove la cavalleria non poteva seguirmi. I soldati mi videro, ma non smontarono da cavallo per venirmi dietro. E penso che fu una saggia decisione da parte loro. Eravamo d’accordo che, se fossimo stati sorpresi con questo bottino, ci saremmo
ritrovati in un punto prestabilito, nelle montagne di Santa Bita in Arizona. Non ci radunammo di nuovo nel Messico, ma viaggiammo separati; tre giorni dopo eravamo accampati nel luogo dell’appuntamento. Da questo posto ritornammo a casa a mani vuote. Non avevamo neppure riportato una vittoria parziale che si potesse raccontare. Io ritornavo un’altra volta ferito, ma non ero ancora scoraggiato. Di nuovo la mia gente mi biasimò, e di nuovo io non replicai. Dopo il nostro ritorno molti guerrieri andarono a caccia e qualcuno di loro andò a nord ad acquistare coperte dagli indiani Navaho. Io rimasi a casa cercando di curarmi le ferite. Un mattino all’alba, mentre le donne stavano accendendo i fuochi dell’accampamento per preparare la colazione, tre compagnie di truppe messicane che avevano circondato le nostre abitazioni durante la notte aprirono il fuoco. Non ci rimase tempo per lottare. Uomini, donne e bambini fuggirono per salvare la pelle. Molte donne e bambini e qualche guerriero furono uccisi. Quattro donne furono fatte prigioniere. Avevo l’occhio sinistro ancora gonfio e chiuso, ma con l’altro vidi abbastanza bene da poter colpire uno degli ufficiali con una freccia e poi mettermi in salvo tra le rocce. I soldati bruciarono i nostri tepee e ci presero le armi, i viveri, i cavalli, e le coperte. L’inverno era vicino. In quel momento non c’erano nell’accampamento più di venti guerrieri, e soltanto qualcuno di noi aveva preso le armi durante l’eccitazione dell’attacco. Alcuni guerrieri si misero alle calcagna delle truppe che ritornavano nel Messico con il bottino, ma non poterono ingaggiare battaglia. Dovette passare molto, molto tempo, prima che riuscissimo a scendere di nuovo sul sentiero di guerra contro i messicani. Le quattro donne che erano state fatte prigioniere dai messicani in quell’occasione furono portate nel Sonora (Messico), dove furono costrette a lavorare per i messicani. Dopo qualche anno scapparono nelle montagne e si misero a cercare la nostra tribù. Avevano dei coltelli rubati ai messicani, ma nessun’altra arma. Non avevano coperte, quindi, per la notte, si costruivano un piccolo tepee tagliando rami con i coltelli e formando con questi le pareti. Con altri rametti fabbricavano il tetto. In questo riparo provvisorio dormivano tutte insieme. Una notte, mentre il fuoco del bivacco era quasi spento, sentirono ringhiare appena fuori del tepee. Mentre la più giovane delle donne, Francisca (che aveva circa diciassette anni) si accingeva a ravvivare il fuoco, un puma irruppe nel rifugio e l’attaccò. Davanti a un assalto tanto improvviso, la ragazza lasciò cadere il coltello; lottò però con le mani come meglio poté. Era tuttavia troppo debole di fronte a un puma: ne ebbe la spalla sinistra schiacciata e quasi strappata. Difendendosi con le mani, riuscì a sventare i tentativi del puma di afferrarla alla gola. Vedendosi trascinata dal puma per quasi trecento metri e accorgendosi che le forze le mancavano per la perdita di sangue, chiamò finalmente le altre donne in aiuto. Il puma l’aveva trascinata per un piede, e la donna si era aggrappata alle sue zampe,
alle pietre, alla vegetazione, per fermarlo. Finalmente la belva si arrestò e le si avventò contro. Essa chiamò di nuovo le compagne, che attaccarono il puma con i coltelli e l’uccisero. Poi medicarono le sue ferite, e la curarono rimanendo in quelle montagne per circa un mese. Quando la ragazza fu di nuovo in grado di camminare, ripresero la marcia e raggiunsero senza altri incidenti la tribù. Questa donna (Francisca) fu fatta prigioniera di guerra con gli altri Apache e morì nella riserva di Fort Sill nel 1892. Il suo volto rimase sfigurato dalle cicatrici; non riacquistò più perfettamente l’uso delle mani. Le tre donne più anziane morirono prima che diventassimo prigionieri di guerra. Molte donne e molti bambini furono portati via dai messicani in occasioni diverse. Pochi di loro riuscirono a ritornare, e lo fecero a costo di innumerevoli sofferenze per riunirsi di nuovo alla loro gente. Quelli che non scapparono rimasero schiavi dei messicani oppure subirono forse degradazioni ancora peggiori. Quando i messicani catturavano dei guerrieri, li mettevano in catene. Quattro guerrieri che furono presi una volta in un posto a nord di Casa Grande, chiamato dagli indiani «Honas», furono tenuti in catene per un anno e mezzo, finché furono scambiati con nostri prigionieri messicani. I nostri prigionieri non erano mai incatenati o tenuti segregati, eppure scappavano raramente. Quando catturavamo dei messicani, obbligavamo gli uomini a tagliare la legna e a pascolare i cavalli, e trattavamo le donne e i bambini come se appartenessero al nostro popolo.* * Geronimo si era sposato di nuovo. *
Non avevano mai mangiato lardo e non impararono a mangiarlo per molto tempo. Anche adesso non mangiano lardo o carne di maiale se possono avere altra carne. Geronimo si rifiuta nel modo più assoluto di mangiare lardo e carne di maiale.
* L’interprete Asa, figlio di Whoa, si ricorda di una piccina messicana prigioniera che era solita giocare con i
bambini Apache, e che poi fu scambiata. In quell’epoca una delle mogli di Geronimo e il suo bambino furono uccisi, e da quel momento fin quando divenne prigioniero di guerra Geronimo ebbe due mogli. Avrebbe potuto avere quante mogli desiderava, ma dice che era tanto occupato a combattere i messicani da non poterne mantenere più di due.
Incursioni vittoriose
Nell’estate del 1862 presi con me otto uomini e penetrai in territorio messicano. Ci dirigemmo verso sud tenendoci per cinque giorni lungo il fianco occidentale delle montagne della Sierra Madre; poi, una notte, passammo nella parte meridionale della catena della Sierra de Sahuaripa. Qui ci accampammo di nuovo per spiare l’arrivo di carovane di rifornimenti. Verso le dieci del mattino seguente quattro conducenti a cavallo passarono vicino al nostro campo con una colonna di muli da carico. Appena ci videro si misero in salvo al galoppo, lasciandoci il bottino. Questa colonna era numerosa, e le bestie da soma erano cariche di coperte, pezze di cotone, selle, utensili di latta, zollette di zucchero. Ci affrettammo sulla via del ritorno alla massima velocità possibile, con queste provviste; e, mentre diretti verso casa, attraversavamo un canyon tra le montagne della catena di Santa Catalina in Arizona, incontrammo un bianco che conduceva una colonna di muli. Quando lo scorgemmo, l’uomo ci aveva già avvistati e stava cavalcando a tutta velocità su per il canyon. Esaminammo il suo carico e scoprimmo che i muli trasportavano formaggio. Li unimmo all’altra colonna e riprendemmo la marcia. Non cercammo d’inseguire il conducente, e sono sicuro che questi non tentò d’inseguire noi. Due giorni dopo arrivammo a casa. Allora Mangas-Coloradas, il nostro capo, radunò la tribù. Vi fu un banchetto, il bottino fu diviso, e le danze durarono tutta la notte. Qualche mulo della colonna fu ucciso e mangiato. Questa volta, dopo il nostro ritorno, mandammo in esplorazione qualcuno dei nostri, per essere informati nel caso che le truppe messicane avessero tentato di inseguirci. Dopo tre giorni gli esploratori arrivarono all’accampamento con la notizia che la cavalleria messicana, appiedata, stava avvicinandosi alle nostre abitazioni. Tutti i guerrieri erano nel campo. Mangas-Coloradas prese il comando di un reparto, e io di un altro. Speravamo di impadronirci dei loro cavalli e di circondare in seguito le truppe in montagna, distruggendo l’intera compagnia. Ma questo non riuscimmo a farlo, perché anche loro avevano mandato esploratori. A ogni modo, quattro ore dopo l’inizio dello scontro avevamo ucciso dieci soldati perdendo un solo uomo, e la cavalleria messicana era in piena ritirata, inseguita da trenta Apache armati, che non le diedero tregua finché non fu penetrata ben dentro il territorio messicano. Quell’inverno non arrivarono altre truppe. Per un lungo periodo ci fu grande abbondanza di viveri, di coperte, di vestiario. Avevamo inoltre una grandissima quantità di formaggio e di zucchero.
Un’altra estate (1863) scelsi tre guerrieri e andai a fare una razzia nel Messico. Andammo a sud, entrammo nel Sonora, ci accampammo tra le montagne della Sierra de Sahuaripa. Circa sessantacinque chilometri a ovest di Casa Grande c’è tra le montagne un villaggio, che gli indiani chiamano «Crassanas». Ponemmo il nostro campo vicino a questo luogo e risolvemmo di assaltarlo. Avevamo osservato che verso mezzogiorno sembrava che nessuno si muovesse, e quindi decidemmo di attaccare a quell’ora. Il giorno seguente, a mezzogiorno, entrammo alla chetichella nella cittadina. Non avevamo fucili, ma eravamo armati di lance e di archi e frecce. Quando levammo il nostro grido di guerra per iniziare l’attacco, i messicani fuggirono in ogni direzione: nessuno di loro fece il minimo tentativo di combatterci. Scagliammo qualche freccia contro i messicani che scappavano, ma ne ammazzammo uno solo. Presto il silenzio ritornò tra le case; non si vedeva più nessun messicano. Quando ci accorgemmo che tutti gli abitanti se ne erano andati, esaminammo le loro case e vi scorgemmo tante cose strane. Quei messicani possedevano gran quantità e varietà di oggetti, che gli Apache non avevano mai avuto. Non riuscimmo a capire che cosa fossero tante delle cose che trovammo nelle case; nei negozi invece vedemmo molte merci che ci occorrevano. Raccogliemmo allora una mandria di cavalli e di muli, e li caricammo quanto più possibile di viveri e di provviste. Poi incolonnammo tutti questi animali e ritornammo sani e salvi in Arizona. I messicani non ci inseguirono neppure. Quando arrivammo nell’accampamento, chiamammo a raccolta la tribù e banchettammo tutto il giorno. Ognuno ricevette regali. La notte cominciarono le danze, e non cessarono che nel pomeriggio del giorno dopo. Questa fu forse la nostra incursione più fortunata nel territorio messicano. Non conosco il valore del bottino, ma fu altissimo, poiché le provviste durarono all’intera tribù per un anno e anche più. Nell’autunno del 1864 venti guerrieri erano disposti a compiere un’altra scorreria nel Messico. Erano tutti uomini scelti, ben armati e ben equipaggiati per combattere. Come al solito, prendemmo provvedimenti per l’incolumità delle nostre famiglie prima di iniziare l’incursione. Tutta la tribù si disperse, poi si riunì in un accampamento a una sessantina di chilometri dal posto precedente. In questo modo ai messicani sarebbe stato difficile seguire le sue tracce, e noi avremmo saputo dove ritrovare le nostre famiglie al ritorno. Inoltre, se qualcuno degli indiani ostili, vedendo un tal numero di guerrieri che abbandonavano il territorio, avesse voluto attaccare il campo, non avrebbe trovato nessuno nel nostro solito posto; la loro scorreria sarebbe finita in un fiasco. Ci dirigemmo a sud attraverso le terre degli Apache Chokonen, entrammo nel
Sonora (Messico), in un punto esattamente a sud di Tombstone nell’Arizona, e andammo a nasconderci tra le montagne della Sierra de Antunez. Attaccammo parecchi insediamenti dei dintorni e ci impadronimmo di una gran quantità di viveri e di altri beni. Dopo circa tre giorni assalimmo e catturammo una colonna di muli in un posto chiamato dagli indiani «Pontoco», situato in montagna, a circa una giornata di viaggio da Arispe, verso occidente. Con questa colonna c’erano tre conducenti. Uno fu ucciso, due scapparono. La colonna trasportava mescal, contenuto in bottiglie dentro ceste di vimini.* Appena
ci fummo accampati, gli indiani incominciarono a ubriacarsi e a combattere fra loro. Anch’io bevvi tanto mescal da sentirne gli effetti, ma non presi una sbornia. Ordinai che le lotte cessassero, ma il mio ordine fu disubbidito, e poco dopo nel campo si svolgeva una mischia generale. Cercai di porre sentinelle intorno al campo, ma erano tutti ubriachi e rifiutavano il servizio. Mi attendevo un attacco delle truppe messicane da un momento all’altro; per me era una questione di estrema gravità, perché, avendo il comando della spedizione, sarei stato giudicato responsabile se fosse accaduta qualche disgrazia. Finalmente il campo divenne relativamente tranquillo, poiché gli indiani erano ormai troppo ubriachi da poter camminare o azzuffarsi. Mentre erano in questo stato d’incoscienza, rovesciai per terra tutto il mescal, spensi tutti i fuochi e spostai i muli da carico a una buona distanza dall’accampamento. Fatto questo, ritornai al campo e cercai di aiutare in qualche modo i feriti. Riscontrai che soltanto due avevano ferite gravi. Estrassi dalla gamba di uno di loro una punta di freccia, e dalla spalla dell’altro tirai fuori una punta di lancia. Quando ebbi curato tutte le ferite, montai io stesso la guardia fino al mattino. Il giorno seguente caricammo i feriti sui muli e partimmo per l’Arizona. Il giorno dopo catturammo un po’ di bestiame di una mandria e lo portammo a casa con noi. Fu però una faccenda tutt’altro che facile condurre il bestiame andando a piedi. Il nostro viaggio fu faticoso perché bisognava fare attenzione ai feriti e impedire alle mucche di scappare. Ma nessuno seguì le nostre tracce, e arrivammo a casa sani e salvi con tutto il bottino. Vi furono un banchetto e una danza, e la divisione delle spoglie. Dopo la danza uccidemmo tutto il bestiame e seccammo la carne. Conciammo le pelli, nelle quali avvolgemmo poi la carne secca e la riponemmo. Durante tutto quell’inverno la carne fu abbondante. Prima di allora non avevamo mai avuto bovini. Di solito ammazzavamo e mangiavamo i muli, che a noi non servivano affatto. Se non potevamo scambiarli con qualcosa che ci fosse utile, li macellavamo. Nell’estate del 1865, con quattro guerrieri, andai di nuovo nel Messico. Fino allora eravamo sempre andati a piedi, essendo abituati a combattere appiedati e potendoci nascondere più facilmente se eravamo senza cavalli. Ma questa volta desideravamo altro bestiame, e condurlo a piedi era difficile. Entrammo nel Sonora
in un punto a sud-ovest di Tombstone, nell’Arizona, e seguimmo le montagne della Sierra de Antunez fino alla loro estremità meridionale, poi attraversammo il paese spingendoci a sud fino alla foce del fiume Yaqui. Qui vedemmo un gran lago che si stendeva a perdita d’occhio.* Di lì ci volgemmo a nord, assalimmo parecchi
villaggi, e ci procurammo viveri in gran quantità. Sulla via del ritorno, a nord-ovest di Arispe, ci impadronimmo di circa sessanta capi di bestiame, e li conducemmo verso il nostro campo nell’Arizona. Non andammo direttamente a casa, ma ci accampammo in differenti valli con la nostra mandria. Nessuno seguì le nostre tracce. Quando arrivammo all’accampamento la tribù fu di nuovo radunata per banchettare e danzare. Distribuimmo regali a tutti; poi macellammo il bestiame, seccammo e riponemmo la carne. * Il mescal è un forte liquore prodotto nel Messico con il succo di agave.
* Il golfo di California.
Alti e bassi della sorte
Nell’autunno del 1865 ritornai nel Messico a piedi con altri nove guerrieri. Attaccammo numerosi insediamenti a sud di Casa Grande, e raccogliemmo molti cavalli e muli. Ci incamminammo verso nord con questi animali attraverso le montagne. Una sera ci accampammo nei pressi di Arispe e, pensando di non essere stati inseguiti, lasciammo libera l’intera mandria, anche i cavalli che avevamo montato. Erano in una vallata circondata da montagne ripide e non si sarebbero potuti allontanare se non passando attraverso il nostro accampamento, che si trovava proprio all’imboccatura della valle. Avevamo appena iniziato a mangiare quando i nostri esploratori vennero ad avvertirci che truppe messicane si avvicinavano al campo. Ci dirigemmo verso i cavalli, ma sulle rupi sopra di noi c’erano soldati che gli esploratori non avevano avvistato, e che aprirono il fuoco. Ci disperdemmo in tutte le direzioni; le truppe si ripresero tutto il nostro bottino. Tre giorni dopo ci raccogliemmo nel luogo d’incontro prestabilito nelle montagne della Sierra Madre, nel Sonora settentrionale. Le truppe messicane non ci inseguirono; tornammo nell’Arizona senza più combattere, e senza bottino. Una volta ancora non ebbi nulla da dire; ero però impaziente di compiere un’altra scorreria. Al principio dell’estate successiva (1866) portai trenta guerrieri a cavallo a invadere il territorio messicano. Attraverso il Chihua-hua ci spingemmo a sud fino a Santa Cruz, nel Sonora, poi attraversammo le montagne della Sierra Madre, seguendo il corso del fiume che si trova nella parte meridionale della catena. Continuammo verso occidente dalle montagne della Sierra Madre fino alle montagne della Sierra de Sahuaripa, e seguimmo questa catena verso nord. Raccogliemmo tutti i cavalli, i muli e i bovini che volevamo, e li conducemmo verso settentrione attraverso il Sonora fino all’Arizona. I messicani ci avvistarono molte volte, e in molti posti, ma non ci attaccarono mai in nessuna occasione, e nessuna colonna di soldati tentò di inseguirci. Arrivati a casa, distribuimmo regali a tutti; la tribù banchettò e danzò. Durante questa scorreria erano stati uccisi una cinquantina di messicani. L’anno dopo (1867) Mangas-Coloradas guidò otto guerrieri in una razzia nel Messico. Io vi andai come guerriero, perché ero sempre felice di combattere contro i messicani. Cavalcammo verso sud, oltrepassammo Tombstone nell’Arizona ed entrammo nel Sonora (Messico). Attaccammo dei cowboy e, dopo uno scontro in cui ne uccidemmo due, avviammo tutto il loro bestiame verso nord. Il secondo
giorno del nostro viaggio con il bestiame, mentre ci trovavamo vicino ad Arispe e non avevamo esploratori in giro, ci arrivarono addosso delle truppe messicane. Erano ben armate e avevano buone cavalcature; quando le avvistammo erano già a non più di mezzo miglio da noi. Abbandonammo il bestiame e cavalcammo di gran carriera verso i monti, ma i soldati guadagnavano terreno rapidamente. Presto aprirono il fuoco, ma erano troppo lontani per poter essere colpiti dalle nostre frecce. Finalmente raggiungemmo qualche albero; lasciati i cavalli, ci mettemmo al riparo e da lì ingaggiammo battaglia. Allora i messicani si fermarono, presero i nostri cavalli e attraversarono al galoppo le pianure verso Arispe, portando con sé il bestiame. Rimanemmo a osservarli finché scomparvero all’orizzonte, poi riprendemmo la nostra marcia verso casa. Arrivammo alle nostre abitazioni cinque giorni dopo senza vittorie da raccontare, senza spoglie da dividere e senza neppure i cavalli con cui eravamo partiti per il Messico. Questa spedizione fu giudicata disonorevole. I guerrieri che avevano partecipato a quest’ultima scorreria con MangasColoradas desideravano ritornare nel Messico: non erano soddisfatti e inoltre erano dolorosamente offesi dallo scherno degli altri guerrieri. Poiché Mangas-Coloradas non volle guidarli laggiù un’altra volta, assunsi io il comando. Andammo a piedi direttamente verso Arispe nel Sonora, e ponemmo il campo sui monti della Sierra Sahuaripa. Eravamo soltanto in sei, ma compimmo razzie in parecchi villaggi (di notte) e catturammo numerosi cavalli e muli, che caricammo di viveri, selle, coperte. Quindi ritornammo nell’Arizona, viaggiando solo di notte. Arrivati nel nostro accampamento, mandammo esploratori per evitare che i messicani ci assalissero di sorpresa, radunammo la tribù, banchettammo, danzammo, dividemmo il bottino. Mangas-Coloradas non volle accettare nulla di questa distribuzione, ma non gli prestammo attenzione. Nessuna compagnia messicana ci inseguì nell’Arizona. Circa un anno dopo (1868) le truppe messicane accerchiarono e presero tutti i cavalli e i muli della tribù non lontano dalle nostre case. Quell’anno non eravamo andati a far scorrerie nel Messico, e non ci aspettavamo di essere attaccati. Eravamo tutti nell’accampamento, appena tornati da una caccia. Verso le due del pomeriggio degli esploratori messicani furono avvistati vicino al campo. Li uccidemmo, ma le truppe partirono con la mandria dei nostri cavalli e muli prima che li vedessimo. Sarebbe stato inutile tentare di raggiungerli a piedi: la nostra tribù non aveva più nemmeno un cavallo. Presi con me venti guerrieri e seguii le loro tracce. Trovammo il bestiame in una fattoria nel Sonora, non lontano da Nacozari, e attaccammo i vaccari che lo custodivano. Uccidemmo due uomini senza perdite da parte nostra. Dopo lo scontro portammo via il nostro bestiame e tutto il loro. Fummo inseguiti da nove cowboy. Mandai avanti la mandria e rimasi indietro con
tre guerrieri per intercettare chiunque volesse attaccarci. Una notte, quando ci trovavamo vicino al confine dell’Arizona, scoprimmo questi cowboy che ci seguivano e li sorvegliammo mentre si accampavano per la notte e legavano i cavalli. Verso mezzanotte strisciammo nel loro campo e silenziosamente portammo via tutti i cavalli, lasciando i cowboy addormentati. Poi cavalcammo a briglia sciolta e raggiungemmo i nostri compagni, che viaggiavano sempre di notte e mai di giorno. Aggiungemmo questi cavalli al resto del bestiame e rimanemmo di nuovo indietro per intercettare chiunque altro ci inseguisse. Non so che cosa abbiano fatto quei nove cowboy il mattino seguente, e non ho mai saputo che i messicani abbiano raccontato qualche cosa di loro. So soltanto che non ci seguirono, perché non fummo più molestati. Quando arrivammo all’accampamento la tribù fece grandi festeggiamenti, e giudicò un bellissimo scherzo aver lasciato i messicani addormentati in montagna senza i loro cavalli. Passò molto tempo prima che ritornassimo nel Messico o che i messicani venissero a disturbarci.
Altre incursioni
(un capitolo scritto da Stephen M. Barrett)
Dopo aver letto i capitoli precedenti una persona poco avveduta della violenza della frontiera potrebbe chiedersi come mai gli Apache abbiano sviluppato tali barbare abitudini. Ma una volta verificate le reali condizioni di impunità vigenti in quegli anni sia sul lato messicano che su quello bianco della frontiera tra il Messico e l’Arizona, si può facilmente intuire dove gli Apache abbiano imparato l’arte di condurre sanguinose e impunite incursioni. Questo capitolo è stato scritto con l’intento di far conoscere le condizioni del sud dell’Arizona negli anni Ottanta del secolo scorso. Gli eventi di seguito narrati sono stati riferiti all’autore da uomini affidabili vissuti in questa parte degli Stati Uniti nel periodo citato.
Incursione di uomini bianchi Nel 1882 un gruppo di sei commercianti messicani, noti come «contrabbandieri» perché eludevano i dazi sulle merci che portavano negli Stati Uniti e vendevano in Arizona, erano accampati nel Cañon dello Scheletro, dieci miglia a nord del vecchio confine con il Messico. Si sapeva che portavano sempre con sé grosse somme di denaro ma poiché erano armati e pronti a difendere i loro averi, nessuno li molestava. Tuttavia questa volta furono sorpresi all’alba intenti a fare colazione da un gruppo di cinque uomini bianchi che aprirono il fuoco su di loro, uccidendoli tutti tranne uno, che ferito riuscì a fuggire e a salvarsi la vita. Alcuni giorni dopo dei cowboy si accamparono nello stesso luogo e seppellirono i resti dei cinque messicani (almeno quello che avevano lasciato i coyote). Due anni dopo, nello stesso posto, un cowboy rinvenne una borsa di cuoio contenente settantadue dollari messicani, una piccola quantità di denaro evidentemente trascurata dai rapinatori. Gli uomini responsabili di questo delitto vissero in Arizona ancora per molti anni e nonostante fosse a tutti noto ciò che avevano fatto non furono mai arrestati, e nessun tentativo fu fatto dai messicani per riavere gli averi dei loro concittadini assassinati.
Incursione di messicani Nel 1884 un allevatore di bestiame e quattro cowboy del suo ranch si misero in marcia allo scopo di condurre delle grasse vacche al mercato di Tombstone, in Arizona. La pista che presero passava da parte a parte tra il confine messicano e
quello statunitense. Una notte si accamparono appena a sud del confine con il Messico. La mattina dopo, quando il cowboy che era stato di guardia per l’ultima parte della notte stava smontando dal servizio, dei messicani nascosti nella boscaglia aprirono il fuoco. L’allevatore e uno dei cowboy furono gravemente feriti da quella prima scarica e si rifugiarono dietro al carro, da dietro il quale spararono tutte le loro cartucce. Gli altri tre cowboy erano solo lievemente feriti e si misero al riparo, ma alla fine solo uno salvò la sua vita. Restò nascosto due giorni finché i compagni non lo trovarono. Dalla sua posizione vide i messicani depredare i corpi delle vittime e portare via i cavalli, dopo essersi preparati una colazione tra i resti del campo dei cowboy. Era gravemente ferito e senza munizioni e l’unica cosa che poteva fare era aspettare. Il secondo giorno dopo l’incursione alcune delle vacche rientrarono al ranch, cosicché i cowboy rimasti capirono che qualcosa era andato storto. Trovarono il loro compagno ferito che giaceva delirante in mezzo ai corpi in decomposizione degli uccisi. Nessun arresto fu mai eseguito in Messico per questi omicidi, né si cercò mai di recuperare la refurtiva o di incriminare i malfattori. I due episodi narrati servono a mostrare al lettore che tipo di esempi venivano dati agli Apache da parte se non altro di una parte della popolazione delle due nazioni cristiane con le quali vennero in contatto.
Incursioni Apache Si è pensato di dare conto in questo capitolo di alcune incursioni Apache, non raccontate da Geronimo. Sono riportate così come riferite dai nostri concittadini e dal punto di vista dell’uomo bianco. * * * Nel 1884 il giudice McCormick e la moglie, accompagnati dal giovane figlio, si dirigevano da Silver City a Lordsburg, quando caddero vittima di un’imboscata tesagli da alcuni Apache. I cadaveri dei due adulti furono ritrovati subito, ma il corpo del bambino non venne mai trovato. Anni dopo, una squaw Apache raccontò ad alcuni coloni in Arizona che il ragazzino (che aveva circa otto anni) piangeva così tanto ed era talmente testardo, che dovettero ucciderlo, nonostante la loro intenzione iniziale fosse di risparmiargli la vita. * * * Nel 1882 un uomo di nome Hunt venne coinvolto in una rissa in un saloon, venne ferito mentre due uomini persero la vita. Per evitare l’arresto Hunt e il fratello scapparono e si accamparono a circa dieci miglia a nord di Willow Springs, attendendo la guarigione delle sue ferite. Pochi giorni dopo il loro arrivo furono
attaccati dagli Apache e il fratello ferito fu ucciso mentre l’altro, cavalcando furiosamente, riuscì a salvarsi la vita. * * * Nel 1883 due ragazzi della costa est andarono in Arizona per delle ricerche. Iniziarono trascorrendo un paio di giorni con dei cowboy a Willow Springs. Questi ultimi li avevano messo in guardia contro gli Apache, ma i due ragazzi sembravano determinati e partirono verso le montagne. All’alba del secondo giorno da quando avevano lasciato l’accampamento uno dei ragazzi preparava la colazione mentre l’altro recuperava i muli da soma che durante la notte si erano allontanati, rischiando d’azzopparsi. Appena il tempo di ritrovare le bestie che due indiani Apache balzano fuori da un nascondiglio costringendolo a rientrare correndo fino a rompersi una gamba in un crepaccio. Dopo una rapida consultazione i due ragazzi della costa est decidono che forse quelle storie sulla pericolosità degli indiani sono vere e decidono di arrendersi. Legano un fazzoletto bianco su un lungo bastone agitandolo in direzione degli Apache. Pochi minuti dopo i due indiani, uno anziano e l’altro molto più giovane – evidentemente il figlio – cavalcarono fin dentro l’accampamento e scesero dai loro pony. Il più anziano esaminò l’arto rotto, poi tolse al ferito la camicia e strappandola ne fece delle bende con cui fissare la frattura. Dopo di che i due indiani mangiarono la colazione che era stata preparata e risalirono sui loro pony. Poi il vecchio guerriero indiano, indicando con il dito una direzione, disse: «Dottore. Lordsburg. Tre giorni»; poi silenziosamente si allontanò. I due ragazzi cavalcarono per venticinque miglia fino a Sansimone dove dei cowboys gli diedero un carro per consentirgli di raggiungere Lordsburg, settantacinque miglia più avanti, dove effettivamente c’era un medico. * * * Nel 1883 due ricercatori, di nome Alberts e Reese, guidavano un cavallo e un mulo, attraverso il fondo del Turkey Creek, quando furono uccisi a colpi di fucile dagli indiani. Il carro e le bardature furono ritrovati in mezzo alla pista mentre la carogna del mulo a circa duecento yarde dal luogo. Evidentemente gli indiani non sapevano cosa farci. Le pistole dei due ricercatori furono ritrovate più tardi, ma del cavallo si perse ogni traccia. * * * In nessuno degli episodi descritti i corpi delle vittime furono mutilati. Tuttavia ci sono molti casi documentati in cui risulta che gli indiani Apache mutilavano i corpi dei loro nemici. Sostiene Geronimo che si trattava di indiani fuorilegge, perché i guerrieri erano istruiti di non scalpare nessuno se non gli avversari uccisi in
battaglia e di non torturare nessuno se non per aver rivelata l’informazione desiderata. * * * Nel 1884 due cowboy alle dipendenze della Sansimone Cattle Company erano accampati a Willow Springs, diciotto miglia a sud-ovest del canyon dello Scheletro, non distanti dal confine messicano. Al tramonto il loro accampamento venne circondato da Apache con i colori di guerra che gli dissero di essere stati in guerra con i messicani e che desideravano far ritorno negli Stati Uniti. C’erano circa settantacinque uomini nel gruppo, le squaw e i bambini li avrebbero raggiunti dopo. Avevano con sé circa centocinquanta cavalli messicani. Gli Apache si fermarono presso l’accampamento per circa dieci giorni, servendosi delle vacche della compagnia per l’approvviggionamento. Con questa tribù c’era un ragazzino bianco di circa quattordici anni, che era evidentemente stato con loro sin dall’infanzia, giacché non parlava una parola di inglese, né capiva molto lo spagnolo, ma parlava l’apache fluentemente. Essi consentivano di lasciare il campo a un solo cowboy alla volta, tenendo l’altro sotto sorveglianza. Avevano sentinelle con i cannocchiali dislocate su tutte le colline e le vette che circondavano il campo. Una sera uno dei due cowboy, William Berne, che era stato autorizzato a lasciare il campo, notò un indiano smontato da cavallo. Avvicinandosi, scoprì che questi lo teneva sotto tiro. L’uomo smontò immediatamente da cavallo, mettendo quest’ultimo tra sé e l’indiano, e prese il suo Winchester. A quel punto l’indiano saltò sul suo cavallo e galoppò verso di lui a tutta velocità, facendogli segno di non sparare. Arrivato vicino a Berne, smontò da cavallo e puntando il dito verso terra mostrò una serie di fresche impronte di cervo. Allora, visto che una reciproca comprensione era stata stabilita, il cowboy rimontò in sella e proseguì per la sua strada, lasciando l’indiano da solo a cacciare il cervo. Un giorno, quando questo cowboy era a circa dieci miglia dal campo, trovò due bellissimi cavalli allontanatisi dal branco, e appartenenti agli indiani. Pensando che potessero essere in qualche modo una compensazione per le vacche che gli indiani mangiavano, li guidò per circa cinque miglia in un canyon dove c’era erba in abbondanza e acqua e li lasciò lì, intendendo tornarli a prendere dopo la partenza degli indiani. Dopo dieci giorni dall’arrivo degli indiani truppe degli Stati Uniti arrivarono accompagnate da due indiani che erano stati inviati a negoziare. Una volta al campo i soldati pagarono i due cowboy per le vacche uccise e si misero in marcia con tutti gli indiani e le loro cose verso Fort Bowie. I cowboy subito si precipitarono a recuperare i due cavalli nascosti nel canyon, ma non avevano fatto molta strada che si videro passare davanti due indiani con i loro cavalli che si affrettavano a
raggiungere il resto della tribù. Evidentemente in quell’occasione la scaltrezza del viso pallido non aveva messo nel sacco l’uomo rosso. Geronimo sostiene di non essere connesso agli eventi narrati ma si rifiuta di dire se sa qualcosa a questo proposito. Ritiene poco virile raccontare di incursioni o razzie di altri indiani se non coinvolto. * * * Questi erano gli eventi che occorrevano nella «terra degli Apache» nel periodo in cui Geronimo guidava i suoi guerrieri a vendicarsi dei «torti» subiti dal suo popolo. Questo capitolo mostra come agli Apache fossero forniti parecchi esempi di illegalità e di come gli indiani fossero ottimi studenti alla scuola della selvaggia anarchia.
Duri combattimenti
Verso il 1873 fummo attaccati di nuovo da truppe messicane nel nostro accampamento, ma le sconfiggemmo. Allora deliberammo di compiere scorrerie nel Messico. Muovemmo tutto il nostro campo, caricammo tutti i nostri beni su muli e cavalli, partimmo per il Messico e ci accampammo nelle montagne vicino a Nacori. Mentre spostavamo in questo modo il nostro accampamento, non volevamo che nessuno ci spiasse; quindi, se passavamo vicino a una casa messicana, ne uccidevamo di solito gli occupanti. Se però si arrendevano, non opponevano resistenza e non ci procuravano guai, li prendevamo prigionieri. Cambiavamo sovente il nostro luogo di incontro; in questi casi portavamo con noi i prigionieri, se ci seguivano docili, ma se erano riottosi li ammazzavamo. Ricordo un messicano nelle montagne della Sierra Madre che ci vide muovere e ci trattenne per qualche tempo. Ci preoccupammo di catturarlo, pensando che il saccheggio della sua casa avrebbe compensato il ritardo, ma dopo averlo ucciso non trovammo nella sua abitazione niente che valesse la pena prendere. Vagammo in quelle montagne piÚ di un anno, facendo razzie nei villaggi messicani per rifornirci, ma senza mai un vero combattimento contro truppe messicane, poi ritornammo nella nostra patria in Arizona. Dopo essere rimasti nell’Arizona per circa un anno, ritornammo nel Messico, e andammo a nasconderci fra le montagne della Sierra Madre. Il campo era vicino a Nacori. Avevamo appena predisposto bande di guerrieri per fare incursioni nella zona, quando gli esploratori avvistarono truppe messicane che venivano verso il nostro campo per attaccarci.
La battaglia di White Hill Il capo degli Apache Nedni, Whoa, era con me e comandava un reparto. Tutti i guerrieri marciarono verso le truppe e le incontrarono in un luogo a circa otto chilometri dal campo. Quando i soldati ci videro, cavalcarono rapidi in cima a un’altura, smontarono e si disposero dietro ai cavalli, usandoli come riparo. Si trovavano su una collina rotonda, molto scoscesa e rocciosa, che non aveva alberi sui fianchi. Erano due compagnie di cavalleria messicana, e noi eravamo una sessantina di guerrieri. Strisciammo su per la collina dietro le rocce, e i messicani ci tennero costantemente sotto il loro fuoco, ma avevo ammonito i guerrieri di non esporsi al tiro messicano. Sapevo che i soldati avrebbero sprecato tutte le loro munizioni. Presto tutti i loro
cavalli furono uccisi, ma i soldati continuavano a tenersi dietro di loro e a spararci contro. Noi avevamo già ucciso molti messicani, senza aver ancora perso un solo uomo. Essendo tuttavia impossibile avvicinarsi a loro in questo modo, pensai che fosse meglio condurre una carica contro di essi. Stavamo combattendo dall’una; verso la metà del pomeriggio, vedendo che non facevamo nessun progresso, diedi il segnale dell’avanzata. Quando risuonò il grido di battaglia, sbucammo fuori da ogni riparo di roccia, oltrepassammo i cavalli morti dei messicani e ingaggiammo una lotta corpo a corpo. L’attacco fu tanto improvviso, che i messicani si misero a correre in ogni direzione, e in mezzo a tanta confusione li uccidemmo tutti in pochi minuti. Allora prendemmo loro lo scalpo, portammo via i nostri morti e ci impadronimmo di tutte le armi che ci occorrevano. Quella notte spostammo l’accampamento verso est attraversando le montagne della Sierra Madre ed entrando nel Chihuahua. Qui i soldati non ci molestarono, e dopo un anno circa ritornammo in Arizona. Quasi tutti gli anni andavamo a passare qualche mese in Messico. In quel periodo c’erano molti abitati nell’Arizona, e la caccia non era molto abbondante. Inoltre, ci piaceva scendere nel Messico. Le terre degli Apache Nedni, nostri amici e parenti, si addentravano profondamente in quella nazione, e il loro capo, Whoa, era come un fratello per me. Passavamo molto del nostro tempo nel suo territorio. Verso il 1880 eravamo accampati nelle montagne a sud di Casa Grande quando una compagnia di truppe messicane ci attaccò. I soldati messicani erano ventiquattro, gli indiani una quarantina. I messicani piombarono di sorpresa sull’accampamento e fecero fuoco contro di noi, ammazzando due indiani con la prima raffica. Non capii come avessero potuto scoprire il nostro campo; avevano probabilmente esploratori eccellenti, e le nostre sentinelle erano state negligenti. Ed eccoli spararci addosso prima ancora che sapessimo che erano vicini. Eravamo in un terreno boscoso; diedi ordine di avanzare e di combattere a breve distanza. Ci riparammo dietro a rocce e alberi finché arrivammo a dieci metri dalla loro linea, poi ci rizzammo. Entrambe le parti continuarono a sparare, fino a quando tutti i messicani rimasero uccisi. Noi perdemmo dodici guerrieri in questa battaglia. Il nome indiano di questo posto era «Sko-la-ta». Dopo aver sepolto i nostri morti e preso tutti i viveri dei messicani, andammo verso nord-est. In un punto vicino a Nacori fummo attaccati da truppe messicane. In questo luogo, che gli indiani chiamano «Nokode», si scontrarono un’ottantina di guerrieri, Apache Nedni e Bedonkohe, e tre compagnie di soldati messicani. Questi ci attaccarono in campo aperto, e noi ci disperdemmo, sparando mentre correvamo. Ci inseguirono, ma ci sparpagliammo e riuscimmo in breve a sbarazzarci degli inseguitori. Ci radunammo allora sulle montagne della Sierra Madre. Qui tenemmo consiglio, e siccome le truppe messicane stavano arrivando da molte direzioni, ci sparpagliammo di nuovo.
Circa quattro mesi dopo ci radunammo a Casa Grande16 per concludere un trattato di pace. I capi della città di Casa Grande, e tutti gli uomini di Casa Grande, fecero un patto con noi. Ci stringemmo la mano e promettemmo di essere fratelli. Poi cominciammo a barattare, e i messicani ci diedero del mescal. In breve quasi tutti gli indiani furono ubriachi. Mentre erano ubriachi arrivarono da un’altra città due compagnie di soldati messicani, che ci attaccarono, uccisero venti indiani e ne fecero prigionieri un numero ancora maggiore.* Noi fuggimmo in tutte le
direzioni.
* È impossibile far capire a Geronimo che queste truppe erano al servizio di un governo comune e non di una
qualsiasi città in particolare. Egli pensa ancora che ogni città sia indipendente e che ogni cittadinanza sia una tribù separata. Non riesce a comprendere i rapporti tra le città e il governo centrale.
La più violenta battaglia di Geronimo
Dopo il tradimento e il massacro di Casa Grande non ci radunammo di nuovo per molto tempo; quando ci raccogliemmo, ritornammo in Arizona. Vi rimanemmo per un certo periodo, vivendo nella riserva di San Carlos, in un luogo che ora si chiama Geronimo 17. Nel 1883 ritornammo un’altra volta nel Messico. Ci fermammo tra le
sue catene montuose per circa quattordici mesi, e durante questo periodo avvennero molte scaramucce con le truppe messicane. Nel 1884 ritornammo nell’Arizona per convincere altri Apache a venire con noi nel Messico. I messicani stavano raccogliendo truppe sulle montagne dove noi avevamo vagato, ed erano in numero tanto superiore al nostro, che non potevamo sperare di combatterli e vincerli. Eravamo ormai stanchi di essere costretti a vagabondare da un posto all’altro, sempre braccati. In Arizona ci furono incidenti fra noi e i soldati degli Stati Uniti, e così ritornammo nel Messico. In Arizona avevamo perso una quindicina di guerrieri, e non avevamo fatto nuove reclute. Così ridotti di numero, ci accampammo sui monti a nord di Arispe. I nostri esploratori avvistarono truppe messicane in parecchie direzioni. Le truppe degli Stati Uniti stavano scendendo da nord. Eravamo ben armati di fucili e avevamo una buona scorta di munizioni ma, non piacendoci affatto essere circondati dalle truppe di due governi, partimmo e spostammo l’accampamento verso sud. Una notte ponemmo il campo a una certa distanza dalle montagne, vicino a un corso d’acqua. L’acqua non era molto abbondante, ma tracciava un profondo canale attraverso la prateria; qualche alberello incominciava a crescere qua e là lungo le rive di questo torrente. In quei giorni non ci accampavamo mai senza mandare uomini in ricognizione, poiché sapevamo di essere esposti ad attacchi in qualsiasi momento. Il mattino seguente, proprio all’alba, arrivarono gli esploratori e misero in allarme il campo con l’annuncio che si stavano avvicinando soldati messicani. Già cinque minuti dopo i messicani sparavano contro di noi. Ci infilammo nei fossati scavati dall’acqua, e affidammo alle donne e ai bambini il compito di farli più profondi. Diedi severi ordini di non sprecare le munizioni e di tenersi al coperto. Ammazzammo molti messicani, quel giorno, e a nostra volta subimmo perdite numerose, poiché lo scontro durò tutta la giornata. Ripetute volte le truppe caricarono in un punto, furono respinte, poi si radunarono e sferrarono l’attacco in
un altro punto. Verso mezzogiorno cominciammo a sentir pronunciare il mio nome accompagnato da maledizioni. Nel pomeriggio venne sul campo il generale e la battaglia si fece più violenta. Diedi ordine ai miei guerrieri di tentare d’uccidere tutti gli ufficiali messicani. Verso le tre il generale chiamò a raccolta tutti gli ufficiali nella parte destra del campo. Il luogo in cui si radunarono non era molto lontano dal corso d’acqua principale, e un piccolo fossato scorreva vicino al punto in cui si trovavano gli ufficiali. Con cautela camminai carponi in questo fosso finché arrivai vicinissimo al posto in cui si teneva consiglio. Il generale era un vecchio guerriero. Il vento soffiava nella mia direzione, di modo che potei sentire tutto quel che diceva e capire quasi tutto.* Il generale disse loro pressappoco questo:
«Ufficiali, laggiù in quei fossati sta quel diavolo rosso di Geronimo con la sua odiata banda. Questo deve essere il suo ultimo giorno. Cavalcategli contro dai due lati del fossato; uccidete uomini, donne, bambini; non fate nessun prigioniero; è di indiani morti che abbiamo bisogno. Non risparmiate i vostri uomini; sterminate la sua banda a ogni costo; disporrò i feriti con l’ordine di sparare a tutti i disertori; ritornate alle vostre compagnie e avanzate». Appena sentii dare il comando dell’avanzata, mirai con cura al generale, che cadde. In un attimo il terreno tutto intorno a me fu perforato da pallottole, ma io rimasi incolume. Gli Apache avevano visto. Da tutta la lunghezza dei fossi si alzò il feroce grido di guerra del mio popolo. Le colonne oscillarono un momento, poi continuarono ad avanzare; e non ripiegarono fino a quando il nostro fuoco ebbe sterminato le prime file. Dopo ciò non combatterono più con molto accanimento, però continuarono a serrare le file e a ritentare l’attacco fino al sopraggiungere dell’oscurità. Continuarono anche a pronunciare il mio nome seguito da minacce e maledizioni. Quella sera, prima che gli spari cessassero, una dozzina di indiani strisciò fuori dai fossi e appiccò il fuoco all’erba alta della prateria dietro alle truppe messicane. Durante la confusione che seguì fuggimmo verso le montagne. Questa fu l’ultima battaglia che combattei contro i messicani. Da quel momento truppe degli Stati Uniti ci stettero alle calcagna continuamente, finché fu concluso il trattato con il generale Miles al canyon dello Scheletro.18 Durante le mie molte guerre contro i messicani ricevetti otto ferite. Eccole: un colpo d’arma da fuoco alla gamba sinistra sopra il ginocchio, e la pallottola è ancora lì; un’altra palla attraverso l’avambraccio sinistro; una ferita di sciabola alla gamba destra sotto il ginocchio; una ferita inferta con il calcio del moschetto sulla testa; una pallottola appena sotto l’estremità esterna dell’occhio sinistro; colpi d’arma da fuoco sul fianco sinistro e nella schiena. Ho ucciso molti messicani: non so quanti, perché sovente non li ho contati. Qualcuno di loro non era nemmeno degno di essere contato.
Da allora è passato tanto, tanto tempo, ma ancora adesso detesto i messicani. Con me furono sempre infidi e malvagi. Ora sono vecchio e non scenderò mai piÚ sul sentiero di guerra ma, se fossi giovane e se ancora scendessi sul sentiero di guerra, questo mi condurrebbe in Messico. * Geronimo capisce abbastanza bene lo spagnolo.
PARTE TERZA
L’UOMO BIANCO
L’arrivo dei bianchi
Pressappoco all’epoca del massacro di «Kaskiyeh» (1858) venimmo a sapere che qualche uomo bianco stava facendo misurazioni del terreno a sud della nostra zona. Insieme con un certo numero di altri guerrieri andai a visitarli. Non riuscimmo a capirli molto bene perché non avevamo un interprete; concludemmo però un patto con loro dandoci strette di mano e promettendo di essere fratelli. Allora ponemmo il campo vicino a quello dei bianchi, che vennero a commerciare con noi. Demmo loro pelli di cervo, coperte, pony, in cambio di camicie e di viveri. Offrimmo loro anche la nostra cacciagione, per la quale ci diedero denaro. Non conoscevamo il valore di questo denaro, ma lo conservammo e in seguito gli indiani Navaho ci dissero che era molto prezioso. Tutti i giorni i bianchi misuravano la terra con strumenti strani e facevano segni che non potevamo capire. Erano uomini buoni; ci dispiacque quando continuarono la loro strada verso occidente. Non erano soldati. Questi furono i primi bianchi che vidi. Circa dieci anni dopo arrivarono altri uomini bianchi. Questi erano tutti guerrieri. Si accamparono sul fiume Gila a sud di Hot Springs. Da principio si dimostrarono amici e non provammo antipatia per loro; non erano però buoni come quelli che erano venuti prima. Dopo circa un anno sorsero difficoltà tra loro e gli indiani; io scesi sul sentiero di guerra come guerriero e non come capo.* Non ero io che avevo subito dei torti,
ma li aveva patiti qualcuno del mio popolo, quindi combattei con la mia tribù. Infatti la colpa era dei soldati e non degli indiani. Poco tempo dopo, alcuni ufficiali delle truppe statunitensi invitarono i nostri capi a tenere un convegno ad Apache Pass (Fort Bowie). Appena prima di mezzogiorno gli indiani furono fatti entrare in una tenda dicendo che avrebbero portato loro qualcosa da mangiare. Quando si trovarono dentro furono aggrediti dai soldati. Il nostro capo Mangas-Coloradas e molti altri guerrieri fecero uno strappo nella tenda e scapparono; invece la maggior parte dei guerrieri furono uccisi o fatti prigionieri.** Fra gli Apache Bedonkohe uccisi quella volta furono Sanza,
Kladetahe, Niyokahe e Gopi. Dopo questo tradimento gli indiani ritornarono sulle montagne, abbandonando completamente il forte. Non credo che l’agente avesse avuto niente a che fare con questo piano perché ci aveva sempre trattati bene. Penso che tutto fosse opera dei soldati. Fin dal principio i soldati mandati nelle nostre terre occidentali, e gli ufficiali che
li comandavano, non esitarono a maltrattare gli indiani.* Non riferivano mai al governo quando un indiano subiva un torto, ma raccontavano sempre i misfatti degli indiani. Molte azioni compiute da bianchi ignobili furono riferite a Washington come opera del mio popolo. Gli indiani cercarono sempre di vivere in pace con i soldati e i coloni bianchi. Un giorno, durante il periodo in cui i soldati erano di guarnigione ad Apache Pass, strinsi un patto con la postazione. Lo sancimmo con strette di mano e promesse di essere fratelli. La medesima cosa fecero Mangas-Coloradas e Cochise. Non conosco il nome dell’ufficiale che comandava quel posto: era il primo reggimento arrivato ad Apache Pass. Questo trattato fu fatto all’incirca un anno prima dell’aggressione sotto quella tenda, che ho raccontato sopra. Pochi giorni dopo che fummo assaliti ad Apache Pass, raccogliemmo le nostre forze in montagna e ritornammo a combattere i soldati. C’erano due tribù, quella degli Apache Bedonkohe e quella degli Apache Chokonen, comandate tutte e due da Cochise. Dopo scaramucce durate qualche giorno, attaccammo una colonna di rifornimenti, che stava portando viveri al forte. Alcuni degli uomini furono uccisi e altri fatti prigionieri. Il nostro capo offrì di scambiare questi prigionieri con gli indiani rimasti nelle mani dei soldati il giorno del massacro nella tenda. Poiché gli ufficiali non accettarono, uccidemmo i nostri prigionieri, ci disperdemmo e raggiungemmo i nascondigli sulle montagne. Di tutti coloro che parteciparono a questi fatti io sono l’unico superstite. Pochi giorni dopo furono mandate delle truppe a cercarci, ma, dal momento che eravamo sparpagliati, fu naturalmente impossibile che i soldati avvistassero un accampamento nemico. Mentre ci stavano cercando, molti nostri guerrieri, che i soldati scambiarono per indiani pacifici, parlarono con gli ufficiali e gli uomini, spiegando loro dove avrebbero potuto trovare il campo che cercavano; e mentre ci davano la caccia noi li spiavamo dai nostri nascondigli e ridevamo dei loro insuccessi. Dopo queste complicazioni tutti gli indiani19 furono d’accordo a non essere mai
più amici degli uomini bianchi. Non vi fu nessun impegno generale, ma ebbe inizio una lunga lotta. A volte noi attaccavamo i bianchi, altre erano loro che ci attaccavano. Prima venivano uccisi degli indiani, poi alcuni soldati. Penso che le morti fossero più o meno uguali da una parte e dall’altra. In queste scaramucce non furono molti gli uomini uccisi: però il tradimento compiuto dai soldati aveva irritato gli indiani e fatto rivivere ricordi di altri torti, cosicché noi perdemmo per sempre la fiducia nelle truppe degli Stati Uniti. * In quanto combattevano come tribù, erano sotto il capo tribale, Man-gas-Coloradas. Se fossero state chiamate
a raccolta parecchie tribù, avrebbe assunto il comando Geronimo, il capo della guerra.
*
Riguardo a questo attacco, L.C. Hughes, direttore del giornale «The Star» di Tucson nell’Arizona, al quale fui indirizzato dal generale Miles, scrive quanto segue: «Sembra che Cochise, il quale con la sua tribù era da qualche tempo sul sentiero di guerra, insieme con un certo numero di capi subordinati, fosse stato invitato a entrare nel campo militare di Bowie con la promessa di discutere un trattato di pace; invece tutti furono portati in una grande tenda dove furono ammanettati. Visto questo, Cochise riuscì a fuggire dalla tenda e a rifugiarsi in montagna. Meno di sei ore dopo tornò a circondare il campo con guerrieri in numero da trecento a cinquecento. Ma i soldati rifiutarono la battaglia».
*
Questa categorica affermazione può sembrare una generalizzazione, però può darsi che sia più vicina alla verità di quanto siamo disposti ad ammettere.
Il torto più grave
Forse il torto più grave che gli indiani abbiano mai subito è il modo in cui fu trattata la nostra tribù dalle truppe degli Stati Uniti intorno al 1863. Il capo della nostra tribù, Mangas-Coloradas, andò a concludere un trattato di pace per il nostro popolo con il villaggio bianco di Apache Tejo, nel Nuovo Messico 20. Ci era stato
riferito che i bianchi di quel paese erano meglio disposti e più leali di quelli dell’Arizona, che avrebbero mantenuto i patti e che non avrebbero fatto torti agli indiani. Mangas-Coloradas, con tre altri guerrieri, andò ad Apache Tejo e ebbe un colloquio con quei cittadini e quei soldati, i quali gli dissero che, se fosse andato ad abitare con la sua tribù vicino a loro, gli avrebbero consegnato, da parte del governo, coperte, provviste, carne, e ogni sorta di viveri. Il nostro capo promise di ritornare ad Apache Tejo due settimane dopo. Giunto al nostro villaggio, radunò in consiglio l’intera tribù. Io, non credendo che la gente di Apache Tejo fosse disposta a fare ciò che aveva promesso, mi opposi al progetto. Ma fu stabilito che una parte della tribù, insieme con Mangas-Coloradas, ritornasse ad Apache Tejo a ricevere quell’assegnazione di razioni e di forniture. Se queste avessero corrisposto alla descrizione e se quei bianchi avessero rispettato lealmente il patto, il resto della tribù avrebbe raggiunto Mangas-Coloradas e noi ci saremmo stabiliti per sempre ad Apache Tejo. lo ebbi l’incarico di restare al comando della parte della tribù che si fermava in Arizona. Demmo quasi tutte le nostre armi a quelli che andavano ad Apache Tejo, perché fossero pronti ad affrontare ogni sorpresa, nel caso che vi fosse tradimento. Mangas-Coloradas e pressappoco la metà della nostra gente partirono per il Nuovo Messico, felici di aver trovato finalmente dei bianchi ben disposti verso di loro, con cui vivere in pace e nell’abbondanza. Non ci giunse mai nessuna notizia da loro. Ma da altre fonti fummo informati che erano stati catturati a tradimento e massacrati.21 Non sapendo come comportarci in questo dilemma, nel timore che le
truppe che li avevano catturati ci attaccassero, ci ritirammo sulle montagne vicino ad Apache Pass. Nelle settimane successive alla partenza del nostro popolo eravamo stati in ansia e, non avendo pensato a procurarci viveri, avevamo esaurito tutte le nostre scorte di cibo. Questo fu un altro motivo per spostare il campo. Durante questa ritirata, mentre ci trovavamo in montagna, avvistammo quattro uomini con una mandria. Due di loro erano davanti con un piccolo carro, due dietro a cavallo. Li
ammazzammo tutti e quattro, ma non li scotennammo perché non erano guerrieri. Conducemmo il bestiame nelle nostre montagne, ponemmo il campo e incominciammo a macellare il bestiame e a insaccare le carni. Prima che finissimo questo lavoro fummo sorpresi e attaccati da truppe degli Stati Uniti, che uccisero in tutto sette indiani: un guerriero, tre donne e tre bambini. Le truppe del governo erano a cavallo, e lo eravamo anche noi, ma noi avevamo poche armi, perché le avevamo date quasi tutte alla parte della tribù che era andata ad Apache Tejo. Combattemmo soprattutto con lance, archi e frecce. Da principio avevo una lancia, un arco e qualche freccia; ma in breve terminai tutte le frecce e rimasi senza lancia. Una volta fui accerchiato, ma, gettandomi da una parte e dall’altra del cavallo per schivare i colpi, scappai al galoppo. Durante questo scontro molti guerrieri furono obbligati a lasciare i cavalli e a fuggire a piedi. Essendo invece il mio cavallo addestrato a ubbidire alla mia chiamata, appena mi trovavo in un posto sicuro, se non ero inseguito, lo facevo venire da me.* Durante
questo combattimento ci sparpagliammo in tutte le direzioni e due giorni più tardi ci ritrovammo riuniti in un luogo prestabilito, a circa cinquanta miglia dalla scena della battaglia. Circa dieci giorni dopo, le medesime truppe degli Stati Uniti assalirono il nostro nuovo accampamento all’alba. Il combattimento durò tutto il giorno ma fin dalle dieci del mattino le nostre lance e le nostre frecce erano finite, e per tutto il resto del tempo non ci rimasero che pietre e bastoni per lottare. Con tali armi non ci fu possibile infliggere grandi danni al nemico; nella notte spostammo l’accampamento di circa sei chilometri nell’interno delle montagne, dove la cavalleria avrebbe fatto fatica a inseguirci. Il giorno dopo gli esploratori, che avevamo lasciato dietro di noi a osservare i movimenti dei soldati vennero a riferirci che le truppe erano tornate verso la riserva di San Carlos. Pochi giorni dopo questi avvenimenti, fummo di nuovo attaccati da un altro reparto di truppe statunitensi. Appena prima del combattimento eravamo stati raggiunti da una banda di indiani Chokonen guidati da Cochise che prese il comando di tutte e due le tribù. Fummo messi in fuga e stabilimmo di disperderci. Dopo aver sciolto la tribù, gli Apache Bedonkohe si radunarono di nuovo vicino al loro vecchio accampamento, aspettando invano il ritorno di Mangas-Coloradas e dei suoi compagni. Non arrivarono altre notizie che quelle del loro massacro a tradimento.* Allora fu tenuto un consiglio e, poiché ormai eravamo convinti della
morte di Mangas-Coloradas, fui eletto capo tribale. Per molto tempo non fummo molestati da nessuno. Più di un anno dopo la mia nomina a capo tribale, le truppe degli Stati Uniti attaccarono di sorpresa l’accampamento. Uccisero sette bambini, cinque donne, quattro guerrieri, si impadronirono di tutte le nostre scorte, coperte, cavalli e vestiario, e distrussero i nostri tepee. Non rimase nulla. L’inverno si avvicinava, e fu l’inverno più freddo
che io abbia mai visto. Quando i soldati si ritirarono, presi con me tre guerrieri e li seguii. Quelle tracce portavano verso San Carlos. * Geronimo sovente chiama a sé i suoi cavalli nella riserva di Fort Sill. Si limita a emettere un suono acuto, e gli
animali corrono da lui a tutta velocità.
* A proposito dell’uccisione di Mangas-Coloradas, L.C. Hughes direttore del giornale «The Star», di Tucson,
nell’Arizona, scrive in questo modo: «Verso il principio del 1863 il generale West era accampato con le sue truppe vicino a Membras. Egli mandò un esploratore, Jack Swilling, a chiamare Mangas, che era sul sentiero di guerra fin dai tempi dell’episodio di Cochise a Bowie. Il vecchio capo era sempre d’accordo a fare la pace, e accettò volentieri l’invito. Quando l’indiano arrivò al campo, il generale West ordinò che lo mettessero nel corpo di guardia, dove c’era soltanto una piccola apertura sul dietro e una finestrella. Entrandovi, il vecchio capo disse: “Questa è la fine. Non andrò mai più a caccia sulle montagne e nelle valli della mia gente”. Sentiva che sarebbe stato assassinato. Le guardie ricevettero l’ordine di sparare se avesse tentato la fuga. Mangas si distese e cercò di dormire, ma di notte qualcuno gettò una grossa pietra che lo colpì al petto. Egli saltò in piedi: vedendolo infuriato le guardie credettero che cercasse di scappare e gli spararono in molti. Questa fu la fine di Mangas. Un chirurgo staccò la testa dal corpo e ne estrasse il cervello, che fu pesato. Il capo era più grande di quello di Daniel Webster, il cervello aveva un peso corrispondente. Il teschio fu spedito a Washington, ed è ora esposto alla Smithsonian Institution».
Trasferimenti
Sulla via del ritorno dall’inseguimento delle truppe del governo scorgemmo due uomini, un messicano e un bianco, e li abbattemmo. Ci impadronimmo dei loro due cavalli e con questi ritornammo all’accampamento che spostammo. La mia gente soffriva molto e fu perciò giudicato conveniente andare dove si potevano avere più viveri. In quel momento la selvaggina era scarsa nel nostro territorio. Da quando ero capo tribale non avevo mai chiesto razioni al governo, e non mi piaceva farlo; ma non volevamo morire di fame. Avevamo sentito dire che Victorio, il capo degli Apache Chihenne (Ojo Caliente), stava tenendo consiglio con i bianchi vicino a Hot Springs nel Nuovo Messico, e che aveva grandi scorte di viveri. Eravamo sempre stati in rapporti di amicizia con questa tribù, e Victorio era particolarmente ben disposto verso la mia gente. Trasportando sui due cavalli che avevamo catturato i nostri malati, andammo a Hot Springs. Victorio e la sua banda furono facili da trovare, e ci diedero rifornimenti per l’inverno. Rimanemmo con loro circa un anno, e durante questo soggiorno godemmo di assoluta tranquillità. Non avvennero scontri né con messicani né con bianchi né con indiani. Dopo essere rimasti lì il più a lungo possibile e aver accumulato di nuovo qualche scorta, decidemmo di separarci dalla banda di Victorio; questi, al mio annuncio che stavamo per andarcene, disse che avrebbe offerto un banchetto e una danza prima della separazione. I festeggiamenti si svolsero a circa due miglia sopra Hot Springs e durarono quattro giorni. A questa celebrazione parteciparono pressappoco quattrocento indiani. Non credo di aver mai avuto giorni più piacevoli di quelli. Nessuno ha mai trattato la nostra tribù con maggior gentilezza di Victorio e della sua banda. Ancora oggi siamo orgogliosi di dire che lui e il suo popolo ci furono amici. Quando mi recai ad Apache Pass (Fort Bowie), trovai al comando del forte il generale Howard22, e conclusi con lui un patto.* Questo trattato durò ancora a
lungo dopo che il generale Howard aveva lasciato il nostro paese. Mantenne sempre la sua parola con noi e ci trattò come fratelli. Ma nessun altro ufficiale degli Stati Uniti fu per noi un amico tanto fidato quanto il generale Howard. Avremmo potuto vivere per sempre in pace con lui. Se nell’esercito degli Stati Uniti c’è un bianco puro e onesto, quell’uomo è il generale Howard. Tutti gli indiani lo rispettano e ancora adesso parlano sovente dei tempi felici in cui il generale Howard aveva il comando del nostro posto. Quando se ne andò, mise ad Apache Pass un agente con l’incarico di assegnarci vestiario, viveri e altri rifornimenti, da parte del governo,
secondo i suoi ordini. Quando veniva distribuita carne agli indiani, a me toccavano dodici manzi per la mia tribù, e altrettanti a Cochise per la sua. Le razioni erano assegnate circa una volta al mese, ma se rimanevamo sprovvisti, non avevamo che da chiedere, e ricevevamo altre scorte. Ora, come prigionieri di guerra in questa riserva, non abbiamo razioni altrettanto buone.* Nella prateria, lontano da Apache Pass, un uomo teneva un negozio e una taverna. Qualche tempo dopo la partenza del generale Howard, una banda di indiani fuorilegge uccise quest’uomo e portò via dal suo negozio molte merci. Proprio il giorno dopo questo fatto, degli indiani del posto si ubriacarono di «tiswin» che si erano preparati con il mais. Si azzuffarono fra loro e cinque rimasero uccisi. Da qualche tempo c’erano litigi e inimicizie fra loro. Dopo questo incidente reputammo impossibile tenere unite in pace le diverse bande. Quindi ci separammo, e ogni comandante portò con sé la sua banda. Alcuni andarono a San Carlos, altri nel Messico. Io invece riportai la mia banda a Hot Springs e mi riunii di nuovo a quella di Victorio. * Il generale O.O. Howard non aveva il comando del forte, ma era stato inviato dal presidente Grant nel 1872 a
trattare la pace con gli indiani. Il generale mi scrisse da Burlington, Vermont, in data 12 giugno 1906, dicendo che ricordava il patto e ricordava anche con molta soddisfazione un successivo incontro con Geronimo.
* Non ricevono le razioni complete neanche adesso, come non le ricevevano allora.
In prigione e sul sentiero di guerra
Poco dopo il nostro arrivo nel Nuovo Messico furono inviate da San Carlos due compagnie di esploratori. Giunti a Hot Springs, mandarono a dire a me e a Victorio di andare in città. I messaggeri non riferirono i motivi della chiamata; ma, poiché sembravano amichevoli, pensammo che desiderassero parlamentare e ci recammo a cavallo al convegno con gli ufficiali. Appena arrivati in città, ci vennero incontro dei soldati che ci disarmarono e ci portarono tutti e due al quartier generale, dove fummo processati dalla corte marziale. Dopo averci posto qualche domanda lasciarono libero Victorio e condannarono me a essere rinchiuso nel posto di guardia. Gli esploratori mi condussero in guardina e mi incatenarono. Quando chiesi loro la ragione di tutto questo, mi risposero che lo facevano perché avevo lasciato Apache Pass. Non pensavo di essere mai appartenuto a quei soldati di Apache Pass, e neppure credevo di dover chiedere a loro dove sarei dovuto andare. Le nostre bande non potevano più vivere insieme in pace: per questo ce n’eravamo andati tranquillamente con l’intenzione di andare ad abitare con la banda di Victorio, dove reputavamo che nessuno ci avrebbe molestati. Anche altri sette Apache furono condannati alle catene nel posto di guardia. Non capisco perché facessero ciò, dal momento che questi indiani si erano limitati a seguirmi da Apache Pass a Hot Springs. Se eravamo colpevoli per essere andati a Hot Springs (e io penso che non fosse una colpa), il biasimo doveva ricadere tutto su di me. Gli indiani chiesero ai soldati di guardia perché venivano imprigionati e incatenati, ma non ricevettero risposta. Fui tenuto in prigione quattro mesi e durante questo periodo fui trasferito a San Carlos. Poi, penso, mi fecero un altro processo, sebbene non fossi presente. In realtà non so se ebbi un altro processo: mi dissero soltanto che l’avevo avuto, e a ogni modo fui rilasciato. Dopo questi avvenimenti non sorsero altre difficoltà tra i soldati e noi, ma io non mi sentii mai più a mio agio in quel posto. Ci fu permesso di vivere sopra San Carlos in un luogo ora chiamato «Geronimo». Qui c’era un agente che gli indiani chiamavano «Nick Golee». Tutto andò bene in quel posto per un periodo di due anni, ma noi non eravamo soddisfatti. Nell’estate del 1883 correva voce che gli ufficiali avessero di nuovo intenzione di imprigionare i nostri capi. Queste dicerie servirono a ravvivare il ricordo di tutti i torti subiti in passato: il massacro nella tenda ad Apache Pass, la sorte di Mangas-
Coloradas, la mia ingiusta prigionia, che avrebbe facilmente potuto significare per me la morte. Proprio in quell’epoca ci dissero che gli ufficiali volevano che risalissimo il fiume sopra a Geronimo fino a un forte (Fort Thomas) per avere un colloquio con loro. Pensando che da quell’incontro non poteva nascere nulla di buono, e ritenendolo del tutto inutile, ci radunammo in consiglio e stabilimmo di abbandonare la riserva per timore di tradimenti. Reputavamo più degno per un uomo morire sul sentiero di guerra che essere ucciso in prigione. In tutto c’erano all’incirca duecentocinquanta indiani, soprattutto Apache Bedonkohe e Nedni, guidati da me e da Whoa. Oltrepassammo Apache Pass, e un po’ a ovest di questo luogo ingaggiammo battaglia con truppe statunitensi. In questo scontro uccidemmo tre soldati e non subimmo perdite. Proseguimmo verso il Messico, ma due giorni dopo, verso le tre del pomeriggio, i soldati degli Stati Uniti ci raggiunsero; lottammo fino a sera. Le truppe ci attaccarono su un terreno molto accidentato: questo rappresentò un vantaggio per noi, perché il nemico fu costretto a smontare da cavallo per combattere. Non so quanti soldati ammazzammo; noi perdemmo soltanto un guerriero e tre bambini. In quel periodo avevamo fucili e munizioni in abbondanza. Avevamo accumulato molti fucili e molte munizioni mentre vivevamo nella riserva; altri ne avevamo ottenuti dagli Apache White Mountain quando avevamo lasciato la riserva. Le truppe smisero di inseguirci; così proseguimmo verso sud fin quasi a Casa Grande, e ci accampammo nelle montagne della Sierra de Sahuaripa. Rimanemmo sui monti del Messico per circa un anno, poi ritornammo a San Carlos, portando con noi una mandria di cavalli e di bovini. Appena arrivammo a San Carlos il generale Crook23, che era al comando, ci
tolse i cavalli e le mucche. Gli dissi che quel bestiame non apparteneva agli uomini bianchi, ma a noi, che lo avevamo preso ai messicani durante le nostre guerre. Gli dissi anche che non avevamo intenzione di macellare le bestie, ma che desideravamo tenerle per allevare bestiame nella nostra area. Non volle ascoltarmi e fece prendere il bestiame. Andai nei pressi di Fort Apache: il generale Crook diede ordine agli ufficiali, ai soldati e agli esploratori di fare in modo che io fossi arrestato, e mandò istruzioni di uccidermi se avessi opposto resistenza. Gli indiani mi portarono questa informazione. Quando venni a conoscenza di questo piano d’azione, partii per il Messico, e fui seguito da circa quattrocento indiani, Apache Bedonkohe, Chokonen e Nedni. A quell’epoca Whoa era morto, e Naiche era con me l’unico capo. Andammo a sud nel Sonora e ci accampammo tra le montagne. Le truppe ci seguirono, ma non ci attaccarono se non quando ponemmo l’accampamento sulle montagne a occidente di Casa Grande. Qui fummo aggrediti da esploratori indiani del governo. Un ragazzo fu ucciso, e quasi tutte le nostre donne e i nostri bambini furono fatti prigionieri.*
Dopo questa battaglia ci recammo a sud di Casa Grande e ci accampammo; ma, trascorsi pochi giorni, questo accampamento fu attaccato da soldati messicani. Fra noi e loro ci furono scaramucce tutto il giorno; qualche messicano cadde, noi invece non subimmo perdite. Quella notte ci dirigemmo verso est e ci addentrammo tra le alture che precedono le montagne della Sierra Madre, e allestimmo un altro campo. Soldati messicani seguirono le nostre tracce, e dopo qualche giorno attaccarono di nuovo il campo. Questa volta i messicani avevano un esercito molto numeroso; noi evitammo di lasciarci coinvolgere in un vero combattimento. È stupido combattere quando non si può sperare di vincere. Quella notte tenemmo un consiglio di guerra. I nostri esploratori ci avevano annunciato la presenza di militari degli Stati Uniti e di truppe messicane in molti punti della montagna. Calcolammo che circa duemila soldati vagavano per queste montagne cercando di catturarci. Il generale Crook era sceso nel Messico con le truppe degli Stati Uniti, e si era accampato sulle montagne della Sierra de Antunez. Poiché alcuni esploratori mi avevano detto che il generale Crook desiderava vedermi, mi recai nel suo campo. Quando vi arrivai, il generale Crook mi disse: «Perché hai lasciato la riserva?» Gli risposi: «Tu mi avevi detto che avrei potuto vivere nella riserva nello stesso modo degli uomini bianchi. Un anno coltivai un campo di granturco, ne raccolsi la messe e la riposi; l’anno dopo seminai un campo di avena, e quando il raccolto era quasi pronto per la mietitura, tu hai comandato ai tuoi soldati di mettermi in prigione, e di uccidermi se opponevo resistenza. Se fossi stato lasciato in pace, ora sarei un uomo agiato, invece di essere qui braccato dai tuoi soldati e da messicani». Il generale rispose: «Non ho mai dato simili ordini; le truppe di Fort Apache, che hanno diffuso queste voci, sapevano che non erano vere». Allora acconsentii a tornare con lui a San Carlos. In quel momento facevo fatica a credergli. Ora so che quel che disse non era vero, e sono fermamente sicuro che diede proprio ordine di mettermi in prigione o di uccidermi nel caso che avessi opposto resistenza.* * Tutta la famiglia di Geronimo fu catturata, eccetto il figlio maggiore, che era un guerriero. * Sono le esatte parole di Geronimo, per le quali chi cura questa edizione declina ogni responsabilità.
La lotta finale
Partimmo con tutta la tribù per ritornare con il generale Crook negli Stati Uniti, ma io, temendo un tradimento, decisi di rimanere nel Messico. In quel momento non eravamo sotto scorta. Le truppe degli Stati Uniti marciavano in testa, gli indiani seguivano; quando divenimmo sospettosi, tornammo indietro. Non so fin dove mi abbia inseguito l’esercito degli Stati Uniti; qualche guerriero fece dietrofront prima che la nostra assenza fosse notata, e a me non importa. Ho sofferto molto per ordini ingiusti come quelli del generale Crook. Tali azioni hanno provocato molte angosce al mio popolo. Penso che la morte fu mandata al generale Crook dall’Onnipotente come punizione per le numerose cattive azioni da lui commesse.24 Poco dopo il generale Miles assunse il comando di tutte le guarnigioni dell’ovest; le sue truppe ci davano ininterrottamente la caccia, sotto la guida del capitano Lawton, che aveva dei buoni esploratori. Anche i soldati messicani si fecero più attivi e numerosi. C’erano scaramucce quasi ogni giorno; finalmente stabilimmo di scioglierci per formare piccole bande. Con sei uomini e quattro donne mi diressi verso la zona montuosa vicino a Hot Springs, nel Nuovo Messico. Oltrepassammo molti allevamenti di bestiame, ma i cowboy non ci diedero fastidio. Ammazzavamo mucche tutte le volte che avevamo bisogno di cibo, ma spesso pativamo moltissimo per mancanza d’acqua. Ci successe di rimanere senz’acqua due giorni e due notti, i nostri cavalli rischiarono di morire di sete. Vagammo per le montagne del Nuovo Messico per qualche tempo, poi ritornammo nel Messico, pensando che magari i soldati se ne fossero andati. Passando attraverso il Messico aggredimmo ogni messicano che incontrammo, anche senza motivo, proprio solo per uccidere. Pensavamo che i messicani avessero chiamato nel Messico le truppe degli Stati Uniti per combatterci. A sud di Casa Grande, vicino a un luogo che gli indiani chiamano «Gosoda», passava una strada che usciva dalla città. Su questa strada i messicani trasportavano molti carichi. Noi stavamo in agguato nascosti in un punto in cui la strada attraversava un passo di montagna, e tutte le volte che passavano messicani con merci li uccidevamo, prendevamo i rifornimenti che ci occorrevano e distruggevamo quanto rimaneva. Facevamo tutto questo con sprezzo del pericolo, perché sentivamo che ogni uomo era contro di noi. Se fossimo tornati alla riserva ci avrebbero messi in prigione e uccisi; se rimanevamo nel Messico, avrebbero continuato a mandare soldati a combatterci. Dunque, non risparmiavamo a nessuno
la vita, e a nessuno chiedevamo favori. Dopo qualche tempo lasciammo Gosoda; in pochi giorni ci riunimmo alla nostra tribù sulle montagne della Sierra de Antunez. Diversamente da quanto avevamo previsto, i soldati degli Stati Uniti non avevano lasciato le montagne del Messico. Eravamo appena arrivati che già ci stavano alle calcagna e si scontravano con noi quasi ogni giorno. Quattro o cinque volte attaccarono di sorpresa il nostro campo. Una volta ci sorpresero verso le nove del mattino, si impadronirono di tutti i nostri cavalli (in tutto diciannove), e presero la nostra scorta di carne secca.* In questo scontro caddero tre indiani. A metà
pomeriggio del medesimo giorno assalimmo la loro retroguardia mentre attraversava una prateria e abbattemmo un soldato, ma senza perdite da parte nostra. In questa scaramuccia recuperammo tutti i nostri cavalli eccetto tre che mi appartenevano. I tre che non riuscimmo a riprendere erano i nostri migliori cavalli da sella. Poco dopo questi fatti concludemmo un patto con le truppe messicane, le quali ci dissero che i soldati degli Stati Uniti erano la vera causa di queste guerre, e acconsentirono a non combattere più contro di noi, purché ritornassimo negli Stati Uniti. Noi accettammo e ci rimettemmo in marcia, con l’intenzione di provare a stringere un patto con i soldati degli Stati Uniti e di tornare nell’Arizona. Ormai sembrava non ci rimanesse altro da fare. Appena dopo ciò, alcuni esploratori delle truppe del capitano Lawton ci dissero che egli desiderava fare un trattato con noi; ma, sapendo che il capo delle truppe americane era il generale Miles, presi la decisione di trattare con lui. Continuammo a spostare il campo verso nord, e anche le truppe americane si mossero verso nord, tenendosi a breve distanza da noi, senza però attaccarci. Mandai mio fratello Porico (Cavallo Bianco) con il signor George Wratton a Fort Bowie a vedere il generale Miles e a riferirgli che desideravamo tornare in Arizona, ma prima che questi messaggeri rientrassero incontrai due esploratori indiani, Kayitah, un Apache Chokonen, e Marteen, un Apache Nedni, che erano al servizio delle truppe del capitano Lawton. Essi mi dissero che il generale Miles era arrivato e li aveva mandati a chiedermi d’incontrarlo. Allora mi recai al campo delle truppe degli Stati Uniti per incontrare il generale Miles. Giunto al campo andai direttamente dal generale, gli raccontai i torti che avevo subito e gli dissi che volevo ritornare negli Stati Uniti con il mio popolo, poiché desideravamo tutti rivedere le nostre famiglie che erano state fatte prigioniere e portate lontano. Il generale Miles mi disse: «Il presidente degli Stati Uniti mi ha mandato a parlarti. È stato informato dei vostri guai con gli uomini bianchi e dice che se accetterete le clausole di un patto non incorreremo più in altre noie. Geronimo, se aderisci a un trattato di poche parole, ogni cosa si aggiusterà con soddisfazione di
tutti». Il generale Miles mi promise dunque che potevamo essere fratelli l’uno per l’altro. Alzammo le braccia al cielo e dichiarammo che il trattato non sarebbe stato infranto. Pronunciammo il giuramento di non offenderci l’un l’altro e di non tramare l’uno contro l’altro. Poi il generale parlò con me a lungo e mi disse che cosa avrebbe fatto per me in futuro se io avessi accettato il patto. Non prestavo molta fede al generale Miles, ma, poiché il presidente degli Stati Uniti si era interessato a me, acconsentii a concludere il trattato, e a osservarlo. Poi chiesi al generale Miles in che cosa sarebbero consistiti i patti. Il generale Miles mi disse:* «Ti metterò sotto la
protezione del governo; ti farò costruire una casa; ti assegnerò molta terra recintata; ti darò bestiame, cavalli, muli e attrezzi agricoli. Sarai provvisto di uomini per lavorare nella fattoria, perché tu personalmente non dovrai lavorare. In autunno ti manderò coperte e vestiario perché non dobbiate patire il freddo durante l’inverno. C’è abbondanza di legname, acqua ed erba nella terra in cui vi manderò. Vivrai con la tua tribù e la tua famiglia. Se aderisci a questo trattato rivedrai la tua famiglia fra cinque giorni». Dissi al generale Miles: «Tutti gli ufficiali che si sono occupati degli indiani hanno parlato in questa maniera, che mi suona falsa; stento molto a crederti». Egli rispose: «Questa volta è la verità». Gli dissi: «Generale Miles, non conosco le leggi dell’uomo bianco e non conosco neppure quelle del nuovo paese dove mi manderai, e potrei violarle». Rispose: «Finché sono vivo io, non sarai mai arrestato». Allora acconsentii a concludere il trattato. (Da quando sono prigioniero di guerra sono stato arrestato e messo in guardina due volte per aver bevuto whisky.) Eravamo in piedi, tra i suoi soldati e i miei guerrieri. Ponemmo una grossa pietra sulla coperta davanti a noi. Stringemmo su quella pietra il nostro patto, che sarebbe durato fino a quando la pietra si fosse sgretolata divenendo polvere. In questo modo concludemmo il trattato, e ci vincolammo l’uno all’altro con giuramento. Credo di non aver mai violato quel patto; invece il generale Miles non ha mai adempiuto alle sue promesse.* Quando contraemmo il patto, il generale Miles mi disse: «Fratello mio, tu hai in mente come uccidere uomini, e altri pensieri di guerra; voglio che tu ti tolga queste idee dalla testa, e che le trasformi in pensieri di pace». Allora accettai e consegnai le mie armi. Dissi: «Abbandonerò il sentiero di guerra e vivrò d’ora innanzi in pace». E il generale Miles spazzò e pulì con la mano un punto per terra e disse: «Le tue azioni passate saranno cancellate in questo modo: ricomincerai una nuova vita».25
*
Il rapporto ufficiale del capitano Lawton fa menzione dello stesso scontro (vedi pagina 181), ma non dice che gli Apache ricatturarono i cavalli.
*
Per le clausole del trattato si veda l’appendice.
* Le critiche contro il generale Miles sono di Geronimo. Chi le pubblica declina ogni responsabilitĂ per questo e
per tutti gli altri casi in cui delle per-sone sono criticate dal vecchio guerriero.
Prigioniero di guerra
Quando mi fui arreso al governo mi misero sulla ferrovia della Southern Pacific e mi portarono a San Antonio, nel Texas, dove mi tennero per farmi un processo secondo le loro leggi. Dopo quaranta giorni mi trasferirono di lì a Fort Pickens (Pensacola), in Florida, dove mi misero a segare grossi tronchi. Con me c’erano molti altri guerrieri Apache, e tutti dovevamo lavorare ogni giorno. Per quasi due anni ci costrinsero a dure fatiche in questo posto e non rivedemmo le nostre famiglie che nel maggio del 1887. Questo modo d’agire era un’aperta violazione del trattato concluso al canyon dello Scheletro. In seguito fummo mandati con le nostre famiglie a Vermont, nell’Alabama, dove rimanemmo cinque anni e lavorammo per il governo. Non avevamo nessuna proprietà, e aspettai invano che il generale Miles mi mandasse in quella terra di cui aveva parlato; invano desiderai gli attrezzi, la casa, il bestiame che il generale Miles mi aveva promesso. Durante questo periodo uno dei miei guerrieri, Fun, uccise se stesso e la moglie. Un altro colpì la moglie e poi si sparò. Lui cadde morto, ma la donna guarì ed è ancora viva. In questo posto non stavamo affatto bene di salute, perché il clima non era adatto a noi. Morivano moltissimi del nostro popolo, tanto che acconsentii a lasciare che una delle mie mogli andasse a vivere nell’agenzia di Mescalero nel Nuovo Messico. Secondo le nostre usanze, questa separazione corrisponde a quello che i bianchi chiamano divorzio; essa quindi si risposò poco dopo il suo arrivo a Mescalero. Tenne con sé i nostri due bambinetti, come aveva pieno diritto di fare. Quei figli, Lenna e Rabbie, abitano ancora a Mescalero nel Nuovo Messico. Lenna è sposata. Io tenni una moglie sola, che però ora è morta; con me ho soltanto nostra figlia Eva. Dopo la mia separazione dalla madre di Lenna non ho mai avuto più di una moglie per volta. In seguito alla morte della madre di Eva ho sposato un’altra donna (nel dicembre del 1905), ma la nostra vita non era felice e ci separammo. Essa ritornò a casa dalla sua famiglia: così avviene il divorzio tra gli Apache. Allora come adesso il signor George Wratton sovrintendeva agli indiani. Ha sempre avuto difficoltà con loro, perché li ha maltrattati. Un giorno un indiano, mentre era ubriaco, ferì il signor Wratton con un coltellino. L’ufficiale responsabile prese le parti del signor Wratton e mandò in prigione l’indiano. Appena arrivammo a Fort Sill, questo era comandato dal capitano Scott, che fece
costruire per noi case a spese del governo. Il governo ci diede anche mucche, maiali, tacchini e polli. Gli indiani non se la cavarono molto bene con i maiali, perché non capivano in che modo dovessero curarli; anche adesso sono pochi gli indiani che allevano maiali. Abbiamo ottenuto risultati migliori con i tacchini e le galline, pur non avendo con questi la fortuna che hanno gli uomini bianchi. Con le mucche ce la siamo cavata benissimo, invece, e ci piace allevarle. Abbiamo anche qualche cavallo; con i cavalli non siamo affatto sfortunati. Nella questione della vendita del nostro bestiame e dei nostri cereali ci sono stati molti malintesi.* Gli indiani avevano capito che il bestiame sarebbe stato venduto e
che i soldi sarebbero andati a loro, invece una parte del denaro viene data agli indiani e una parte viene messa in quello che gli ufficiali chiamano il «fondo Apache». Abbiamo avuto cinque ufficiali diversi qui incaricati di occuparsi degli indiani e tutti hanno comandato in modo molto simile: senza consultare gli Apache e senza neppure dar loro spiegazioni. Può darsi che il governo abbia ordinato davvero agli ufficiali responsabili di mettere questo denaro del bestiame nel fondo degli Apache, perché una volta mi lamentai con il tenente Purington dicendogli che avevo intenzione di riferire al governo che aveva preso un po’ del mio denaro del bestiame e che lo aveva messo nel fondo degli Apache, e il tenente rispose che non gliene importava niente e che lo raccontassi pure.** Parecchi anni fa sono cessate le distribuzioni di vestiario. Può darsi che anche questo sia stato un ordine del governo, ma gli Apache non capiscono queste dinamiche. Se c’è un fondo Apache, dovrebbe una volta o l’altra essere assegnato agli indiani o almeno se ne dovrebbe rendere conto agli indiani, perché si tratta dei loro guadagni. L’ultima volta che il generale Miles visitò Fort Sill gli chiesi di essere esonerato dal lavoro data la mia età. Ricordai anche quel che il generale Miles mi aveva promesso nel patto e gliene parlai. Disse che non era più necessario che lavorassi, eccetto quando lo desideravo, e da quel momento non mi è più stato assegnato nessun lavoro. Da allora ho però ancora lavorato moltissimo, per quanto sia vecchio, perché mi piace lavorare e aiutare la mia gente fintanto che riesco.* * Agli indiani non è permesso vendere da sé il bestiame. Quando il bestiame è pronto per il mercato viene venduto
dall’ufficiale responsabile; una parte del denaro è pagata agli indiani che ne erano proprietari, e una parte è posta in un fondo comune (degli Apache). Le provviste, gli attrezzi agricoli, eccetera per gli Apache vengono comprati con questo fondo.
* Le critiche contro il tenente Purington sono di Geronimo. Chi le pubblica declina ogni responsabilità per questo e
per tutti gli altri casi in cui delle persone sono criticate dal vecchio guerriero.
*
Geronimo aiuta a fare il fieno e si occupa del bestiame, ma non riceve ordini dal sovrintendente degli indiani.
PARTE QUARTA
IL VECCHIO E IL NUOVO
Le leggi che gli Apache si trasmettono oralmente
Processi Quando un indiano subisce un torto da un membro della sua tribù, e non ha intenzione di risolvere personalmente la controversia, può muovergli accusa presso il capotribù. Se non riesce ad affrontare direttamente chi l’ha offeso e non si degna di accusarlo, chiunque altro può al suo posto informare il capotribù di quanto è avvenuto: diventa allora necessaria un’inchiesta o un processo. Tanto l’accusato quanto l’accusatore hanno diritto a testimoni; questi non sono interrotti in nessun modo da domande, e si limitano a dire quel che desiderano a proposito della questione. Noi non facciamo giurare i testimoni, perché pensiamo che non daranno falsa testimonianza su argomenti che riguardano la loro gente. Il capo della tribù presiede questi processi; se però l’offesa è seria, chiama a sedere con lui due o tre capi. Essi non fanno altro che stabilire se l’uomo è colpevole o no. Se non è colpevole la questione è chiusa: il querelante perde il diritto di fare vendetta da sé, perché se avesse desiderato compiere vendetta per conto suo, si sarebbe dovuto opporre al processo che gliela impedisce. Se l’accusato è giudicato colpevole, la parte offesa stabilisce la pena, che di solito è confermata dal capo e dai suoi assistenti.
Adozione dei bambini Se dei bambini rimangono orfani a causa della guerra o per qualche altro motivo, cioè se muoiono tutti e due i loro genitori, il capo della tribù può adottarli oppure affidarli ad altri secondo il proprio giudizio. Quanto agli indiani banditi dalla tribù, se lo desiderano possono portare i bambini con sé, ma se li lasciano alla tribù il capo deve decidere che cosa farne; a ogni modo nessuna vergogna ricade sui bambini.
Il «lago salato» Ricavavamo il nostro sale da un laghetto nelle montagne del Gila. È un lago piccolissimo, poco profondo, con l’acqua limpida; al centro emerge dalla superficie dell’acqua un monticello. L’acqua è troppo salata per poter essere bevuta; il fondo del lago è ricoperto di una crosta bruna. Blocchetti di sale rimangono attaccati a questa crosta quando viene rotta. Questi blocchetti possono essere lavati e
ripuliti nell’acqua del lago, ma si sciolgono se si lavano in altra acqua. Quando la nostra gente si recava a questo lago, non le era permesso di attaccare un nemico, e nemmeno di uccidere selvaggina. Tutte le creature erano libere di andare e venire senza essere molestate.
La preparazione dei guerrieri Un giovane, per essere accettato come guerriero, deve scendere sul sentiero di guerra in quattro occasioni con gli altri guerrieri della sua tribù. Nella prima spedizione gli viene dato soltanto cibo di qualità pessima. Deve accontentarsi senza borbottare. Durante nessuna delle quattro imprese gli è permesso scegliere il cibo come fanno i guerrieri: deve mangiare quel che gli è concesso. In ciascuna di queste spedizioni ha i compiti di un servitore: si occupa dei cavalli, prepara da mangiare, e compie tutti i servigi che deve senza che glielo dicano. Egli sa cosa deve fare, e lo fa senza aspettare ordini. Non ha il permesso di parlare con nessun guerriero, se non per rispondere alle sue domande o quando gli dà il permesso di farlo. Durante queste spedizioni si pretende che impari i nomi sacri di tutto ciò che è usato in guerra, poiché, dal momento in cui la tribù scende sul sentiero di guerra, non si adoperano più i soliti nomi per indicare qualunque cosa attinente in qualsiasi modo alla guerra. La guerra è una solenne questione religiosa. Se tutti i guerrieri, dopo quattro spedizioni, si sono convinti che il giovane è stato collaborativo, non ha parlato quando non doveva, è stato discreto in tutto, ha dimostrato coraggio in battaglia, ha sopportato tutti gli stenti, non ha manifestato in alcun modo nessuna sorta di viltà o di debolezza, con un voto del consiglio può essere accettato come guerriero. Se però anche un solo guerriero ha obiezioni contro di lui per qualsiasi motivo, deve essere sottoposto ad altre prove; se le affronta coraggiosamente, si può di nuovo proporre il suo nome. Quando ha dimostrato di là da ogni dubbio di poter sopportare ogni stento senza lamentarsi, e di essere un nemico temibile, è ammesso al consiglio dei guerrieri nel gradino più basso. Dopo di ciò non ci sono più prove formali per avanzamenti, ma il giovane, col consenso di tutti, prende un posto nel campo di battaglia e, se mantiene la sua posizione con onore, ottiene il permesso di conservarla, e gli può essere richiesto di prendere un posto più importante oppure può offrirsi di prenderlo. Però nessun guerriero pretenderebbe mai di prendere un posto più importante senza avere la conferma dai capi della tribù che la sua condotta nella posizione precedente è stata degna di lode. Il consiglio, dopo la nomina a guerriero, non concede ulteriori promozioni; l’unica altra elezione in assemblea formale è la scelta del capo. I vecchi non possono guidare una battaglia, ma i loro consigli sono sempre ascoltati con
rispetto. La vecchiaia provoca una perdita di vigore fisico, ed è fatale al comando attivo.
Danze Tutte le danze sono reputate cerimonie religiose e sono presiedute da un capo e da uomini di medicina. Hanno natura sociale o militare, ma non mancano mai di qualche carattere sacro.
La danza del ringraziamento Tutte le estati raccoglievamo il frutto della yucca, lo macinavamo e polverizzavamo, quindi ne facevamo delle focacce. Allora la tribù si radunava a banchettare, a cantare e a lodare Usen. Tutti pronunciavano preghiere di ringraziamento. Quando la danza aveva inizio, i capi tenevano le focacce e univano di tanto in tanto parole di elogio ai soliti canti senza parole che servivano da musica.
La danza di guerra La danza aveva inizio dopo che un consiglio di guerrieri aveva decretato di scendere sul sentiero di guerra e terminato i preparativi. In questa danza c’è il solito canto guidato dai guerrieri e accompagnato dai colpi sull’«esadadene», ma il ballo è più violento, e gli urli e le grida di guerra quasi soffocano la musica. Soltanto i guerrieri partecipavano a questa danza.
La danza degli scalpi Dopo il ritorno dei combattenti, si tiene una danza di guerra modificata. I guerrieri che hanno riportato scalpi dalle battaglie li mostrano alla tribù; quando la danza incomincia questi scalpi, innalzati su pali o su lance, sono portati intorno ai fuochi da campo mentre il ballo procede. Durante questa danza si ha ancora un po’ della solennità della danza di guerra. Ci sono urla e grida di battaglia, di solito accompagnate da spari a salve con le armi da fuoco; c’è però sempre una maggiore spensieratezza di quella che è permessa durante una danza di guerra. Quando la danza degli scalpi è finita, gli scalpi sono gettati via. Nessun Apache li conserva, perché sono reputati contaminanti.
Una danza sociale Nella prima metà di settembre del 1905 annunciai agli Apache che mia figlia Eva,
essendosi fatta donna, non si sarebbe più interessata di cose infantili e avrebbe preso posto tra le giovani donne. Avrebbe celebrato il suo «debutto» con una danza della tribù; e allora, o poco dopo, sarebbe stato giusto che un guerriero chiedesse la sua mano e la sposasse. Fu quindi mandato, a tutti gli Apache e a molti Comanche e Kiowa, l’invito a radunarsi la prima notte di luna piena di settembre per una solenne danza sul prato, lungo la riva sud di Medicine Creek, vicino al villaggio di Naiche, un tempo capo degli Apache Chokonen. Le feste sarebbero durate due giorni e due notti. Nei preparativi non fu tralasciato niente che potesse contribuire al divertimento degli invitati e alla perfetta osservanza del rito religioso. In un ampio spazio circolare l’erba fu falciata bassissima per prepararlo alla danza. I canti furono condotti dal capo Naiche e io diressi la danza con l’aiuto dei nostri uomini di medicina. Dapprima Eva lasciò le altre donne, avanzò e fece una volta il giro del fuoco da campo danzando; poi, accompagnata da un’altra giovane, si fece di nuovo avanti e compì due volte ballando il giro del fuoco da campo; poi, insieme con altre due giovinette, venne avanti e danzò tre volte intorno al fuoco da campo; la volta successiva avanzò con altre tre giovani e girò quattro volte a passo di danza intorno al fuoco da campo; questa cerimonia durò un’oretta. Poi entrarono gli uomini di medicina, nudi fino alla vita, con i corpi dipinti fantasticamente, e danzarono le danze sacre. Furono seguiti da danzatori-pagliacci, che divertirono enormemente il pubblico. Poi i membri della tribù si presero per mano e ballarono a lungo in cerchio intorno al fuoco da campo. Tutti gli amici della tribù furono invitati a partecipare a questa danza. Quando fu terminata, e molti vecchi se ne furono andati, ebbe inizio la «danza degli innamorati». I guerrieri si tennero in mezzo al cerchio e le donne, a due a due, vennero avanti a passo di danza e scelsero un guerriero che ballasse con loro. La danza procedette avanti e indietro su una linea che partiva dal centro e arrivava al margine esterno del cerchio. Il guerriero stava di fronte alle due donne, e quando queste andavano avanti verso il centro, egli ballava all’indietro; quindi le donne danzavano all’indietro ed egli le seguiva sempre stando di fronte a loro. Questo durò due o tre ore, poi la musica cambiò. Immediatamente i guerrieri si unirono di nuovo nel centro del cerchio, e questa volta ogni donna scelse un guerriero come compagno. Il modo di ballare era quello di prima, con la sola differenza che ballavano in due invece che in tre. Durante questa danza, che continuò fino all’alba, il guerriero (se ballava con una ragazza) poteva farle proposte di matrimonio e, se la ragazza accettava, andava subito dopo a consultare il padre e a fare il contratto di nozze.* In tutte le occasioni come questa, quando la danza è finita, ogni guerriero fa un regalo alla donna che lo ha scelto come compagno e ha ballato con lui. Se la donna
è soddisfatta del dono, il guerriero le dice addio, in caso contrario, la questione è portata davanti a qualche persona autorevole (un uomo di medicina o un capo) che risolve la discussione su quale sia il regalo conveniente. Per una donna sposata il valore del regalo dovrebbe essere di due o tre dollari; per una ragazza il dono dovrebbe valere non meno di cinque dollari. A ogni modo, spesso la ragazza riceve un dono molto prezioso. Durante la «danza degli innamorati» gli uomini di medicina si mescolano ai danzatori per tener lontani gli spiriti maligni. Forse non avrò mai più motivo di radunare la nostra gente per una danza, ma queste danze sociali al chiaro di luna ci hanno procurato in passato gran parte delle nostre gioie, e penso, o almeno spero, che non debbano finire tanto presto. * I guerrieri Apache non «fanno la corte» come i nostri giovani. La vita in comune nei villaggi offre grandi
possibilità di conoscersi, e combinare matrimoni è giudicato un contratto d’affari. Però la cortesia di consultare la ragazza è reputata un atto molto gentile, per quanto non necessario.
All’Esposizione Universale
La prima volta che mi chiesero di partecipare all’Esposizione Universale di St. Louis26, non volli andarvi. In seguito, quando mi dissero che avrei ricevuto molti
riguardi e protezione, e che il presidente degli Stati Uniti aveva dato il suo consenso, accettai. Fui accompagnato da persone incaricate dal dipartimento per gli indiani, quelle che avevano ottenuto il permesso dal Presidente. Mi fermai in quel luogo sei mesi. Vendevo le mie fotografie a venticinque cents, e avevo il permesso di trattenerne dieci. Scrivevo anche il mio nome per dieci, quindici o venticinque cents, secondo il caso, e questo denaro era tutto per me. Spesso guadagnavo fino a due dollari al giorno; al mio ritorno avevo denaro in abbondanza, più di quanto ne avessi mai posseduto prima. Molta gente di St. Louis mi invitò a casa sua, ma il mio accompagnatore rifiutò sempre. Ogni domenica il presidente dell’esposizione mi mandava a chiamare per una rappresentazione sul selvaggio west. Partecipavo a gare con il lazo davanti al pubblico. C’erano molte altre tribù indiane e gente strana di cui non avevo mai sentito parlare. La gente, appena arrivata all’Esposizione Universale, non faceva altro che sfilare su e giù per le strade. Quando se ne stancavano, visitavano i padiglioni. C’erano molte cose strane in questi padiglioni. Il governo mi faceva accompagnare da guardie quando vi andavo, e non mi era permesso recarmi in nessun luogo senza di loro. In un padiglione alcuni uomini strani con cappelli rossi avevano delle spade speciali e sembravano voler combattere.* Finalmente il direttore disse che potevano
lottare tra loro. Tentavano di colpirsi l’un l’altro sulla testa con queste spade, e io mi aspettavo che si ferissero o forse si ammazzassero, invece nessuno si fece male. Sarebbe gente dura da uccidere in un duello corpo a corpo. In un altro padiglione c’era un negro dall’aspetto strano. Il direttore gli legò strette le mani, poi lo legò a una sedia. Io stesso guardai, ed era legato saldamente, in un modo che non pensavo gli fosse possibile liberarsi. Allora il direttore gli disse di sciogliersi. Si contorse un momento sulla sedia, poi si alzò: le corde erano ancora annodate, ma lui era libero. Non capisco come avvenne. Doveva certamente avere un potere miracoloso, perché nessun uomo sarebbe riuscito a slegarsi con i propri sforzi. In un altro posto un uomo su un palco parlava al pubblico. Gli fu portato un
cesto, che fu deposto su un lato del palco e ricoperto di una stoffa rossa. Arrivò una donna, entrò nel cesto, che un uomo di nuovo ricoprì con il pezzo di cotone. Allora l’uomo che parlava al pubblico prese una lunga spada e con questa trapassò il cesto da parte a parte, e poi dall’alto in basso attraverso il panno che lo ricopriva. Sentii la spada che entrava nel corpo della donna; lo stesso direttore disse che era morta. Ma quando il pezzo di stoffa fu sollevato dal cesto, la donna ne uscì, sorrise e scese dal palco. Mi piacerebbe sapere come fece a guarire tanto in fretta, e perché le ferite non la uccisero. Non ho mai giudicato gli orsi molto intelligenti, tranne che nelle loro abitudini selvagge, ma prima d’allora non avevo mai visto un orso bianco. In uno dei padiglioni un uomo aveva un orso bianco intelligente come un uomo, che faceva tutto quanto gli dicevano di fare: portava sulla spalla un ceppo, proprio come un uomo, poi lo metteva per terra quando glielo ordinavano. Faceva molte altre cose, e sembrava che capisse esattamente quel che gli diceva il suo custode. Sono sicuro che nessun orso grigio potrebbe essere addestrato a compiere cose del genere. Un giorno le guardie mi portarono dentro una piccola casa con quattro finestrini.* Quando fummo seduti, la casetta incominciò a muoversi sul terreno. In
quel momento le guardie distrassero la mia attenzione con certi oggetti curiosi che avevano in tasca. Infine mi dissero di guardare fuori e, quando lo feci, mi spaventai perché la nostra casetta era salita per aria molto in alto, e la gente giù nell’area della fiera non sembrava più grande di formiche. Gli uomini ridevano della mia paura, e mi diedero un binocolo perché guardassi con quello (ne avevo posseduti di frequente, quando li prendevo da ufficiali morti dopo le battaglie nel Messico e altrove); riuscii a vedere fiumi, laghi e montagne. Ma non ero mai stato così in alto per aria, e cercavo di guardare dentro al cielo. Non c’erano stelle, e il sole non lo potevo guardare attraverso il binocolo perché il suo splendore mi feriva gli occhi. Finalmente deposi il binocolo e, visto che tutti ridevano di me, mi misi a ridere anch’io. Allora dissero: «Esci!», e quando guardai eravamo un’altra volta sulla strada. Trovandomi di nuovo al sicuro per terra, osservai molte di quelle casette che salivano e scendevano; non riesco però a capire come facciano a viaggiare. Sono proprio delle casette molto strane. Un giorno entrammo in un altro padiglione e, appena ci trovammo nell’interno, venne la notte. Era una notte vera, perché potevo sentire l’umidità dell’aria; presto incominciò a tuonare e i fulmini lampeggiarono. Anche i fulmini erano veri, perché si scaricavano proprio sopra la nostra testa. Li schivavo e volevo scappare, ma non sapevo da che parte andare per uscire. Le guardie mi fecero cenno di stare tranquillo, e così rimasi. Davanti a noi c’erano dei piccoli individui strani, che erano usciti sul palco. Quando guardai di nuovo in alto, tutte le nuvole erano sparite, e potevo vedere il luccichio delle stelle. I piccoli personaggi sul palco non sembravano prendere sul serio niente di quel che facevano: così mi limitai a ridere
di loro. Tutta la gente seduta intorno a noi pareva che ridesse di me. Andammo in un altro posto e il direttore ci portò in una stanzetta fatta come una gabbia. Allora sembrò che tutto intorno a noi si muovesse: prima l’aria pareva azzurra, poi vennero nuvole nere che si spostavano col vento. Pochissimo tempo dopo fuori era chiaro, poi arrivarono delle leggere nubi bianche, che infine si addensarono, portando pioggia e grandine con tuoni e lampi. Finalmente il temporale si allontanò e comparve un arcobaleno in lontananza; poi si fece scuro, sorse la luna e spuntarono migliaia di stelle. Presto si alzò il sole, e noi uscimmo dalla piccola stanza. Fu davvero un bello spettacolo, ma tanto strano e innaturale che fui felice di ritrovarmi tra le strade. Entrammo in un posto dove fabbricavano oggetti di vetro. Avevo sempre creduto che queste cose fossero fatte a mano, invece non è vero. L’uomo aveva un piccolo strumento curioso; ogni volta che soffiava con questo dentro una piccola fiamma, il vetro prendeva tutte le forme da lui desiderate. Non ne sono sicuro, ma penso che se io avessi uno strumento di questa sorta potrei fare tutto quel che voglio. Sembra che quel piccolo strumento abbia un incantesimo, ma credo che sia molto difficile procurarsene uno, altrimenti l’avrebbero anche altri. La gente che era in quel padiglione era tanto impaziente di comprare gli oggetti fabbricati da quell’uomo, che lo obbligavano ad affaccendarsi e non lo lasciavano sedere un momento per tutto il giorno. Comprai molte cose strane in quel posto e le portai a casa con me. All’estremità di una delle strade qualche persona entrava in una canoa malfatta, su una specie di ripiano, e scivolava nell’acqua.* Si sarebbe detto che si divertissero,
ma a me sembrò troppo rischioso. Se una di quelle canoe fosse uscita dal suo cammino quella gente si sarebbe di sicuro ferita o uccisa. Alla fiera c’erano degli omini scuri che le truppe degli Stati Uniti avevano catturato da poco in qualche isola lontanissima da qui.** Non avevano quasi niente addosso, e penso che non si sarebbe dovuto permettere loro di venire alla fiera. Sembravano piuttosto sciocchi. Avevano dei piccoli piatti di ottone, e con questi cercavano di suonare, ma secondo me non facevano della musica, soltanto un grande schiamazzo. A ogni modo, ballavano al suono di quei loro rumori e credevano probabilmente di offrire un bellissimo spettacolo. Non so fino a che punto sia vero quel che mi hanno detto, ma ho sentito dire che il Presidente li aveva mandati alla fiera a imparare le buone maniere, perché, al ritorno in patria, potessero insegnare al loro popolo in che modo vestirsi e in che modo comportarsi. Sono contento di essere andato alla fiera. Vi ho visto tante cose interessanti e ho imparato molto sui bianchi. Sono gente assai gentile e pacifica. Per tutto il tempo che rimasi alla fiera nessuno cercò di farmi del male in nessun modo. Se mi fossi trovato tra i messicani sono sicuro che sarei stato costretto più volte a difendermi.
Mi sarebbe piaciuto che tutta la mia gente avesse potuto partecipare alla fiera.* *
Turchi.
* La ruota panoramica. * Uno scivolo. ** Igoroti dalle Filippine. * Geronimo fu portato anche alle esposizioni di Omaha (1899) e di Buffalo (1901), ma in quel periodo della sua
vita era depresso e non provava interesse per niente. L’Esposizione di St. Louis fu tenuta dopo che Geronimo aveva abbracciato la religione cristiana e aveva cominciato a sforzarsi di comprendere la nostra civiltà .
La religione
Secondo il nostro culto primitivo, pensavamo di dover rendere conto alla religione soltanto delle relazioni con Usen e con i membri della nostra tribù. Le nostre dottrine tribali non specificavano niente riguardo alla vita futura, cioè non avevamo idee ben definite sui nostri rapporti e sull’ambiente nell’aldilà. Credevamo che ci fosse una vita dopo questa; ma nessuno mi aveva mai detto quale parte dell’uomo sopravvivesse dopo la morte. Ho visto morire tanti uomini; ho visto tanti cadaveri umani putrefatti, ma non ho mai visto quella parte che è chiamata spirito. Non so che cosa sia, e non sono ancora riuscito a capire questo aspetto della religione cristiana. Pensavamo che compiere il nostro dovere avrebbe reso più piacevole la nostra vita futura, ma non sapevamo se la vita futura sarebbe stata migliore o peggiore di questa, e nessuno era in grado di dircelo. Speravamo che nell’aldilà si riprendessero le relazioni familiari e tribali. In un certo senso lo credevamo, ma non lo sapevamo. Quando vivevo nella riserva di San Carlos, un indiano mi disse un giorno che, mentre giaceva incosciente sul campo di battaglia, in realtà era morto ed era andato nella terra degli spiriti. Dapprima era arrivato a un gelso che cresceva da una caverna nel suolo. Un uomo montava la guardia davanti a questa caverna, ma lasciò passare l’indiano quando questi si avvicinò senza paura. L’indiano discese nella caverna; un po’ più avanti il sentiero si allargava e terminava in una roccia a picco, larga centinaia di piedi e altrettanto alta. La luce era scarsa, ma scrutando proprio sotto di sé l’indiano scoprì un mucchio di sabbia che si innalzava dagli abissi sotto di lui fino a una distanza di circa venti piedi dalla cima della roccia su cui si trovava. Tenendosi a un cespuglio, si lasciò dondolare dal bordo del dirupo e andò a cadere sulla sabbia, poi, scivolando rapidamente lungo il ripido fianco del cumulo sprofondò nell’oscurità. Si fermò su uno stretto passaggio che correva verso ovest attraverso un canyon, che si fece a poco a poco più chiaro finché l’indiano poté vedere come se si fosse trovato alla luce del sole; ma il sole non c’era. Finalmente arrivò a una parte di questo corridoio che si allargava per un breve tratto, e poi si richiudeva d’improvviso continuando in uno stretto sentiero: proprio nel punto in cui si restringeva erano raggomitolati due serpenti, che alzarono il capo e sibilarono verso di lui quando si avvicinò. Ma l’indiano non mostrò paura, e i serpenti, quand’egli fu a breve distanza, si scostarono quietamente e lo lasciarono passare. Dove successivamente il passaggio si allargava sboccando di nuovo in un
luogo più ampio, c’erano due orsi grigi pronti ad attaccarlo; ma quando l’indiano si accostò e parlò loro, si fecero da parte e lasciarono che passasse senza molestarlo. Egli proseguì nello stretto passaggio, che si allargò per la terza volta: due puma accovacciati sbarravano il cammino, ma anch’essi si ritirarono quando l’indiano si avvicinò senza paura e parlò loro. S’infilò di nuovo nello stretto corridoio, e lo seguì per un certo tempo, finché si trovò in una quarta zona di là dalla quale non riusciva a scorgere niente: più avanti, le pareti di questo spiazzo sbattevano l’una contro l’altra a intervalli regolari con un tremendo fragore. Ma quando l’indiano si accostò, si separarono finché fu passato. Dopo di ciò gli sembrò di essere in una foresta e, seguendo piccoli canali naturali che conducevano a ovest, arrivò in breve in una verde vallata dove molti indiani erano accampati, e dove c’era abbondanza di selvaggina. L’indiano raccontò di aver visto e riconosciuto molti che aveva conosciuto in vita, e che provò dispiacere quando riacquistò i sensi. Gli dissi che se fossi sicuro che questo è vero, non desidererei vivere un giorno di più, ma in qualche modo morirei, anche uccidendomi con le mie stesse mani, per poter godere di questi piaceri. Anch’io sono rimasto privo di sensi sul campo di battaglia, e mentre ero in quelle condizioni ho avuto qualche strano pensiero o esperienza; ma molto indistinti, tanto che non li ricordo abbastanza bene da poterli raccontare. Molti indiani credettero a questo guerriero; quanto a me, non posso dire che mentisse. Desidererei sapere se quel che ha detto è vero fuori da ogni dubbio. Ma forse è meglio non averne la certezza. Da quando è iniziata la mia vita da prigioniero ho ascoltato gli insegnamenti della religione dei bianchi, e penso che sotto molti aspetti essa sia migliore della religione dei miei padri. Io ad ogni modo ho sempre pregato, e credo che l’Onnipotente mi abbia sempre protetto. Essendo convinto che è giusto e saggio andare in chiesa e che il mio carattere sarebbe migliorato frequentando i cristiani, ho abbracciato la religione cristiana.* Penso che la chiesa mi abbia aiutato molto nel breve periodo in cui vi ho appartenuto. Non mi vergogno di essere cristiano, e sono felice di sapere che il presidente degli Stati Uniti è cristiano, perché non credo che potrebbe, senza l’aiuto dell’Onnipotente, governare con giustizia e saggezza un popolo tanto numeroso. Ho consigliato a tutta la mia gente che non è cristiana di studiare questa religione, perché mi sembra che sia la religione migliore per poter vivere una vita giusta.27 * Geronimo
divenne membro della Chiesa riformata olandese e fu battezzato nell’estate del 1903. Assiste regolarmente alle funzioni della missione Apache, nella riserva militare di Fort Sill.
Speranze per il futuro
Sono riconoscente al presidente degli Stati Uniti che mi ha permesso di raccontare la mia storia. Spero che lui e quelli che sono al potere sotto di lui leggano la mia storia e giudichino se il mio popolo è stato trattato in modo giusto. C’è una questione importante tra gli Apache e il governo. Per vent’anni siamo stati tenuti prigionieri di guerra per un trattato concluso tra il generale Miles da parte del governo degli Stati Uniti e me, come rappresentante degli Apache. Questo patto non sempre è stato osservato scrupolosamente dal governo, per quanto in questi ultimi tempi il governo si attenga più strettamente alle clausole di quanto avesse fatto finora. Nel trattato con il generale Miles noi acconsentimmo a recarci in un posto fuori dell’Arizona e a impararvi a vivere alla maniera dei bianchi. Io penso che ormai la mia gente sia capace di vivere conformemente alle leggi degli Stati Uniti; ci piacerebbe quindi avere la libertà di ritornare nella terra che è nostra per diritto divino. Siamo ridotti di numero, e avendo imparato a coltivare non ci occorrerebbe tutto quel terreno che una volta ci era necessario. Non chiediamo tutta la terra che l’Onnipotente ci diede al principio, ma che ci siano concessi là terreni sufficienti da coltivare. Quel che non ci occorre, siamo soddisfatti che lo coltivino gli uomini bianchi. Siamo ora tenuti su territorio Comanche e Kiowa, che non è adatto alle nostre necessità: queste terre e questo clima si confanno naturalmente agli indiani che abitavano originariamente questo paese, ma qui il nostro popolo sta calando di numero, e continuerà a diminuire se non gli sarà permesso di ritornare nella sua terra nativa. Questa è un’inevitabile conseguenza. A mio parere, nessun clima e nessun terreno sono pari a quelli dell’Arizona. In quei territori che l’Onnipotente ha creato per gli Apache, potremmo avere in abbondanza un terreno fertile da coltivare, e una grande quantità di erba, di legname, di minerali. È la mia terra, la mia patria, la terra dei miei padri, e in questa chiedo ora il permesso di ritornare. Desidero passare là i miei ultimi giorni, ed essere sepolto in mezzo a quelle montagne. Se ciò fosse possibile, morirei in pace presentendo che là il mio popolo, portato nelle sue sedi native, crescerebbe di numero invece di diminuire come adesso, e che il nostro nome non si estinguerebbe. So che il mio popolo, se fosse insediato in quella regione montagnosa che si estende intorno al corso superiore del fiume Gila, vivrebbe in pace e agirebbe
conformemente alla volontà del Presidente. Sarebbe prospero e felice coltivando la terra e imparando la civiltà degli uomini bianchi che ora rispetta. Se soltanto potessi veder succedere questo, credo che dimenticherei tutti i torti che ho ricevuto e che invecchierei e morirei felice e soddisfatto. Ma a questo riguardo noi non possiamo fare niente, dobbiamo aspettare che chi è al potere si decida ad agire. Se questo non si può fare mentre sono ancora vivo io, se devo morire in prigionia, spero che al resto della tribù Apache possa essere concesso, quando non ci sarò più, l’unico privilegio che chiede, quello di ritornare nell’Arizona.
APPENDICE
La resa di Geronimo
L’11 febbraio 1887 il senato approvò la seguente deliberazione: «Si delibera che il segretario della Guerra riceva l’ordine di comunicare al senato tutti i dispacci del generale Miles concernenti la capitolazione di Geronimo, tutte le istruzioni date al generale Miles e la corrispondenza con il medesimo riguardo a tali argomenti». Questi scritti sono pubblicati nei documenti esecutivi del senato, seconda sessione, 49° congresso, 1886-7, volume II, n. 111-125. Per una relazione esauriente sulle condizioni della resa di Geronimo il lettore è rimandato a quel documento; questo capitolo è scritto per indicare brevemente i termini della capitolazione e per confermare, almeno in parte, le affermazioni fatte da Geronimo. Assumendo il comando del dipartimento dell’Arizona, il generale Nelson A. Miles ricevette dal dipartimento della Guerra l’ordine di usare il massimo vigore per distruggere o far prigionieri gli Apache ostili. I seguenti brani sono estratti da istruzioni emesse il 20 aprile 1886 per dare informazioni e direttive alle truppe che operavano nella parte meridionale dell’Arizona e del Nuovo Messico. «Obiettivo principale delle truppe sarà di far prigioniera o distruggere qualsiasi banda di indiani Apache ostili trovati in questa parte del paese, e a questo fine si richiedono a tutti gli ufficiali e soldati gli sforzi più vigorosi e persistenti finché non sia stato adempiuto lo scopo». * * * «Si userà un numero sufficiente di indiani degni di fiducia come ausiliari, per scoprire ogni traccia di indiani ostili, e come inseguitori». * * * «Per evitare che gli indiani acquistino vantaggio servendosi di cavalli di ricambio, quando il comandante di un battaglione di uno squadrone è vicino a indiani ostili, sarà giustificato se farà smontare metà dei suoi uomini e sceglierà i migliori e più veloci cavalleggeri per inseguirli con la massima rapidità e risolutezza, finché sia stata esaurita la forza di tutti gli animali a sua disposizione». * * * I seguenti telegrammi mostrano gli sforzi delle truppe degli Stati Uniti e la
cooperazione delle truppe messicane sotto il governatore Torres: Quartier generale della divisione del Pacifico Presidio di San Francisco, California 22 luglio 1886 AIUTANTE GENERALE
Washington, DC Il seguente telegramma è appena arrivato dal generale Miles: Il capitano Lawton riferisce, per mezzo del colonnello Royall, che comanda il forte Huachuca, che le sue truppe hanno sorpreso il campo di Geronimo sul fiume Yongi, a più di duecento chilometri a sudest di Campas (Sonora), ossia a circa quattrocentottanta chilometri a sud del confine messicano, e si sono impadronite di tutto quanto era in possesso degli indiani, comprese centinaia di chili di carne secca e diciannove cavalcature. È la quinta volta in tre mesi che gli indiani si lasciano sorprendere dalle truppe. Benché gli effetti non siano risolutivi, ciò ha tuttavia incoraggiato i soldati, ha ridotto il numero e la forza degli indiani, e ha dato loro un senso d’insicurezza persino nelle remote e quasi inaccessibili montagne del Messico. In assenza del comandante di divisione C. McKeever Assistente dell’aiutante generale Quartier generale della divisione del Pacifico Presidio di San Francisco, California 19 agosto 1886 AIUTANTE GENERALE
Washington, DC Ricevuto dal generale Miles, in data 18, quanto segue: Dispacci di oggi dal governatore Torres, datati da Hermosillo (Sonora, Messico), e dai colonnelli Forsyth e Beaumont, comandanti dei distretti di Huachuca e Bowie, confermano quanto segue: Geronimo con quaranta indiani sta tentando di negoziare la pace con le autorità messicane nel distretto di Fronteraz. Uno dei nostri esploratori, ritornando a Fort Huachuca dal comando di Lawton, incontrò lui, Naiche e altri tredici indiani che si avviavano a Fronteraz, e ebbe con loro una lunga conversazione. Gli dissero che desideravano concludere la pace; apparivano
sfiniti e affamati. Geronimo aveva il braccio destro fasciato e al collo. Lo splendido lavoro delle truppe sta evidentemente ottenendo buoni risultati. Se gli indiani ostili non dovessero arrendersi alle autorità messicane, c’è il comando di Lawton che si trova a sud di loro, e c’è Wilder, con truppe G e M, Quarto Cavalleria, che si sposta a sud verso Fronteraz, e la raggiungerà il 20. Il tenente Lockett sarà domani in buona posizione vicino al canyon Guadalupe, nelle montagne del canyon Bonito. L’11 ho avuto un incontro molto soddisfacente con il governatore Torres. Gli ufficiali messicani agiscono in accordo con i nostri. O.O. Howard Maggiore generale Il generale O.O. Howard telegrafò dal presidio di San Francisco (California) il 24 settembre 1886 quanto segue: …Il generale Miles riferisce che il 6 settembre gli Apache ostili hanno iniziato trattative per la resa con il capitano Lawton, per il tramite del tenente Gatewood. Desideravano certe clausole e mandarono due messaggeri al generale Miles. Furono informati che dovevano arrendersi sul campo come prigionieri di guerra alle truppe. Promisero di arrendersi al generale Miles in persona, e per undici giorni gli uomini del capitano Lawton sono andati verso nord, mentre Geronimo e Naiche si muovevano parallelamente e sovente gli si accampavano vicino… Al canyon dello Scheletro si fermarono, dicendo che desideravano vedere il generale Miles prima di arrendersi. Dopo l’arrivo di Miles, riferisce quanto segue: Geronimo arrivò dal suo campo di montagna tra le rocce e disse che era disposto ad arrendersi. Gli fu detto che potevano capitolare come prigionieri di guerra; che non era nelle abitudini degli ufficiali dell’esercito uccidere i nemici che deponevano le armi. …Naiche era fuori di sé, sospettoso, evidentemente timoroso di essere tradito. Sapeva che il capo Mangas-Coloradas, un tempo famoso, era stato anni fa ignobilmente assassinato dopo che si era arreso; l’ultimo capo ereditario degli Apache ostili esitava a mettersi nelle mani dei visi pallidi… Continuando il suo rapporto, il generale Howard dice: …Dai rapporti ufficiali credetti dapprima che la resa fosse senza condizioni, eccetto che le truppe non avrebbero ucciso gli indiani ostili. Ora, stando ai dispacci del generale Miles e al suo rapporto annuale, spedito il 21 del corrente mese per
posta, le condizioni sono chiare: primo, la vita di tutti gli indiani deve essere risparmiata; secondo, devono essere mandati a Fort Marion, in Florida, dove è già stata portata la loro tribù, comprese le loro famiglie… D.S. Stanley, generale di brigata, telegrafa da San Antonio (Texas), il 22 ottobre 1886, quanto segue: …Geronimo e Naiche mi chiesero un incontro appena furono informati che dovevano andarsene di qui, e parlando con loro spiegai esattamente a che cosa erano destinati. Essi giudicarono la separazione dalle famiglie una violazione dei termini del trattato di resa, in cui si erano date loro assicurazioni, nel modo più preciso concepibile dalle loro menti, che sarebbero stati riuniti alle famiglie a Fort Marion. Alla loro conversazione con me erano presenti il maggiore medico J.P. Wright, dell’esercito degli Stati Uniti; il capitano J.G. Balance, facente funzione di presidente del tribunale militare, dell’esercito degli Stati Uniti; l’interprete George Wratton; Naiche e Geronimo.* Gli indiani furono divisi dalle loro famiglie in questo luogo; le donne, i bambini e i due esploratori furono messi in un vagone separato alla partenza. In un incontro con me hanno esposto i seguenti fatti, che considerano parte essenziale del loro trattato di capitolazione, e che avvennero al canyon dello Scheletro prima che, come banda, avessero preso la risoluzione di arrendersi e prima che chiunque di loro, eccetto forse Geronimo, avesse consegnato le armi, quando cioè erano ancora pienamente in grado di fuggire e di difendersi. Il generale Miles disse loro: «Verrete con me a Fort Bowie e in un determinato momento andrete a vedere i vostri parenti in Florida». Quando furono arrivati a Fort Bowie, egli li rassicurò di nuovo che avrebbero visto la famiglia in Florida dopo quattro giorni e mezzo o cinque. Mentre erano al canyon dello Scheletro il generale Miles disse loro: «Sono venuto a fare una chiacchierata con voi». Tale conversazione fu tradotta dall’inglese nello spagnolo e dallo spagnolo in lingua Apache, e viceversa. L’interprete dall’inglese allo spagnolo era un uomo di nome Nelson. L’interprete dallo spagnolo all’Apache era José Maria Yaskes. Era presente anche José Maria Montoya, che però non fece mai da interprete. Erano anche presenti il dottor Wood dell’esercito degli Stati Uniti e il tenente Clay, del Decimo Fanteria. Il generale Miles disegnò una riga per terra e disse: «Questa rappresenta l’oceano». Poi, mettendo un ciottolo vicino alla linea, disse: «Questo sasso rappresenta il posto dove si trova Chihuahua con la sua banda». Poi raccolse un’altra pietra e la collocò poco lontana dalla prima, e disse: «Questa rappresenta
te, Geronimo». Poi prese un terzo sassolino, lo mise a poca distanza dagli altri, e disse: «Questo rappresenta gli indiani di Camp Apache. Il Presidente vuole prendervi e mandarvi con Chihuahua». Raccolse allora la pietra che rappresentava Geronimo e la sua banda e la collocò vicino a quella che rappresentava Chihuahua a Fort Marion. Dopo aver fatto questo raccolse la pietra che rappresentava gli indiani di Camp Apache e la mise accanto alle altre due che rappresentavano Geronimo e Chihuahua a Fort Marion, e disse: «Questo è ciò che il Presidente vuole fare, avervi tutti riuniti». Dopo il loro arrivo a Fort Bowie il generale Miles disse loro: «Da questo momento in poi desideriamo iniziare una nuova vita», e tenendo sollevata una mano con il palmo aperto e orizzontale, vi tracciò linee trasversali con un dito dell’altra mano e disse, indicando il palmo aperto: «Questo rappresenta il passato: è tutto coperto di buche e solchi». Infine, fregando insieme le palme delle due mani, disse: «Questo significa che cancelliamo il passato, che sarà considerato liscio e dimenticato». L’interprete Wratton dice di essere stato presente e di avere ascoltato questa conversazione. Gli indiani dicono che era presente anche il capitano Thompson, del Quarto Cavalleria. Naiche raccontò che il capitano Thompson, che faceva le funzioni di assistente aiutante maggiore (dipartimento dell’Arizona), gli disse a casa sua a Fort Bowie: «Non aver paura; non vi capiterà nulla di male. Andrete davvero dai vostri amici». Disse loro anche: «Fort Marion non è un posto molto grande, e probabilmente non basterà per tutti; forse tra sei mesi sarete mandati in un luogo più grande, dove starete meglio». Ripeté la stessa cosa quando partirono nei vagoni da Fort Bowie. Questa lettera che esprime l’idea che gli indiani si erano fatta del trattato di resa è inoltrata a loro richiesta e, pur non desiderando fare commenti in proposito, sento l’obbligo di dire che la mia conoscenza del carattere degli indiani, le esperienze avute con ogni sorta di indiani, e le circostanze e i fatti corroboranti che mi sono stati riferiti in questo caso particolare, mi convincono che le affermazioni sopra esposte di Naiche e di Geronimo sono sostanzialmente corrette. Estratto del rapporto annuale (1886) della divisione del Pacifico, comandata dal maggior generale O.O. Howard, dell’esercito degli Stati Uniti. Quartier generale della divisione del Pacifico Presidio di San Francisco, California 17 settembre 1886 AIUTANTE GENERALE
Esercito degli Stati Uniti Washington DC Generale: ho l’onore di sottoporre il seguente rapporto sulle operazioni militari e le condizioni della divisione del Pacifico all’informazione del luogotenente generale e di offrire qualche consiglio alla sua considerazione: * * * Il 17 maggio 1885 un gruppo di una cinquantina di prigionieri Chiricahua, guidati da Geronimo, Naiche e altri capi fuggirono dalla riserva White Mountain nell’Arizona e iniziarono una serie di assassinii e di rapine che non hanno precedenti nella storia delle razzie indiane. Da quel momento in poi, e fino a quando io ho assunto il comando di questa divisione, erano stati inseguiti dai soldati con successo altalenante. Dopo l’assassinio del capitano Crawford, l’11 gennaio, da parte dei messicani, i ribelli chiesero un abboccamento, ed ebbero finalmente un colloquio il 25, 26 e 27 marzo con il generale Crook, nel Canyon de los Embudos, quaranta chilometri a sud di San Bernardino nel Messico; nell’ultimo dei colloqui fu convenuto che gli indiani sarebbero stati accompagnati dal tenente Manus, con il suo battaglione di esploratori a Fort Bowie (Arizona). La marcia iniziò il mattino del 28 marzo e continuò fino alla sera del 29, quando, turbati dal timore di possibili punizioni, Geronimo e Naiche, con venti uomini, quattordici donne e due ragazzi fuggirono sulle montagne. Il tenente Manus li inseguì immediatamente, ma senza risultati. * * * Contemporaneamente alla mia assunzione del comando della divisione il generale di brigata Crook fu sostituito dal generale di brigata Miles, che si accinse subito a portare a termine l’opera iniziata dal predecessore. Geronimo e la sua banda andavano compiendo saccheggi, ora negli Stati Uniti ora nel Messico; essendo separati in piccoli gruppi, sfuggivano facilmente alle truppe e proseguivano la loro opera di assassini e di fuorilegge. Al principio di maggio il generale Miles suddivise la zona ostile delle operazioni in distretti, con istruzioni specifiche di sorvegliare i pozzi d’acqua, di far percorrere da gruppi di esploratori l’intero territorio, di non concedere tregua agli avversari. Furono organizzate truppe al comando del capitano Lawton del Quarto Cavalleria per un lungo inseguimento. Il 3 maggio il capitano Lebo del Decimo Cavalleria ebbe uno scontro con la banda di Geronimo a una ventina di chilometri a sud-ovest di Santa Cruz nel Messico; perdette due soldati, uno ucciso e uno ferito. Dopo questo combattimento
gli indiani si ritirarono verso sud seguiti da tre squadroni di cavalleria. Il 12 maggio un duro combattimento tra truppe messicane e indiani ostili vicino a Planchos nel Messico terminò con una parziale sconfitta dei messicani. Il 15 maggio le truppe del capitano Hatfield ingaggiarono battaglia con la banda di Geronimo nelle montagne Corrona, subendo perdite: due morti, tre feriti e parecchi cavalli e muli; gli indiani persero parecchi dei loro. Il 16 maggio il tenente Brown, del Quarto Cavalleria, si scontrò con l’avversario vicino a Buena Vista nel Messico, impadronendosi di parecchi cavalli e fucili, e di munizioni in quantità. La solita serie di provocazioni, con un faticoso inseguimento da parte dei soldati, continuò fino al 21 giugno, quando i messicani combatterono con gli avversari a circa sessantacinque chilometri a sudest di Magdalena (Messico) e dopo una lotta accanita li respinsero… * * * Verso la metà d’agosto la banda di Geronimo era talmente ridotta di numero in seguito all’incessante e tormentoso inseguimento dei soldati, che decise di arrendersi ai messicani, ma senza scendere a patti. Conosciuta così con sicurezza la loro posizione, le truppe furono rapidamente disposte in modo da agire di comune accordo con i messicani per intercettare Geronimo e costringerlo alla resa. Il 25 agosto Geronimo, quando si accorse, vicino a Fronteraz, di essere quasi completamente accerchiato, essendo senza munizioni e viveri, aprì le trattative di resa con il capitano Lawton, per mezzo del tenente Gatewood del Sesto Cavalleria. Voleva determinate clausole, ma fu informato che non avrebbe accettato altro che la resa come prigioniero di guerra. Gli indiani allora si avvicinarono al comando del capitano Lawton vicino al canyon dello Scheletro e mandarono a dire che desideravano vedere il generale Miles. Il 3 settembre il generale Miles arrivò al campo di Lawton, e il 4 settembre Naiche, figlio di Cochise e capo ereditario degli Apache, si arrese con Geronimo e con tutti gli indiani ostili, con l’intesa, pare, che sarebbero stati mandati in Arizona. Non sono informato dei termini esatti di questa capitolazione, dapprima creduta senza condizioni… Mi dichiaro, signore, suo ubbidiente umilissimo servitore. O.O. Howard Maggiore generale dell’esercito degli Stati Uniti.
Testimonianza di W.T. Melton, di Anadarko (Oklahoma)
Dal 1882 al 1887 vissi nell’Arizona meridionale e lavorai per la Sansimone Cattle Company. Nel 1886 il mio posto era nel canyon dello Scheletro, circa sedici chilometri a nord della linea di confine tra l’Arizona e il Messico, con J.D. Prewitt. Il nostro compito consisteva nel cavalcare lungo i limiti del territorio della nostra tenuta e impedire al bestiame di andarsi a perdere nel Messico. Un pomeriggio, di ritorno dalla cavalcata, scoprimmo tracce di indiani che conducevano verso il nostro campo. Galoppammo di gran carriera fuori delle montagne e ci precipitammo in una larga vallata in modo da poterci accorgere in tempo di qualsiasi attacco da parte di indiani e da avere almeno la possibilità di combattere per la nostra vita. Sapevamo che gli Apache erano sul sentiero di guerra sotto Geronimo, ma che erano molto a sud nel Messico. A ogni modo, la nostra conoscenza degli indiani ci convinceva che qualsiasi cosa era possibile in qualsiasi momento… e che c’era sempre da aspettarsi il peggio. Quando entrammo nella valle ci imbattemmo anche in tracce di cavalleria, pure dirette verso il nostro campo. La faccenda s’ingarbugliava, perché non sembrava che né gli indiani né i soldati avessero proceduto velocemente, e perché tutte e due le piste portavano al nostro campo del canyon dello Scheletro. Questo canyon era una delle vie naturali fra il Messico e l’Arizona, e quasi tutte le bande di indiani, oltre a distaccamenti di truppe degli Stati Uniti, passavano e ripassavano da questa valle scendendo verso il Messico o ritornando di lì; ma prima d’allora non vi erano mai passate due bande nemiche nello stesso tempo e seguendo la medesima direzione, eccetto che quando una fuggiva e l’altra inseguiva. Era per noi un mistero il significato di queste piste. Forse che le truppe non avevano visto gli indiani? I pellirosse stavano forse tentando di intercettare le truppe e di attaccarle nel loro campo? Le truppe andavano a caccia di quegli indiani? Poteva trattarsi della compagnia di Lawton? Poteva esserci la banda di Geronimo? No, impossibile… E allora che truppe erano, che indiani erano? Cavalcammo al nostro campo, e trovammo inchiodato alla porta della nostra capanna questo biglietto: ATTENZIONE! GERONIMO È NELLE VICINANZE E NON SI È ANCORA ARRESO CAP. LAWTON
Allora capimmo. Poco distante, sopra la nostra capanna, trovammo il campo dei soldati. Avevamo appena finito di parlare con il capitano Lawton, che ci aveva consigliato di rimanere nel suo accampamento invece di correre il rischio di rimanere soli nella capanna, quando ecco arrivare a cavallo il capo, Geronimo. Montava un cavallo grigio
bruno con le estremità delle zampe bianche e con una macchia bianca sulla fronte. Andò direttamente verso il capitano Lawton e per mezzo di un interprete gli chiese chi eravamo e che cosa volevamo. Appena ricevuta l’informazione, fece un cenno d’approvazione e se ne andò. Prewitt e io cavalcammo insieme con lui. Avevamo buone cavalcature ed eravamo ben armati. Anche Geronimo aveva una buona cavalcatura, ma non ci sembrava armato. Tentai di parlare con il capo (in inglese) ma non seppi farmi capire. Prewitt voleva sparargli addosso e disse che sarebbe stato capace di ucciderlo al primo colpo, ma mi opposi e riuscii a trattenerlo.* Mentre
discutevamo, il capo cavalcava in silenzio tra noi, e non si sentiva evidentemente affatto sicuro. Per tutto questo tempo avevamo cavalcato in direzione dei nostri cavalli che pascolavano nella valle alla distanza di un chilometro e mezzo dal nostro carral. Quando arrivammo a circa mezzo miglio dall’accampamento di Lawton, in un punto dove uno sperone montuoso penetrava profondamente nella valle, Geronimo si voltò, salutò con un «Adiós, señores», in uno spagnolo piuttosto buono e si mise a salire un sentiero di montagna. Più tardi ci dissero che era andato direttamente verso il suo campo in alto fra le rocce. Noi continuammo a cavalcare, riconducemmo i cavalli nel carral e restammo tutta la notte nella capanna senza essere molestati dagli indiani. Il giorno dopo macellammo per gli indiani tre buoi, che ci furono pagati dal capitano Lawton. Il secondo giorno arrivarono al campo di Lawton due esploratori messicani a cavallo. Appena i messicani furono in vista, gli indiani afferrarono le armi e si dileguarono, per così dire, tra le rocce. Il capitano Lawton scrisse una relazione sulle condizioni e la consegnò ai messicani, che ripartirono. Dopo che questi se ne furono andati e che la loro missione fu spiegata a Geronimo, gli indiani ritornarono di nuovo nell’accampamento e deposero le armi. Il giorno seguente arrivò al campo la notizia che il generale Miles si stava avvicinando; gli indiani si armarono di nuovo e scomparvero tra le rocce. (Molte donne Apache avevano binocoli e si collocavano tutti i giorni su un picco di qualche montagna prominente e stavano di guardia.* Nessuno poteva avvicinarsi al loro campo o a quello di Lawton senza essere scoperto da queste spie). Poco dopo l’arrivo del generale Miles al comando di Lawton, Geronimo cavalcò nel campo senza armi, smontò da cavallo, si avvicinò al generale Miles, gli strinse la mano, poi rimase dritto davanti agli ufficiali, altero, aspettando che il generale Miles incominciasse il colloquio con lui. L’interprete disse a Geronimo: «Il generale Miles è tuo amico». Geronimo rispose: «Non l’ho mai visto, ma ho avuto gran bisogno di amici. Perché non era con me?». Quando questa risposta fu tradotta, tutti risero. Dopo non vi furono più formalità, e senza indugi iniziò la discussione dei patti. Tutto ciò che ricordo bene
del trattato è che Geronimo e la sua banda non dovevano essere uccisi, ma portati dalle loro famiglie. Questo lo ricordo con grande precisione, perché gli indiani furono contentissimi di tale particolare clausola del trattato. Geronimo, Naiche e alcuni altri si avviarono in testa con il generale Miles, ma il grosso della banda di indiani se ne andò sotto la scorta delle truppe di Lawton. La notte prima della partenza una giovane squaw, nuora di Geronimo, partorì. Il mattino seguente il marito, figlio di Geronimo, portò il bambino, mentre la madre salì da sola sul pony e si allontanò cavalcando senza aiuto, come una qualsiasi prigioniera di guerra sotto scorta militare. Il pomeriggio del giorno del trattato il capitano Lawton costruì un monumento (largo circa tre metri e alto meno di due) di rozze pietre nel punto in cui si era concluso il trattato. L’anno dopo dei cowboy durante una battuta a cavallo per radunare le mandrie si accamparono in quel luogo e abbatterono il monumento per vedere che cosa ci fosse dentro. Non trovarono che una bottiglia contenente un pezzo di carta, su cui erano scritti i nomi degli ufficiali che erano con Lawton. Dopo che gli indiani se ne furono andati trovammo centocinquanta dollari e venticinque cents ($ 150.25) in moneta messicana nascosti nel nido di un topo, vicino al luogo dove erano stati accampati gli indiani.* Verso le dieci del mattino successivo alla partenza degli Apache e dei soldati, venti indiani Pimo, accompagnati da un solo uomo bianco, circondarono il nostro campo e vollero sapere dove si trovava Geronimo. Raccontammo loro del trattato, ed essi seguirono la pista verso Fort Bowie. Quel pomeriggio, pensando che non potesse più esserci pericolo di Apache, il mio compagno Prewitt andò a sorvegliare i confini e io rimasi solo nel campo. Stavo pompando acqua con un cavallo al pozzo, quando vidi tre indiani che radunavano i nostri cavalli a circa mezzo miglio di distanza. Mi videro ma non mi molestarono, e io non interferii con loro. Però, appena se ne furono andati conducendo quel gruppo di cavalli verso nord di là dalla montagna, fuori della mia vista, cavalcai di gran carriera in un’altra direzione e guidai un altro gruppo di cavalli dentro al corral. Rimasi al campo per il resto del pomeriggio, ma non vidi più indiani. Nel loro accampamento scoprimmo la testa e gli zoccoli del mio cavallo favorito, «Digger», un bel pony sauro: era servito al loro pasto. Seguimmo le loro piste molto dentro il Messico, ma non li raggiungemmo. Avevamo preso l’abitudine di dire che «era stata la banda di Geronimo», tutte le volte che veniva commessa una razzia, ma questa volta non eravamo più tanto sicuri. * * * Non desideriamo esprimere la nostra opinione, ma vogliamo chiedere al lettore
se sia possibile concludere che Geronimo si arrese senza condizioni, dopo aver ascoltato le testimonianze offerte da Apache, da soldati e da civili, che conoscevano le condizioni della resa, e dopo averle esaminate con cura. Prima di abbandonare l’argomento, sarebbe anche bene chiedersi se il nostro governo abbia trattato questi prigionieri in modo strettamente conforme alle clausole del trattato concluso al canyon dello Scheletro. *
Il signor George Wratton è ora a Fort Sill (Oklahoma) come sovrintendente degli Apache. È con gli Apache fin dai tempi della loro resa sia come interprete sia come sovrintendente.
* Recentemente il signor Melton ha raccontato questa conversazione a Geronimo. Lo scaltro vecchio capo sorrise
con aria furba e disse: «E se la pistola di Prewitt gli fosse stata fatta saltare di mano? Altri uomini hanno cercato di spararmi e almeno qualcuno di loro ha fallito il colpo. Ma sono contento che non abbia tentato».
*
Questi binocoli erano presi ai soldati e ufficiali (messicani e americani) uccisi dagli Apache.
*
Era un nido di stecchetti costruito in superficie da una specie di topo dei boschi.
NOTE
1
Geronimo era diventato una tale celebrità che il vecchio capo indiano si faceva pagare per mettersi in posa per le fotografie, per fare gli autografi e – come si vede – raccontare episodi delle sue avventure. Dopo la sconfitta e il trattamento disonorevole a cui erano stati sottoposti gli indiani anche molta della loro dignità era scomparsa. L’alcolismo cronico era la prima causa di morte all’interno delle riserve.
2«Apache» è un termine collettivo che indica vari insiemi di nativi americani, presenti originariamente nel sud ovest
del paese. Con «Apache» si identificano gli indiani (nativi americani) Chiricahua, Navajo (nei primi tempi, ora non più), Mescalero, Jicarilla, Lipan e Kiowa. I «Nedni» (ceppo Chiricahua) a cui fa riferimento il testo sono una delle tribù che componevano l’universo nomade degli indiani Apache.
3
Com’è evidente gli Apache non chiamavano se stessi «nemico». Il termine «Apache» è di provenienza incerta, probabilmente spagnola, e descrive cosa sono gli Apache per i coloni bianchi, cioè nemici. Gli Apache si riferivano a se stessi con il termine «Dine» o «Inde», che significava «persona».
4Nell’edizione originale del libro i nomi sono riportati con la sillabazione indiana. La suddivisione delle tribù a
cui fa riferimento Geronimo in questo capitolo si riferisce agli indiani Apache-Chiricahua.
5Victorio (1825 ca.-1880), capo della banda Chihenne degli indiani Chiricahua. Il suo nome indiano era Biduya.
Fu ucciso in combattimento da soldati messicani comandati da Mauricio Corredor.
6
Di questo capo indiano non ci sono notizie certe. È possibile che Geronimo si riferisse al capo Haskaldasila (1800 ca.-1860 ca.), alleato di Cochise e seguace di Mangas Coloradas.
7È probabile che questi Apache di cui parla Geronimo fossero Mogollon (dal nome delle omonime montagne). 8Cochise (1805 ca.-1874). Il suo nome indiano era Cheis. Fu il leader della rivolta del 1861. 9Naiche (1857 ca.-1919). È stato un capo indiano e uno dei più importanti artisti della sua epoca. 10Il nome indiano di questo leader era Juh, abbreviazione di Tandinbilnojui (Colui che porta molte cose con sé). 11I numeri del genocidio indiano sono tuttora motivo di discussione. La cifra complessiva di indiani residenti nel
Nordamerica all’inizio della colonizzazione europea è stimata tra gli otto e i dodici milioni. Per gli inizi del Novecento (l’epoca in cui uscì il libro) questi non erano che quattrocentomila. Oggi i nativi americani e i loro discendenti sono lo 0,9% della popolazione statunitense (circa un milione e duecentomila individui).
12Un acro corrisponde a circa quattro chilometri quadrati. 13Mangas Coloradas (1793 ca.-1863). Il suo nome indiano era Dasoda-hae (Colui che se ne sta seduto). Era il
suocero di Cochise e, secondo gli storici, uno dei più importanti leader indiani del XIX secolo.
14Le mogli di Geronimo furono (in ordine di matrimonio): Alope, Ta-ayzslath, Chee-hash-kish, Nana-tha-thtith,
Zi-yeh, She-gha, Shtsha-she, Ih-tedda, e infine Azul.
15Corrisponde all’attuale città messicana di Janos, nella provincia settentrionale di Chihuahua. Nel 2010 contava
2738 abitanti.
16La
municipalità di Casa Grande fu fondata del 1879 nella Contea di Pinal, Arizona. Attualmente conta trentottomila abitanti.
17Camp Geronimo è situato tra Payson e Pine, in Arizona. È attualmente area di campeggi e attività scoutistiche.
18
Geronimo si arrese ufficialmente il 4 settembre 1886 al cospetto del generale Nelson Appleton Miles (18391925).
19
È evidente che qui con «tutti gli indiani» Geronimo si riferisce alla sua tribù e a quelle limitrofe assieme alle quali combatteva.
20
Apache Tejo, un tempo forte militare, non esiste più. Nel 1877 fu brevemente rifugio anche per Billy The Kid.
21Qui
Geronimo compie una semplificazione, giacché risulta difficile credere che non fosse informato correttamente sulla fine del suo capotribù. Mangas-Coloradas, gravemente debilitato per i postumi di una ferita da arma da fuoco al petto, nel 1862 si incontrò con degli intermediari allo scopo di negoziare una pace separata tra la sua tribù e l’esercito degli Stati Uniti. Nel gennaio del 1863 fu invitato a incontrare degli ufficiali presso Fort McLane, nel Nuovo Messico. Mangas-Coloradas si presentò al cospetto del brigadiere generale della milizia Joseph Rodman West (futuro senatore della Louisiana) preceduto da una bandiera bianca. West fece arrestare immediatamente Mangas-Coloradas e diede ordine ai soldati di guardia di eliminarlo. Durante la notte Mangas-Coloradas fu torturato con baionette arroventate e poi ucciso. Nel rapporto si legge che «tentò la fuga», come si usava all’epoca denominare gli omicidi mirati. Il giorno successivo i soldati decapitarono il corpo e bollirono la testa allo scopo di ricavarne il teschio, che fu spedito a un frenologo di New York, Orson Squire Fowler. L’analisi frenologica del teschio e un suo ritratto appaiono nel volume di Fowler Human Science of Phrenology, pubblicato nel 1893. Asa Daklugie, figlio di Whoa (capo degli indiani Nedni) e interprete di Geronimo per la realizzazione della sua autobiografia, dichiarò che il teschio di Mangas-Coloradas era finito allo Smithsonian. Ad ogni modo non è mai stato ritrovato. L’assassinio e la mutilazione del vecchio capo portò a un aumento delle ostilità da parte degli Apache, contribuendo ad allungare la durata delle guerre indiane, che si protrassero per altri venticinque anni.
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Oliver Otis Howard (1830-1909). Ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti. Noto come «il generale cristiano» per via della pietas che muoveva le sue azioni militari. Fautore della causa abolizionista, diresse l’ufficio incaricato di reinserire gli schiavi liberati nella vita civile e fondò la Howard University per i neri e oggi accessibile a chiunque senza distinzione di razza.
23George Crook (1828-1890). Uno dei generali protagonisti delle guerre indiane. Gli Apache lo ribattezzarono
Nantan Lupan (lupo grigio) in segno di rispetto.
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Crook morì improvvisamente a Chicago mentre comandava la Divisione del Missouri. Va detto che spese gli ultimi anni della sua vita protestando per l’ingiusto trattamento riservato agli indiani. Nuvola Rossa, uno dei capi degli indiani Oglala Lakota (Sioux) disse di Crook: «Almeno lui non ci ha mai mentito. Le sue parole ci diedero una speranza».
25La carriera di capo militare di Geronimo terminò il 4 settembre del 1886, al Canyon dello Scheletro, quando
cinquemila soldati statunitensi costrinsero la banda di Geronimo, composta da non più di cinquanta membri, donne e bambini compresi, ad arrendersi. Il generale Miles fece deportare la piccola formazione assieme agli scout indiani Chiricahua che li avevano rintracciati (cosa che mandò su tutte le furie il generale Crook). Furono mandati prima in Florida, a Fort Pickens, e poi a Fort Sill, in Oklahoma. Con il termine delle guerre indiane il governo degli Stati Uniti iniziò un programma di assimilazione che consisteva nel togliere i neonati Apache alle proprie famiglie per farli adottare da bianchi. Le conseguenze di questa politica sono tuttora causa di conflitto sociale negli Stati Uniti. 26L’Esposizione Universale del 1904 si tenne a St. Louis, in Louisiana. Le Esposizioni Universali si tengono a
partire dal 1756 quando la prima si aprì a Londra, sponsorizzata dalla Società degli Artisti. Apparse sporadicamente nel XVIII secolo (a Praga nel 1791 e a Parigi nel 1798) si moltiplicarono nel secolo dei Lumi e fino agli anni Quaranta del XX secolo. L’ultima Esposizione Universale si è tenuta a Yeosu nella Corea del Sud nel 2012, la prossima sarà a Milano nel 2015.
27Verso la fine della sua vita Geronimo aveva maturato posizioni ambivalenti rispetto alla religione. Nel 1907 fu
espulso per gioco d’azzardo dalla Chiesa Riformata Olandese a cui si era unito nel 1903. Successivamente, nel 1908, raccontò ai preti missionari di essersi pentito e di voler ricominciare a frequentare la Chiesa. Allo stesso tempo diceva agli indiani della sua tribù di aver definitivamente abbracciato la religione degli avi.