Alberico Bojano
Una sera d’estate
Una sera d’estate
L’estate, quell’anno, si era insinuata piano piano nelle giornate sempre più afose, accecate da una luce bianca che costringeva agli occhi socchiusi. E quando ai primi d’agosto finalmente i turisti cominciarono ad arrivare a San Gregorio Matese, si percepì nettamente che il tempo della vacanza era maturato. Nel giro di pochi giorni il paese si popolò di una moltitudine di villeggianti: quelli nuovi, che si aggiravano incuriositi per conoscere e farsi vedere, e quelli vecchi, gli habituè che tornavano ad ogni estate, che si abbracciavano e salutavano affettuosi ritrovandosi dopo un anno per trascorrere insieme il lungo, piacevole agosto al Matese. E con gesti ampi delle braccia esprimevano la contentezza di ritrovare il barista, la tabaccaia, il salumiere, il benzinaio, il parroco ed il farmacista della passata estate. In piazza, sotto i due grossi platani e di fronte, davanti ai bar, era impossibile pensare di parcheggiare l’auto. D’altra parte Marcello, la guardia municipale, aveva il fischietto facile. Lo sapevano i ragazzi che facevano su e giù col vespino truccato. Lo sapevano i tanti giovani che, a sera, salivano dai paesi della pianura per andare a ballare in Villa, mentre suonavano i Paladini. Arrivavano in sella a ciclomotori affannati, oppure stipati in cinque o sei in una Seicento Abarth e, per evitare Marcello la guardia, si fermavano alla pompa di benzina subito prima dell’ultima curva. Da lì en-
3
Alberico Bojano
travano a piedi in paese, passando tra l’edificio scolastico ed il Circolo dei Forestieri, quello Chalet dove Gino Celentano, con le sue scarpe bianche e nere, metteva sul giradischi a tutto volume i 45 giri graffiati di Mina e dei Beatles, mentre un paio di ragazze napoletane in minigonna fumavano annoiate sedute sulla ringhiera di legno. Quei ragazzotti erano genericamente definiti piedimontesi, anche se venivano da Castello, da Alife o da Gioia: ma per il solo fatto di salire dalla pianura, erano identificati genericamente con Piedimonte. Camminavano sguaiati quei piedimontesi, nei loro jeans a zampa d’elefante, con le camicie chiassose ben aperte sul petto, il pacchetto di sigarette infilato nel calzino e lo scarpino di cuoio che ogni tanto prendeva di liscio sull’asfalto consumato della via nuova. Ma tutti portavano, legato alla cintola, un golfino di lana, perché salendo a mezzanotte dalla Villa, accaldati dopo aver ballato gli shake, il sudore gli si sarebbe gelato addosso. Moderni ma prudenti, i giovani piedimontesi entravano in paese pronti ad afferrare una notte che aveva il suono dei Dik Dik ed il profumo di qualche shampoo appena fatto. Intanto, in piazza, un coupè rosso fiammante con gli interni in pelle, oppure un Laverda azzurro, parcheggiati sotto i platani, scatenavano discussioni e apprezzamenti di ammiratori invidiosi, che giravano e rigiravano attorno a quel sogno proibito, valutando prestazioni e difetti, senza aver mai toccato un gioiello come quello. Salvo poi allontanarsi con aria indifferente quando giungeva molleggiato il proprietario, fascinoso e accompagnato da donne appariscenti e profumate. Donne stavolta, mica ragazze col golfino e la treccia, donne vere sulle quali nemmeno si alzava lo sguardo, tanto erano inarrivabili dal pensiero dei ragazzotti col maglioncino legato in vita. La lunga notte della movida estiva a San Gregorio comin-
4
Una sera d’estate
ciava così. Pian piano la fila delle auto parcheggiate si allungava verso gli alberghi, il Monte Miletto, il Miramonti ed il Palace, dai quali uscivano i tanti turisti eleganti che, dopo cena, passeggiando raggiungevano la piazza e la Villa. Erano giovani mamme che spingevano la carrozzina, uomini col giubbottino di renna, signore traballanti sulle scarpe eleganti messe apposta per lo struscio serale, bambini vocianti che acceleravano il passo per fermarsi dalla tabaccaia sperando nell’acquisto di una gomma americana, quella rosa e lunga che faceva la bolla, ma se scoppiava restava appiccicata attorno alla bocca. E lo stesso era per i villeggianti che stavano in pensione a Villa Maria, all’Orizzonte o alla Montana, così come le tante famiglie che per tutto il mese prendevano in fitto le case dei paesani o le villette estive: quelle su al Parco Correra o giù, lungo la via nuova, come villa Coccia o villa Diana. Alle nove di sera la piazza era intasata di gente. C’era chi ci stazionava giusto in mezzo, incurante delle auto che cercavano di farsi spazio nel traffico, chi riusciva a trovare un pizzo di panchina per sedersi sotto i platani, a guardare quelli che facevano su e giù, a piedi, senza sosta, dallo Chalet allo spiazzo del tabaccaio, e poi giù di nuovo, ad incrociare sguardi, a salutare e sorridere, ad ammiccare nell’attesa di una svolta, una sorpresa che rendesse indimenticabile quella fresca serata d’agosto a San Gregorio. Il tutto avveniva col sottofondo dei Paladini, che giù in Villa avevano già iniziato a suonare. La musica risaliva tra le fronde degli alberi fitti del parco, fin su alla piazza affollata, a folate fascinose che attraevano le ragazze a scendere, in gruppo, strette sotto braccio l’una all’altra, verso quelle luci colorate che ammiccavano nel buio degli alberi, evocando chissà quali eccitanti avventure amorose.
5
Alberico Bojano
Quella Villa, cupa di fronde fruscianti ed ombre fuggenti, di giorno era invece un sorridente giardino di raggi di sole che filtravano tra le chiome di alberi secolari, a riscaldare un fitto sottobosco di piante e fiori e cespugli e pareti interminabili di rampicanti fitti. Fin dall’ingresso un’ampia vasca quadrata con lo zampillo dava al visitatore la percezione fisica della frescura ristoratrice al caldo del sole d’agosto. Lunghi vialetti di brecciolino salivano e scendevano il pendio, scoprendo angoli tranquilli con le panchine in pietra, e fontane e vasche piene di acqua verde cupo, con le ranocchie che saltellavano su qualche vecchio tronco marcio. Fino giù alla lunga balconata sulla vallata, dove l’occhio si perdeva dallo strapiombo dell’Inferno a San Pasquale, dalla piana afosa del Volturno al Vesuvio sfumato d’azzurro. Su quella lunga fila di sedili in pietra stavano silenziosi gli anziani a guardare il panorama, assorti nella melanconia di un ricordo, all’ombra dei lunghi rami contorti della quercia della Baronessa. Un ampio pianoro era divenuto il paradiso dei bambini, perchè vi erano state montate le altalene, un girotondo e due splendidi scivoli di metallo, coperti perfino da un tendone stile carovana del far west, con due ripide scale a pioli motivo di preoccupazione per le mamme più ansiose, che presto richiamavano i loro bambini a giochi più miti, anche per tenerli lontani dai più esuberanti che provavano a salir su dalla parte scivolosa, oppure si lanciavano sullo scivolo stesi con la faccia all’ingiù. Tutti, durante il giorno, passavano in Villa: anziani rilassati alle panchine, uomini che, facendo il giro lungo dei vialetti, si imbiancavano le scarpe nel brecciolino e intanto chiacchieravano della presenza del ministro Bosco in paese. Ragazzini in bicicletta roteavano furenti sulla pista da ballo, mentre le bambine fingevano di cucinare nel castelletto romantico di pietra viva, dopo aver colto mazzetti di ciclami-
6
Una sera d’estate
ni che spuntavano senza sosta ad ogni spiazzo ombroso. I più ardimentosi si davano alla caccia delle lucertole, o si spingevano nella parte più isolata, giù verso il muro della Villetta, a spiare le coppiette che si andavano a baciare. Poi, dopo il tramonto, quella folla di visitatori finalmente se ne andava, e la Villa tornava il giardino lussureggiante che Beniamino Caso aveva pensato cent’anni prima, con l’incantato silenzio rotto solo dal fischio dei merli che andavano a dissetarsi alle fontane. Intanto era calata la notte e nella confusione crescente della piazza era impossibile sperare di trovare un tavolino libero ad uno dei bar. I posti erano già prenotati dal mattino. I signori, quelli coi capelli brizzolati, con le mogli eleganti già avvolte nello scialle di lana, arrivavano e facevano un cenno ad Adriano; lui brusco scacciava i soliti ragazzini che, sfuggitigli allo sguardo si erano seduti impertinenti al suo bar a scambiarsi figurine di calciatori, e faceva così posto agli avventori prenotati, scortando al tavolino con un sorriso affabile i clienti che desideravano essere riconosciuti. Non facevi l’estate a San Gregorio se non sostavi al bar di Adriano. Le comitive di signori stavano là sedute tutta la sera, a bere un Aperol e mangiare la famosa Roccia del Matese, la grossa coppa di gelato variegato, con le mandorle e la cioccolata fusa. Lì si rideva e si chiacchierava, s’intrecciavano amicizie e relazioni. Da lì si organizzavano le grandi gite di gruppo: il promotore era il colonnello Fotticchia, comandante della Forestale, che decideva di portare quei villeggianti cittadini e vedere le bellezze di un Matese ancora privo di strade asfaltate. Al mattino la carovana di auto, cariche di provviste e turisti, si avviava verso Campobraca, o Campitello, o le rive del
7
Alberico Bojano
Lete, dove avrebbero fatto un’allegra scampagnata mangereccia, alla quale non mancava il vecchio Teodoro Mezzullo, che vent’anni prima si era inventato questo turismo a San Gregorio, ed ora ne vedeva i frutti maturi. C’erano, tra loro, l’avvocato Monticelli ed il medico professor Capobianco da Napoli, gli avvocati Facchiano e D’Andrea della folta colonia di beneventani che ogni anno Geppino Bojano portava in vacanza a San Gregorio. C’era il professore Caterino dell’università di Bari, il colonnello Picozzi, militare a Torino, don Pierino Correra ed il comandante Picariello da Caserta, ed altri che variavano col variare delle permanenze in paese. Il bar di Adriano era il topos dell’estate: i suoi coni a fragola e caffè sfamavano i ragazzi, che si cimentavano nella sala posteriore con i primi flipper mai visti prima: una partita 50 lire, ma con 100 lire ne facevi tre, e se arrivavi a diecimila punti Adriano ti regalava pure una bottiglietta di coca cola. Eppure il bigliardino, che molti si ostinavano a chiamare ancora calcio balilla, restava l’attrattiva primaria ed aveva la fila di ragazzini sgomitanti con la moneta pronta per la partita. Al centro del bar, poi, perennemente circondato da diciottenni ciondolanti e fintamente annoiati, c’era un juke box pieno di luci, quello con la pila di 45 giri che scorreva a destra e sinistra finché il braccetto di plastica non ne agganciava uno, e dopo averlo spostato sul piatto finalmente partivano le novità di Lucio Battisti o dei New Trolls. I ragazzi sapevano a memoria i codici delle canzoni, che ascoltavano a ripetizione, mai sazi. E se qualcuno si avvicinava al juke box con la moneta in mano, c’era sempre una ragazza pronta a chiedergli di mettere F3 oppure C7. La breve salita di fianco al bar conduceva al ristorante di
8
Una sera d’estate
Valentina. I villeggianti residenti in paese preferivano cenare nelle loro case, o negli alberghi con la pensione completa. Da Valentina invece venivano a cena i signori da fuori. Anche loro fruitori di una serata estiva di musica e frescura a San Gregorio, ma ovviamente completamente diversi dai chiassosi ragazzotti piedimontesi. Uno di questi era l’ingegner Perrotti, con un lungo paio di baffoni all’ingiù. Un altro era il conte, un conte vero, di antichissima e nobile famiglia di Piedimonte. A lui, in verità, piaceva soprattutto il pollo fritto che cucinava Faiella, giù a Castello, ma spesso decideva di venire, con la sua comitiva di amici, a cenare da Valentina. Così a mezza sera il conte Ugo si affacciava al balconcino del ristorante, sopra i bar della piazza, a fumare una sigaretta. Alto, elegante, coi capelli impomatati e gli occhiali che sembrava Onassis, distribuiva sorrisi ampi e cordiali a quelli che, seduti ai tavolini là sotto, alzando lo sguardo lo avevano scorto, e subito avevano reclinato la testa di lato in segno di rispettoso saluto. Ma c’era sempre qualcuno che, con ostentata intimità, lo chiamava per nome e col gesto ampio della mano lo invitata ad accomodarsi al bar: il conte annuiva col suo sorriso largo, accompagnandolo a veloci gesti delle mani ossute, che prima indicavano la finestra alle sue spalle e poi facevano il numero otto con le dita. Nessun problema. Otto sedie per il conte ed i suoi amici non sarebbero mai mancate ai bar di San Gregorio. Erano troppe le villeggianti che se ne morivano all’idea di essere amiche della signora contessa. Erano persone benestanti, mogli di avvocati, medici, ingegneri, ma quel paio d’ore ai bar della piazza, con quella po’ po’ di compagnia, sarebbero diventate motivo di conversazione con le solite amiche a Napoli, a Caserta, a Benevento, spacciando l’occasionale incontro estivo ai tavolini di quel bar per un’amicizia intima e solida con una vera contessa.
9
Alberico Bojano
L’alternativa popolare al ristorante di Valentina era una “mpostarella” da compà Luigino, che aveva una piccola salumeria piantata proprio in piazza tra i due bar. Superata la tenda di plastica a strisce colorate, dal chiasso dei tavolini dei bar si entrava nella salumeria silenziosa. In un piccolo locale poco illuminato, con le pareti di scaffali carichi di merce c’era, a destra entrando, un vecchio bancone di legno sul quale troneggiava la grande affettatrice rossa, quella con la manovella. A sinistra una porticina sempre chiusa, che in un’altra epoca metteva in comunicazione col bar di Adriano, e nel cui vano sedeva ora muta una vecchina vestita di nero. Il locale sembrava vuoto, ma da dietro il bancone si materializzava il piccolo compà Luigino, pallido e di poche parole. Rapido dava di mano all’affettatrice dove la gigantesca mortadella non aspettava altro, e mentre quel profumo si spandeva nella stanzetta impregnando ancor di più i panni neri della vecchina, lui farciva un bel cozzetto di pane bianco, aggiungendoci a richiesta anche un po’ di scamorza avanzata dal mattino, che ancora stagnava nel latte denso della scodella sul bancone. Quella succulenta mpostarella era più che sufficiente a sfamare i ragazzotti piedimontesi: per dissetarsi sarebbe poi bastato attaccarsi alla canna della fontanella della piazza, o scendere alla più appartata fontana dei Ciucci, dove l’acqua corrente era sempre fredda, ma c’era il rischio di pestare nel buio qualche merda d’asino. Intanto, giù in Villa, i Paladini avevano cominciato a suonare la sequenza di balli lenti. E non c’era ragazzo che restasse ancora a lungo su in piazza. Il viale sconnesso e buio che, nella Villa, scendeva verso la pista da ballo, era un viaggio di avvicinamento verso un sogno tutto da scoprire.
10
Una sera d’estate
Nel fitto degli alberi filtravano le luci colorate della pista, e man mano che ci si inoltrava in quel vialetto di brecciolino la musica si faceva più intensa, in un buio nel quale era impossibile riconoscersi. Così, procedendo a tentoni, ognuno si preparava al proprio sogno, ciascuno alimentava la propria speranza di un incontro, di un bacio, di un’avventura che rendesse unica quella discesa, ripassando magari le frasi d’amore che Gianni Morandi sussurrava a Laura, nel film in bianco e nero proiettato sere prima nello spiazzo della villetta comunale, durante la festa del santo patrono. Finalmente giunti alla fine del sentiero di brecciolino, il buio della Villa si affievoliva restando a circondare la fonte del suono. I faretti colorati, inchiodati sui tronchi degli alberi, lampeggiando illuminavano la folla fitta di corpi che ballava sulla pista di cemento rosso: da un lato il palchetto con i quattro Paladini che, con la camicia bianca ricamata ed il gilet nero, suonavano tutti i successi della stagione. Attorno alla pista tavolini e sedie di legno, con gente seduta che beveva e guardava ballare, mentre un po’ discosto, al limite del boschetto, il chiosco delle bevande, che sfornava aranciate e coca cola in bottigliette singole. I bicchieri di carta e le lattine non erano state ancora inventate: si beveva con la cannuccia, e solo per le signore si utilizzava qualche bicchiere di vetro, sciacquato alla meglio in un secchio d’acqua preso alla fontana dei Ciucci. Questo eden rotondo di musica, luci e gente felice, era circondato da una staccionata di legno, il confine rigido tra il fresco buio degli alberi della Villa, ed il tepore colorato dei corpi danzanti. Alla fine della lunga discesa buia dalla piazza alla Villa, la staccionata che circondava la pista da ballo era il limite: con un unico varco controllato dagli uomini della Pro Loco, che esigevano il pagamento del biglietto. Chi pagava poteva superare il limbo del buio ed avere finalmente accesso al cuore pulsante, sonoro e luminoso della movida notturna
11
Alberico Bojano
di San Gregorio. Superare la staccionata significava essere parte integrante del sogno collettivo, significava essere uguale ai villeggianti eleganti, quelli con le camicie a righe azzurre col polsino sbottonato ed i mocassini blu. Se non uguali simili, almeno, a quelle giovani e belle signore che indossavano il pigiama-palazzo, oppure i pantaloni stretti alla caviglia, come le dive dei rotocalchi. La signora Rosalba, un’istituzione di quelle estati, era la presentatrice dei concerti, colei che conduceva l’elezione della Graziella del Matese, di Miss Eleganza, fino alla kermesse del 15 agosto, quando era eletta Miss Matese, che riceveva la fascia e la coppa. Quello era il culmine dell’estate. Lo si capiva perché in villa scendeva pure il maresciallo dei Carabinieri con la moglie, e da Piedimonte salivano anche le ragazze, con i capelli cotonati freschi da un’amica parrucchiera, che sfilavano esitanti nella speranza di portarsi a casa quella coppa senza valore. Mentre i Paladini passavano dall’Equipe 84 a Fred Bongusto nuove coppie nascevano e si lasciavano. Mentre Adolfo faceva uscire altre dieci aranciate dal suo chiosco, Giuseppe e Pasquale, i leader della Pro Loco, cercavano di mandar via la torma di bambini che imperterriti correvano attorno alla pista. Per loro era stata pure inventata una Festa dei Bambini sponsorizzata dalla Latte Matese, ma ogni sera erano lì, dopo essere sgusciati nella staccionata, ed ognuno sperava che durante la pausa il batterista dei Paladini gli facesse dare un colpo di bacchetta sul rullante. Fuori della staccionata, tutt’attorno sotto gli alberi e su, lungo la scarpata che saliva verso la piazza, una folla di gente assorta a guardare. Quelli che non pagavano erano là, nel buio della Villa, tutta la sera in piedi, con le scarpe massicce di Granitto piantate nell’erba umida, a stento coinvolti nel riverbero attenuato delle luci colorate, ad osservare i villeggianti che ballavano. Erano soprattutto i paesani, che nella
12
Una sera d’estate
separazione della staccionata di legno rendevano palpabile una radicale differenza antropologica. Le ragazze, in quella folla di paese, stavano sottobraccio l’una all’altra, in file sempre controllate da una donna più anziana, col tuppo ed il golfino nero, il sopracciglio arcuato di chi non poteva esimersi dall’esprimere il proprio dissenso per quello spettacolo. I ragazzi di paese, con la camicia bianca ben abbottonata fino al collo ed i pantaloni di flanella marrone, restavano immobili, braccia conserte, a fissare i villeggianti danzanti, e con loro i pochi compaesani che erano riusciti a superare la staccionata, che avevano finalmente avuto l’ardire di indossare i jeans comprati al mercato del lunedì a Piedimonte, e che sfrontatamente si dimenavano, come se avessero dimenticato le ramanzine di don Marcello, nei lunghi pomeriggi del catechismo invernale. Lì, sotto gli alberi della Villa, nella penombra attorno alla staccionata, pastori e vaccai facevano corona a quello spettacolo inusuale: con una Nazionale senza filtro stretta tra indice e pollice, non sfuggivano al rito della discesa in Villa. Poi, con poche brusche parole di biasimo per quei matti che ballavano senza ritegno, mandavano a casa le donne, e se ne salivano in piazza al bar dei paesani, da Guglielmo, per bere l’ennesima mezza birra, o fare un altro giro di padrone e sotto. A mezzanotte i Paladini smettevano di suonare. In una fitta processione laica la folla risaliva in piazza, e si disperdeva presto. Finiva un’altra serata, ed il sogno restava incompiuto. I tavolini dei bar si erano già svuotati: le madri trascinavano bambini addormentati, nell’aria gli ultimi saluti e gli appuntamenti per l’indomani. Le belle automobili dei signori, già lontane, rombavano giù ai tornanti della Pincera. La piazza si svuotava e gli ultimi ragazzotti piedimontesi, dopo una bevuta gelida sotto la fontanina, con un brivido
13
Alberico Bojano
finalmente si infilavano il maglioncino legato in vita, tornando alla Seicento Abarth parcheggiata là sotto, dopo il benzinaio. Anche stasera la guardia municipale non aveva multato nessuno. Adriano e Marcello radunavano le sedie di plastica intrecciata dei loro bar, senza scambiarsi uno sguardo, rivali come sempre, soddisfatti delle loro gelatiere svuotate. Gli ultimi a lasciare la piazza sarebbero stati i pochi paesani rimasti a giocare l’ultima partita di padrone e sotto, al bar di Guglielmo. Poi se ne sarebbero tornati a casa, a piedi nei vicoli silenziosi del paese già addormentato, oppure a bordo dell’Ape tre ruote. Lungo i tornanti bui della strada che saliva alla casella in montagna, quell’uomo dalle mani callose da sempre abituate alla fatica della stalla o della zappa, nella solitudine senza pudore dell’abitacolo rumoroso dell’Ape, avrebbe canticchiato quella canzone di Gino Paoli che gli era rimasta impigliata sotto la coppola, fantasticando sulle scollature delle villeggianti irraggiungibili.
14
Agosto 2011 Š San Gregorio Matese, Caserta. Edizioni Matese Film