Il bene comune
Anno 1 N. 01 / Marzo 2012 - Periodico mensile - Editore e Proprietario: eBookservice srl C.F./P.I. : 07193470965-REA: MI-1942227. Iscr. Tribunale di Milano n. 324 del 10.6.2011.
numero
01
docente
Studio Letterario ALeF
Sommario
docente
Io Come Docente Mensile d’approfondimento culturale a carattere monografico, sviluppato in collaborazione con lo Studio Letterario ALeF www.studioletterario.it Studio Letterario ALeF
Tema del numero:
Il bene comune La conoscenza come bene comune |
di Ugo Maria Olivieri
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I beni culturali come bene comune |
di Fabio Ciaramelli
La follia |
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di Pietro Barbetta
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Editoriale Cari lettori, care lettrici, Se il tema del numero zero, la Cina, cercava di dare un’identità ad una nuova realtà sociale ed economica emergente, il primo numero di Io come Docente entra di più nello specifico quotidiano e si interroga sul bene comune - ma che cos’è il bene comune? Secondo la definizione corrente si intende uno specifico bene che è condiviso da tutti i membri di una comunità, certo è una definizione onnicomprensiva perché va dall’aria all’acqua, dal diritto dei cittadini al suolo, col rischio però di azzerare ogni possibile differenza qualitativa. Al riguardo sono stati pubblicati molti saggi , si sono tenute conferenze, l’ultima in ordine di tempo il 9 marzo a Napoli, e quindi sul bene comune tre docenti, un italianista, un giurista e uno psicoterapeuta sviluppano il tema, basandosi sulla propria esperienza professionale. Se il primo affronta il problema della conoscenza in un’epoca storica in cui “l’idea di un progresso indefinito della tecnica viene sempre più percepita non più come una promessa ma come una minaccia alla sopravvivenza del pianeta”, ponendo molti interrogativi sullo sviluppo ecosostenibile, il secondo docente affronta il tema dei beni culturali in un Paese che vanta il più importante patrimonio artistico dell’umanità ma spesso per miopia politica e incuria amministrativa tesori archeologici sono a rischio, è il caso dei frequenti crolli a Pompei,
ma di certo l’intervento più suggestivo è il terzo, quello di Pietro Barbetta che tratta la follia. Forse la follia non è tanto un bene comune, nel senso classico del termine, però ora che ha assunto una dimensione sociale, è molto stretto il rapporto tra gruppo sociale e disturbo mentale, allora ha ragione l’Autore ad affermare che “la follia sia un bene comune”. Questa tesi provocatoria lo porta ad interrogarsi su scrittori rinchiusi in manicomio come Sade e Maupassant, e poi su psichiatri che non esitavano a sottoporre i malati a pratiche manicomiali invasive come la lobotomia; insomma l’intervento è utile per sdoganare la follia, farla uscire da una realtà altra da noi e inserirla appunto nel bene comune, che riguarda, come dicevamo in apertura, i membri di comunità. Tutto questo presuppone il superamento dell’alterità sano/ malato e quindi modificare le proprie categorie mentali. Pensiamo quindi che in questo ultimo contributo, caro lettore, sia il senso della rivista, gettare un sasso nel mare dell’oggettività, far emergere il non detto riguardo a temi che sempre più spesso investono la nostra vita personale. Buona Lettura! Alessandro Bruciamonti
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Ugo Maria Olivieri
La conoscenza come bene comune Viviamo nel progresso, viviamo, cioè, dentro l’idea che il nostro tempo sia solo una parte di una linea continua destinata ad allungarsi indefinitivamente e che lascia dietro di sé la luminosa scia di una progressiva crescita della tecnica. Viviamo con il progresso, viviamo, cioè, con la convinzione che ogni stadio successivo al nostro tempo sia un passo avanti rispetto a quanto è accaduto prima e viviamo soprattutto con la convinzione che tutto ciò abbia un senso. Tutto ciò è molto bello, ma non molto vero nel senso che questo progresso della tecnica non ci impedisce di sentire come problematica e precaria la nostra vita, non ci impedisce di percepire che la nostra storia quotidiana è priva di senso ed esposta alla minaccia della recessione economica e della saturazione delle risorse ambientali. E ancora, l’idea di un progresso indefinito della tecnica viene sempre più percepita non più come una promessa ma come una minaccia alla sopravvivenza del pianeta.
“il fattore umano contro le pure logiche di profitto�
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Come spiegare questa contraddizione, come interpretare questo iato tra quelle che potremmo chiamare delle “illusioni necessarie” rispetto all’idea di tecnologia e il nostro vissuto quotidiano? Partiamo da una constatazione semplice che concerne il nostro utilizzo quo-
consumo. Questo modello di società del consumo è stato ulteriormente reso “astratto” dalla crescente sostituzione della produzione reale di merci con un meccanismo di produzione sociale astratta basato sul predominio dell’economia finanziaria su quella reale. Un pensiero
tidiano della tecnica. È sempre più evidente che noi usiamo la tecnica ma nella maggior parte dei casi non conosciamo i principi in base ai quali le macchine che usiamo funzionano. Siamo cioè utilizzatori passivi, la tecnica ci domina e noi non la dominiamo. Al fondo di tutto ciò vi è l’affermarsi di un modello di scienza sempre più costruito sull’idea che il fine ultimo della tecnica sia quello di favorire la produzione in funzione del
scientista sempre più astratto e scollegato dallo sviluppo umano ha prodotto una società globalizzata che riduce tutti i comportamenti umani alla logica dell’economia e ai soli diritti dell’individuo proprietario. Si è quindi prodotto un singolare rovesciamento di quelle che dovrebbero essere le regole di funzionamento di una società centrata sulla conoscenza. Una società che dovrebbe essere aperta all’innovazione
Ugo Maria Olivieri
condivisa e partecipata, al libero e produttivo scambio d’informazioni e di ricerca tra pari e quindi favorevole alla mobilità sociale, si ritrova -investita dalla crisi economica e indottrinata da un pensiero unico economicista - sempre più a tradire i suoi presupposti e a funzionare su logiche gerarchiche. Oggi la società della globalizzazione, lungi dall’essere una società aperta, è dominata da pratiche di appropriazione privata degli strumenti della conoscenza, un’appropriazione che va dalla crescente privatizzazione del settore dell’educazione, all’accentramento dell’accesso dei dati in Internet nelle mani di pochi grandi portali di ricerca, all’indirizzo della ricerca sempre più verso la ricerca applicata a scapito della ricerca di base. In anni non lontani il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom nel suo saggio La conoscenza come bene comune ha paragonato la destrutturazione del settore dei beni pubblici della società globalizzata alle dinamiche manifestatesi nella società settecentesca, quando le recinzioni delle terre e dei
pascoli comuni avevano sottratto alle comunità locali l’accesso ai beni essenziali per la sopravvivenza. Il concetto di “beni comuni” che la Ostrom mette in campo riguarda quindi alcuni beni materiali, quali l’ambiente, l’acqua, il mare, ed immateriali, la salute, l’educazione, la conoscenza scientifica e digitale che nel loro uso debbono rimanere accessibili ai soggetti sociali e debbono essere governati secondo dei modelli di gestione estranei al profitto e alla proprietà esclusiva proprio perché si tratta di beni essenziali alla vita associata. Il concetto di commons tende, quindi, a superare la distinzione moderna tra proprietà pubblica e proprietà privata e soprattutto a centrare l’attenzione sull’ interpretazione di un comportamento antropologico, dato come naturale e incontrovertibile, e, invece, relativo e storico. Ossia che i soggetti sociali siano incapaci di comportamenti relazionali positivi e collaborativi mentre nell’accesso ai beni prevarrebbe sempre la logica del profitto individuale intensivo ed escludente. Per la Ostrom, invece, è possibile verificare delle prati-
l’uomo al centro della conoscenza
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Ugo Maria Olivieri
che di buon uso dei commons, dei beni comuni, da parte delle comunità, persino di quei beni connotati da una scarsità naturale, come l’acqua e l’ambiente, soprattutto se si è in grado di disciplinare con una legislazione adeguata tale accesso. Da noi, in Italia, questo tema dei beni comuni è stato ripreso sotto il profilo giuridico dalla commissione Rodotà sui Beni pubblici, insediata nel 2008. La novità delle conclusioni prodotte dalla Commissione Rodotà è appunto il tentativo di fornire una definizione giuridica a tale categoria dei beni comuni che rifugge dalla dicotomia moderna tra proprietà privata e beni pubblici per ipotizzare una terza categoria centrata sulla tutela dell’uso pubblico e partecipato di
tacco mediatico in nome di un’efficacia e di una produttività di tipo privatistico, l’università ha visto diminuire, in termini percentuali e in termini assoluti, l’investimento di risorse pubbliche, concentratesi tra l’altro sui settori scientifici e sui settori scientifici più legati ai processi di produzione materiale e immateriale di merce. Questo processo è evidente anche negli usi linguistici e nelle denominazioni che percorrono i vari testi legislativi di riforma dell’istituzione. Se oggi si parla in termini di crediti e di debiti per misurare il sapere dei discenti, in termini di consiglio d’amministrazione e di valutazione d’efficienza per misurare i criteri di organizzazione del sistema formativo, e in termini di
questi beni e su un modello di gestione basato sulla democrazia partecipativa. Non è un caso che alcuni dei membri della Commissione sono stati, poi, tra gli estensori della memoria per i referendum sulla tutela della gestione pubblica dell’acqua e che il concetto di beni comuni ha conosciuto una sua fortuna politica a partire dal movimento referendario sull’acqua e sulla sospensione del nucleare. Rimane ora da capire e da mettere in pratica un’estensione di tale concetto dai beni materiali, caratterizzati da un regime di scarsità, a beni immateriali, quali la conoscenza, che in ogni uso si accrescono e si moltiplicano invece di consumarsi. Un buon terreno di prova è la difesa del carattere di bene pubblico dell’istruzione universitaria. Sottoposta da alcuni anni ad un vero e proprio at-
produttività e di standard di qualità per misurare la ricerca scientifica ciò avrà pure qualche significato. È evidente che una delle conseguenze di tale modello tecnocratico e privatistico della conoscenza è la distanza che ormai si è determinata, anche in termini d’investimenti economici, tra la cultura scientifica e quella umanistica, una scissione che sempre più viene teorizzata come irreversibile ma che sempre meno appare come auspicabile anche dai settori scientifici più accorti della nostra cultura. La partita è aperta tra un’idea di università come “bene comune”, capace di una formazione educativa complessiva del cittadino e non dell’utente, e una concezione dell’università come una variabile dipendente dal mercato e dalla produzione di merce-lavoro intellettuale.
la distinzione tra beni materiali e immateriali
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Ugo Maria Olivieri
docente di Letteratura Italiana alla Facoltà di Lettere dell’Università di Napoli, ha curato testi di Roger Caillois, della rivista francese “Change”, di La Boétie e Pirandello. Tra le sue pubblicazioni: Le Immagini della critica, a cura di, (Bollati), L’idillio interrotto (FrancoAngeli), Lo specchio e il manufatto (FrancoAngeli), Un canone per il terzo millennio, a cura di, (Bruno Mondadori). Collabora con L’Indice dei Libri e con Il Manifesto.
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I beni culturali come bene comune Una quindicina di anni fa, grazie all’interessamento di Maria Weber, Tra le proposte della Commissione Rodotà sui beni pubblici, che nel 2008 ha presentato un progetto di legge delega sui beni comuni, una di quelle più urgenti e disattese concerne a mio avviso i “beni culturali”. Con questo termine ci si riferisce anzitutto all’ingente patrimonio artistico e archeologico, che in Italia risulta disseminato in tutto il territorio nazionale con una concentrazione che non ha eguali nel resto del mondo. Due notizie di questi giorni danno un’idea precisa dell’incuria con cui la società italiana tratta il proprio patrimonio archeologico (ma non diversa, purtroppo, è la sorte di quello artistico e ambientale). Mi riferisco all’ennesimo crollo scoperto negli scavi di Pompei (è il diciannovesimo in otto anni, e questa volta riguarda la Casa della Venere in Conchiglia) e ai ricorrenti saccheggi della necropoli etrusca di Cerveteri, finalizzati a evitare la tutela Unesco in una delle aree archeologiche più importanti al mondo. In episodi del genere Pier Aldo Rovatti nel suo ultimo libro Noi, i barbari vede giustamente l’esempio eloquente della condizione barbarica in cui versiamo; la “sottocultura dominante” che le corrisponde induce a considerare i cosiddetti beni culturali solo come merci e valori di scambio.
“la cultura elevata a bene comune e al riparo dalla mercificazione”
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Fabio Ciaramelli
E perciò, con sconcertante miopia, se non si riesce a farli lucrare, li si abbandona al loro destino. Per opporsi a questa deriva, la commissione Rodotà propone di far rientrare i beni culturali nel loro insieme all’interno della categoria dei beni comuni. Sembrerebbe solo un problema di catalogazione e definizione, ma è invece un’importante conquista storica e giuridica. Alla categoria di beni comuni, da tener distinti tanto dai beni privati quanto dai beni pubblici, appartengono tutta una serie di beni necessariamente condivisi, quali i fiumi, i laghi, l’acqua, i parchi naturali, le foreste; ma anche i beni ambientali e paesaggistici e infine i beni culturali strettamente intesi. Ovviamente gran par-
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“la cultura come valore fondamentale per l’individuo”
te di questi beni sono anche risorse economiche, poiché rendono possibili attività redditizie e quindi producono benessere materiale. Ma innanzitutto i beni comuni rappresentano significati e valori sociali, che in alcuni casi costituscono un presupposto della produzione di reddito, ma in altri casi si limitano ad esprimere la coesione sociale e la visione del mondo di una certa epoca storica. Non essendo innanzitutto risorse, ma beni valorizzati dalla collettività, vanno salvaguardati e tramandati per il loro intrinseco valore e non per il profitto monetario o economico che se ne può ricavare. In quanto si distinguono tanto dai beni privati quanto dai beni pubblici, i beni comuni possono avere come proprietari in alcuni casi dei privati cittadini, in altri casi delle istituzioni pubbliche (il demanio dello Stato o altri enti). In nessun caso, quindi, il loro statuto di beni comuni dipende dal carattere pubblico o privato del loro proprietario. Dipende invece essenzialmente dal loro uso. Ciò che caratterizza i beni comuni, allora, è il fatto che questi beni siano necessariamente condivisi, perché, come scrive la commissione Rodotà, essi “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico,
Fabio Ciaramelli
anche a beneficio delle generazioni future. [‌] In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva�. Con queste parole, la proposta della commissione Rodotà registra e traduce in linguaggio giuridico una presa di coscienza socialmente diffusa,
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condivisione
patrimoni dell’umanità , patrimoni del s
singolo
Fabio Ciaramelli secondo la quale poter usufruire di certi beni è ormai considerato un diritto fondamentale degli individui, un elemento necessario allo sviluppo della personalità ciascuno. Ragion per cui – implicazione essenziale – occorre imperativamente garantirne il beneficio anche alle generazioni future, con tutto quel che ne consegue in termini di tutela dei beni comuni. Oltre alla condivisione e alla salvaguardia delle risorse naturali, rientra a pieno titolo tra i beni comuni la dimensione dei beni culturali, cioè di quei “beni comuni virtuali e artificiali” che, come ha scritto Carlo Donolo, “l’intelligenza umana ha progressivamente creato, in termini di conoscenza, saper fare, istituzioni, norme, visioni”. A ciò s’aggiunga la dimensione della tecnologia, cioè l’insieme dei dispositivi attraverso cui si rende possibile e produttivo l’interscambio uomo-natura. In questa accezione allargata i beni comuni culturali, oltre a rendere funzionale ed efficace il rapporto degli esseri umani con i beni comuni naturali, conferiscono a questo stesso rapporto senso e valore, rendendolo espressivo di significati culturali condivisi. Rispetto ai beni comuni naturali, quali ad esempio aria e acqua, i beni comuni culturali sono vissuti con minore consapevolezza della loro importanza. Tutto al più li si vede come un supplemento o un’aggiunta, magari fornita d’una sua spettacolarità che in alcuni casi potrebbe rivelarsi anche redditizia. Ma tutelare i beni culturali in quanto beni comuni, cioè beni necessariamente condivisi, non significa farne oggetto d’investimento economico solo in vista d’un possibile ricavo. Significa invece vedervi un fattore essenziale di promozione umana. La tutela dei beni culturali come beni comuni sarà anche nell’immediato un’attività improduttiva, ma è una forma indispensabile per la salvaguardia e la promozione di quel che fa umana la vita: la civiltà.
Fabio Ciaramelli
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Fabio Ciaramelli è professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università di Catania. Traduttore italiano di Castoriadis, La Boétie e Levinas, è membro del comitato di redazione della Revue philosophique de Louvain ed editorialista del Corriere del mezzogiorno. Il suo volume più recente è L’immaginario giuridico della democrazia (Giappichelli, Torino 2009).
http://www.lex.unict.it/didattica/scheda_docente.asp?id_docente=83
Âś La follia
salute un bene comune
Pietro Barbetta
L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che la salute è un bene comune. Io penso che la follia sia un bene comune. Qualcuno potrebbe sostenere che chi pensa ciò sia folle a sua volta. Non lo escludo, non credo che la follia appartenga solo a chi ha abitato la partizione manicomiale. Come operatore della salute mentale mi sento più vicino alla follia che alla psichiatria dominante di questi tempi. Una psichiatria fatta di diagnosi raffazzonate e semplificate, lontana mille miglia dal velleitario proclama dell’OMS, che viene sistematicamente calpestato dalle pratiche sanitarie. Chi non ricorda scrittori come Erasmo o Robert Burton che, prima della grande partizione manicomiale, hanno elogiato la follia, la melanconia. Burton (1577-1640) pubblicò L’anatomia della malinconia nel 1521 firmandosi Democritus junior. Non era medico, era pastore, aveva studiato a Oxford ed era noto per la sua profonda conoscenza dei classici. La sua opera prende spunto dall’incontro tra il medico Ippocrate e il filosofo Democrito, affetto da malinconia. Si tratta di uno dei pochi casi in cui il medico si mette nella posizione di imparare dal paziente. Ippocrate
apprende dal paziente e dal filosofo. La filosofia, vera dottrina della mente umana, viene per la prima volta riconosciuta come superiore in sapienza e competenza alla medicina. Ciò non accadrà quasi più fino a Freud, ove divenne noto che gli psicoanalisti laici (da Melanie Klein a Cesare Musatti) avranno qualcosa d’importante da dire in psicoanalisi. Democrito spiega a Ippocrate che la vera follia è quella del mercato, nel V Secolo prima dell’era cristiana già si era ben compresa la scultura di Cattelan davanti alla Borsa di Milano. Dopo Ippocrate, ma ben prima di Burton, la lista è assai lunga: Aristotele, Galeno, i filosofi arabi, i monaci della tarda antichità cristiana, Agostino, la cultura medievale fino a Petrarca hanno scritto a proposito dell’eccesso d’intelletto nel malinconico, Satur-nous. Chi non sa di letterati e artisti rinchiusi durante l’epoca manicomiale: Sade, Maupassant, Nerval, Campana. Le donne, numerosissime: Camille Claudel, Lucia Joyce, Janet Frame, Alda Merini. Coloro che, dentro la follia, diventano scrittori/artisti: Schreber, Wolfson, Zinelli, Merati. Le forme in questo caso sono due, quella dello scrit-
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¶ tore/artista rinchiuso per la molestia delle sue opere, oppure perché alterna alla scrittura/arte una vita dissennata, quella del folle che comincia a scrivere o a dipingere per trovare una via d’uscita alla follia. Ci sono casi particolari, come quello di Flaubert o Dostoevskij. La monumentale biografia sartriana di Flaubert, in cui l’idiozia dell’autore è descritta come una sorta di autismo che si trasforma e produce la grande opera letteraria. Dove si costruiscono il personaggio isterico di Emma Bovary o le allucinazioni di sant’Antonio. La capacità polifonica di Dostoevskij, descritta dal suo più grande studioso Michail Bachtin, che forse aveva condiviso la stessa sorte, Dostoevskij sotto lo spionaggio zarista, Bachtin, il suo studioso, sotto quello stalinista. Pratiche oppressive se ne sono perpetrate e se ne perpetrano anche fuori dai manicomi. Si pensi soltanto all’agghiacciante camioncino sanitario (la lobotomobile) guidato da Walter Freeman per le circa tremila lobotomie a domicilio, persino a casa Kennedy, o gli interventi intrusivi e rieducativi subiti da Marilyn Monroe, per restare alle sofferenze dei Kennedy. E oggi, proprio mentre scrivo, si pensi a quante persone sono legate ai lettini degli ospedali psichiatrici giudiziari e di molti servizi non giudiziari in Italia. Poi c’è chi, come a Trieste e alla clinica La Borde, il manicomio l’ha aperto, ridando vitalità alla follia,
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Franco Basaglia, Jean Oury, Felix Guattari, Ronlad Laing. Oppure chi ha esaltato la schizofrenia come possibilità dell’esistenza (Deleuze e Guattari), chi ha irritato il lettore usando il linguaggio della follia (Joyce), ecc. Un elenco che non termina, una classe indefinita di opere dei folli, sui folli, ispirate dalla follia, che elogiano la follia, che evocano i linguaggi della follia. Moosbrugger, personaggio folle dell’Uomo senza qualità, fa scrivere a Musil: “Se l’umanità potesse fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger”, contadino pazzo, serial killer, compagno d’arme di Jack lo squartatore, il chirurgo che obbediva agli ordini della Regina Vittoria. Cose terribili. Eppure la follia si sostiene tra il vuoto della demenza, il Lennie di Uomini e topi, e il pieno della malinconia, il Democrito di Ippocrate. Nel bel mezzo di queste eccedenze si colloca l’isteria, una follia del corpo, un male che sta sempre altrove. Mai dove lo cerchi, sempre da un’altra parte, come il libro della biblioteca di casa. Oggi assistiamo a una regressione dell’umanità. Si tratta del nuovo tentativo di nascondere la follia. Dopo un ventennio di follia che ha liberato i pazzi, ritorna la follia come vergogna, come improduttività, come dis-funzione. La prima mossa è l’invenzione degli antidepressivi contemporanei. Di nuovo il lemma ultimo ritrovato si presenta come formula positivista, progres-
Pietro Barbetta
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la follia come questione sociale
sista. La questione non consiste nel farmaco in sé, che può anche giovare. Quanta gente in più lo riceve? Quando uscirono questi prodotti si parlò della pillola della felicità, vent’anni dopo le prime ricerche sull’induzione al suicidio degli SSRI. Voci sostengono che l’acronimo, prima di essere SSRI, fosse SUI. SSRI sta per Selective Serotonine Reuptake Inhibitors (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). La prima versione era Serotonine Uptake Inhibitors (inibitori della captazione della serotonina). Il meccanismo consiste nel rallentare i tempi di permanenza del neurotrasmettitore serotonina tra il suo rilascio da parte di un neurone e la sua captazione da parte dell’altro. Tuttavia SUI non andava bene per il marketing, è l’inizio di SUIcide. La Nemesi vent’anni dopo.
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una sentinella dell’essere che non è vergogna, né disfunzione. E’ uscito di recente un documentario di Fabrizio Zanotti, L’orizzonte del mare. Parla di folli, ospedali giudiziari, manicomi tra Otto e Novecento, e di una certa psichiatria oggi (contenzioni al lettino, somministrazioni farmacologiche in assenza di una diagnosi chiara, senza il consenso, porte chiuse, trattamenti sanitari coatti a migliaia). Si tratta di un viaggio di Maurizio Salvetti, sociologo, e Massimo, ex internato in manicomio criminale. Massimo si unisce a Maurizio, alla ricerca di modi e abitudini di cura del disagio e della sofferenza. Così com’è in scena al Piccolo di Milano il monologo di Giulia Lazzarini , le memorie di un’infermiera di Trieste tra prima e dopo Basaglia. Si racconta una strana idea, che piano piano si fa strada nei pensieri dell’infermiera. L’idea che il folle
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sia un cittadino, come gli altri. Che non possa essere privato delle libertà in assenza di crimine, come recita la Costituzione. Il folle non è un criminale e la follia è patrimonio dell’umanità. Che la follia sia una questione sociale e di relazione è evidente fin dalle prime dichiarazioni riguardo alla sua insorgenza. Il paziente del medico ha dei sintomi propri, il folle no. Non accompagnerò mai un amico o un parente dall’internista dichiarando che mi fa male la sua pancia. Mentre il delirio è sempre qualcosa che riguarda l’altro che lo considera tale. Io ho il diritto di raccontare i miei deliri all’analista, purché si manifestino nella forma del sogno. Ho il diritto di chiedere di pubblicare un delirio, purché trovi un editore o un gallerista consenziente. Fuori da ciò, lo sfondo di queste possibilità, si chiama follia.
Pietro Barbetta
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Pietro Barbetta
insegna Teorie psicodinamiche presso l’università di Bergamo, è didatta di psicoterapia presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia, collabora con il Centro Isadora Duncan e coordina il seminario permanente Bateson, Deleuze, Foucault www.bidieffe.net
i casi celebri della nostra cultura
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23 docente Io Come Docente È una rivista di Ebookservice Srl,
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