cano, precedono, guardano indietro me arrancare, me scavare, me stupito di trovare niente. Lo scavo inutile nella memoria: gli anfratti, i pertugi, i cunicoli. Il tempo obbliga alla distanza, esige l’accettazione dell’assenza, non ammette cedimenti. A me cedono le gambe, mamma, posso ricordarti solo in ginocchio.
Ho fatto la mia prima lavatrice da quando sei sparita, da quando qualcuno ha deciso di portarti via. Da quando, forse, hai voluto tu, amore, andartene via. Ho dovuto cercare il pdf del manuale d’uso sul sito della Candy, per capire dove lasciar cadere la polvere del detersivo e il liquido dell’ammorbidente. C’erano queste tre vaschette, tutti quei comandi, tutte quelle possibilità di lavaggio. Nella mia superbia, non sapevo nemmeno quanto tu fossi più tecnologica di me che smonto e rimonto i computer e per questo mi sentivo un piccolo Dio. Mi facevi sorridere quando guardavi questo monitor enorme, quando guardavi le schede video e le schede madre in giro per la mia stanza, e ti faceva disperare perché non potevi pulirla come avresti voluto, a causa dell’ammasso di libri, carte, giocattoli, lacerti di computer. E mi sentivo quasi intelligente a farti vedere l’universo che rimandavano gli schermi dei miei computer. Sorridevo del tuo stupore sempre 21
trattenuto, sempre mezzo cieco, mi si gonfiava il petto per la mia scienza. La mia scienza che è crollata davanti alle manopole della tua lavatrice. Tu eri invece maestra di lavatrici, astrofisica, e mi hai reso, poco fa, la misura esatta della mia ignoranza e del mio orgoglio. Tu sapevi tutto, io nemmeno che esistesse il prelavaggio, che l’universo potesse girare a diverse velocità di centrifuga, in quella piccola lavatrice da poveri che eri riuscita a comprarti – l’avevamo scelta insieme quattro anni fa, ti aggrappavi al mio braccio, mi stringevi mentre la guardavamo esposta nel centro commerciale. Io avevo te, a stringermi, avevo tutta la felicità possibile al mio fianco e non ne avevo cura. Facevo cadere la polvere profumata come la scimmietta che sono. E tu, la mia mamma scimmia, non potevi più spulciarmi. Dov’eri tu, prima, mamma scimmia, mentre mi assalivano i pidocchi? Dov’era la tua mano misericordiosa mentre versavo l’ammorbidente nella vaschetta sbagliata? Ho aspettato i novanta minuti del ciclo. E la centrifuga mi faceva piangere, era come la tua gioia mentre vagavi tra il bagno cieco e il ridicolo sgabuzzino dove stanno la lavatrice e il tuo guardaroba. Quand’ero una scimmietta piccolissima, mi ricordo che l’altra scimmietta tua adorata, Paolo – Pallinù, come avevi preso a chiamarlo in questi ultimi anni – passava ore a fissare l’oblò della lavatrice, 22
il turbinio della centrifuga. Mi ricordo che andavo a prenderlo, gli tiravo degli schiaffoni per distoglierlo da quella sua trascendenza fatta di vibrazioni e onde e giri da supernova, aveva memoria del cosmo, Pallinù, di quell’origine che solo i bambini che eravamo potevano ancora intuire (ora i bambini hanno operato il salto definitivo di specie: gli è scattato qualcosa nel cervello, i bambini ora non sono più. Semplicemente perché sono diventati l’azzeramento, la nuova specie disumana, quella da cui si riparte per finire). Eravamo le tue scimmiette, Pallinù quella ancora più piccola. Pallinù incantato davanti all’oblò, come in un sottomarino, in un’astronave, a sondare con la mente gli abissi dell’universo. Ho tolto i panni dalla lavatrice. Avevo messo tutto: le mie magliette e le mutande nere, i jeans e le lenzuola che mi avevi lasciato. Avevi approfittato del mio giro d’Italia a presentare il mio romanzo d’esordio per togliere ogni granello di polvere dalla mia stanza ammorbata dal fumo. Quella dove stavo da solo, lasciando te di là, in un’altra solitudine. Eravamo due solitudini comunicanti, due anime che potevano sopportare il silenzio solo perché in qualunque istante potevamo aprire una porta e incontrarci. Ho steso senza fatica le mutande e le magliette sugli stendini che da un mese giacevano abbandonati sotto la tettoia, il regno dei 23
nostri gatti. Gli unici nipoti che sono stato capace di regalarti, nella mia sterilità. Ho tirato fuori le lenzuola dalla bacinella in plastica azzurra. Io che ti sovrastavo di venti centimetri mica riuscivo a piegare le lenzuola prima di stenderle. E non so come facevi tu, piccola com’eri. Erano queste le tue magie, i regali che mi facevi ogni giorno e che ogni giorno mi sembravano dovuti, regali per i quali non ti ho mai ringraziato. Non ti ho mai ringraziato nemmeno per questa fatica delle lenzuola enormi che io ho bellamente lasciato strisciare sul cemento pieno di peli e piscia di gatto. Perché eri tu a pulire anche quel cemento, con le tue secchiate di acqua, con lo spazzolone. Per permettere ai gatti nostri di essere felici e alle lenzuola nostre di essere pulite e profumate, per farci dormire bene. Le lenzuola ora profumano del tuo ammorbidente, ma sono piene di pelucchi bianchi. Mi sono reso conto di aver lasciato un fazzoletto di carta appallottolato nei jeans da dieci euro, uno di quelli che uso per pulire il seme residuo dal mio corpo, da un corpo altrui, da una superficie, dopo una qualunque prova dell’amore. Quanti ne hai buttati via, nella tua vita interrotta all’improvviso. Fazzoletti di carta e poi preservativi dei miei amorini transitori e infelici cui facevo il nodo per non incollare il cestino rosso con quel mastice che mi esce dai testicoli. 24
Insomma, il fazzoletto inseminato si è sbriciolato nel cesto d’acciaio della lavatrice. Ha creato questo suo firmamento, questa polvere di stelle, questi miei figli sminuzzati sulle magliette, sulle mutande, sulle lenzuola. A ricordarmi ancora la mia sterminata paternità, il mio essere creatura di attraversamento, una di quelle che danno via la propria vita, quelle che si regalano tutte, e schizzano sulle lenzuola, nelle bocche, nelle fiche mesmerizzate dagli anticoncezionali di nuova generazione, sulle scrivanie, nei preservativi. Non le stirerò, le lenzuola. Non sono capace, non ho mai voluto imparare quello che aveva fatto di te una schiava sin da bambina. La piccola stiratrice perfetta, la ragazzina magrolina con le tette grandi, polpose, preda del «signore» che ti prese da dietro, tappandoti la bocca, schizzandomi fuori dai suoi coglioni pelosi, gettandomi nel tuo ventre dopo i suoi quattro colpi da gioielliere. Io sono la scimmietta piccola che non ha più le tue mani che la spulciano, la tua bocca che la purifica, le tue labbra che baciano il suo culetto rosa. Io non voglio stirare, l’hai già fatto abbastanza tu, fino a che quella vena non ti è scoppiata nel cervello e te lo ha inondato tutto. Avevi appena staccato la presa del ferro da stiro, amore.
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