© Paul Levitton
Ernest van der Kwast (Bombay, 1981) è uno scrittore e conduttore del talkshow olandese De Unie Late Night. Dopo avere vissuto per qualche anno a San Genesio, vicino a Bolzano, è tornato in Olanda. Il suo romanzo autobiografico Mama Tandoori (Isbn, 2011) è stato un bestseller in Olanda e in Italia.
Isbn Edizioni via Conca del Naviglio, 10 20123 Milano Direzione editoriale: Massimo Coppola Senior editor: Mario Bonaldi Editor e diritti: Sara Sedehi Redazione: Matteo Alfonsi, Antonio Benforte, Linda Fava, Laura Steiger Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi Ufficio commerciale: Caterina Vodret Art director: Alice Beniero Copyright © Ernest van der Kwast, 2012. Edizione originale De Bezige Bij, Amsterdam. Questo libro è stato pubblicato con il sostegno della Dutch Foundation of Literature
© Isbn Edizioni S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: Giovanna’s navel
ernest van der kwast
L’ombelico di Giovanna Traduzione Alessandra Liberati
special books
Fu il giorno più bello della vita del postino. Il suo telefono iniziò a pigolare e a vibrare nell’istante in cui infilò una busta bianca nella cassetta delle lettere del civico 5b. Prima ancora che la busta cadesse sul pavimento di legno dietro la porta, il postino si era premuto il telefono contro l’orecchio e aveva sentito la moglie gridare: «Arrivano! Arrivano i tesori!». Una lacrima gli spuntò dall’occhio sinistro e lì per lì il postino non seppe cosa dire. Da otto mesi e dodici giorni sapeva che quel
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momento sarebbe arrivato e da circa sette mesi era al corrente del fatto che non avrebbe avuto un figlio solo, ma ben due. In una tersa mattina di ottobre il ginecologo aveva detto a sua moglie: «Lei aspetta due gemelli». Il postino guardò il monitor su cui si distinguevano due esserini curvi, in bianco e nero, immersi in un sonno serafico. Non poteva crederci. «Due» sussurrò «due, due.» Un numero che per interi minuti fu indecifrabile. La sera il postino aveva appoggiato la testa sulla pancia della moglie. «Tesori» aveva sussurrato attraverso l’ombelico. «Siete i nostri tesori.» E da quel giorno chiamarono tesori gli esserini curvi e serafici nella pancia della madre. Venne allestita una stanza apposta per loro, vennero lavorati calzini a maglia e le suocere ricevettero la notizia che avrebbero avuto dei tesori come nipoti. Una suocera fu così felice che preparò una torta
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di cioccolato, pere e noci e la divorò tutta. E per la prima volta da molto tempo non fu costretta a pensare che stava mangiando da sola. «Vengo a prenderti» disse il postino alla moglie e d’impulso si sfilò dalla spalla la borsa piena di lettere, estratti conto e bollette e la lanciò oltre il muro del giardino del civico 5b. Salì sulla piccola Fiat bianca delle Poste Italiane e corse verso casa a tutta velocità. Quel giorno gran parte degli abitanti del quartiere Rencio di Bolzano attese invano lo scatto della cassetta delle lettere. Alcuni inveirono contro le poste, altri contro tutto il paese. E in ospedale la moglie del postino inveì contro chiunque le venisse in mente. Con perle di sudore sulla fronte e sul naso, con gli occhi socchiusi, ma soprattutto con maledizioni inconcepibili lanciate a squarciagola, sopportò i dolori più forti che avesse mai provato in vita sua.
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Per prima arrivò Giselle. Era piccola, rossa e bagnata, gridava e dimenava le braccia come se volesse mettere in chiaro a tutti che era lì. Poi arrivò Fabrizio, anche lui piccolo, rosso e bagnato, ma silenzioso e immobile. Solo dopo che l’ostetrica gli ebbe massaggiato e picchiettato le piante dei piedi e delle mani, Fabrizio diede un segno di vita. Sospirò. I due neonati vennero adagiati sulla pancia della madre. Per la prima volta sentirono il contatto con la superficie esterna del corpo in cui avevano fluttuato e galleggiato così a lungo. Il postino guardò i suoi bambini, suo figlio e sua figlia, i suoi tesori. E guardò sua moglie che aveva il viso bagnato di lacrime e gli angoli della bocca che sembravano sollevarsi. Si sentì come non si era mai sentito prima, come non avrebbe mai immaginato di sentirsi: appagato e felice. Ma questa è un’altra storia.
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La lettera arrivò senza odori. L’inquilino del civico 5b ripiegò il giornale, si alzò dalla sedia e andò alla porta. Si chinò e raccolse la busta dal pavimento di legno. Davanti, in una tonda grafia femminile, c’era scritto il suo nome: ezio ortolani. Aprì la busta con il mignolo. Dallo strappo non si sprigionò alcun odore né un profumo che raggiungesse il suo naso né atomi dimenticati che lo costringessero a premersi la carta sul viso. La busta conteneva soltanto una lettera e la lettera iniziava così: Caro Ezio, perdonami se ti scrivo e se ti rispondo solo ora. Ho scritto questa lettera decine di volte, forse anche cento. Ma non sono mai riuscita a spedirla. Le parole che stai leggendo sono vecchie e fugaci. L’inchiostro è brillante, la mia grafia non è cambiata, ma le lettere provengono da un
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pozzo profondo. Erano intrappolate nel mio petto, non riuscivo a pronunciarle e in seguito, quando sono finite sulla carta, le ho cancellate e trasformate in macchie. Ho provato così tante volte a non scriverti. Il desiderio ha vinto, gli infiniti pensieri su noi due hanno vinto. Questa lettera ha impiegato la vita di una donna per raggiungerti. Per favore non stracciarla. Non c’è più molto tempo. I giorni iniziano ormai a scarseggiare. Ezio, siamo vecchi. Io sono una donna con i capelli bianchi e rughe profonde come solchi. Tu, chissà, sarai lento come una lumaca, oppure avrai bisogno di una lente di ingrandimento per leggere questa lettera. Ma quando penso a te, non vedo un vecchio. Vedo un ragazzo di ventidue, ventitré anni, nel pieno della vita. Vedo te, Ezio, le tue forti braccia intorno a me.
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Ed ecco, d’un tratto, giunsero gli odori, come se gli venisse messo davanti un piatto di pasta fumante. Linguine al cartoccio. Non sentì però il profumo dei calamari, dei gamberi e dei frutti di mare né della salsa di pomodoro, del prezzemolo tritato e dell’aglio che aveva insaporito l’olio d’oliva. Ezio avvertì un profumo di fiori, di vestiti lavati e stesi all’aperto e fu allora che sentì il profumo dei suoi capelli, del suo collo e della porzione di pelle intorno all’ombelico. Un profumo travolgente che annusò, trattenne, fece circolare in tutto il corpo e, dopo lungo girovagare per la pancia e il cuore, gli atomi dei fiori e dei vestiti estivi arrivarono nei cunicoli della sua memoria. Qui vennero ricercate con affanno le immagini legate a quei profumi, i capelli e il collo, la pelle e l’ombelico. E lentamente presero forma le sembianze di una ragazza a piedi nudi, di una donna pugliese di vent’anni, dell’irresistibile Giovanna Berlucchi.
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Le sue parole proseguivano: Eri giovane e volevi baciarmi in ogni momento del giorno. Ma ricordo anche le tue mani che tremavano. Avevi paura e mi amavi. Caro Ezio, voglio sapere se le tue dita desiderano ancora la mia pelle, se oggi i tuoi occhi mi guarderebbero, se oggi avresti voglia di baciarmi. Voglio esserti vicina, starti distesa accanto, ascoltare il tuo respiro. Cambiano le stagioni, ma i giorni sono tutti uguali. Oggi ha lo stesso odore di ieri, e ieri ha lo stesso sapore dell’altro ieri e l’altro ieri ha lo stesso suono di tutti i giorni precedenti. L’unica cosa che ancora distingue un giorno dall’altro è il sentimento. Il desiderio che diventa più grande, che sembra crescere ogni giorno che passa. Ecco le parole vecchie e fugaci che ho trattenuto nel mio cuore così a lungo: ti amo.
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Non ci vediamo da più di sessant’anni. Non so se ti ho pensato ogni singolo giorno, ma so che ogni singolo giorno mi sei mancato. Pensi ancora a me e all’estate? O sei ancora arrabbiato? Mi avevi scritto che temevi di restare arrabbiato per sempre. Mi dispiace, Ezio, se solo ora riesco ad amarti. Mi dispiace tremendamente. Voglio chiederti di dimenticare tutti gli anni che non abbiamo condiviso. Invertiamo il tempo, freniamo la ruota, arrestiamola e riportiamola indietro, indietro ai tuoi occhi raggianti e ai miei capelli scuri e se siamo forti abbastanza, più forti degli ingranaggi devastanti del tempo, saremo a Lecce, un martedì mattina d’ottobre, nel 1945. Inverti la direzione del treno sul quale viaggiavi verso l’orizzonte così apparirai invece di svanire, scenderai dal treno invece di salirci, verrai da me invece di andartene per sempre.
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È primavera a Lecce. Il mio cuore batte come quello di una ragazzina che corre attraverso campi sconfinati. Non essere più arrabbiato, Ezio, sii forte. Vieni da me.
Si premette la lettera sul viso, la carta bianca sulle guance cadenti. E la rivide, la donna di vent’anni con i piedi nudi. Era luglio, era il 1945. Una giornata calda. L’aria vibrava in lontananza. Ezio era andato in spiaggia con il fratello più giovane. Avevano percorso otto chilometri a piedi. Adesso erano distesi sulla sabbia e guardavano le donne camminare sul bagnasciuga in costume da bagno. La guerra era finita; non c’era lavoro, i giorni erano lunghi. Cos’altro poteva fare un uomo italiano se non stare a guardare le donne? Ogni giorno Ezio e suo fratello andavano a piedi da Lecce a San Cataldo, una
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camminata che si poteva fare tranquillamente in un’ora e mezzo, ma che certe volte, per l’afa e la gente che incontravano, durava anche il doppio. Quel giorno erano stati fermati per strada da amici, zie e anziani, e trattenuti con i loro lunghi racconti. I fratelli Ortolani arrivarono a San Cataldo solo dopo mezzogiorno e adesso se ne stavano distesi con la pancia vuota nella sabbia calda e guardavano le donne in costume cercando di passare inosservati. Non che ci fosse molto da vedere, i costumi erano interi e alcuni arrivavano a coprire anche le ginocchia e le spalle. I momenti più avvincenti erano quando una donna si piegava in avanti per sistemare l’asciugamano o quando usciva dall’acqua e correva verso la spiaggia per anticipare le onde. Attimi in cui non ti serviva la fantasia di una decina di scrittori per avvertire un formicolio al basso ventre. Bastava tenere gli occhi aperti.
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Il resto della giornata lo si passava a sognare e a fantasticare su costumi da bagno di tutte le dimensioni possibili, ma di un solo tipo: il costume intero monopezzo. Era il luglio del 1945. Tre mesi dopo la liberazione dell’Italia e dodici prima dell’invenzione del bikini. L’ingegnere meccanico francese Louis Réard non aveva ancora ereditato il negozio di biancheria intima della madre. Doveva ancora leggere in una rivista delle misure di risparmio dell’esercito americano. Doveva ancora stupirsi della scelta di una scollatura più profonda sulla schiena per i costumi da bagno delle soldatesse. E soprattutto, Louis Réard doveva ancora avere la semplice intuizione che con un costume a due pezzi si risparmiava molta più stoffa. E doveva ancora venire bombardata un’isola tra la Papua Nuova Guinea e le Hawaii, un atollo nell’Oceano Pacifico con una manciata di abitanti costretti a raccogliere tutte
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le loro cose e ad abbandonare le loro capanne e l’isola. Per due anni le famiglie vissero su un’isola corallina dove gli alberi davano frutti troppo scarsi e i pesci erano avvelenati; così vennero fatti ritrasferire e alloggiati in tende su un fazzoletto di prato vicino all’aeroporto di un altro atollo per spostarsi di nuovo dopo sei mesi sull’isola di Kili. Ma anche lì c’erano la fame e la sete, gli abitanti dimagrivano e i loro figli morivano; alla fine, nel 1969, ebbero il permesso di tornare sull’isola di Bikini perché era stato dichiarato che sull’atollo non c’erano tracce di radioattività. Eppure nel 1978 emersero nuove minacce legate alle radiazioni e gli abitanti vennero evacuati e costretti ad abbandonare ancora una volta le loro cose, le capanne e l’isola. Ma anche questa è un’altra storia. Ezio ricevette una gomitata da suo fratello. La gomitata era un segnale per indicare che
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una donna stava correndo fuori dall’acqua o che aveva assunto una posizione tale che il suo costume avrebbe potuto strapparsi da un momento all’altro, o almeno questo era ciò che sussurrava l’immaginazione. Ezio alzò lo sguardo, perlustrò con i suoi occhi limpidi la battigia del mar Adriatico. E fu allora che la vide per la prima volta, anche se i suoi occhi non sapevano cosa stavano guardando. Ci volle più di un minuto prima che esclamasse: «Vedo un ombelico». Suo fratello non riuscì a dire altro che: «Anch’io». Sulla battigia c’era Giovanna Berlucchi. Inaccessibile, incredibilmente bella. Aveva appena vent’anni, capelli lunghi e scuri che portava sempre sciolti. Quella mattina era uscita di casa nel mezzo di una lite. Grida e porte sbattute.