L’INVASIONE DEGLI SPACE INVADERS
© Jeremy Enness
Improvvisamente sembra che il nostro pianeta sia caduto nelle grinfie degli alieni. Nei pub, nei bar, nelle stazioni di servizio sulle autostrade, nei chioschi di kebab, nei negozi di dischi, negli aeroporti del Texas, negli atri degli hotel bengalesi, nelle case chiuse svedesi, nelle discoteche parigine, agli angoli delle strade del Greenwich Village, nelle gelaterie, nelle sale d’attesa dei dentisti, nelle boutique unisex – e in tutte le sale giochi del globo terrestre, dove si aggirano pallide creature consumate dal vizio e tiratardi simili a pipistrelli – si può assistere allo spettacolo sfavillante di mille incontri ravvicinati, di mille guerre stellari. L’invasione degli ultracorpi, La notte dei morti viventi, Destinazione… Terra! non sono film, ma storia di tutti i giorni, cose che stanno accadendo proprio davanti ai nostri occhi. 14
Le strutture di pronto soccorso cittadine si trovano a fronteggiare la diffusione di nuovi e pittoreschi disturbi: il gomito da Asteroids, il dito da Pac-Man, la scoliosi da Galaxian, l’ernia da Centipede (e Dio sa quali danni questa roba sta provocando ai nostri occhi). Le stazioni di polizia custodiscono fascicoli strapieni di verbali relativi a reati connessi al mondo degli Invasori venuti dallo Spazio. In Inghilterra un bambino ha sgraffignato il sussidio di disoccupazione di suo padre nonché i soldi destinati al funerale della nonna, e li ha investiti in migliaia di partite a Space Invaders nel negozietto di dolciumi vicino casa. (A quanto pare i videogiochi hanno anche contribuito a incentivare la prostituzione minorile. I ragazzini si concedono per un paio di partite ad Astro Panic e cose simili. Ma di questo parleremo più approfonditamente in un secondo momento.) A volte l’Invasione colpisce un’intera nazione, con conseguenze di portata geopolitica: due anni fa in Giappone la febbre da videogiochi ha causato una carenza di monetine, che lì normalmente abbondano. In tutto il pianeta, il giro d’affari dei videogiochi supera quello dell’industria cinematografica e di quella discografica. Ormai è chiaro: gli Invasori venuti dallo Spazio stanno invadendo la Terra.
L’ALGEBRA DEL BISOGNO Ci troviamo davanti a un’ossessione di portata mondiale che potrebbe diventare un problema di non poco conto. Ecco i miei sintomi: a periodi di astinenza e disintossicazione, con relative crisi e tracolli nervosi, si alternano fasi di abbuffate pazzesche. La dipendenza può scattare dopo un’innocente partitina nella sala giochi di una località di mare, per esempio, o nella sala d’attesa di un aeroporto. Uno gioca, si diverte e crede che la cosa finisca lì. Senza apparenti strascichi. Solo che a un certo punto la vittima scopre che questi videogiochi infernali si trovano ovunque: infestano il pub del tuo quartiere, il bar sotto l’ufficio dove fai la pausa pranzo… Un po’ contrariato, sorridi e decidi di fare un altro paio di partite. Poi cominci a giocare con frequenza regolare. Ti ritagli un po’ di tempo per 15
questo svago. Metti da parte le monetine. Ti capita di rivedere facce familiari e furtive, in fila davanti ai cabinati. Le chiacchiere a mezza voce vertono tutte su smart bomb e iperspazio, scorte di carburante e schermi curvi. «Se colpisci la Nave del Mistero al quindicesimo tiro guadagni 300 punti.» «Se spari a raffica sul Pod annienti tutti gli Swarmer.» «Sempre che non si formino in un altro quadrante.» «Ieri qui ho visto uno che ha fatto 9000 punti soltanto con la prima vita.» «Aspetta che diventino verdi, poi piazza la nave madre sulla destra.» «Attento, arrivano le palle di neve.» «Vai col propulsore!» «Restringi l’angolo!» «Su!» «Giù!» Pian piano, il gergo e il linguaggio in codice cominciano a diventare comprensibili. Quella strana confraternita clandestina apre le porte e ti lascia entrare. E ben presto ti ritrovi a punteggiare le tue serate con capatine prudenti nella sala giochi più vicina. Non sembra male, come posto: c’è sempre qualcuno pronto a cambiarti i soldi, l’atmosfera è rilassata, i buttafuori sono robusti e rassicuranti. E queste tue capatine in sala giochi cominciano a farsi sempre più frequenti, finché a un certo punto ti rendi conto (con sgomento e preoccupazione) che gli ultimi cento metri li stai facendo di corsa. Cominci a mentire ad amici e familiari. «Esco a fare due passi» o «Devo solo spedire questa lettera» sono le scuse che ti escono di bocca ogni volta che te la svigni dalla porta di casa. (Ti vergogni e ti senti in colpa. Vorresti andare a nasconderti o sprofondare sottoterra!) Di notte, la mente della sfortunata vittima è un campo di battaglia pieno di crateri, sorvolato da missili sibilanti e infestato da alieni bellicosi. A un certo punto, la sfera lavorativa comincia a risentirne. E anche la salute. Per non parlare delle tasche. Le bugie si fanno sempre più frequenti e audaci. Provi disgusto per te stesso. Chiunque abbia avuto problemi di dipendenza da alcol o droghe si riconoscerà in questo monologo interiore: «Adesso credo di avere finalmente la situazione sotto controllo. Non c’è problema, l’importante è 16
sapersi moderare. Ieri sono stato bravissimo, non ho giocato praticamente mai. E quindi stamattina mi sono concesso qualche partita. In fondo nessuno è perfetto, no? Va bene, stasera non gioco, tanto per dimostrare che posso smettere quando voglio. Ma che male c’è, in fondo? Perché la prendo tanto sul serio? È solo un gioco. Che male possono fare un paio di partite…». Ed ecco che il videodipendente si abbandona a tre ore di gioco sfrenato. «Non toccherò mai più questa roba» giura e spergiura. «Basta. Ho deciso. Ne ho abbastanza.» Venti minuti dopo, rieccolo curvo sullo schermo, con le spalle e la schiena in fermento, il volto tirato ma esultante, gli occhi illuminati dal conflitto galattico che deflagra davanti a lui.
IMPROVVISAMENTE UN’ESTATE È successo nel 1979. Mi trovavo nella Francia meridionale, ed era l’estate che ha segnato l’inizio dell’Invasione. Ero seduto in un bar vicino alla stazione ferroviaria di Tolone. Me ne stavo per i fatti miei a bere un caffè e a scrivere lettere. Nel bar c’era un flipper – una vecchia carcassa cigolante con motivi ornamentali di carte da gioco – e qualche avventore abituale. Improvvisamente si è sentito un certo trambusto: il direttore, un uomo grasso con il grembiule, se ne stava sull’uscio a supervisionare il posizionamento di un affare enorme che era appena stato consegnato; qualcosa che sembrava un frigorifero coperto da un telo veniva spostato a fatica da robusti omaccioni. Alla fine l’hanno sistemato in un angolo e collegato alla presa di corrente. Il velo è stato sollevato. Ed ecco: l’invasione degli Space Invaders era cominciata. Prima di allora avevo giocato più di una volta con le macchinette da bar. Avevo guidato automobiline, aeroplanini, minisottomarini, avevo sparato a cowboy, carri armati, finti squali. Ma quel giorno ho capito subito che mi trovavo davanti a qualcosa di diverso, qualcosa di speciale. Lo schermo illuminato da immagini di un’intensità cinematografica, l’infinita capacità di fuoco, la straordinaria reattività della torretta difensiva, il sibilo e lo scoppio dei missili, 17
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il battito cardiaco in sottofondo che pulsa sempre più veloce, l’inesorabile calata dei mostri con le loro bombe. Ecco la mia strabiliante missione: impedire agli alieni di distruggere la Terra! Il bar quella sera chiudeva alle undici. Io sono stato l’ultimo ad andare via, stanco ma contento. La moglie del proprietario mi guardava con un sorriso pieno di comprensione mentre io mi allontanavo barcollante. All’inizio ho pensato che fosse una cotta estiva. Ma in cuor mio ho sempre saputo che si trattava di una cosa seria. Ero estasiato, trasfigurato, rapito. Ero stato invaso. Ora, dopo quasi tre anni, la passione non si è ancora estinta. È vero che io e Space Invaders non ci frequentiamo più così assiduamente, ma siamo rimasti buoni amici. Ultimamente passo il tempo con un harem di videogiochi più nuovi e sgargianti. Quando mi stufo di uno, ecco che ne esce subito un altro a rimpiazzarlo. (Ogni tanto mi capita di trascorrere una serata nostalgica con Space Invaders, il mio primo amore.) L’unico problema è che ormai i videogiochi mi risucchiano tutto il tempo e tutti i soldi. E non riesco più a trovarmi una ragazza.
L’ULTIMA ONDATA Secondo voi sto esagerando? Forse sì, ma solo un pochino. Dopotutto il fattore ossessione-dipendenza è indispensabile per il successo di un videogioco: si direbbe che la videodipendenza sia programmata nella macchina stessa. Il bisogno illogico è parte integrante dei circuiti logici di qualsiasi meccanismo elettronico. Quasi tutti i giochi prevedono livelli di difficoltà e complessità sempre crescenti. «Devi sviluppare una forma sana di frustrazione» dice il vicepresidente dell’Atari (la società che ci ha dato Asteroids). «Devi fare in modo che il giocatore dica: “Cavolo, con un’altra monetina posso fare di meglio”.» Anche l’Atari può fare di meglio. Più si va avanti nel gioco, più le trovate diventano spettacolari: nuove luci, nuovi effetti sonori, nuove configurazioni di astronavi. Come diceva E.M. Forster sul romanzo, la cosa che ti spinge a proseguire è il puro e 19
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semplice desiderio di sapere come andrà a finire. E in effetti è proprio così: i videogiochi sono una vera e propria forma di narrazione. Più soldi ci metti, più diventi bravo. Più diventi bravo, più a lungo vai avanti nella storia. E tutti noi conosciamo il fascino che le storie esercitano sui ragazzini. Sullo schermo di un videogioco di mia conoscenza, dopo che hai sgominato la Prima ondata di Invasori, ti compaiono davanti agli occhi le seguenti parole: well done, earthling. this time you win. now do battle with our super forces ( complimenti terrestre . questa volta hai vinto . ma ora dovrai vedertela con i nostri supereserciti). E quasi come un monito, di colpo lo schermo si riempie di mostriciattoli verdi e argentati. Oddio! Agghiacciato, il terrestre si ritrae per un istante, ma subito dopo inizia a combattere contro la Seconda ondata. Che lo fa a fettine. Il terrestre infila altre monetine e si chiede come potrà mai essere la Terza ondata. Questa curiosità gli costerà molto cara. A tutt’oggi, non si conoscono terapie che aiutino a vincere la dipendenza dai videogiochi. Da alcuni, comunque, è possibile disintossicarsi. Vi porto come esempio la mia esperienza personale con Space Invaders. Mi ci sono volute più di trenta partite per riuscire a sbaragliare la Prima ondata – o «livello» – di nemici alieni. La Seconda ondata comincia nella parte bassa dello schermo, non lontano dalle truppe difensive, con la sua pioggia di bombe. E via via che il gioco va avanti le ondate si avvicinano, fino ad arrivare alla Quarta, che parte a pochi centimetri dalla torretta difensiva. Ogni ondata mi è costata qualcosa come cinque sterline. Finché non mi sono trovato alle prese con la Nona. Che ha inaugurato un periodo di impegno ludico maniacale e spese folli. Alla fine però l’ho sgominata… e indovinate un po’ cosa succede a quel punto? Gli Invasori battono in ritirata, si ritorna alla Seconda ondata e si ricomincia tutto da capo. Come molti videogiochi, anche questo è virtualmente infinito. E tutte le storie che girano nelle sale giochi – punteggi di oltre cinque milioni, ragazzini che hanno giocato per cinquantadue ore di fila con una sola moneta da venticinque centesimi – improvvisamente acquistano plausibilità. Non dimentichiamo che questa è un’epoca in cui la gente è disposta a fare i sacrifici più massacranti per comparire in una nota a piè di pagina del Guinness dei primati. 22