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MADE IN CHINA
Quaranta pagine di notizie e approfondimenti per raccontare il 2012 dei lavoratori cinesi SINDACATO
Dove va il sindacato cinese? RIFORME
Declino e ascesa dell’impresa di Stato SOCIETA’ CIVILE
ONG del lavoro: adattarsi per sopravvivere DIRITTI
La legge come un’arma per i lavoratori? ANNO 1 | 2012
foto © Daniele Dainelli
Un anno di Cina al lavoro
20 MADE IN CHINA 12 Un anno di Cina al lavoro
MADE IN CHINA - Un anno di Cina al lavoro (2012) è un progetto di ISCOS Cisl finanziato dagli Iscos regionali dell’Emilia Romagna, del Piemonte, della Toscana e della Sicilia e realizzato in collaborazione con Cineresie.info. A cura di: Ivan Franceschini, Tommaso Facchin Progetto grafico: Tommaso Facchin Hanno collaborato: Laura Battistin, Jiang Hongzhen, Kevin Lin Per ricevere la newsletter mensile China/News scrivi a comunicazione@iscos-cisl.org. La versione pdf di Made in China è scaricabile su www.iscos.cisl.it
Foto di Copertina: “Yuan Cheng va in città”, tratta dal reportage “Schiavi del Mattone” di Daniele Dainelli © Contrasto 2008
Stampa realizzata con il contributo di Iscos Emilia Romagna, Piemonte, Sicilia e Toscana, dicembre 2012.
MADE IN CHINA 20 Un anno di Cina al lavoro
Contenuti / MADE IN CHINA 2012 5 / Editoriale 7 / Febbraio 2012 8 / Lavoratori cercansi 10 / Marzo 2012 11 / Dove va il sindacato cinese? 13 / Aprile 2012 15 / Ripensare lo Hukou 17 / Maggio 2012 18 / ONG del lavoro in Cina 20 / Giugno 2012 21 / Declino e ascesa dell’impresa di Stato 25 / Luglio 2012 26 / Il presunto risveglio dei lavoratori cinesi 28 / Agosto 2012 30 / Settembre 2012 32 / Zhou Litai, segni di un’epoca che cambia 34 / Ottobre 2012 36 / La legge come un’arma per i lavoratori? 40 / Novembre 2012 41 / Anita Chan: nuove tendenze del lavoro in Cina
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EDITORIALE
Storie dalla Cina al lavoro, uno sguardo al 2012
In attesa del cambiamento ai vertici del Partito, le riforme vengono messe in secondo piano di Ivan Franceschini
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ra che quest’anno si sta avvicinando alla sua naturale conclusione, è giunto il momento di tirare le somme dell’esperienza dei primi dodici mesi di questa newsletter, nata lo scorso febbraio da una collaborazione tra Iscos Nazionale, gli Iscos regionali di Emilia Romagna, Piemonte, Sicilia e Toscana e il sito Cineresie.info. Per salutarci in attesa del 2013, abbiamo deciso di ripercorrere mese per mese le tappe di un anno di lavoro in Cina, intervallando i vari eventi con una serie di analisi in cui proponiamo alcune chiavi di lettura. Che dire dell’anno appena trascorso? Dal punto di vista del lavoro, il 2012 cinese è stato un anno povero di avvenimenti, soprattutto a confronto con le novità impetuose che hanno caratterizzato gli anni precedenti. Gli ultimi mesi sono stati segnati da qualche scandalo – per lo più legato alla solita Foxconn – ma soprattutto dalle preoccupazioni ufficiali per il rallentamento della crescita economica e per il rapido aggravarsi degli squilibri del mercato del lavoro. Ben poche sono state le iniziative legislative e politiche degne di nota, un fatto che, a ben pensarci, era del tutto prevedibile, se si considera come da un anno a questa parte la scena politica cinese sia stata monopolizzata dai preparativi per il trasferimento del potere ai vertici del Partito e del governo. Con ogni probabilità, questo stallo durerà ancora diversi mesi, in attesa che il passaggio di consegne giunga a termine il prossimo marzo e che le inclinazioni politiche della nuova leadership, installata al termine del Diciottesimo Congresso del PCC, diventino più chiare. Al momento, l’unica certezza sono le sfide con cui la nuova generazione al comando dovrà confrontarsi. Innanzitutto, i nuovi leader dovranno fare i conti con la necessità di riformare il sistema di registrazione familiare tuttora alla base della discriminazione contro i lavoratori migranti. Anche se in
questo potranno contare sull’esperienza accumulata nel corso di sperimentazioni locali (p. 15), essi dovranno comunque trovare una ricetta sostenibile per distribuire in maniera equa quelle risorse scarse che finora sono state prerogativa della popolazione urbana. In secondo luogo, le autorità di Pechino dovranno individuare nuove strategie per gestire i cambiamenti nei flussi migratori e nelle dinamiche demografiche alla base della cosiddetta “carestia di manodopera” (p. 8). A questo fine sarà necessario creare una serie di nuovi incentivi che spingano i lavoratori nelle aree rurali a migrare verso le più sviluppate zone costiere, ad esempio alzando ulteriormente i salari, estendendo le reti previdenziali ed eliminando ogni forma di discriminazione. La vera sfida starà nel fare tutto ciò senza scoraggiare gli investitori. In terzo luogo, bisognerà affrontare il problema della disoccupazione intellettuale, con un numero sempre maggiore di giovani istruiti costretti a lottare con lo spettro della disoccupazione e sottoccupazione. Questi giovani – che in cinese vengono definiti “formiche” – sono disposti ad accettare salari pari a quelli cui potrebbe aspirare un lavoratore migrante (p. 13) e, con la loro insoddisfazione più o meno latente, rappresentano una potenziale minaccia per la stabilità sociale. Infine, rimarrà da risolvere l’annosa questione della mai conclusa riforma del settore di Stato, con le varie implicazioni per il benessere dei lavoratori (p. 21). Anche se tutti questi problemi si trascinano da oltre un decennio, la nuova leadership si dovrà confrontare con un contesto molto differente da quello dei suoi predecessori. Pur avendo fallito nel tentativo di introdurre riforme strutturali sufficienti a risolvere in maniera incisiva i problemi del mercato del lavoro cinese, l’amministrazione uscente negli ultimi anni ha promosso con forza tra i lavoratori cinesi un discorso sul diritto e sui diritti centrato su MADE IN CHINA | 2012
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un’idea di legalità stabilita d’autorità dallo Stato. Si tratta di un discorso apparentemente paradossale, ma che ha avuto una notevole presa tra i lavoratori migranti, i quali negli ultimi anni hanno sviluppato un crescente senso di titolarità nei confronti dei propri diritti (p. 36). Questo non significa però che in Cina siamo in presenza del “risveglio” dei lavoratori cinesi descritto negli ultimi anni dai media e da alcune organizzazioni della società civile - non per ora, perlomeno - ma è al di fuori di ogni dubbio che in futuro i lavoratori saranno sempre più importanti nel determinare il futuro politico del Paese (p. 26). In tutte queste dinamiche, un ruolo importante sarà giocato da sindacato e società civile. Negli ultimi mesi le organizzazioni della società civile attive nel campo del lavoro a Shenzhen siano state vittima di un’ondata repressiva senza precedenti (p. 18), mentre in contemporanea il sindacato provinciale del Guangdong cercava di gettare le basi di una nuova organizzazione di stampo corporativo, apparentemente finalizzata a riportare queste realtà sotto il proprio controllo (p. 11). Eppure queste narrazioni non devono trarre in inganno: non solo il sindacato cinese è ben lontano dall’essere un monolite – esso comprende componenti con idee e priorità molto diverse – ma anche le organizzazioni della società civile sono ben lontane dall’immagine idealizzata che comunemente se ne ha. Di fatto, così come all’interno del sindacato cinese esistono voci riformiste, in Cina non mancano organizzazioni di base che nella pratica si dimostrano corrtte ed inefficienti. Proprio per questa ragione, negli anni a venire sarà importante che i sindacati occidentali mantengano un dialogo aperto e costante sia con il sindacato che con i gruppi della società civile, sperimentando nuove forme di collaborazione a beneficio dei destinatari ultimi: i lavoratori. Un presupposto per l’apertura di questo dialogo sta nella presa di coscienza della complessità e contradditorietà del mondo del lavoro cinese, al di là di ogni semplificazione e ideologia. Questa newsletter si è proposta come un primo passo in questa direzione, speriamo che ne seguiranno altri. Buona lettura e a presto. Pechino, 1 dicembre 2012
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MADE IN CHINA | 2012
Nanfeng Zhuang – 10/2012 Nuovi Lavoratori, come fare.
Lianzheng Liaowang – 10/2012 Una marea di lavoratori torna al villaggio.
Xin Shiji Zhoukan – 5/2011 Addio salari bassi
FEB 2012
Un caldo inizio d’anno per decine di milioni di lavoratori cinesi, fra nuove tensioni nel Guangdong e un fantasma che ritorna a spaventare le imprese: la “carestia” di manodopera.
SCIOPERI
MERCATO del LAVORO
Preoccupazione per la “carestia” di manodopera
Lavoratori in protesta nel Guangdong
In febbraio si sono registrate proteste a Zhaoqing, nel Guangdong, dove un’azienda di scarpe Taiwanese ha scelto di spostare la sua attività senza corrispondere agli operai un risarcimento adeguato per il trasferimento. Dopo un inutile appello all’ufficio del lavoro migliaia di lavoratori sono scesi in piazza bloccando il traffico. Centinaia di poliziotti in tenuta anti sommossa sono stati schierati dalle autorità locali e sono arrivati allo scontro fisico con i manifestanti. Secondo i media di Hong Kong, dopo che i dirigenti delle fabbriche hanno accettato di negoziare con i lavoratori, la protesta si è gradualmente placata. Proteste simili si sono registrate anche a Dongguan.
Con l’inizio del 2012 sui principali quotidiani cinesi sono apparse nuovamente notizie riguardanti la “carestia” di lavoratori, un fenomeno che dal 2003 colpisce periodicamente il mercato del lavoro cinese. Secondo alcuni dati pubblicati sul Nanfang Dushibao, nella provincia del Guangdong nel periodo successivo al capodanno cinese sono stati circa un milione i lavoratori che non hanno fatto ritorno per lavorare o cercare un nuovo impiego. Tra le cause di questa scarsità vi sono non solo ragioni demografiche, ma anche una crescente competizione tra le aree interne e le aree costiere nell’attuare politiche finalizzate ad attrarre (o trattenere) la manodopera. SALARI
La Foxconn alza i salari
Il 20 febbraio 2012 la taiwanese Foxconn ha fatto sapere che a partire dal primo del mese ha innalzato i salari in tutti i suoi stabilimenti in Cina con percentuali che variano fra il 15% e il 26%. A Shenzhen i salari minimi sono passati da 1500 a 2200 RMB (260€); a Wuhan da 1350 a 1550 RMB (180 €). Inoltre sono diminuiti gli straordinari, aumentate le occasioni di addestramento e studio. Su incarico di Apple, l’ONG statunitense Fair Labor Association (FLA) condurrà un’indagine sulle condizioni di lavoro in due stabilimenti Foxconn a Shenzhen e Chengdu.
LEGGI E RIFORME
Il governo annuncia un emendamento alla Legge sui contratti di lavoro
Il 9 marzo, Wu Bangguo, presidente dell’Assemblea Nazionale Popolare, ha annunciato di fronte alla sessione plenaria del parlamento cinese che tra le riforme legislative in cantiere per il 2012 c’è anche un emendamento alla Legge sui contratti di lavoro. Entrata in vigore il primo gennaio del 2008, questa Legge è da sempre al centro di un acceso dibattito: da un lato, vi è chi la considera un ostacolo allo sviluppo economico a causa delle nuove tutele a favore dei lavoratori che ha introdotto; dall’altro, vi è chi ne sottolinea i problemi di implementazione e l’eccessiva genericità. Durante la sessione annuale del parlamento, diverse voci si sono levate per sottolineare la necessità di accelerare l’introduzione di un sistema di contrattazione collettiva dei salari. MADE IN CHINA | 2012
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FOCUS | MERCATO DEL LAVORO
Lavoratori cercansi
Una lettura della “carestia” di migranti di Ivan Franceschini
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ll’inizio di marzo del 2012 il Nanfang Zhoumo riportava come il comune di Xintang a Guangzhou – un luogo che alcuni conoscono come la “capitale dei jeans” (niuzaifu zhi du) ma noto ai più in quanto teatro di violenti scontri tra lavoratori migranti e forze di pubblica sicurezza nel giugno 2011 – fosse paralizzato dall’assenza di lavoratori migranti. Alla fine di febbraio, quasi un mese dopo il capodanno lunare, le oltre quattromila aziende di abbigliamento e prodotti complementari che costituivano la spina dorsale di questa comunità erano in ginocchio, piegate da una scarsità di forza lavoro che arrivava fino al 70% della domanda. Non solo le fabbriche di Xintang – già provate da un crollo del 30% negli ordini causato dalla crisi europea e da una contrazione dei margini di profitto a meno del 5% – avevano dovuto rinunciare a far fronte ai propri ordini, ma i commercianti avevano dovuto ritirarsi per l’assenza di merci da vendere e gli alberghi e i ristoranti avevano dovuto chiudere per mancanza di clienti e di personale. La gente del posto dichiarava che sebbene anche negli anni precedenti ci fossero stati problemi del genere nel periodo successivo alle feste, la situazione non era mai stata così grave. Di fronte a questa situazione, il giornalista poneva una domanda fondamentale: che la riluttanza dei lavoratori migranti a tornare a lavorare a Xintang fosse una strategia di resistenza di fronte alle violenze dell’anno precedente?
La “carestia di manodopera” ha fatto la sua comparsa per la prima volta in Cina nel 2003 In realtà, la vicenda di Xintang si inserisce nel contesto di un problema sociale più ampio, quello della “carestia di migranti” (mingonghuang), un fenomeno che ogni anno, da quasi un decennio, occupa regolarmente le pagine dei media cinesi. Il 2012 in questo non fa eccezione. Stando ad una articolo pub8
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blicato sul 21st Century Business Herald, nel periodo successivo alla Festa di Primavera, l’Ufficio per l’occupazione dello Hubei stimava che i posti di lavoro rimasti vacanti nella provincia fossero circa cinque o seicentomila; nello stesso periodo, secondo l’Ufficio delle risorse umane e della previdenza sociale della provincia del Guangdong, nell’area del Delta del Fiume delle Perle mancava all’appello circa un milione di lavoratori, il 5% della forza lavoro totale. Dati del genere non sono certo giunti inaspettati. Stando ad un’indagine condotta nel quarto trimestre del 2011 su 91 strutture pubbliche di servizio all’occupazione, a fronte di 4.486.000 posti di lavoro offerti, si erano fatti avanti solamente 4.298.000 persone alla ricerca di un impiego, con un rapporto di 1,04 tra la domanda e l’offerta. Al contempo, negli ultimi anni diversi segnali hanno lasciato intendere come nel Paese si stia rafforzando la tendenza alle migrazioni intra-provinciali, con un conseguente inasprimento della competizione tra aree centrali e le aree costiere per la manodopera. Questa dinamica risulta particolarmente evidente se si considera il fatto che nei tre anni compresi tra il 2009 e il 2011 la percentuale di lavoratori migranti dello Hubei che ha trovato lavoro all’interno della provincia è stata rispettivamente del 40%, 43% e 47%. La “carestia di manodopera” ha fatto la sua comparsa per la prima volta in Cina nel 2003, un fatto che ha messo in crisi la pluridecennale convinzione della classe politica cinese sulle campagne come un bacino pressochè illimitato di forza lavoro a basso costo, in grado di sostenere la crescita economica per ancora molti anni a venire. Se fino a quel momento il problema principale per i datori di lavoro, cinesi e stranieri, era stato quello di trovare manodopera qualificata, dopo il 2003 anche solamente trovare un numero sufficiente di lavoratori per i compiti più umili e meccanici è diventato complicato, soprattutto nei periodi che precedono e seguono le festività. In molti si sono interrogati sulle ragioni di questa scarsità. Zhang Yi dell’Accademia Cinese delle
Scienze Sociali in uno studio pubblicato nel Libro Blu sulla Società Cinese nel 2012 ha elencato sei cause: l’evoluzione della struttura demografica causata dalla politica del figlio unico; il cambiamento strutturale nell’offerta di lavoro, con il numero di lavoratori con diploma di scuola media che sta progressivamente scendendo a fronte di un mercato che continua ad aver bisogno di manodopera non qualificata; la crescente domanda di manodopera nelle aree meno sviluppate, trainata dalla crescita economica delle aree centrali ed occidentali del Paese; il livello eccessivamente basso dei salari, non più in grado di attrarre la forza lavoro come un tempo, soprattutto a fronte di un crescente costo della vita; la progressiva riduzione del divario tra i salari nelle aree costiere e nelle zone dell’interno; la breve durata dei contratti di lavoro. Se da un lato questa “carestia” costituisce l’ennesima sfida per chi vuole fare impresa in Cina, dall’altro la scarsità di manodopera aumenta notevolmente la forza contrattuale dei lavoratori migranti, i quali di fronte a salari e condizioni di lavoro insoddisfacenti possono scegliere di “votare con i piedi” (yijiao toupiao). Inoltre, la competizione tra le aree costiere e le aree dell’interno per attrarre la forza lavoro si traduce in altre dinamiche favorevoli ai lavoratori, quali ad esempio innalzamenti generali dei salari minimi e l’adozione di nuove norme per tutelare il lavoro: stando a dati del Ministero del Personale e della Sicurezza Sociale, alla fine di settembre del 2011 ventuno città e province avevano innalzato il proprio salario minimo, un aumento medio del 21,7%. Un ulteriore giro di aumenti è poi previsto per i primi mesi del 2012.
La scarsità di manodopera aumenta notevolmente la forza contrattuale dei lavoratori migranti In questa situazione, quale via d’uscita per l’impresa? Come ha scritto di recente il Quotidiano del Popolo, rispondere alla “carestia” semplicemente assumendo di volta in volta nuovi lavoratori rappresenta uno spreco di risorse umane e di soldi per l’impresa. Per affrontare il problema, è necessario adottare misure più coraggiose. Come ha evidenziato Zhang Yi, da un lato le autorità cinesi hanno la responsabilità di innalzare il livello di integrazione dei migranti nelle città, rafforzare l’applicazione del-
la legislazione esistente, coordinare lo sviluppo delle varie aree e perfezionare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; dall’altro però le aziende devono reagire investendo parte dei profitti nella formazione dei dipendenti, garantendo loro un lavoro dignitoso e facendo sì che i lavoratori si sentano parte dell’impresa. Secondo Zhang Feng dell’Università di Pechino, intervistato dai giornalisti del Diyi Caijing Ribao, questo, a sua volta, dovrebbe ottenere un sostegno da parte delle autorità nella forma di aiuti ed esenzioni fiscali. Solamente a queste condizioni sarà possibile accogliere l’appello del Quotidiano del Popolo a “servirsi del domani per trattenere i lavoratori” (yong mingtian liuzhu nongmingong). ©CINERESIE
LETTURE
Operaie
di Leslie Chang (Adelphi 2010, 398 pp.) Negli ultimi decenni, giornalisti da tutto il mondo hanno versato fiumi d’inchiostro nel tentativo di raccontare la situazione dei lavoratori migranti nella Cina di oggi. Pochi però sono riusciti ad eguagliare il successo di pubblico e di critica ottenuto da Leslie Chang con il suo Operaie, bestseller pubblicato per la prima volta nel 2008 e tradotto in italiano nel 2010 per Adelphi. Leslie Chang, già corrispondente del Wall Street Journal da Pechino, sceglie di seguire due lavoratrici migranti nella loro traiettoria di vita, raccontandone le vicissitudini nel contesto sociale di una Dongguan spietata. Il libro non si limita a raccontare queste ragazze esclusivamente nella dimensione lavorativa, ma cerca di restituire un ritratto a tutto tondo di quella che è la loro esistenza, dai sogni alle lotte, dalla disperazione agli amori, il tutto sullo sfondo di una lotta continua per crescere - “svilupparsi” - e raggiungere un successo caratterizzato in termini economici, ma non solo. Grazie a questo libro, nel 2011 l’autrice ha ottenuto il premio Terzani.
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Non cessano le proteste operaie, mentre i riflettori rimangono puntati sulla Foxconn e nello Shanxi il sindacato ufficiale sperimenta nuove strategie per avvicinarsi ai lavoratori.
MAR 2012
RICERCHE
Risultati dell’indagine FLA sulla Foxconn
Si è conclusa l’indagine sulle condizioni di lavoro in tre stabilimenti Foxconn condotta dalla Fair Labor Association su incarico della Apple. L’inchiesta, che ha coinvolto circa 35.000 lavoratori, ha messo in evidenza violazioni circa l’orario di lavoro, stipendi non pagati e rischi per la salute degli operai. Stando ai dati divulgati, nonostante i salari siano superiori al minimo legale locale, il 64,3% dei lavoratori intervistati ha affermato di ritenere il proprio salario insufficiente a far fronte ai propri bisogni fondamentali. Il 48% dei lavoratori intervistati inoltre riteneva che i propri orari di lavoro fossero ragionevoli, contro il 33,8% che ha dichiarato di voler lavorare più ore per guadagnare di più e il 17,7% che ha affermato di ritenere i propri orari eccessivi. Anche se un sindacato è presente nella Foxconn, la maggior parte dei lavoratori risulta non essere al corrente delle sue attività. I vertici della Foxconn hanno assicurato il proprio impegno nell’innalzare ulteriormente i salari e nel migliorare le condizioni di lavoro negli stabilimenti. SINDACATO
Nello Shanxi, sindacalisti reperibili
A metà marzo, la Federazione Provinciale dei Sindacati dello Shanxi ha emesso una circolare che impone ai quadri sindacali nelle imprese della provincia di rendere pubblico il proprio numero di cellulare e i propri contatti d’ufficio tramite affissione all’ingresso delle fabbriche e nei luoghi frequentati dai lavoratori, insieme ad una targa sindacale. Questa attività dovrebbe coinvolgere oltre centomila sindacalisti, attivi nelle 72.500 aziende con sede nella provincia che hanno già stabilito un sindacato, con una copertura totale di circa 7.500.000 lavoratori. Se da un lato vi è chi ritiene che rendere pubblici i numeri dei quadri sindacali potrebbe essere un primo passo nell’avvicinare il sindacato ai lavoratori, dall’altro non mancano le voci critiche che sottolineano come la debolezza dei sindacati aziendali in Cina abbia ragioni strutturali che vanno ben oltre la difficoltà di contattare i quadri. SCIOPERI
I lavoratori Ohms chiedono un sindacato rappresentativo
SCIOPERI
Proteste nel Guangdong
Sono almeno una decina gli scioperi che hanno coinvolto i lavoratori della provincia del Guangdong nel mese di marzo. Come da tradizione, alla base delle proteste vi sono soprattutto questioni legate ai salari troppo bassi o a straordinari non pagati. In alcuni casi, i lavoratori non hanno esitato ad utilizzare misure estreme: in due casi, il 19 e 22 marzo, centinaia di lavoratori di due differenti impianti hanno bloccato il traffico stradale a Canton per protestare contro salari ritenuti eccessivamente bassi, mentre il 15 marzo decine di lavoratori di una fabbrica alimentare a Shenzhen sono saliti sul tetto dell’impianto minacciando di buttarsi nel caso non avessero ricevuto quanto spettava loro per gli straordinari.
Il 29 marzo oltre 500 lavoratori dello stabilimento della giapponese Ohms Electronics (di proprietà del colosso Panasonic) nel distretto di Longgang a Shenzhen sono scesi in sciopero con una piattaforma di dodici richieste riguardanti welfare e salari. L’aspetto singolare di questo sciopero è il fatto che nel documento che elenca le rivendicazioni, oltre alle varie questioni economiche i lavoratori lamentano anche la mancanza di rappresentatività del sindacato aziendale, emersa con forza durante le trattative per gli aumenti salariali. Anche se al momento non vi sono notizie sulla risoluzione dello sciopero, secondo il Nanfang Dushibao l’azienda ha affermato chiaramente la propria volontà di tenere al più presto un congresso dei lavoratori per “scegliere un sindacato che rappresenti veramente gli interessi dei dipendenti”. 10
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FOCUS | SINDACATO
Dove va il sindacato cinese?
Ieri e oggi, in evoluzione da cintura di trasmissione a nuovo corporativismo di Ivan Franceschini
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he il sindacato abbia un ruolo cruciale nell’influenzare gli umori delle masse e mobilitare la base, Lenin lo aveva capito sin dall’inizio del secolo scorso, quando nel suo classico Che fare? aveva affermato che tutti i membri del Partito avrebbero dovuto essere attivi nel sindacato nel tentativo di influenzarne i membri. Poi era tornato sull’argomento nel dicembre del 1920, in occasione di uno dei tanti scontri interni al Partito Comunista dell’Unione Sovietica: “La dittatura del proletariato non può funzionare senza un certo numero di ‘cinture di trasmissione’ tra l’avanguardia [il Partito] e la massa della classe più avanzata e tra questa alla massa dei lavoratori.” E, come avrebbe ben capito Stalin negli anni successivi, quale “cintura di trasmissione” migliore di un sindacato per convogliare le direttive del Partito alla base e gli umori della base al Partito? Questi dibattiti di un’epoca ormai lontana si rivelano sorprendentemente attuali per comprendere il ruolo del sindacato ufficiale della Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC). Sebbene negli ultimi vent’anni la FNSC abbia fatto grandi passi in avanti nel tentativo di affrancarsi dalla sua tradizionale sudditanza nei confronti dello Stato-Partito – ad esempio inserendo esplicitamente nel proprio Statuto la necessità di proteggere i diritti e gli interessi dei lavoratori – essa non è mai riuscita ad affrancarsi dal peso del proprio ingombrante passato. Non solo il sindacato cinese, che oggi conta su oltre 239 milioni di membri, è tuttora organizzato in base al principio leninista del “centralismo democratico”, ma esso spesso continua ad agire sulla base di principi che riecheggiano in tutto e per tutto la sua funzione primaria di “cintura di trasmissione”. Questo risulta particolarmente evidente se si considera quanto è avvenuto nel Guangdong nella primavera del 2012. Se da un lato in quel periodo i media locali e nazionali hanno posto grande enfasi sulla notizia che la federazione sin-
dacale cittadina di Shenzhen ha lanciato una nuova campagna per l’elezione diretta dei presidenti dei sindacati aziendali di 163 imprese per lo più straniere con oltre mille dipendenti, dall’altro ben poco è stato scritto riguardo ad alcuni nuovi preoccupanti sviluppi che allora hanno coinvolto non solo il sindacato ma anche alcune realtà della società civile locale. In particolare, a tutt’oggi, non si sa molto di una nuova organizzazione creata il 16 maggio sotto l’egida del sindacato provinciale, la cosiddetta “Federazione delle organizzazioni sociali finalizzate all’offerta di servizi ai lavoratori nella provincia del Guangdong” (guangdongsheng zhigong fuwulei shehui zuzhi lianhehui).
Ancora oggi il sindacato cinese agisce secondo princìpi che richiamano la funzione di “cintura di trasmissione” tra Partito e lavoratori Scorrendo la bozza dello Statuto, discussa ed approvata nel corso di un incontro che ha visto la partecipazione di oltre cento rappresentanti di branche sindacali e organizzazioni della società civile del Guangdong, si scopre che questa Federazione è sottoposta alla guida e supervisione del Sindacato e dell’Ufficio degli affari civili provinciali e si propone come linee guida non solo “il supporto alla leadership del Partito e del Governo Popolare, il rispetto della Costituzione e delle varie leggi e politiche dello Stato, la conduzione delle proprie attività in accordo con la Legge”, ma anche “il rafforzamento del coordinamento generale e del collegamento con i centri, il servizio, l’unità, il supporto e il collegamento con le organizzazioni sociali e le strutture finalizzate ai servizi ai lavoratori, così come con individui specializzati, ai fini di portare avanti ogni tipo di attività e servizio di interesse pubblico per i MADE IN CHINA | 2012
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lavoratori, proteggere i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori, promuovere l’armonia nei rapporti di lavoro e favorire la giustizia e l’equità sociale.” Al momento della fondazione, la lista dei membri comprendeva 34 associazioni ufficiali, tra cui associazioni di categoria, centri di assistenza legale universitari, fondazioni e agenzie sindacali; 55 membri individuali, per lo più avvocati e quadri sindacali; e 20 organizzazioni attive nel campo del lavoro, tra cui anche alcune ONG del lavoro molto note. Anche se resta da vedere se questa organizzazione riuscirà a sviluppare una qualsiasi utilità pratica o si trasformerà nell’ennesimo esempio di proliferazione burocratica, ciò che rende questa iniziativa tanto più preoccupante è il fatto che il suo lancio sia stato accompagnato dall’ennesima ondata di intimidazioni nei confronti delle ONG del lavoro. Oltre alle vicende del “Centro dei lavoratori” di Shenzhen – su cui ci soffermeremo a pagina 28 – da febbraio almeno una decina di organizzazioni sono finite vittima di analoghe minacce, una concomitanza temporale che sembra essere tutto fuorché una coincidenza. Quale mezzo migliore di una campagna intimidatoria per convincere quelle realtà più attive in prima linea a sottoporsi spontaneamente alla “protezione” dello Stato?
Nella Repubblica Popolare Cinese si stima che esitano almeno una cinquantina di ONG del lavoro Tutto ciò accade in quel Guangdong che di norma viene esaltato come l’avanguardia delle riforme; sotto la leadership illuminata di quel Wang Yang che tanti hanno descritto come un modello di apertura; in un momento storico che viene presentato come una svolta per la società civile locale; sotto l’egida di un sindacato che sempre più attori nel movimento sindacale internazionale considerano un interlocutore aperto al dialogo. Pur senza negare il fatto che il confronto e il dialogo con il sindacato cinese siano componenti necessarie ed imprescindibili di una qualsiasi iniziativa politica seria che si proponga di affrontare la questione del lavoro in Cina, vicende del genere ricordano con forza come la FNSC affondi le sue radici in un periodo storico differente, un’epoca in cui la sua unica funzione era quella di agire da “cintura di trasmissione”. Certo, moltissi-
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me cose sono cambiate da allora e la Cina rimane un immenso laboratorio, ma la strada verso una nuova forma di sindacalismo in Cina rimane ancora lunga. ©CINERESIE
LETTURE
Socialismo è Grande! di Zhang Lijia (Cooper 2009, 461 pp.)
Nel 1980 la sedicenne Zhang Lijia entra in una fabbrica statale a Nanchino, prendendo il posto della madre. Zhang avrebbe voluto tentare l’esame di ammissione all’università per diventare giornalista, ma le pressioni della famiglia erano state troppo forti e a nulla le era servito protestare. In fondo, come diceva la madre, una ragazza cinese di allora cosa poteva desiderare più che la stabilità e la sicurezza economica offerta da una “ciotola di riso di ferro” garantita dallo Stato? Questa è la premessa di Socialismo è Grande!, il libro di memorie in cui Zhang Lijia, a quasi trent’anni di distanza, racconta la propria esperienza di giovane operaia nella Cina degli anni Ottanta. Descrivendo le lotte quotidiane contro la noia sul posto di lavoro, il desiderio disperato di affermare la propria individualità in un mondo in cui per sopravvivere era necessario conformarsi, le spinte idealiste e ribelli nel clima puritano di allora, questo libro offre uno spaccato della gioventù cinese degli anni Ottanta, dall’alba delle riforme alla vigilia degli scontri del 1989.
APR 2012
Con la primavera gli studenti nel Guangdong esprimono il loro scontento all’idea di un futuro in fabbrica, mentre l’inflazione mette in crisi il potere d’acquisto dei salari degli operai. GIOVANI
Futuri laureati verso la precarietà
SALARI
Straordinari forzati mascherati
Secondo una recente indagine, gli impiegati cinesi lavorano in media 8,66 ore al giorno, mentre il 30% lavora più di undici ore. L’indagine ha evidenziato come molto spesso gli straordinari non vengano retribuiti a norma di legge e molti lavoratori di fronte alle pressioni dell’azienda oppure, nella speranza di ottenere promozioni, finiscano per lavorare oltre l’orario “volontariamente”, senza ricevere compenso. I risultati dell’indagine sono stati stigmatizzati in un articolo dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua nel quale si evidenziava l’illegalità di una simile tendenza.
Le università cinesi continuano a sfornare laureati – 6.6 milioni nel solo 2011– ma il mercato del lavoro non sembra essere altrettanto ricettivo verso i giovani in possesso di un diploma e le paghe assomigliano spesso a quelle dei lavori più umili. Nelle scorse settimane alcuni neolaureati della Guangdong University hanno voluto esprimere la loro preoccupazione facendosi fotografare vestiti come lavoratori migranti. Della sfilata hanno parlato vari giornali cinesi. Come ha dichiarato al China Daily uno degli studenti intervistati, a quanto pare i giovani laureati non sono più l’elite della società e dovranno accontentarsi di lavori e paghe molto più basse rispetto alle loro aspettative. Il problema dei neolaureati che conducono esistenze precarie è molto presente nel dibattito pubblico in Cina da qualche anno a questa parte. Questi giovani sono conosciuti anche come “la tribù delle formiche”, dal titolo di un libro pubblicato da un ricercatore cinese nel 2010. DIRITTI
Discriminazione sul lavoro: piccoli passi in avanti
Importanti novità nel campo della discriminazione sul lavoro per i malati di AIDS. Nella provincia dello Hunan un nuovo regolamento entrato in vigore in maggio impedisce ai datori di lavoro di licenziare i dipendenti sieropositivi e li obbliga a mantenere la segretezza rispetto alla malattia, assegnando eventualmente il lavoratore ad una nuova mansione, là ove necessario. Si tratta di un importante passo avanti in un ambito estremamente dibattuto nella società cinese odierna. L’ONG Hengping, in un nuovo rapporto sulla discriminazione sul lavoro nel 2010-2011, ha evidenziato come l’ostacolo più grande nella sensibilizzazione su questo tema sia rappresentato proprio dagli uffici governativi che spesso sono i primi ad adottare pratiche discriminatorie nei confronti dei malati. E’ dunque importante, hanno sottolineato gli attivisti dell’ONG, che le buone pratiche inizino dall’alto in modo da influenzare positivamente il mondo dell’impresa e la società più in generale.
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APR 2012 SALARI
Aumentano gli stipendi, in apparenza
Stando ai dati del nuovo Libro Verde sulle Zone Rurali pubblicato dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, nei primi quattro mesi del 2012 il salario medio dei lavoratori migranti cinesi ammonta a 2.173 yuan (circa 268 €), 124 yuan in più rispetto al 2011. Per quanto riguarda i salari minimi legali, 14 amministrazioni locali hanno innalzato l’ammontare; la città in cui sono più alti è Shenzhen con 1.500 yuan (circa 185 €). Ad un’analisi più attenta, tuttavia, l’aumento dei salari risulta soltanto apparente: la percentuale di incremento rispetto all’anno precedente è diminuita del 4,6% mentre il costo della vita è aumentato in tutte le città cinesi. Alla luce di questi dati risulta chiaro che la situazione non è così rosea per i lavoratori migranti cinesi, sempre in difficoltà ad arrivare alla fine del mese.
LETTURE
Lavoro e società nella Cina popolare di Luigi Tomba (Franco Angeli 2001, 128 pp.)
Gli ultimi trent’anni sono stati un periodo tumultuoso per il lavoro in Cina. Dal declino delle unità di lavoro all’emergere dell’impresa privata, dalla rottura della “ciotola di riso di ferro” all’introduzione del sistema dei contratti di lavoro, dal tradimento del patto sociale con un’intera generazione di lavoratori all’instaurazione di un nuovo ordine basato su un’idea di legalità più viva nella teoria che nella pratica: nell’arco di un paio di decenni il mondo del lavoro in Cina è stato interamente riscritto. Il volume “Lavoro e Società nella Cina Popolare” di Luigi Tomba è una guida essenziale per orientarsi negli sconvolgimenti sociali di questi anni. Oltre a ricostruire le origini storiche ed economiche del lavoro socialista in Cina, questo testo utilizza le vicende della classe operaia cinese come chiave di lettura per interpretare i processi di trasformazione e adattamento che hanno accompagnato l’evoluzione della Cina socialista dal 1949 agli anni Novanta. In particolare, l’autore sottolinea come la politica del lavoro in Cina si sia trovata due volte alle prese con i rischi della radicalizzazione: prima con gli esperimenti utopici del grande balzo e delle comuni popolari; poi, inseguendo la deregulation, con la deriva neoliberista degli anni Novanta. Tra questi due estremi, permane la costante della macchina burocratica del Partito unico e quella di un mondo del lavoro che dimostra flessibilità e capacità di adattamento nel solco di una tradizione di rapporti sociali che è più antica del socialismo.
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FOCUS | LEGGI e RIFORME
Ripensare lo Hukou
Esperimenti per una riforma della cittadinanza di Ivan Franceschini
U
no degli aspetti più spinosi e complessi delle riforme cinesi riguarda la questione del sistema di registrazione familiare, il cosiddetto hukou. Nato alla metà degli anni Cinquanta come strumento di controllo della popolazione, questo meccanismo ancora oggi vincola la popolazione cinese al proprio luogo d’origine, distinguendo tra una forma di cittadinanza “agricola” (nongye hukou) e “non agricola” (fei nongye hukou). Se i residenti delle aree urbane, in quanto portatori di hukou non rurale, possono godere di un trattamento preferenziale dal punto di vista della sanità, degli alloggi, dell’educazione e delle pensioni, i portatori di hukou rurale continuano ad avere un accesso molto limitato ai servizi pubblici, come se si trattasse di cittadini di seconda classe. Se poi si considera che attualmente decine di milioni di contadini – le ultime cifre parlano di oltre 220 milioni di individui – sono emigrati nelle città per lavorare, la portata di questo problema sociale appare evidente. Fin qui non c’è niente di nuovo. Da anni la comunità internazionale e i media cinesi e stranieri criticano costantemente la discriminazione istituzionale derivante da questo sistema. Non altrettanto evidenti sono però gli esperimenti con cui le autorità cinesi stanno cercando di cambiare la situazione. Di fatto, nell’ultimo biennio molto è stato fatto per gettare le basi di un futuro cambiamento e, come di consueto, si è deciso di partire da alcune specifici esperimenti su base locale in diverse aree campione. In particolare, nel solo 2010 ben quattro località sono finite sotto i riflettori per le proprie innovazioni in questo campo: Shanghai, Chongqing, Chengdu e l’intera provincia del Guangdong. Se Shanghai si è limitata ad adottare nuove misure finalizzate ad attrarre e trattenere manodopera qualificata, permettendo ad alcune categorie professionali di richiedere lo hukou urbano, decisamente più interessante è l’esperimento attuato dalla provincia del Guangdong, dove nel giugno del 2010 è stato adottato in via sperimentale uno “hukou a punti”.
In sostanza, il nuovo regolamento introduce un sistema in cui i lavoratori migranti, una volta raggiunto un determinato punteggio, possono richiedere lo hukou urbano. I criteri di valutazione comprendono un misto di indicatori decisi a livello provinciale e cittadino, pensati prendendo in considerazione la “qualità” dei richiedenti, la partecipazione ai fondi previdenziali, il contributo alla società, la situazione occupazionale e fiscale dei singoli individui. Il tutto con l’obiettivo dichiarato di assorbire a pieno titolo nei centri urbani oltre 1,8 milioni di migranti entro la fine del 2012, una cifra non poi così notevole, se si considera che nell’intera provincia i lavoratori migranti sono quasi trenta milioni.
Lo Hukou è fortemente discriminatorio verso i migranti nelle città; i tentativi di riforma sono in corso da anni Una risonanza ancora maggiore hanno avuto gli esperimenti di riforma che stanno avendo luogo a Chongqing e Chengdu. Le autorità di Chongqing hanno deciso di adottare un approccio graduale alla riforma, impegnandosi a creare nuovi alloggi, nuove scuole e nuovi posti di lavoro per accogliere la popolazione proveniente dalle campagne. I numeri ancora una volta sono massicci, tanto che si parla di cinque-sei milioni di nuovi posti di lavoro nel giro di cinque anni, così come di oltre trenta milioni di metri quadri di nuove abitazioni e cento scuole medie ed elementari nello stesso arco di tempo. L’obiettivo è quello di avere sette milioni di nuovi residenti urbani entro il 2020, il 60% della popolazione totale. Resta però da vedere se queste riforme avranno un seguito alla luce della caduta in disgrazia di Bo Xilai, il segretario di Partito della città. Al contrario, Chengdu ha adottato un approccio più radicale, attuando una serie di politiche mirate alla completa abolizione di ogni MADE IN CHINA | 2012
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distinzione tra hukou rurale e urbano entro il 2012. La società cinese segue con grande interesse e partecipazione questi tentativi di cambiamento. In un’iniziativa senza precedenti, il primo marzo del 2010 ben tredici differenti testate sparse in tutto il paese hanno pubblicato uno stesso editoriale richiedendo a gran voce un’accelerazione della riforma. Secondo uno studio dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, nel maggio del 2011 erano oltre 18mila gli articoli sulla riforma dello hukou disponibili su Baidu News, per la maggior parte focalizzati sulla descrizione delle nuove politiche, ma con una non trascurabile vena critica. Secondo un sondaggio d’opinione condotto nel giugno del 2010 dal portale web Sohu.com, su 47.932 rispondenti il 49% riteneva che fosse necessario abolire il sistema dello hukou, permettendo ai cittadini una totale libertà di movimento; il 39% si schierava a favore di un avanzamento delle riforme, al fine di separare i diritti e il welfare collegati al sistema della registrazione e trovando un sistema di gestione della popolazione alternativo in modo da garantire flussi migratori ordinati; il 9% era assolutamente contrario a qualsiasi riforma; il 3% semplicemente non era interessato al problema. Eppure, nonostante tutta quest’attenzione, nella società cinese rimangono notevoli resistenze ad una riforma radicale dello hukou. Da un lato, la popolazione urbana teme gli effetti che una mobilità incontrollata potrebbe avere sui servizi pubblici, dall’altro i migranti temono di perdere il diritto alla terra, quell’unica forma di sicurezza sociale che sostiene le loro famiglie in caso di crisi o disoccupazione. Di fatto, la riforma dello hukou non è solamente una questione astratta di diritti, ma anche e soprattutto un processo strettamente legato alla questione della riforma della terra e alla disponibilità di risorse pubbliche da erogare nella forma di servizi. Si tratta di una complessità che a volte rischia di sfuggire all’osservatore straniero, ansioso com’è di articolare il discorso esclusivamente in termini di “diritti”. Il punto è che la situazione sta cambiando, lentamente ma sta cambiando. Sta a noi cogliere il significato e la portata di questo cambiamento. ©CINERESIE
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LETTURE
China’s Communist Party: Atrophy and Adaptation
di David Shambaugh (University of California Press 2008, 234 pp.) Cos’ha permesso al Partito Comunista Cinese di sopravvivere alla sfida delle contestazioni popolari del 1989 e al crollo del blocco sovietico nei primi anni Novanta? Secondo David Shambaugh, una straordinaria capacità di analisi, accompagnata da una notevole resilienza. In particolare, la leadership cinese non si sarebbe limitata a reagire ai cambiamenti che avevano luogo nel mondo e a casa propria, ma sarebbe stata pro-attiva nell’adottare riforme nel Partito e nel Paese. Analizzando in maniera sistematica sia i problemi strutturali del Partito che le più importanti riforme politiche intraprese in Cina negli ultimi anni, il libro di Shambaugh offre un interessante ritratto della classe dirigente cinese, sempre sospesa tra due tendenze contrastanti ma non mutualmente esclusive: atrofia e adattamento.
MAG 2012
Gli operai della Ohms pretendono un sindacato più rappresentativo, mentre le autorità lanciano segnali preoccupanti per il mondo delle ONG: più controlli e sempre meno tolleranza.
POLITICA
La trappola dei diritti
Attenzione, i “nemici occidentali” sono sempre in agguato per fomentare disordini e proteste fra i lavoratori cinesi. A lanciare questo avvertimento in un discorso pronunciato lo scorso 18 maggio è stato Jiang Zhigang, vice direttore della Commissione per la Supervisione e l’Amministrazione degli Asset di Stato. Nel suo discorso, Jiang ha sottolineato la fondamentale instabilità dei tempi in cui viviamo e il fatto che in tutto il mondo le proteste operaie sono in continua crescita. In particolare, a suo dire, la Repubblica popolare dovrebbe essere particolarmente guardinga nei confronti della retorica sulla “difesa dei diritti” (weiquan), un discorso facilmente strumentalizzabile da parte di quelle “forze ostili” sempre pronte ad approfittare di ogni occasione per creare instabilità nel Paese. Nonostante le autorità cinesi da un paio di decenni stiano conducendo un’imponente opera di propaganda in merito alla questione dello “stato di diritto” (fazhi), non da ultimo promuovendo tra i lavoratori l’idea che il diritto sia un’arma a loro disposizione, simili segnali contrastanti non sono rari. SOCIETA’ CIVILE
Shenzhen, ambiguità verso le ONG
Il primo luglio, nella provincia del Guangdong entrerà in vigore un nuovo regolamento che faciliterà le procedure di registrazione per le organizzazioni della società civile come entità non profit. Tuttavia, a dispetto dell’ottimismo, in queste ultime settimane le ONG del lavoro di Shenzhen sono finite ancora una volta nel mirino delle autorità. Da febbraio sono una decina le organizzazioni che hanno subìto intimidazioni e controlli mirati da parte di vari organi ufficiali, iniziative che si sono invariabilmente concluse con ingiunzioni di sfratto da parte dei padroni degli immobili che ospitavano gli uffici. Nel frattempo, per rafforzare il proprio controllo su queste realtà, a metà maggio il sindacato del Guangdong ha stabilito una nuova federazione provinciale finalizzata ad agire da cintura di trasmissione tra l’ufficialità e questi gruppi di base. Secondo il quotidiano Nanfang Ribao, al 17 maggio questa “Federazione delle organizzazioni sociali finalizzate ai servizi ai lavoratori” poteva contare sulla partecipazione di 34 organizzazioni e 55 membri individuali.
SINDACATO
Esperimenti di elezioni dirette
Nel mese di aprile i lavoratori della Ohms, una sussidiaria della Panasonic, erano scesi in sciopero con una piattaforma di richieste che includeva la rivendicazione di un sindacato più rappresentativo. Il 27 maggio attraverso un’elezione a scrutinio segreto durata oltre quattro ore, essi hanno finalmente scelto democraticamente il presidente della sezione sindacale aziendale. Questo è avvenuto nel contesto di quello che è stato uno degli esperimenti sindacali locali più pubblicizzati negli ultimi anni, una campagna che secondo le parole di Wang Tongxin, vice-presidente del sindacato cittadino di Shenzhen, dovrebbe portare 163 aziende con oltre mille dipendenti e un presidente di sezione con mandato in scadenza a dare ai propri dipendenti la possibilità di eleggere democraticamente i propri rappresentanti. Di fatto, esperimenti del genere vengono regolarmente condotti in Cina sin dagli anni Ottanta e coinvolgono soprattutto imprese a capitale straniero. Tuttavia, come ha dichiarato al Nanfang Dushibao il responsabile del dipartimento organizzativo del sindacato cittadino di Shenzhen, le elezioni dirette sono solamente il primo passo. In futuro sarà necessario concentrare gli sforzi sul consolidamento dei sindacati aziendali, in modo da mettere questi ultimi in condizione di svolgere davvero le proprie funzioni. MADE IN CHINA | 2012
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FOCUS | SOCIETA’ CIVILE
ONG del lavoro in Cina
L’adattamento come strategia di sopravvivenza di Ivan Franceschini
A
ll’inizio di maggio il Guangzhou Ribao ha riportato la notizia che il “Centro per i lavoratori” (dagongzhe zhongxin), un’organizzazione della società civile basata a Shenzhen, stava per essere sfrattata dalla propria sede. Nonostante nel settembre del 2011 avessero stipulato un contratto d’affitto di tre anni, il padrone del locale era disposto a pagare una penale di diecimila yuan pur di liberarsi degli affittuari ed era addirittura arrivato al punto da tagliare acqua e corrente, costringendo questi ultimi a tenere chiuso l’ufficio per un paio di giorni. Interrogato dai giornalisti e dai responsabili del Centro, l’uomo ha spiegato che non si aspettava di ricevere tante pressioni anche se, naturalmente, si è rifiutato di specificarne l’origine. Non è la prima volta che il Centro, attivo sin dal Duemila nel fornire assistenza legale gratuita a lavoratori coinvolti in casi di infortunio e malattia occupazionale, finisce vittima di vicende del genere. Il caso più celebre è avvenuto nel novembre del 2007, quando Huang Qingnan, il fondatore dell’organizzazione, è stato aggredito da due sconosciuti armati di coltello, subendo danni permanenti alla gamba sinistra. In seguito si è scoperto che si trattava di due sicari inviati dal padrone di una fabbrica dei dintorni e la giustizia cinese ha potuto fare il suo corso. Anche in quell’occasione però non erano mancate le polemiche, soprattutto a causa dell’eccessiva leggerezza delle condanne, in particolare per il mandante, condannato in appello ad appena due anni di carcere. Situazioni del genere non possono che suscitare ammirazione per la tenacia di coloro che a loro rischio e pericolo scelgono di operare in questo settore. Eppure, anche in simili occasioni non ci si può esimere da una riflessione su quello che è il rapporto tra la società civile e il sistema politico in Cina oggi. In particolare, esiste una convinzione diffusa in parte del mondo accademico e in alcuni settori del sindacalismo internazionale che in Cina si possa distinguere tra organizzazioni “buone” – le ONG di base impossibilitate ad ottenere una registrazione uf18
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ficiale – e organizzazioni “cattive”, le cosiddette “organizzazioni non governative statali” (GONGO), realtà riconosciute ufficialmente che non farebbero altro che perseguire gli interessi dello Stato-Partito. Ma ha davvero senso ragionare in questi termini? Il campo del lavoro, per quanto marginale, si dimostra un caso di studio particolarmente significativo in questo senso. Al momento attuale, sono appena alcune decine le ONG del lavoro attive in Cina e, contrariamente a quanto avviene in settori politicamente meno sensibili come ad esempio l’ambiente, quasi nessuna di queste è mai riuscita ad ottenere una qualche forma di riconoscimento ufficiale che vada oltre lo status di “entità commerciale”. In molti casi, esse si sono dovute scontrare con la repressione degli apparati di sicurezza dello Stato, manifestatasi in inviti a “bere il tè”, controlli fiscali ad hoc e uffici chiusi d’autorità. Possiamo però da questo dedurre che tali gruppi rappresentano una “minaccia” per lo Stato o attori autonomi che premono per cambiare lo status quo politico e sociale? Siamo forse in presenza di embrioni di sindacalismo indipendente? Non necessariamente.
Organizzazioni buone e cattive: indipendenza dallo Stato come unico criterio di distinzione? Tralasciando il fatto che anche tra i ranghi delle ONG del lavoro cinesi si nasconde un buon numero di ciarlatani e personaggi improbabili che manipolano i donor internazionali per ottenere vantaggi economici, non è poi così scontato che le ONG del lavoro in Cina giochino un ruolo positivo nello sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori cinesi, così come nella costruzione di un’alternativa politica o sociale più equa o democratica. Al contrario, dal momento che esse in genere non fanno altro che promuovere l’idea di diritto e legalità
creata dallo Stato, evitando le dispute collettive per concentrarsi su casi individuali e cercando di instillare nei lavoratori la consapevolezza del ruolo dello Stato nel mediare e risolvere i problemi sul lavoro, le loro attività spesso finiscono per ottenere l’effetto di rafforzare la fiducia dei lavoratori nelle istituzioni, più che di spingerli sulla strada della solidarietà, una dinamica che è stata sottolineata da Ching Kwan Lee e Yuan Shen in un recente saggio in cui gli autori si spingevano ad etichettare le ONG cinesi del lavoro come un “apparato anti-solidarietà”. La stessa Anita Chan, una delle massime esperte nel campo del lavoro in Cina, in una recente intervista – che riproponiamo a pag. 41 – ha sottolineato come, contrariamente a quanto si pensa, la consapevolezza del diritto, promossa da queste ONG come dallo Stato, di fatto possa diventare un fattore che ostacola lo sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori. Lavoratori convinti che la Legge sia la norma non chiederanno mai nulla che vada oltre quanto già concesso loro dallo Stato e, nel caso di una violazione dei loro diritti, non chiederanno niente più che una compensazione in accordo con quanto concesso loro dall’alto. La consapevolezza giuridica, quel “risveglio dei diritti” dei lavoratori cinesi che tanto è stato esaltato negli ultimi anni e su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine, in fondo non è altro che la riaffermazione di un’idea del diritto creata interamente dall’alto dallo Stato, un discorso egemonico che viene perpetuato al fine del mantenimento della stabilità sociale e dello status quo. Dal momento che ogni tentativo di lanciarsi in attività più aggressive e pro-attive viene sistematicamente soffocato dalle autorità, le ONG del lavoro finiscono per farsi portavoce di nient’altro che questo discorso egemonico, al punto che molte di esse hanno da tempo rinunciato a sperimentare nuove forme di lotta e partecipazione, ricadendo in uno schema trito e ritrito di training e pubblicazioni di dubbia utilità, oltre che consulenze legali che sono importanti nella misura in cui gli altri organismi deputati a garantire l’accesso dei lavoratori al diritto falliscono nelle loro funzioni. In quest’ottica, vicende come quella del Centro dei lavoratori di Shenzhen non sono altro che un drammatico segnale alla società civile che ruota attorno all’idea del lavoro dignitoso, un avvertimento che per sopravvivere è necessario stare al proprio posto.
LETTURE
Cina.net
di Ivan Franceschini (ObarraO 2010, 398 pp.) “Cina.net” di Ivan Franceschini, edito da O Barra O (2012), raccoglie oltre tre anni di scritti originariamente apparsi sul web. Costruito attorno a quattro temi fondamentali – nuovi media, lavoro, miniere e società civile – questo libro cerca di catturare la stratificata complessità e i molteplici volti della Cina di oggi attraverso i suoi protagonisti invisibili, dai giovani istruiti esclusi dai meccanismi della crescita economica ai lavoratori nelle miniere di carbone dello Shanxi, dagli autisti “facilitatori” di loschi traffici ai bambini-schiavi delle fornaci, dai netizen ai coraggiosi rappresentanti di una società civile sotto assedio. “Cina.net” non ha tanto la pretesa di dare delle risposte sul futuro della Cina, quanto piuttosto di offrire uno spaccato della società cinese contemporanea, suscitando qualche dubbio sulle narrazioni esistenti.
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Nel mondo del lavoro cinese si diffonde la piaga degli stagisti della precarietà, mentre nel Guangdong la tensione fra migranti e polizia torna a salire. RICERCHE
GIU 2012
MERCATO del LAVORO
Nuove forme di precarietà
Pensioni, una bomba a orologeria
Le autorità cinesi osservano con notevole preoccupazione l’evolvere della curva demografica. Il problema è evidente: con la riduzione della natalità la forza lavoro diminuisce, mentre allo stesso tempo l’allungamento delle aspettative di vita crea una nuova schiera di pensionati da mantenere. Secondo un’indagine condotta di recente da Deutsche Bank e Bank of China, nel 2013 serviranno 18 mila miliardi di yuan in più rispetto a oggi per pagare le pensioni. La popolazione cinese sta invecchiando in fretta: oggi coloro con più di 65 anni sono l’8,2% del totale, ma nel 2064 saranno circa il 30%. In un commento pubblicato sulla rivista Caijing, l’economista Hu Yifan ha messo in evidenza un altro dato che ben fotografa la situazione: nel 1982 per ogni pensionato c’erano 15 lavoratori nelle aree urbane e 11 in campagna, nel 2012 la cifra è scesa rispettivamente a 3 e 3,6. In questo contesto, si sta discutendo la possibilità di aumentare l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, ma una simile misura si trova a scontrarsi con una forte resistenza da parte dell’opinione pubblica.
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Due delle piaghe principali del mercato del lavoro cinese di oggi sono l’utilizzo di stagisti reclutati direttamente dagli istituti tecnici e il ricorso sempre più diffuso alla somministrazione di manodopera. La legislazione attualmente in vigore non tutela queste due categorie di lavoratori, in particolare i lavoratori somministrati, i quali spesso si trovano a svolgere le mansioni più pericolose, faticose e umili all’interno di un’azienda, ricevendo salari nettamente inferiori rispetto ad altri dipendenti nella stessa posizione assunti regolarmente. Secondo un’indagine condotta da un giornalista del sito Harbin Xinwen Wang, di norma questi lavoratori vengono pagati dal 20 al 50% in meno delle loro controparti, senza contare il fatto che le loro possibilità di carriera e il welfare che ricevono sono nettamente inferiori. Il 4 giugno il governo centrale ha sottoposto all’attenzione del pubblico una bozza di emendamento della Legge sulla sicurezza della produzione in cui si afferma esplicitamente che “i lavoratori assunti con contratto di somministrazione godono dei diritti stabiliti nella Legge in questione”. Eppure, come ha sottolineato un editoriale uscito sul Nanfang Dushibao, è presto per gioire: per risolvere il problema sarà necessario eliminare anche le numerose ambiguità contenute nella Legge sui contratti di lavoro e innalzare gli standard delle agenzie interinali. SCIOPERI
Estate di tensione nel Guangdong
Fra la fine di giugno e l’inizio di luglio centinaia di migranti cinesi si sono scontrati con la polizia nella municipalità di Shaxi, nei pressi della città di Zhongshan. All’origine degli scontri ci sarebbe lo scontento causato dal trattamento discriminatorio subìto dai lavoratori migranti. Tutto è iniziato con un alterco fra un giovane migrante di quindici anni e uno studente locale. Quando la polizia è intervenuta scagliandosi contro il ragazzo migrante, ciò ha provocato l’ira della famiglia di quest’ultimo, prontamente soccorsa da una folla di quasi trecento persone, per lo più migranti provenienti dalla provincia del Sichuan. Altri scontri fra migranti e la polizia si erano verificati nel mese di giugno. Il governatore provinciale Wang Yang ha più volte riconosciuto la necessità di mitigare le differenze sociali nella regione e promuovere un modello di sviluppo per un “Guangdong Felice”. Almeno a parole.
FOCUS | LEGGI e RIFORME
Declino e ascesa dell’impresa di Stato
Dalla rottura della ciotola di riso di ferro al nuovo capitalismo di Stato in Cina di Kevin Lin (University of Technology, Sydney)
L
a narrazione dell’ascesa economica della Cina è da sempre dominata dalla storia del successo cinese nel campo delle esportazioni. Secondo questo discorso, la Cina sarebbe riuscita a garantirsi un trentennio di crescita economica pressoché ininterrotta attraverso la lavorazione e l’esportazione in tutto il mondo di beni di consumo a basso costo, un risultato ottenuto soprattutto grazie al settore privato e agli investimenti esteri. Pur contenendo più di un frammento di verità, questa lettura ignora un aspetto fondamentale del panorama industriale cinese, vale a dire la continua rilevanza del settore statale, un termine che usualmente non include istituzioni pubbliche come scuole e ospedali, ma si riferisce solo a banche, servizi e organizzazioni produttive di proprietà dello Stato. Si tratta di un’omissione non da poco, se si considera che negli ultimi anni tale settore è venuto ad assumere un’importanza crescente, non solo per l’economia nazionale, ma anche per quella globale. Secondo l’equivalente cinese della lista delle cinquecento imprese di Fortune, un elenco compilato dalle organizzazioni rappresentative degli imprenditori cinesi – la Confederazione delle Aziende Cinesi (Zhongguo qiye lianhehui)e l’Associazione degli Imprenditori Cinesi (Zhongguo qiyejia lianhehui) – nel settembre del 2012 ben trecentodieci delle cinquecento aziende con maggior fatturato erano di proprietà dello Stato, un risultato che conferma un trend in corso già da diversi anni. E, di fronte a colossi del settore pubblico che, come le cinesi Sinopec e PetroChina, sono ormai tra le aziende più grandi al mondo, c’è poco da stupirsi se la rivista The Economist si è spinta al punto di descrivere paesi come Cina, Russia e Brasile alla stregua di ‘capitalisti di Stato’. Per molti aspetti, le autorità cinesi stanno semplicemente seguendo le impronte di altri paesi sviluppisti asiatici, ad esempio adottando politiche industriali finalizzate all’incoraggiamento di un settore statale strategico attraverso la creazione di conglo-
merati come le Keiretsu giapponesi o le Chaebol sud-coreane. Tuttavia – come è stato sottolineato dall’Economist – il caso cinese presenta almeno una peculiarità: l’inequivocabile proprietà statale di questi conglomerati industriali, sempre più simili a giganteschi animali mitologici. Ed è proprio questa ascesa del settore statale, seguita ad anni di drammatico declino, ciò che spesso sfugge agli osservatori esterni. È dunque importante comprendere il contesto in cui si sviluppano questi colossi del settore statale, quali sono le loro origini e come sono arrivati ad occupare la posizione in cui si trovano oggi. Dopo la presa del potere nel 1949, il Partito Comunista Cinese lanciò un’imponente campagna di industrializzazione nelle aree urbane. La produzione industriale venne organizzata in “unità di lavoro” (danwei) di proprietà statale e collettiva, strutture di base aventi natura non solo economica, ma anche sociale e politica. Tramite le unità di lavoro, i lavoratori urbani avevano diritto ad un’occupazione a vita e godevano di welfare onnicomprensivo – assistenza sanitaria, alloggio, pensioni, etc. – in una sorta di contratto sociale socialista in cui il paternalismo dello Stato veniva usato come merce di scambio per la cooperazione dei lavoratori. Di fatto, nonostante il Partito fosse arrivato al potere grazie al supporto dei contadini, i principali beneficiari del socialismo di Stato maoista furono i lavoratori industriali urbani. In quei decenni, la produzione industriale pesante crebbe considerevolmente e ciò aprì la strada ai successivi sviluppi nel periodo delle riforme. Questo non implica certo che i lavoratori statali nel periodo maoista fossero entità interamente passive. Di fatto, essi avevano più d’una ragione di scontento nei confronti della gerarchia del potere all’interno del posto di lavoro e ciò occasionalmente esplodeva in proteste, specialmente in concomitanza di campagne politiche. Ciononostante, sin dall’inizio lo Stato ha adottato delle strategie finalizzate alla prevenzione dell’emergere di un movimento MADE IN CHINA | 2012
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operaio, ad esempio monopolizzando la rappresentanza del lavoro attraverso un sindacato ufficiale corporativistico, la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC, Zhonghua quanguo zonggonghui), ed esercitando uno stretto controllo politico attraverso le sezioni di Partito attive in ogni unità. Ciò si è rivelato sufficiente a mantenere una certa pace industriale, tanto che i dipendenti statali non sono mai riusciti a stabilire proprie organizzazioni indipendenti, un fatto che si è poi dimostrato devastante per i lavoratori nel periodo delle riforme.
Nel 2012 su 500 imprese cinesi con maggiore fatturato, 310 sono di proprietà statale Le riforme lanciate da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta introdussero un’economia di mercato in cui le imprese di proprietà dello Stato erano tenute a competere su un piano di parità con le aziende private. Ciò comportò una ristrutturazione del settore statale, con nuove regole adottate al fine di far sì che le imprese di Stato agissero in maniera più simile a quella delle aziende nei paesi capitalisti. Queste misure includevano una maggiore autonomia manageriale, l’introduzione dei contratti di lavoro e il ricorso ad incentivi monetari basati sulla performance. Se nei primi anni Ottanta i lavoratori statali avevano ottenuto significativi aumenti salariali, questi guadagni furono ben presto erosi dall’inflazione, uno dei fattori fondamentali alla base del supporto dei lavoratori alle proteste studentesche del 1989, a Pechino come altrove. All’epoca la FNSC aprì un dibattito sul proprio ruolo in un’economia di mercato, chiedendosi se non fosse ora di trovare delle nuove strategie per rappresentare al meglio i lavoratori, ma il Partito-Stato, allarmato dalla sollevazione popolare e dall’emergere di una società civile, stroncò ogni velleità sul nascere. Mentre la riforma delle imprese di Stato negli anni Ottanta era stata graduale, gli anni Novanta videro un’accelerazione nella spinta a trasformare un settore statale in declino in aziende in grado di generare profitti. L’apice di questa ristrutturazione delle imprese statali si ebbe nel 1997 con il Quindicesimo Congresso del Partito Comunista, quando le autorità decisero di lanciare un programma complessivo di privatizzazioni, chiusure e licenziamenti, costruito attorno al principio di 22
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“tenere le grandi [imprese] e lasciar andare le piccole” (zhuada fangxiao). Questo periodo vide la distruzione di intere comunità cresciute intorno ai luoghi di lavoro e decine di milioni di lavoratori finirono disoccupati. Molti di essi successivamente non sono più stati in grado di trovare un’occupazione alternativa, in parte a causa della propria età avanzata, in parte per la propria mancanza di qualifiche. Allora i lavoratori statali iniziarono ad organizzare proteste, ma la repressione governativa, unita ai risarcimenti statali e ai servizi per la rioccupazione, furono in grado di limitare l’attivismo operaio. In questo modo, i lavoratori statali finirono per essere tra le vittime principali delle riforme. Tuttavia la storia non finisce qui. Contrariamente alle aspettative generali, ciò che inizialmente sembrava essere niente più che un caso tipico di privatizzazione neo-liberista, nel giro di pochi anni si è rivelato essere una deliberata riorganizzazione finalizzata a tutt’altro che lo smantellamento del settore statale. Nei primi anni Duemila, l’industria statale cinese ha iniziato a crescere rapidamente. La riforma delle imprese statali è proseguita per buona parte del decennio, ma era finalizzata non più a ridimensionare l’industria di Stato, bensì a consolidare le aziende rimanenti in settori strategici. Le statistiche nazionali mostrano una notevole crescita nella produttività e profittabilità del settore per i primi dieci anni del nuovo millennio. Ciò era dovuto in parte alla condizione monopolistico di alcune aziende statali, in parte alla quantità di investimenti in macchinari, all’intensificazione del lavoro e ai sussidi governativi. Nel complesso, tutto questo ha contribuito ad un revival dell’industria statale. Cos’è successo ai dipendenti statali in questo periodo di revival del settore di Stato? Le mie ricerche si concentrano proprio su quest’argomento ampiamente sotto-ricercato. Più nello specifico mi sono occupato di come le relazioni industriali nel settore pubblico si siano evolute a partire dalla conclusione del periodo di ristrutturazione, nei primi anni Duemila. Per cominciare, la riorganizzazione ha ridotto le dimensioni del settore statale in maniera significativa. Nel 1998 in Cina c’erano 64.737 aziende di proprietà dello Stato, contro le appena 20.253 del 2010, mentre il numero di lavoratori statali è sceso da 37 milioni nel 1998 a 18 milioni nel 2010. In ogni caso, comunque lo si guardi, il settore statale impiega ancora una forza lavoro di dimensioni considerevoli. A causa della crescente redditività del settore e
della rinnovata enfasi sulla stabilità lavorativa, i dipendenti statali – quantomeno quelli regolari – sono oggi pagati molto meglio, hanno un lavoro più stabile e godono di maggiori tutele delle loro controparti nel settore privato. Questo aiuta a spiegare perché a partire dai primi anni Duemila le proteste operaie nelle imprese di Stato siano diminuite in maniera esponenziale, mentre i lavoratori nel settore privato sono sempre più attivi nell’organizzare scioperi per chiedere salari più elevati e condizioni di lavoro migliori. Eppure, anche se il settore statale ha evitato serie agitazioni operaie negli ultimi anni, non per questo esso è privo di problemi. Da quando, alla fine degli anni Novanta, un gran numero di lavoratori è stato licenziato o messo in una condizione simile alla cassa integrazione – in cinese il termine tecnico è xiagang, letteralmente “scendere dal posto di lavoro” – le imprese di Stato hanno iniziato a firmare contratti di durata più breve con i neo-assunti. Ancor più significativo è il fatto che nello stesso periodo le imprese statali abbiano iniziato ad impiegare una quantità sempre maggiore di lavoratori somministrati (paiqiangong), i quali firmano un contratto con un’agenzia e poi vengono “distaccati” presso le aziende. Si tratta di un istituto giuridico pensato originariamente per aumentare la flessibilità del lavoro nelle posizioni temporanee, sostitutive e ausiliarie, ma che oggi è diventato una parte integrante dei rapporti di lavoro in Cina, lì dove i lavoratori somministrati vengono impiegati per archi temporali anche molto lunghi. In questo modo, nel settore statale si è venuta a creare una forza lavoro bipartita: da un lato i lavoratori regolari, assunti con contratti di durata più lunga, se non a tempo indeterminato; dall’altro i lavoratori impiegati tramite agenzia, con contratti a breve scadenza. La prima categoria naturalmente gode di maggiori tutele sul lavoro, riceve salari più alti e un welfare migliore. Questo modello flessibile di occupazione è ormai un fenomeno generale nel panorama delle relazioni industriali in Cina, ma le imprese di Stato sono indubbiamente le realtà che se ne servono in maniera più sistematica ed estesa. Si stima che il numero totale di lavoratori somministrati in Cina vada dai trentasette ai sessanta, o addirittura settanta milioni, ma non esistono statistiche pubbliche affidabili sulla portata del fenomeno nel settore statale. Indagini condotte dal sindacato ufficiale suggeriscono che nelle imprese di Stato la proporzione di lavoratori assunti tramite agenzia sia più elevata, un fatto confermato dalle
mie ricerche sul campo in diverse aziende statali. I lavoratori somministrati si trovano in una posizione precaria. Anche se molti di loro hanno lavorato in una stessa azienda per diversi anni, essi hanno poche occasioni di diventare lavoratori di ruolo. Quest’incertezza, così come l’inferiore livello salariale a parità di lavoro svolto, in futuro potrebbe trasformarsi in un motivo di agitazione nel settore statale. Di fatto, già oggi sporadicamente si verificano dei casi di resistenza da parte di lavoratori assunti tramite agenzia. Per prevenire il degenerare della situazione, a livello nazionale sono in discussione nuove norme di legge finalizzate a limitare l’utilizzo di questa modalità d’assunzione, ma inevitabilmente ogni riforma in questo senso dovrà scontrarsi con una forte resistenza da parte delle imprese di Stato più potenti.
Le imprese statali cinesi sono ormai fra le più grandi al mondo, soprattutto nel settore dell’energia Oltre alla potenziale sfida delle agitazioni operaie, il settore statale in Cina è oggetto anche di assalti ideologici. Dal momento che le imprese di Stato cinesi ora sono tra le più grandi non solo in Cina ma anche nel mondo, è naturale che esse appaiano minacciose agli occhi del capitale privato, soprattutto in un momento in cui molte imprese private hanno difficoltà a competere con le proprie controparti pubbliche. In un rapporto congiunto pubblicato nel 2012 con il titolo La Cina nel 2030: Costruire una Società ad alto Reddito Moderna, Armoniosa e Creativa, la Banca Mondiale e il Centro di Ricerche sullo Sviluppo del Consiglio degli Affari di Stato (Guowuyuan fazhan yanjiu zhongxin) hanno consigliato ulteriori riforme di mercato per le imprese statali cinesi a garanzia del mantenimento un tasso di crescita economico adeguato per i prossimi due decenni. Pochi mesi prima, un rapporto dell’Istituto Economico Unirule (Tianze jingji yanjiusuo), un organismo non governativo cinese diretto dal noto economista Mao Yushi richiedeva l’uscita delle imprese statali da settori redditizi e competitivi. Negli anni, le critiche alle imprese di Stato non sono mai venute meno. Secondo i critici cinesi, esse sono monopolistiche, inefficienti, corrotte e un ingombro al funzionamento razionale dell’economia di mercato. Il dibattito sull’ “avanzamento dello StaMADE IN CHINA | 2012
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to e il ritiro del privato” (guojin mintui) non è niente di nuovo in Cina, ma sta assumendo toni sempre più urgenti. Questo accade non solo perché il settore statale sta crescendo rapidamente, ma anche perché sezioni del privato stanno incontrando serie difficoltà. Internazionalmente, il settore statale cinese sembra più sicuro di se stesso e meglio capitalizzato che mai e questo avviene proprio nel momento in cui le economie liberali occidentali stanno soffrendo a causa di una recessione prolungata. Inoltre, le imprese di Stato cinesi ora stanno investendo in paesi ed aree tradizionalmente nella sfera d’influenza occidentale, entrando in competizione diretta con aziende multinazionali americane ed europee. Comunque sia, almeno sul breve termine è improbabile che lo Stato cinese tiri il freno al settore statale, soprattutto in questo periodo in cui il settore destinato alle esportazioni è in declino. Altrettanto poco probabile è che le autorità siano disposte ad amputare un braccio che si è rivelato così utile nel riaggiustare e stabilizzare l’economia cinese in un ambiente economico globale sempre più volatile. Il settore statale cinese sembra dunque destinato a giocare un ruolo sempre più prominente nell’economia. (traduzione di Ivan Franceschini) ©CINERESIE
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LETTURE
Dal Grande Esperimento alla Società Armoniosa di Valeria Zanier (Franco Angeli 2011, 208 pp.)
Nel giro di pochi anni, la Cina in tuta blu e libretto rosso si è trasformata in un’economia vincente, sede delle attività produttive di molte imprese occidentali e attore discreto eppure presente nel contesto geopolitico. La Cina desta al tempo stesso ammirazione e timore, e diffusa è l’esigenza di avere un’informazione precisa, completa e critica che aiuti a comprenderne armonie e contrasti. In linea con le analisi più recenti condotte nell’ambito degli studi storici e socioeconomici, il presente volume tratta in modo chiaro e sistematico la storia economica della Repubblica Popolare Cinese dal 1978 ad oggi, affrontando le direttrici principali dello sviluppo cinese alla luce delle complesse dinamiche tra Stato, mercato e nascente società civile. Ne emerge un’immagine molto diversa da quella correntemente diffusa. La Cina ha anteposto la crescita economica a tutto, ma nella strada verso il successo, le riforme hanno proceduto in modo tutt’altro che lineare, spesso traendo spunto dalla sperimentazione locale recente o da inclinazioni industriali e commerciali di epoca pre-rivoluzionaria. Iniziativa privata e gruppi d’interesse hanno svolto un ruolo decisivo nell’introduzione del mercato, comunque insieme nell’orgogliosa costruzione di un paese moderno. Il testo, scritto in un linguaggio semplice e fluido, si propone tanto come strumento per gli studenti universitari, quanto per un pubblico più vasto, curioso di conoscere da vicino il “nuovo ordine cinese”.
LUG 2012
In vista del Congresso del Partito dell’autunno, ci si interroga su come la nuova leadership affronterà i problemi derivanti dai cambiamenti demografici.
RICERCHE
Cina 2015: correzioni necessarie
Nel corso del forum internazionale “La Cina del futuro”, svoltosi a Singapore il 9 e 10 luglio, sono stati discussi alcuni scenari futuri per la popolazione cinese. Fang Jin, vice-direttore della China Development Research Foundation, nel suo intervento ha portato dei dati che sembrerebbero confermare la parabola discendente della crescita demografica cinese. Nell’ultimo decennio l’incremento demografico è stato di circa lo 0,07%, meno della metà della media mondiale. Seguendo questa tendenza, nel 2027, il rapporto fra nascite e morti, che oggi si colloca a 1,18 (la media per i paesi sviluppati è 1,7), diventerà inferiore all’unità. Un altro dato importante è il dimezzamento negli ultimi trent’anni del numero dei giovani di età compresa fra 0-14 anni. Ciò è molto preoccupante, soprattutto in considerazione del fatto che, nello stesso periodo, gli anziani con più di 65 anni sono quasi raddoppiati. In sostanza, nel 2015 quel surplus di popolazione che finora ha costituito una fonte apparentemente inesauribile di forza lavoro inizierà a calare, una situazione che finirà per ripercuotersi sul mondo del lavoro e sull’economia nazionale. Fang Jin tuttavia ha concluso il suo intervento con un certo ottimismo: a suo dire, se con la politica del figlio unico la Cina ha dimostrato di poter raggiungere determinati obiettivi, ora forse è tempo di iniziare ad apportare correzioni nella direzione inversa. LEGGI e RIFORME
Bozza di emendamento alla Legge sui contratti di lavoro
Il 6 luglio scorso il Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale Popolare ha pubblicato la bozza di un nuovo emendamento alla Legge sui contratti di lavoro. Come da prassi consolidata, le autorità cinesi hanno concesso un mese di tempo all’opinione pubblica per commentare la bozza di legge, cosa che in questo caso si è tradotta in un’ondata di 557.243 opinioni, il numero più alto mai registrato in Cina, quasi tre volte superiore al numero di commenti ricevuti nel marzo del 2006 per la bozza originale della Legge. Gli articoli più dibattuti sono quelli che riguardano la somministrazione di manodopera, un tema caldo di cui si è già scritto nei mesi precedenti. In particolare, il nuovo emendamento, se approvato nella presente forma, introdurrebbe significative novità nel: a) delimitare i tipi di posizione – temporanee, ancillari, sostitutive – per cui è possibile un contratto di somministrazioni; b) rendere più restrittive le condizioni necessarie ad aprire un’agenzia per la somministrazione di manodopera; c) rendere esplicito il principio dell’uguale paga per uguale lavoro per i dipendenti somministrati; d) introdurre pene più severe per coloro che abusano della somministrazione.
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FOCUS |SCIOPERI
Il presunto risveglio dei lavoratori cinesi
Alcune riflessioni sull’attivismo operaio a due anni dalla calda primavera del 2010 di Ivan Franceschini
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tando a notizie apparse su media locali, lo scorso 29 marzo oltre cinquecento lavoratori dello stabilimento di Longgang (Shenzhen) della giapponese Ohms Electronics, una sussidiaria della Panasonic, sarebbero scesi in sciopero con una piattaforma di richieste riguardanti welfare e salari. Singolarmente, nel documento che elencava le rivendicazioni, oltre alle varie questioni economiche i lavoratori lamentavano anche la mancanza di rappresentatività del sindacato aziendale, un problema che sarebbe emerso con forza durante le trattative per gli aumenti salariali. Anche se non si hanno notizie sulla conclusione della vicenda, stando a testimonianze raccolte dai giornalisti del Nanfang Dushibao, l’azienda avrebbe risposto affermando chiaramente la propria volontà di tenere al più presto un congresso dei lavoratori per scegliere “un sindacato che rappresenti veramente gli interessi dei dipendenti”. Scioperi come questo sembrerebbero confermare il discorso ormai dominante sul “risveglio” dei lavoratori cinesi, una nuova narrazione che si è affermata nell’ultimo paio d’anni, sulla scia dello sciopero dei lavoratori della Honda di Nanhai della primavera del 2010. In sostanza, dopo decenni in cui i lavoratori cinesi sono stati descritti come nient’altro che vittime passive del capitale globale, dal 2010 giornalisti, accademici ed attivisti hanno cominciato a far a gara nel descrivere i lavoratori migranti cinesi come portatori di una rinnovata consapevolezza, sottolineando come questo si traduca in proteste non più mirate ad ottenere benefici esclusivamente economici, in genere in linea con gli standard minimi stabiliti dalla legislazione in vigore, ma in un numero sempre maggiore di rivendicazioni di natura sindacale o richieste che vanno oltre quanto già previsto dalla Legge. Un perno di questa nuova retorica sono i cosid26
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detti “lavoratori migranti di nuova generazione” (xinshengdai nongmingong), un termine relativamente nuovo con cui in genere si designano i migranti nati negli anni Ottanta e Novanta. Stando a quanto riportato in un’indagine condotta dal sindacato ufficiale nel 2010 ampiamente ripresa dai media cinesi, a differenza della generazione precedente, questi giovani si vedrebbero come lavoratori più che come contadini, non chiederebbero semplicemente il rispetto degli standard lavorativi minimi, quanto piuttosto un lavoro dignitoso e delle opportunità di sviluppo professionale e avrebbero una maggiore consapevolezza dei propri diritti, oltre che un atteggiamento più attivo nel perseguirli.
Nella primavera del 2010 i lavoratori della Honda di Nanhai scesero in sciopero. La notizia finì in prima pagina su quasi tutti i giornali cinesi Sorvolando su quella che è una palese esagerazione della frattura generazionale tra migranti nati prima e dopo gli anni Ottanta, scioperi come quello della Honda o della Ohms, con le loro rivendicazioni in campo sindacale, rimangono un’eccezione nel panorama industriale cinese. La stessa idea che negli ultimi anni la Cina sia stata soggetta a “ondate di scioperi” dovute ad una crescente consapevolezza dei lavoratori, per quanto affascinante appare tutt’altro che scontata. Sembra infatti che esista una generale tendenza nei media, tra gli attivisti e in parte del mondo accademico a trasformare fatti particolari e ben circostanziati – come ad esempio lo sciopero della Honda – in tendenze generali, come se si trattasse di punti di svolta
rappresentativi dell’evoluzione della società cinese. Che grazie ad un’incessante opera di propaganda da parte sia dello Stato che della società civile, la consapevolezza del diritto si stia diffondendo tra i lavoratori cinesi è innegabile, ma tra il riconoscere questo fatto e l’affermare che i lavoratori migranti cinesi si sarebbero “risvegliati” il passo è lungo. Il punto è che i dati in merito scarseggiano e, in alcuni casi, si dimostrano notevolmente ambigui. Per citare un esempio, stando ad uno studio di Linda Wong pubblicato di recente sul China Quarterly, circa il 70% dei 2.617 lavoratori intervistati dall’autrice sarebbe stato a conoscenza della Legge sul lavoro, mentre il 55% avrebbe affermato lo stesso per quanto riguarda la Costituzione. Il problema in questo caso è cosa si intende con l’“essere a conoscenza”: significa essere al corrente dell’esistenza di una Legge sul lavoro oppure conoscerne i meccanismi e i contenuti? Personalmente, mi è capitato più volte di intervistare lavoratori i quali sostenevano di essere a conoscenza della Legge, per poi scoprire che essi confondevano la Legge con i regolamenti interni dell’azienda.
I dati a supporto dell’idea di un “risveglio” dei lavoratori cinesi scarseggiano e sono spesso ambigui Secondo lo stesso studio, di fronte ad una violazione dei loro diritti, nel 34,8% dei casi i lavoratori migranti sceglierebbero di cercare assistenza legale, contro un 34,8% che cercherebbe aiuto da parenti, amici o compaesani, un 19,1% che ricorrerebbe alla mediazione e all’arbitrato delle autorità, un 8% che tollererebbe la situazione e un 4,3% che chiederebbe aiuto al sindacato ufficiale. Se la sfiducia nei confronti del sindacato non è una grande novità, ci sono diverse ragioni per prendere questi dati con le pinze. Innanzitutto, nella lista delle risposte mancano almeno due opzioni fondamentali: in primo luogo, la possibilità di “votare con i piedi” (yijiao toupiao), cioè dare le dimissioni e cercare un nuovo posto di lavoro, sfruttando l’attuale “carestia di migranti”; in secondo luogo, la possibilità di rivolgersi ai manager dell’azienda per una mediazione. Poi, anche in questo caso esiste un problema terminologico: che cosa si intende con “cercare assistenza legale”? Si tratta del ricorso ad attori statali, come gli appositi centri di assistenza legale, oppure ad attori
privati come avvocati professionisti, o ancora ad attori informali, come i cosiddetti “avvocati scalzi”? Domande come questa, lungi dall’essere fini a se stesse, sono di importanza fondamentale per comprendere il rapporto tra i lavoratori migranti, la Legge e lo Stato e, di conseguenza, per azzardare un’interpretazione della loro consapevolezza giuridica. Al di là di ogni retorica e di ogni wishful thinking. ©CINERESIE
LETTURE
Se Tutti i Cinesi Saltano Insieme
di Jonathan Watts (Nuovi Mondi 2011, 512 pp.) Se Tutti i Cinesi Saltano Insieme di Jonathan Watts racconta la storia della più importante crisi ambientale mai vissuta dalla Cina e dal mondo. Acque contaminate, emissioni inquinanti e un insaziabile appetito per le risorse energetiche. Il rapido sviluppo della Cina sta spingendo oltre il limite lo sfruttamento del nostro pianeta, ponendo le autorità e la popolazione di questo Paese di fronte a una scelta che ci riguarderà tutti: accettare la catastrofe o tentare un radicale cambiamento di rotta? Per descrivere questo dilemma, Jonathan Watts ha viaggiato attraversando le province cinesi, tra paradisi montani e aridi deserti, tra città ecologiche, miniere di carbone e desolati scenari industriali, svelando le sfide che attendono il paese e i problemi e le speranze di cui la popolazione dovrà farsi carico. Il libro di Jonathan Watts è una lettura fondamentale per chiunque si interessi di sviluppo economico, sicurezza energetica, globalizzazione o sostenibilità. Non si tratta di un semplice grido di terrore, ma di un volume che esprime la speranza che - al di là delle politiche messe in atto dai governi - le scelte individuali possano davvero fare la differenza.
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E’ una torrida estate per lavoro e diritti in Cina, fra cambiamenti nei flussi migratori, lavoro minorile e un nuovo caso di schiavitù ai danni di disabili.
AGO 2012
MERCATO LAVORO
Sempre più migranti abbandonano le aree costiere
Il Quotidiano del Popolo del 23 agosto scorso ha pubblicato una nuova inchiesta su come un numero sempre maggiore di lavoratori migranti, invece di rimanere nelle aree costiere, decida di tornare nelle province d’origine per cercare un’occupazione. I dati forniti dai dipartimenti per le risorse umane e la sicurezza sociale dello Henan e del Sichuan, due province che tradizionalmente presentano un alto numero di lavoratori migranti in uscita, sembrano confermare questa tendenza. Ad esempio, nella contea di Minquan nello Henan fra gennaio e luglio di quest’anno sono rientrati circa 50mila lavoratori, 21mila in più rispetto all’intero 2011, mentre nell’intera provincia il numero dei migranti rientrati nella prima metà del 2012 è salito a 710mila, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Si tratta comunque di un’ondata abbastanza ridotta se confrontata con i tre milioni che fecero ritorno alla fine del 2008, quando esplose la crisi finanziaria globale. Per quanto riguarda il Sichuan, le cose stanno cambiando già da qualche anno, con un numero sempre maggiore di abitanti delle aree rurali che trovano impiego non lontano dal luogo d’origine grazie al crescente sviluppo della zona. Anche se i salari sono inferiori rispetto a quelli delle zone costiere, il ridotto costo della vita e la vicinanza a casa inducono più della metà dei lavoratori della provincia a restare, un dato in forte crescita sin dal 2008. SCIOPERI
Proteste degli ingegneri alla Motorola
Dopo l’annuncio da parte di Google, proprietario del gruppo Motorola, di un taglio previsto di circa quattromila lavoratori negli stabilimenti di tutto il mondo, nelle scorse settimane almeno cento lavoratori cinesi hanno protestato fuori dagli uffici di Nanchino dell’azienda. Ad essi, si sono uniti altri duecento dipendenti a Pechino, dove circa settecento dei milleseicento impiegati nel settore ricerca e sviluppo rischiano il posto. Secondo quanto riportato dalla rivista Caixin, i lavoratori cinesi che rischiano il posto sarebbero in totale circa un migliaio. Lo scorso 15 agosto, il presidente di Motorola in Cina, Meng Pu, ha dichiarato alla stampa di aver raggiunto un accordo con il sindacato aziendale, ma molti lavoratori intervistati dalla stampa hanno dimostrato di non essere a conoscenza dell’esistenza del sindacato. Attualmente le trattative sono ancora in corso, soprattutto per quanto riguarda i risarcimenti e il sostegno da parte dell’azienda per il reinserimento nel mercato del lavoro dei tecnici che rimarranno a casa. 28
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DIRITTI
Lavoro minorile: accuse alla Samsung
Dopo la Apple, un’altra multinazionale dell’elettronica finisce sotto accusa per le condizioni dei propri lavoratori in Cina. All’inizio di agosto, l’organizzazione non governativa americana China Labour Watch ha chiamato in causa la Samsung, pubblicando un rapporto in cui si affermava che almeno sette lavoratori di età inferiore ai sedici anni sarebbero stati impiegati negli impianti della HEG Electronics, un fornitore cinese che per il colosso coreano produce telefoni e lettori DVD. Stando alle informazioni raccolte, questi giovani lavoratori avrebbero lavorato nelle stesse condizioni degli adulti, ma con paghe inferiori. Per arginare il danno d’immagine, i vertici della Samsung hanno annunciato che provvederanno a lanciare un’indagine interna per appurare le condizioni di lavoro alla HEG. Il governo cinese ha ratificato entrambe le Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sul lavoro minorile e la legislazione in vigore proibisce ai datori di lavoro l’assunzione di dipendenti con un’età inferiore ai sedici anni.
AGO 2012 LAVORO FORZATO
Schiavi nella Cina del ventunesimo secolo
Negli ultimi giorni di agosto, alcune immagini di lavoratori disabili costretti a lavorare in condizioni estreme in una fabbrica d’intonaco a Jingmen, nella provincia dello Hubei, hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica cinese il problema del trattamento dei disabili nelle aree rurali, lì dove spesso non si esita a utilizzare persone con problemi mentali come schiavi. Nel caso specifico, i media locali hanno raccontato come undici lavoratori di età compresa tra quaranta e cinquant’anni, sette dei quali con evidenti problemi mentali, sono stati obbligati a lavorare senza strumenti protettivi o cibo a sufficienza in questa fabbrica d’intonaco a centinaia di chilometri di distanza dalle loro case. Secondo la testimonianza di Deng Yuhua, il “caporale” che aveva portato questi uomini nella fabbrica, le famiglie avevano dato volentieri il consenso alla transazione, in quanto in tal modo essi avrebbero iniziato a guadagnare soldi e avrebbero smesso di essere un fardello. Dopo lo scoppio dello scandalo, la fabbrica è stata chiusa e il proprietario ha ricevuto una multa di ventimila yuan (circa 2.500 euro). Questa vicenda presenta evidenti analogie con uno scandalo avvenuto nell’estate del 2007, quando, grazie alla mobilitazione di un gruppo di genitori dello Henan alla ricerca dei propri figli scomparsi, i media cinesi hanno svelato un imponente traffico di giovani e adulti disabili destinati come schiavi alle fornaci di mattoni clandestine. Allora, l’opinione pubblica cinese si era sollevata con forza, chiedendo alle autorità un’azione di polizia più incisiva per individuare le fornaci clandestine sparse nelle campagne, la liberazione degli schiavi e la punizione dei caporali e dei padroni delle fornaci.
LETTURE
Cronache dalle Fornaci Cinesi di Ivan Franceschini (Cafoscarina 2009, 194 pp.)
Lo scandalo della schiavitù nelle fornaci di mattoni clandestine dell’estate del 2007 può essere raccontato da vari punti di vista. Se, da un lato, esso può essere letto come una dimostrazione degli aspetti più biechi e arretrati della Cina di oggi, dall’altro gli eventi di quell’estate hanno anche segnato un momento di riscossa per la società civile. Questo libro racconta la storia delle fornaci clandestine presentando la traduzione di una serie di articoli apparsi sulla stampa cinese negli ultimi due anni. L’obiettivo è quello di ricostruire uno dei più gravi scandali mai avvenuti in questo paese, utilizzando le fonti di prima mano per dare un’idea di quello che sono i media nella Cina di oggi. I veri protagonisti di questa storia non sono i funzionari corrotti, i trafficanti di esseri umani, i torturatori, bensì quei genitori, avvocati, giornalisti e semplici cittadini che ogni giorno lottano per migliorare la società in cui vivono.
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Come già si intuiva in primavera, l’estate si conclude con società civile e mondo delle ONG sotto attacco. Segno che il Congresso del Partito si sta avvicinando? DIRITTI
SET 2012
LAVORO FORZATO
Un appello per fermare i campi di lavoro
Chiusura dell’ufficio di Zhou Litai a Shenzhen
A partire dal 1996, Zhou Litai si è guadagnato la nomea di “avvocato dei migranti”. Di fatto, egli non solo è stato uno dei primi a fornire supporto legale ai lavoratori che intendevano fare causa ai propri datori di lavoro, ma ha anche dato un enorme contributo al generale innalzamento dei risarcimenti per gli infortuni a Shenzhen e dintorni. In particolare, nel 1998 egli ha ricevuto una notevole attenzione da parte dei media di tutto il mondo per aver fatto ottenere a un suo assistito il risarcimento più alto di sempre per la perdita di un arto in Cina, l’equivalente di circa diciassettemila euro, oltre cinque volte la cifra usuale per l’epoca. Nonostante la sua fama di “eroe del lavoro”, l’immagine di Zhou è entrata in crisi nel 2004, quando iniziò a fare causa a propri ex-assistiti. Costoro, una volta ottenuto il risarcimento, fuggivano senza pagare la parcella, un fatto che, a detta di Zhou, aveva portato a centinaia di migliaia di euro di mancati pagamenti. All’inizio di settembre del 2012, Zhou Litai ha annunciato l’intenzione di chiudere il proprio ufficio di Shenzhen e porre fine alla propria carriera nel settore della tutela dei diritti dei lavoratori. D’ora in poi si concentrerà sul proprio studio legale di Chongqing e su casi non necessariamente legati al lavoro. Come ha dichiarato egli stesso all’inizio di settembre al quotidiano Nanfang Dushibao, dopo la crisi del 2008, è sempre più difficile ottenere risarcimenti e i lavoratori stessi tendono ad evitare le vie legali, così dispendiose in termini di tempo e denaro. 30
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Sono già oltre settemila le firme raccolte da Wang Cheng, avvocato di Hangzhou, che ha redatto una petizione per l’abolizione dei campi di rieducazione attraverso il lavoro nella Repubblica Popolare Cinese. L’appello è stato lanciato attraverso weibo, il celebre servizio di microblog cinese, e ha già ottenuto il sostegno di personalità importanti come lo scrittore Zheng Yuanjie, o il guru dell’IT Li Kaifu anche se, come ha fatto sapere Wang, il suo account è rimasto bloccato per alcuni giorni in agosto e la polizia lo ha invitato a condurre la campagna con metodi più “razionali”. La pena, in vigore dagli anni Cinquanta, è stata oggetto di critiche in più occasioni. Sotto accusa è l’utilizzo spesso arbitrario della pratica, come avvenuto recentemente con il caso di Tang Hui, madre di una ragazza sequestrata e stuprata nel 2006, che è stata condannata a diciotto mesi di rieducazione attraverso il lavoro con l’accusa di “disturbo dell’ordine sociale”, dopo che, non contenta per le pene assegnate agli aguzzini della figlia, aveva protestato bloccando il traffico e dormendo nei corridoi del tribunale. Una volta raggiunte le diecimila firme – ha dichiarato Wang al Global Times – l’appello verrà inviato ai legislatori cinesi.
SET 2012 DIRITTI
Stage forzati alla Foxconn
Proprio nei giorni in cui in tutto il mondo esce il nuovo iPhone 5, continuano le polemiche circa la gestione del personale negli stabilimenti cinesi della Foxconn, uno dei principali fornitori della Apple. Questa volta, l’accusa è quella di collaborare con autorità locali e istituti scolastici per obbligare studenti non ancora maggiorenni a lavorare da stagisti con gli stessi turni dei lavoratori ordinari, straordinari compresi, ma senza i benefit e il salario corrispondente. Come se non bastasse, questi stage avvengono durante il periodo scolastico e, a causa della durata prolungata, privano i giovani della possibilità di ottenere un’istruzione. Foxconn non ha smentito le accuse ma si è limitata a precisare che non c’è nessun obbligo per gli stagisti e che questi ragazzi hanno scelto volontariamente questo tipo di impiego in considerazione del prestigio dell’azienda e della possibilità di fare esperienza in un contesto altamente tecnologico. Come ha evidenziato la rivista Caijing, lo stage “forzato” è uno strumento che l’azienda impiega di fronte alla difficoltà di trovare manodopera. La cosa interessante e spesso taciuta in questo caso è che i governi locali – come è avvenuto recentemente nella città di Huai’an, nel Jiangsu – tendono ad incentivare la pratica e organizzano attivamente il reclutamento presso le scuole. Imprese come la Foxconn offrono un contributo non indifferente alle casse delle amministrazioni locali e per questo vanno accolte con la massima cura, alla faccia dei diritti dei lavoratori.
DIRITTI
Licenziamenti Huawei in Italia
Ha fatto parecchio scalpore in queste settimane la notizia che la Huawei, colosso cinese delle telecomunicazioni con sedi anche in Italia, avrebbe deciso di licenziare alcuni suoi dipendenti della sede romana seguendo la procedura “per motivi economici” prevista dalla nuova legge Fornero. Come ha fatto notare Giorgio Sarao, membro della segreteria nazionale Fistel-Cisl, l’azienda è in forte crescita in Italia e ha anche rilevato attività e lavoratori del network Fastweb, per questo motivo il licenziamento per ragioni economiche appare poco plausibile e potrebbe costituire un grave precedente.
SOCIETA’ CIVILE
Continuano le violenze contro le ONG a Shenzhen
Lo scorso 29 agosto alcune decine di teppisti hanno fatto irruzione nell’ufficio di Xiaoxiaocao, un’ONG del lavoro nel distretto di Longgang a Shenzhen, malmenando i presenti, vandalizzando il locale e sigillandone l’ingresso. Di fronte ad un attacco condotto con l’evidente connivenza delle autorità locali, nulla hanno potuto gli attivisti presenti. Le violenze contro Xiaoxiaocao sono solamente l’ultimo di una lunga serie di episodi intimidatori che negli ultimi mesi hanno colpito diverse ONG del lavoro nella metropoli meridionale cinese. Finora, le autorità si erano limitate ad esercitare delle pressioni sui proprietari degli immobili che ospitavano gli uffici delle organizzazioni, spingendoli a sfrattare questi “ospiti indesiderati”, ma il ricorso alla violenza di stampo mafioso segna l’inizio di una nuova fase in questa offensiva. Come ha fatto notare a Radio Free Asia Chen Mao, attivista del Centro per i lavoratori migranti del distretto di Longgang, una situazione simile risulta ancora più paradossale se si pensa che la provincia del Guangdong appena in luglio ha adottato delle misure per facilitare la registrazione ufficiale delle ONG, un fatto additato da più parti come una svolta verso una società più aperta. MADE IN CHINA | 2012
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FOCUS | DIRITTI
Zhou Litai, segni di un’epoca che cambia
L’avvocato dei migranti abbandona Shenzhen e i lavoratori di Ivan Franceschini
I
segni del cambiamento di un’epoca si colgono innanzitutto nelle piccole cose. Ecco allora che il fatto che Zhou Litai, un avvocato impegnato da oltre sedici anni nella tutela dei diritti dei lavoratori migranti, all’inizio di settembre abbia deciso di abbandonare in sordina Shenzhen per dedicarsi a casi più redditizi altrove, racconta una storia molto più complessa di quanto non sembri a prima vista. Anche se i più non ne avranno mai sentito parlare, Zhou Litai non è certo un avvocato qualunque. Egli è stato uno dei primi professionisti del diritto a fornire assistenza ai lavoratori migranti nella Shenzhen della metà degli anni Novanta, uno dei pochi che all’epoca ha deciso di non voltarsi dall’altra parte di fronte a quei lavoratori dagli abiti dimessi che cercavano disperatamente aiuto per recuperare mesi di salari arretrati, paghe dovute per infinite ore di straordinari, risarcimenti per la perdita di un arto o della salute. Allora come oggi, la grande maggioranza degli avvocati evitava casi del genere: i tempi lunghi, gli elevati costi delle trasferte, la difficoltà di trovare prove e le basse prospettive di guadagno fungevano da deterrente anche per le persone più volenterose e idealiste. Zhou Litai era un’eccezione. Nato in una famiglia di contadini poveri nei pressi di Chongqing, Zhou aveva frequentato solamente il secondo anno di scuola media. Nel 1980, in una Cina che muoveva i primi incerti passi sul cammino delle riforme, aveva deciso di migrare nello Hunan, dove aveva trovato lavoro in una fabbrica di tegole. Dopo tre anni, convintosi della necessità di aiutare i lavoratori a combattere per i loro diritti, aveva trovato un lavoro umile nell’ufficio di un procuratore e si era dedicato da autodidatta allo studio del diritto, finchè nel 1986 non era finalmente riuscito a realizzare il suo sogno e aveva ottenuto la licenza da avvocato. Se non fosse stato per Peng Gangzhong, un lavoratore migrante incontrato a Shenzhen nel 32
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1996 che aveva recentemente perso un braccio in un incidente sul lavoro, Zhou probabilmente sarebbe diventato un avvocato come tanti altri. Invece, accettando il caso, egli non solo era riuscito a garantire al suo assistito un risarcimento di 178 mila yuan, una cifra astronomica per l’epoca, ma aveva anche stabilito un precedente fondamentale per l’innalzamento dei compensi in casi di questo tipo, un fatto che era stato ampiamente riportato sulla stampa locale e nazionale. Questo per Zhou era stato l’inizio di una brillante carriera come “avvocato dei migranti” (nongmingong lüshi).
Nella Shenzhen degli anni Novanta gli avvocati evitavano i casi di migranti. Zhou Litai era un’eccezione Grazie ad una serie di casi d’alto profilo, Zhou Litai si è ben presto trasformato in un simbolo della lotta per i diritti dei lavoratori, e come tale è stato osannato sui media cinesi ed internazionali. Dal 1996, i clienti si sono susseguiti senza sosta, tanto che egli tuttora va orgoglioso di aver gestito oltre dodicimila casi nell’arco di sedici anni. Non per questo però egli va considerato un buon samaritano. Se da un lato, il suo contributo alla causa dei diritti dei lavoratori è innegabile, dall’altro è evidente come egli da queste vicende abbia ricavato un ritorno economico e d’immagine non da poco, tanto che tra il 2001 e il 2007 ha avuto la possibilità di aprire tre uffici legali tra Chongqing e Shenzhen. Come egli ha recentemente affermato al Nanfang Dushibao: “Non sono certo un Lei Feng redivivo, se aiuto qualcuno a fare causa, devo essere pagato ed è giusto che sia così”. Proprio da questa contraddizione tra beneficenza e imprenditorialità sono emerse alcune vicende che nell’ultimo decennio hanno finito per danneggia-
re la reputazione di Zhou Litai. Nel 2004 egli ha avviato una serie di cause contro i propri ex-clienti, lavoratori che una volta ottenuto il risarcimento dovuto si erano dati alla macchia senza saldare la parcella. Questa “tradizione” di fughe era stata inaugurata dallo stesso Peng Gangzhong, il quale, una volta ottenuto il risarcimento, era scomparso dalla circolazione senza pagare quanto dovuto. Anche se nel complesso i mancati saldi avevano portato Zhou Litai ad accumulare perdite per diversi milioni di yuan, la scelta di portare in tribunale dei lavoratori mutilati, così come gli insulti ai migranti “che non rispettano le regole” da lui pubblicati sul proprio blog nel 2007, hanno finito per creare una macchia indelebile sull’operato di Zhou.
della società civile impegnate nella tutela dei diritti dei lavoratori migranti a Shenzhen e della riorganizzazione in chiave corporativa della società civile del Guangdong, l’abbandono di Zhou è l’ennesima prova che un cambiamento epocale è in atto nella fabbrica del mondo. Se fare previsioni è azzardato, le premesse sono tutt’altro che rassicuranti.
La vicenda di Zhou Litai ha implicazioni che si intrecciano con i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro
Che cosa succede quando l’azienda più grande al mondo incontra il Paese più grande? Con questa domanda si apre Walmart in China, il nuovo libro curato da Anita Chan, una lunga indagine sull’impatto del colosso commerciale statunitense sulla catena di distribuzione e sulle pratiche aziendali in Cina. Come molte altre imprese globali, nell’ultimo decennio anche Walmart è stata più volte accusata di aver contribuito al peggioramento delle condizioni lavorative in Cina. I contributi raccolti nel libro confermano la veridicità di queste accuse, sottolineando come la continua ricerca del “prezzo più basso” da parte di Walmart abbia di fatto contribuito a comprimere i salari nelle fabbriche dei suoi fornitori. Eppure allo stesso tempo gli autori non mancano di offrire un quadro più completo e circostanziato dei fattori e degli attori in gioco, ricostruendo uno spaccato di quello che è il mondo del lavoro nella Cina di oggi, dai livelli manageriali più elevati ai lavoratori di prima linea, dal sindacato alle organizzazioni della società civile. Anche se il libro è essenzialmente su Walmart, non bisogna commettere l’errore di sottovalutarne la portata analitica. Di fatto, le realtà in esso descritte vanno ben oltre la singola azienda, riflettendo piuttosto le dinamiche globali della “corsa al ribasso” negli standard lavorativi. In quest’ottica, il libro di Anita Chan si rivela una lettura tanto più necessaria.
Ora, sedici anni dopo quell’inizio così promettente, Zhou ha deciso di lasciare definitivamente Shenzhen e dedicarsi a casi commerciali a Chongqing. Forse aprirà un centro di ricerca sui diritti dei lavoratori, ma non è certo. Come ha spiegato al Nanfang Dushibao, sono troppe le cose che lo hanno lasciato con l’amaro in bocca, non da ultimo i cinque milioni di yuan mai pagati dai suoi clienti. Secondo Zhou, anche se la situazione dei lavoratori cinesi è cambiata molto in questi anni, oggi come in passato i migranti rimangono delle “formiche impegnate in una lotta contro elefanti”, tanto che molti non hanno altra scelta che ricorrere a misure estreme che con il diritto non hanno niente a che fare. Ancora peggio, dopo il 2008 il tasso di vittorie a favore dei lavoratori in casi sul lavoro sarebbe sceso in maniera drammatica: se prima del 2008, egli poteva aspettarsi di vincere nel novanta per cento dei casi, dopo il 2008 aveva difficoltà arrivare persino al cinquanta per cento. Tutto per l’impatto della crisi finanziaria, che – a dire suo e di molti altri osservatori – avrebbe portato i governi locali – e di conseguenza gli organi giudiziari – a pendere ancora una volta dalla parte del capitale. Ecco allora che l’addio di Zhou Litai finisce per raccontare ben più che la storia di una disillusione personale. Alla pari dello slittamento dei flussi migratori a favore delle aree dell’interno, della rinnovata repressione nei confronti delle organizzazioni
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LETTURE
Walmart in China
di Anita Chan (ILR Press 2011, 304 pp.)
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In concomitanza con il lancio di ogni nuovo prodotto Apple cresce l’attenzione e la pressione intorno alla Foxconn. Una lavoratrice cinese intanto trova un metodo originale per far sentire la sua voce. GIOVANI
Giovani laureati al primo impiego: paga da operaio Secondo un sondaggio promosso di recente dal portale cinese Renrenwang, i laureandi cinesi si aspettano una paga da operaio per il loro primo impiego. Il sondaggio, condotto in rete fra agosto e settembre, conta su un campione di circa 94.000 laureandi distribuiti tra tutte le trentuno regioni cinesi. Dalle loro risposte, risulta che più della metà è disposta ad accettare un salario compreso fra i duemila e i quattromila yuan (240-480 €) e il 21% accetterebbe addirittura un salario al di sotto dei duemila yuan, alla pari di un qualsiasi lavoratore migrante non qualificato. Si tratta di risultati che non sorprendono, se si pensa alle crescenti difficoltà incontrate negli ultimi anni dai giovani laureati cinesi nel trovare un impiego economicamente appagante. Come abbiamo scritto a pagina 10, già nell’aprile del 2012 (p. 13) alcuni studenti della Guangdong University sono scesi in strada indossando elmetti da operaio per esprimere la loro preoccupazione per il proprio futuro. Un altro dato interessante emerso dal sondaggio indica che più del 30% degli intervistati intende tornare a lavorare vicino al proprio luogo d’origine, una volontà in linea con la tendenziale riduzione dei flussi migratori in direzione delle grandi città della costa.
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OTT 2012
DIRITTI
Foxconn tra ammissioni e mezze verità
Si conclude un mese caldissimo per la Foxconn in Cina e per la reputazione del marchio Apple in tutto il mondo. Alla fine di settembre, i media internazionali hanno riportato la storia di una rissa tra circa duemila lavoratori nell’impianto Foxconn di Taiyuan, provincia dello Shanxi, culminata nella chiusura temporanea della fabbrica. Dopo un paio di settimane, l’undici ottobre, l’organizzazione americana China Labour Watch ha dichiarato che circa quattromila lavoratori dell’impianto Foxconn di Zhengzhou, provincia dello Henan, sarebbero entrati in sciopero contro le condizioni di lavoro legate al nuovo modello dell’iPhone, rallentandone la produzione. Infine, il 16 ottobre, i vertici dell’azienda taiwanese hanno ammesso che nell’impianto Foxconn a Yantai sono stati assunti come stagisti lavoratori di quattordici anni. Quest’ultima notizia è stata confermata da un comunicato ufficiale in cui la dirigenza aziendale ha espresso il suo impegno a investigare a fondo la questione; ben poco invece si sa di quanto è realmente accaduto a Taiyuan e a Zhengzhou. Diversi giornalisti e blogger internazionali hanno infatti dimostrato come in entrambi i casi le fonti siano state utilizzate in maniera quantomeno disinvolta, aprendo un dibattito sulla maniera in cui i media si rapportano alla Foxconn e al tema del lavoro in Cina.
OTT 2012 LEGGI e RIFORME
La contrattazione collettiva di nuovo in agenda a Shenzhen
Secondo il Nanfang Ribao, le autorità cittadine di Shenzhen sarebbero in procinto di reinserire nell’agenda legislativa un controverso regolamento sulla negoziazione collettiva. Discusso per la prima volta dall’Assemblea Popolare Cittadina nel gennaio del 2010 e pubblicato in bozza nell’agosto dello stesso anno, questo regolamento all’epoca è stato oggetto di un forte dibattito, culminato nella revisione di ben sessantadue articoli su sessantanove. Nel settembre del 2010, il provvedimento è stato stralciato e fino ad oggi non se ne è più parlato. Ancora nulla invece si sa delle sorti di un’altra controversa iniziativa di legge in discussione in quel periodo, la revisione delle norme sulla gestione democratica dell’impresa della provincia del Guangdong. Questo regolamento rappresentava un’importante novità, in quanto esso prevedeva che nel caso in cui un’azienda avesse rifiutato una richiesta dei dipendenti di avviare una contrattazione collettiva, i datori di lavoro non avrebbero potuto licenziare i lavoratori per la loro partecipazione ad un eventuale sciopero. Diversi osservatori hanno letto il contemporaneo stralcio dei due provvedimenti nel settembre del 2010 come la conseguenza di un’azione di lobbying compiuta da alcuni gruppi d’interesse basati ad Hong Kong. DIRITTI
La lavoratrice non pagata va in rete
Miao Cuihua è una lavoratrice migrante con una storia abbastanza comune di salari non pagati. Tuttavia, a differenza di tanti altri lavoratori che una volta esauriti senza successo i canali ufficiali rinunciano ai propri diritti o adottano tattiche estreme, Miao ha trovato un modo per portare la propria causa all’attenzione dell’opinione pubblica cinese. Con grande abilità, ha diffuso in rete un video di circa quattro minuti in cui, rivolgendosi ai funzionari dell’ufficio per le petizioni, denuncia l’accaduto in un linguaggio che imita in maniera sarcastica i comunicati della propaganda ufficiale. Come se si trattasse di una tipica conferenza stampa del Ministero degli esteri, sul fondale si legge “Conferenza stampa del lavoratore non pagato”, poi Miao passa la parola in collegamento ad un collega che le fa da spalla come reporter di una fantomatica “Agenzia stampa dei richiedenti salario”. Nel video si citano esplicitamente i responsabili del mancato pagamento e si allude a un comportamento arrogante e corrotto da parte delle autorità locali. L’incredibile diffusione di questo video, pur verificatasi con qualche mese di ritardo rispetto all’iniziale pubblicazione in rete, è l’ennesimo esempio delle potenzialità della rete per far valere le istanze dei più deboli in Cina. Resterà da vedere come verrà accolto tale appello da parte delle autorità.
SCIOPERI
Successo per i lavoratori Xinfei
Il 12 ottobre si è concluso lo sciopero di quattro giorni alla Xinfei Electric Co. Ltd, una mobilitazione che ha visto alcune centinaia di lavoratori interrompere il lavoro per ottenere un innalzamento dei salari, migliori benefici e alcuni cambiamenti nella gestione della fabbrica. Il management dell’azienda ha convocato una conferenza stampa in cui ha annunciato di aver accettato tutte le richieste dei dipendenti, promettendo da subito un aumento di 300 yuan sui salari di base e un ulteriore aumento di 200 yuan a partire dal prossimo gennaio. MADE IN CHINA | 2012
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FOCUS | DIRITTI
La legge come un’arma per i lavoratori? Il diritto del lavoro in Cina, fra attivismo e propaganda di Ivan Franceschini
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a decenni “Cina” e “lavoro” sono un binomio inscindibile agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Storie cinesi di salari da fame o addirittura non pagati, incidenti sul lavoro, licenziamenti di massa, proteste operaie sono state riportate con regolarità dalla stampa internazionale, contribuendo alla pessima fama di quella che è stata definita la “fabbrica del mondo”. Eppure, ciò che colpisce maggiormente l’osservatore non è tanto la diffusione dei fenomeni di sfruttamento in Cina, quanto piuttosto il fatto che essi accadano a dispetto della retorica dello Stato cinese sulla necessità di tutelare i diritti dei lavoratori. Di fatto, sono ormai quasi vent’anni che le autorità cinesi hanno avviato un’opera legislativa finalizzata alla costruzione di un corpo giuslavoristico che non ha nulla di invidiare a quelli di tanti paesi occidentali, accompagnandola ad una costante attività di propaganda mirata a promuovere la conoscenza di leggi e regolamenti tra i lavoratori. Come spiegare dunque il paradosso di uno Stato che da un lato invita i lavoratori a “servirsi dell’arma del diritto” (yi falü wei wuqi) e dall’altro tollera l’esistenza di violazioni diffuse di quelle stesse leggi che ha contribuito a creare? Come conciliare i discorsi contrastanti che descrivono le autorità cinesi alternativamente come garanti dei diritti dei lavoratori di fronte al capitale internazionale e come responsabili della compressione di salari e diritti al fine di attrarre investimenti? Per azzardare una risposta a queste domande è necessaria una riflessione su quello che è stato il processo che ha portato alla nascita del diritto del lavoro in Cina, nonché sulla questione della percezione del diritto da parte dei lavoratori cinesi. Solamente in questo modo si capirà come il diritto del lavoro in Cina più che un’arma al servizio dei lavoratori si riveli uno strumento nelle mani dello Stato, il quale se ne
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serve ai fini del rafforzamento della legittimazione politica e del mantenimento della stabilità sociale. Un discorso ufficiale sui diritti dei lavoratori ha iniziato ad emergere in Cina nella prima metà degli anni Ottanta, sull’onda del boom del settore privato e dell’introduzione del sistema dei contratti di lavoro. Fino ad allora i lavoratori cinesi, per lo più dipendenti di imprese statali e collettive, si erano trovati ad agire nel contesto delle “unità di lavoro” (danwei), strutture che, detenendo un monopolio pressoché assoluto sull’erogazione del welfare nell’ambito di un modello occupazionale a vita – la cosiddetta “ciotola di riso di ferro” (tiefanwan) – fungevano da strumento di controllo sociale, ponendo i lavoratori in un rapporto di sudditanza nei confronti dello Stato. In questa situazione, la retorica ufficiale ruotava non tanto attorno al concetto di “legge” (falü) e “diritti” (quanli), quanto piuttosto ad una presunta titolarità dei lavoratori nei confronti dello Stato e dei suoi asset, una nozione racchiusa nel termine zhurenweng, letteralmente “senso di padronanza”, un principio radicato nello spirito rivoluzionario del Partito Comunista e ancora oggi incastonato all’articolo 42 della Costituzione cinese, lì dove si legge che:
Il lavoro è un dovere glorioso per tutti i cittadini che ne abbiano le capacità. I lavoratori delle imprese statali e delle organizzazioni economiche collettive in città e campagna, hanno il dovere di comportarsi verso il proprio lavoro con l’atteggiamento di padroni dello Stato. Con la riforma del lavoro e la rottura della ciotola di riso di ferro alla metà degli anni Novanta, quella che fino a quel momento poteva a buon diritto essere definita una vera e propria classe operaia ha vissuto un processo di rapida frammenta-
zione. Il declino dell’industria statale e collettiva, l’emergere di un settore privato e l’allentamento dei controlli sui flussi migratori dalle campagne alle città contestualmente hanno portato ad una progressiva differenziazione degli interessi, già di per sé molteplici, dei lavoratori cinesi. Nella Cina delle riforme non si parla più semplicemente di lavoratori (gongren) o di impiegati e lavoratori (zhigong), ma più specificamente lavoratori migranti (nongmingong), cassintegrati delle imprese statali (xiagang), funzionari pubblici (gongwuyuan), “formiche” (yizu), giovani istruiti in uno stato di sottoccupazione, e tanti altri sottogruppi sociali classificati in base alla loro posizione lavorativa. In questo contesto di frammentazione e di crescente diversificazione, lo sfruttamento è diventato una realtà sempre più comune. Nel giro di pochi anni nelle relazioni industriali cinesi è emerso ciò che Ching Kwan Lee ha definito “dispotismo disorganizzato”, una formula ove con “disorganizzato” si fa riferimento alla mancanza di coordinazione tra le diverse misure di riforma, mentre con “dispotismo” si richiamano la dipendenza istituzionale del lavoro dalla produzione per la propria sussistenza, l’imposizione di metodi coercitivi di controllo della manodopera da parte dei datori di lavoro e l’apprensione collettiva dei lavoratori. Ed è proprio nel contesto di questo dispotismo disorganizzato che in Cina è emerso con forza il discorso ufficiale sul diritti.
Dopo la Rivoluzione Culturale la costruzione del diritto diventa importante per legittimare il Partito Sin dall’inizio si è trattato però di un’idea di diritto costruita interamente a tavolino, una creazione delle élite politiche ed accademiche del Paese sulla base di quelle che venivano di volta in volta percepite come le necessità non solo dei lavoratori, ma soprattutto del capitale. Come ha rilevato Mary Gallagher nel suo libro Contagious Capitalism, le autorità cinesi hanno deciso di rivolgersi alla rule of law per tre ragioni fondamentali: innanzitutto per un’esigenza di legittimazione derivante dal fatto che la Rivoluzione Culturale aveva reso obsoleto il vecchio armamentario ideologico socialista che fino a quel momento aveva giustificato il mantenimento del potere da parte del Partito; in secondo luogo, per la necessità della legge come strumento funzionale all’apertura
agli investimenti esteri e all’integrazione nei flussi internazionali di capitali; infine per utilizzare il diritto come strumento per il controllo e la gestione delle trasformazioni sociali. Non si è trattato dunque dell’esito di rivendicazioni riflettenti esigenze provenienti dal basso come avvenuto in passato con i movimenti operai di tanti paesi europei, quanto piuttosto di decisioni prese interamente dall’alto attraverso logiche pragmatiche ed opportunistiche. Ecco allora che negli ultimi quindici anni, in seguito a lunghe sperimentazioni su base locale, le autorità hanno adottato una serie di leggi nazionali finalizzate a regolamentare i vari aspetti delle relazioni industriali. E l’elenco è impressionante, visto che in questo periodo, oltre alla Legge sul lavoro del 1994 e ad un numero indefinito di regolamenti settoriali o locali, sono state approvate una Legge sulla sicurezza nelle miniere, una Legge sulla prevenzione e il controllo delle malattie occupazionali, una Legge sulla produzione sicura, una Legge sui contratti di lavoro, una Legge sulla promozione dell’occupazione, una Legge sulla mediazione e l’arbitrato delle dispute sul lavoro, una Legge sui sindacato e una Legge sulla sicurezza sociale. Ad ogni modo, anche se in alcune occasioni lo Stato ha dato una parvenza di democraticità e partecipazione alla propria attività legislativa, ad esempio invitando la popolazione a inviare i propri commenti sulle bozze di legge – il caso più importante è quello della Legge sui contratti di lavoro, che nel marzo 2006 ricevette ben 192.000 commenti dal pubblico – di fatto la legislazione sul lavoro cinese rimane il frutto dell’elaborazione da parte di una ristretta élite. Eppure, nonostante questa natura elitaria, la retorica del diritto e dei diritti promossa dalle autorità cinesi sembra aver fatto breccia tra i lavoratori cinesi, in particolare tra i giovani migranti. Come ha raccontato Ching Kwan Lee nel volume Against the Law, mentre i vecchi lavoratori cassintegrati delle ex-imprese statali, permeati dalla retorica maoista della Cina pre-riforme, nelle loro proteste in genere adottano slogan e coreografie che richiamano l’atmosfera politica della Cina precedente le riforme e spesso si lanciano in captatio benevolentiae nei confronti del Partito, i giovani lavoratori migranti nel mobilitarsi utilizzano un linguaggio più razionale, imbevuto di termini e artifici propri del diritto, una dinamica che si è ripetuta in infinite occasioni negli ultimi anni, non ultimo lo sciopero della Honda della primavera del 2010, che all’epoca ha avuto una risonanza mediatica enorme, in Cina come all’estero. MADE IN CHINA | 2012
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Ma come va interpretato il fatto che le proteste dei lavoratori cinesi sempre più spesso riflettono la retorica del diritto creata dallo Stato? Questa crescente consapevolezza del diritto da parte dei lavoratori implica una loro maggiore disponibilità a confrontare lo Stato o una maggiore acquiescenza? La questione è più complessa di quanto potrebbe sembrare a prima vista e, nonostante negli ultimi due anni fiumi d’inchiostro siano stati versati su giornali e riviste accademiche per raccontare quello che è stato definito un “risveglio dei diritti” (quanli de juexing) tra i giovani lavoratori cinesi, la realtà rimane estremamente confusa e, come spesso accade in Cina, contraddittoria.
La penetrazione del diritto tra i lavoratori cinesi non è affatto omogenea: variazioni fra generazioni e settori di occupazione Innanzitutto, è necessario sottolineare che la penetrazione del diritto tra i lavoratori cinesi è lungi dall’essere omogenea, considerato che importanti differenze si registrano non solamente su base generazionale, ma anche settoriale. Un’indagine da me condotta nel maggio del 2012 su centocinquanta migranti impiegati in tre imprese metal meccaniche italiane a Shenzhen ha riportato una conoscenza del diritto relativamente alta tra i lavoratori intervistati, con il 93% dei lavoratori in grado di rispondere correttamente sull’ammontare del salario minimo legale, l’86% a conoscenza delle norme relative al calcolo del salario per gli straordinari e il 75% consapevole dei limiti alle ore di lavoro mensili. Dati molto differenti sono però emersi da un’indagine condotta nel maggio del 2010 da Kaxton Siu su 389 lavoratori migranti impiegati in imprese tessili di proprietà hongkonghina basate a Shenzhen. In quel caso, appena il 72% dei lavoratori era a conoscenza del salario minimo legale, il 34% delle modalità per il calcolo del salario per gli straordinari e il 16% del tetto massimo di ore di lavoro al mese. Come ho sottolineato con Kaxton Siu e Anita Chan in uno studio di prossima pubblicazione, questa differenza nel livello di conoscenza del diritto tra i lavoratori nei due settori è spiegabile con le diverse modalità di calcolo dei salari, che nel metalmeccanico avviene su base oraria e nel tessile a cottimo. E’ poi importante distinguere tra “proteste basate 38
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sul diritto” e “proteste basate sugli interessi”, ove il primo tipo di mobilitazione è finalizzato alla rivendicazione del rispetto di un diritto già legalmente riconosciuto, mentre il secondo avanza richieste superiori al minimo legale. Adottando questo frame work teorico si scopre che, a dispetto delle oscillazioni nella conoscenza del diritto da parte dei lavoratori e dell’enfasi dei media e degli attivisti sulle occasionali ‘proteste basate sugli interessi’, i casi in cui i lavoratori cinesi si organizzano per richiedere più di quanto non sia già concesso loro per legge rimangono rari. Come Anita Chan e Kaxton Siu hanno rilevato in un recente studio che ha preso in esame oltre cento casi di sciopero verificatisi nella provincia del Guangdong negli ultimi vent’anni, la quasi totalità delle proteste operaie nella provincia meridionale dal 1993 ad oggi sono state ‘proteste basate sul diritto’ isolate e scoordinate. In questo senso, sembra che lo sviluppo di una legislazione sul lavoro in Cina abbia favorito una certa acquiescenza, incanalando le dispute e prevenendo così l’emergere di un movimento operaio combattivo e articolato. E il fatto che i lavoratori cinesi nutrano una relativa fiducia nei confronti del diritto – e di conseguenza dello Stato – emerge anche dalla mia ricerca tra i metalmeccanici. Posti di fronte alla domanda “ritieni che la legislazione cinese sul lavoro sia in grado di tutelare i diritti dei lavoratori”, dei centocinquanta lavoratori intervistati appena 10 hanno risposto “non può” (bu keyi), contro 43 “forse” (yexu neng), 80 “in teoria sì” (yinggai keyi) e 12 “assolutamente sì” (wanquan neng). Anche le interviste che ho condotto nel febbraio del 2011 tra i migranti di un villaggio della provincia dello Hunan hanno confermato questo atteggiamento relativamente fiducioso dei lavoratori nei confronti del diritto, con alcuni lavoratori che sono arrivati al punto di affermare: “Naturalmente la legge è efficace! Se neanche la legge funziona, allora cosa può funzionare?” Tuttavia, tra la fiducia nella legge nella teoria e la volontà o capacità di ricorrere alla legge per risolvere i propri problemi nella pratica rimane una sostanziale differenza. Non c’è dunque da stupirsi se, mentre la maggioranza dei lavoratori nella mia indagine ha indicato che nel caso in cui si fosse trovato coinvolto in una disputa sul lavoro avrebbe cercato prima di risolverla con i propri diretti superiori, poi si sarebbe rivolta all’ufficio delle risorse umane dell’azienda e infine all’ufficio amministrativo del lavoro, una sostanziale minoranza ha dichiarato che la sua unica scelta sarebbe stata quella di “votare
con i piedi” (yijiao toupiao), vale a dire andarsene. Tutto ciò ci riporta alla domanda formulata in apertura di quest’articolo: come spiegare il paradosso di uno Stato che da un lato invita i lavoratori a ‘servirsi dell’arma del diritto’ e dall’altro tollera l’esistenza di violazioni diffuse di quelle stesse leggi che ha contribuito a creare? Sulla base di quanto esposto finora, possiamo affermare che la chiave di questo paradosso va ricercata nella natura stessa del diritto del lavoro cinese il quale, lungi dall’essere solamente una semplice arma nelle mani dei lavoratori, nelle sue formulazioni, nei suoi contenuti e persino nella sua applicazione, rimane un prodotto costruito a tavolino dalle autorità. In questo senso, la retorica sui diritti dei lavoratori promossa dalle autorità tramite l’apparato giuslavoristico si configura come un vero e proprio discorso egemonico finalizzato prima di tutto al mantenimento della stabilità sociale e al rafforzamento della legittimità del Partito. Anche se in apparenza si tratta di un discorso fortemente progressista, in realtà esso è fortemente conservatore, in quanto rimane mirato soprattutto al mantenimento dello status quo e alla prevenzione dell’emergere di un movimento dei lavoratori organizzato e pro-attivo. Se da un lato la formulazione e la propaganda delle leggi sul lavoro finora è stata in grado di arginare e canalizzare le dispute lavorative, riconducendole nell’ambito di un linguaggio condiviso tra le autorità e i lavoratori, dall’altro l’incapacità dello Stato di mantenere le proprie promesse rischia di trasformare questa retorica del diritto in un’arma a doppio taglio. Come ha rilevato Mary Gallagher in uno studio pubblicato nel 2007, i lavoratori cinesi che hanno un’esperienza diretta con il diritto vanno incontro ad un processo di disillusione in cui si trovano gradualmente a passare da aspettative di successo molto elevate ad una valutazione molto negativa dell’efficacia del procedimento giuridico. Come risultato, il sistema che ruota attorno alla somministrazione della giustizia non fa altro che produrre un gruppo di cittadini perfettamente consapevoli dei meccanismi del diritto ma assolutamente disillusi nei confronti del sistema giudiziario e politico. E da questo alla formulazione di un discorso dei diritti alternativo a quello ufficiale il passo è potenzialmente breve, con tutte le conseguenze del caso.
LETTURE
Against the Law
di Ching Kwan Lee (University of California Press 2007, 340 pp.) Anche se i media cinesi ed occidentali tendono ad accorgersene solamente quando imprese dai grandi nomi sono coinvolte, scioperi e proteste operaie sono una realtà molto comune nelle fabbriche cinesi. Tra i vari libri che sono stati scritti sull’argomento, Against the Law (University of California Press, 2007) di Ching Kwan Lee rimane indubbiamente il più completo ed accurato, con l’autrice che riesce nell’impresa di offrire uno sguardo a tutto tondo sulle mobilitazioni operaie nella Cina di oggi. In particolare, il volume di Lee si muove sulla duplice traccia delle parabole divergenti del declino della vecchia classe operaia nelle industrie statali del Nord-est del paese e dell’ascesa di una nuova generazione di lavoratori migranti nelle fabbriche private del Sud, arrivando a distinguere tra due categorie di proteste: da un lato “proteste di disperazione”, mobilitazioni con cui vecchi lavoratori statali, messi alle strette davanti alla prospettiva della cassintegrazione o del pensionamento anticipato, si lanciano in gesti estremi per rivendicare il proprio diritto alla sopravvivenza di fronte ad uno Stato che sembra averli dimenticati; dall’altro “proteste contro la discriminazione”, con cui i lavoratori migranti richiedono salari più elevati e migliori condizioni di lavoro. Lee ha il merito di sottolineare come queste proteste si articolino secondo linguaggi e modalità completamente differenti, sfatando il luogo comune che vede i lavoratori cinesi come un gruppo sociale omogeneo e privo di sfumature.
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In prossimità dell’atteso avvicendamento ai vertici del Partito Comunista, le riforme vengono momentaneamente congelate.
POLITICA
Hu Jintao si congeda sollecitando riforme necessarie
Nel suo rapporto al Diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, tenutosi a Pechino tra l’8 e il 15 novembre, il segretario generale uscente Hu Jintao ha posto particolare enfasi sul problema dell’occupazione, sottolineando come questo sia un aspetto fondamentale del benessere dei cittadini. In particolare, Hu così ha riassunto quelle che a suo avviso dovrebbero diventare le priorità della nuova leadership cinese: “Dovremmo aumentare le opportunità di occupazione per i giovani, specialmente per i laureati, per i lavoratori migranti, per i residenti urbani che hanno difficoltà a trovare lavoro e per gli ex-dipendenti statali. […] Dovremmo migliorare gli standard lavorativi e il meccanismo per armonizzare le relazioni industriali, rafforzare la supervisione e la protezione del lavoro e la mediazione e l’arbitrato delle dispute sul lavoro, nonchè costruire armoniose relazioni industriali.” Hu ha inoltre auspicato un’accelerazione nella riforma dello hukou (si veda il focus a pagina 15), in modo da garantire il diritto dei lavoratori migranti e dei loro figli ad accedere ai servizi pubblici nelle aree urbane dove risiedono per buona parte dell’anno.
DIRITTI
Samsung, nuove accuse di irregolarità
Dopo che in agosto il China Labour Watch aveva accusato l'azienda di servirsi di fornitori che impiegavano lavoratori al di sotto dell'età minima consentita, la Samsung è di nuovo al centro dell'attenzione in seguito alla pubblicazione dei risultati di un audit condotto su un centinaio di fornitori. Anche se nel corso dell'indagine non sono state trovate prove dell'impiego di minori, i risultati hanno comunque messo in luce alcune pratiche illegali. La dirigenza aziendale ha affermato che darà la priorità alla riduzione degli orari di lavoro, con l'obiettivo di eliminare tutte le ore di straordinario illegale entro il 2014. Rimane tuttavia aperto il problema della veridicità e affidabilità degli audit commissionati dalle aziende stesse.
LEGGI E RIFORME
Rinviato emendamento alla Legge sui contratti di lavoro
E’ stata annunciata la decisione delle autorità di posticipare l’approvazione dell’emendamento alla Legge sui contratti di lavoro sottoposto all’attenzione del pubblico lo scorso luglio. La ragione ufficiale del rinvio è l’enorme quantità di commenti - oltre mezzo milione - ricevuti da parte dell’opinione pubblica. Tuttavia, non si esclude che alle spalle di questo ritardo vi siano ragioni politiche dovute al cambiamento di leadership attualmente in corso, nonché pressioni da parte di gruppi di interesse legati al mondo delle imprese di Stato. Questa notizia non deve sorprendere, se si considera il fatto che - come Kevin Lin scrive a pag. 21 - negli ultimi anni le aziende statali cinesi hanno beneficiato enormemente del meccanismo della somministrazione di manodopera che il presente emendamento si propone di regolamentare.
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FOCUS | LEGGI E RIFORME
Anita Chan: nuove tendenze del lavoro in Cina
Dalla Honda alla Foxconn, le opinioni di una delle protagoniste del dibattito internazionale sul lavoro cinese di Redazione
A
nita Chan, visiting fellow dell’Australian National University, è un’autorità indiscussa sulle questioni del lavoro in Cina. Dopo aver iniziato la sua carriera accademica occupandosi della generazione delle guardie rosse, della società rurale cinese e dei movimenti di massa in Cina, da quasi due decenni si occupa di lavoratori cinesi. L’abbiamo incontrata in marzo e abbiamo discusso con lei alcuni degli ultimi sviluppi nella situazione del lavoro in Cina. Gli ultimi anni in Cina sono stati dominati da un acceso dibattito sulle politiche da adottare nel campo del lavoro. In particolare, molto si è discusso sulla Legge sui contratti di lavoro entrata in vigore all’inizio del 2008. Secondo lei, le leggi che sono state approvate in questi ultimi anni hanno avuto qualche impatto significativo sulle condizioni di lavoro in Cina? La Legge sui contratti di lavoro è molto controversa. Ci sono state più cause, la Legge è piuttosto favorevole ai lavoratori, ma, così come accade con ogni altra legge, i datori di lavoro la possono scavalcare o addirittura evitare direttamente. Per scavalcarla, negli ultimi anni le imprese hanno iniziato a reclutare lavoratori attraverso agenzie invece che assumerli direttamente. In questo modo, sono le agenzie ad essere responsabili per questi lavoratori e le imprese possono mantenere la propria flessibilità. Un altro nuovo sviluppo è che si è affermata la prassi di assumere stagisti tra gli studenti. Moltissimi studenti stanno lavorando in fabbriche cinesi nell’ambito di “stage” che possono durare fino ad un anno. In teoria, sono lì per imparare qualcosa, nella pratica invece si tratta solamente di un altro modo attraverso cui le imprese possono procacciarsi
forza lavoro davvero economica. Dunque, al momento attuale i problemi principali in Cina sono il sistema della somministrazione di manodopera e gli stagisti. E si tratta di problemi davvero seri. Sull’onda dello sciopero della Honda della primavera del 2010, i media cinesi e stranieri hanno iniziato a parlare di un “risveglio” dei lavoratori cinesi, soprattutto per quanto riguarda i giovani lavoratori migranti. Qual è la sua opinione sulle questioni della consapevolezza giuridica e della coscienza di classe di questi lavoratori? Pensa che lo sciopero della Honda abbia rappresentato un punto di svolta? Non credo che lo sciopero della Honda sia stato davvero un punto di svolta. Forse, se si pensa che sia stato un punto di svolta, è perchè il governo cinese erroneamente lo ha preso per tale e ha enfatizzato come fosse necessario fare qualcosa a riguardo. Tuttavia, il governo non ha mai detto che è necessario dare ai lavoratori un peso maggiore sul posto di lavoro. Si è parlato tanto di contrattazione collettiva, ma non si è mai sottolineato come questa contrattazione collettiva non possa avere luogo a meno che i lavoratori non abbiano la possibilità di dire la loro. Non penso che i lavoratori migranti abbiano una coscienza di classe molto elevata, almeno per il momento. Di fatto, contrariamente a quanto si pensa, la consapevolezza del diritto può diventare un fattore che ostacola lo sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori. Negli ultimi anni, il governo ha avuto molto successo nel promuovere il sistema legale attraverso il sistema educativo ed altri canali e così ora i lavoratori hanno cominciato a credere in esso. Essi pensano che la Legge sia la norma e che se affrontano i datori di lavoro in accordo con le leggi vigenti tutto andrà a buon fine. In questo modo, i
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lavoratori non chiedono nulla che vada oltre quanto previsto dalla Legge e, nel caso di una violazione dei loro diritti, non chiedono niente più che una compesazione in accordo con gli standard giuridici. Penso che questo sia una sorta di limite, un vincolo allo sviluppo di una coscienza di classe.
sviluppi, veri o presunti, del movimento dei lavoratori cinesi, si parla tanto di una fuga degli investimenti dalla Cina ad altri paesi in via di sviluppo, in particolare il Vietnam. Uno dei suoi ultimi libri riguarda proprio la questione del lavoro in questo paese: quali elementi emergono da un confronto tra Cina e Vietnam?
Oltre all’eccezionale copertura mediatica dello sciopero Honda, nell’ultimo paio d’anni i media internazionali (e cinesi) hanno prestato un’attenzione quasi ossessiva alla questione delle condizioni di lavoro alla Foxconn.
Innanzitutto, il Vietnam è un paese povero. Quindi, il costo della vita è più basso che in Cina e i salari sono circa la metà. Tuttavia, negli ultimi cinque anni l’inflazione in Vietnam è stata molto elevata, la più alta in tutta l’Asia, intorno al 2030% su base annuale. Per questa ragione il governo vietnamita ha iniziato ad elevare i salari minimi. Hanno innalzato i salari minimi, ma dal momento che non potevano controllare l’inflazione non riuscivano a stare al passo. Di conseguenza, negli ultimi cinque o sei anni ci sono stati moltissimi scioperi in Vietnam, con un picco prima nel 2008 e poi nel 2011, quando ufficialmente si sono registrati quasi cento scioperi. Contrariamente a quanto avviene in Cina, il governo vietnamita tiene conto degli scioperi e pubblica i dati relativi. I media vietnamiti sono molto diversi dalle loro controparti cinesi. In Vietnam è possibile assistere ad un dibattito sulle politiche del lavoro in cui sono coinvolte diverse parti dello stesso governo. Lo stesso sindacato e il Ministero del lavoro hanno posizioni molto differenti. Ad esempio, il sindacato vietnamita recentemente ha fatto pressioni per un massiccio innalzamento dei salari minimi per contrastare l’inflazione, ma il Ministero del lavoro si è opposto e ha ribattuto che avrebbe dovuto essere il sindacato ad aiutare i lavoratori a contrattare collettivamente gli aumenti salariali. In seguito, vari governi locali a livello cittadino sono intervenuti, affermando che se i lavoratori scendono in sciopero è perchè le imprese straniere stanno violando la legge. Tutti loro sostengono che la responsabilità è delle imprese straniere che non pagano abbastanza i propri lavoratori: non ho mai sentito il governo o il sindacato cinese dire niente del genere, almeno non in pubblico.
La Foxconn è così grande! Voglio dire, le dimensioni davvero contano in questo caso. E’ il maggior produttore di componentistica elettronica al mondo e in quanto tale sta assumendo moltissime persone in Cina e in molte altre parti del mondo, attirando un sacco di attenzione da parte dei media. Secondo me, ciò è inevitabile, visto che un’impresa del genere finisce per stabilire degli standard, tuttavia rimane il fatto che, in termine di fornitori in Cina, la Foxconn sicuramente non è la peggiore. Eppure, anche se la Foxconn sembra davvero moderna, la definirei comunque uno sweatshop per quanto riguarda le condizioni di lavoro. Alla catena di montaggio, i tempi sono calcolati in maniera estremamente precisa, al minuto, al secondo, nei singoli movimenti. Il processo produttivo viene spezzato in frammenti davvero minimi. I fornitori in altri settori industriali non possono ricorrere a misure del genere, perchè ciò richiede un livello tecnologico molto elevato e delle strategie di management sofisticate. Perchè i lavoratori vogliono ancora andare alla Foxconn nonostante la sua pessima reputazione? E’ perchè alla Foxconn almeno hanno la garanzia di essere pagati. E’ terribile, ma dal momento che le imprese più piccole spesso non pagano i lavoratori o li imbrogliano sui salari, lavorare alla Foxconn è davvero meglio per un lavoratore. Inoltre, dal momento che i salari sono così bassi, lavorare alla Foxconn è un vantaggio, visto che almeno in quel caso gli straordinari sono garantiti. Il fatto che i lavoratori non si rendano conto che dovrebbero chiedere salari più alti e meno straordinari è un altro grave problema. Non fanno altro che chiedere salari più elevati, ma allo stesso tempo anche più ore di straordinario. Questo mostra come la loro coscienza non sia ancora così sviluppata. Moltissimi anni fa, i lavoratori in Inghilterra e in Europa chiedevano orari di lavoro più brevi e salari più elevati. Sull’onda della nuova legislazione sul lavoro e dei vari 42
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©CINERESIE
un film di
Tommaso Facchin Ivan Franceschini
Dreamwork China è un progetto co-prodotto da Iscos che nasce per dare un volto e una voce ai lavoratori migranti cinesi di nuova generazione. Fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, gli autori hanno viaggiato a Shenzhen e nella zona del Delta del Fiume delle Perle, dove hanno incontrato migranti, attivisti e organizzazioni della società civile che si occupano della promozione dei diritti sul lavoro. Da questo viaggio è nato un documentario di un’ora in cui questi giovani lavoratori parlano di se stessi, raccontando la vita quotidiana, le aspettative, le lotte per i diritti e, soprattutto, i sogni di una nuova generazione di lavoratori nella fabbrica del mondo. Per ulteriori informazioni visitate il sito www.dreamworkchina.tv.
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Perchè “Made in China”? Per la crescente importanza della realtà cinese nell’economia globale e le relative conseguenze per lavoro e diritti, ISCOS, in collaborazione con il blog Cineresie.info, si è fatto promotore di China/News, una newsletter mensile focalizzata sugli aspetti sindacali, sociali, economici e giuridici della situazione lavorativa in Cina. Made in China è uno speciale annuale che nasce da quest’esperienza con l’obiettivo di facilitare ulteriormente la diffusione in ambito sindacale delle informazioni su una realtà complessa come quella cinese. Gli ISCOS regionali di Emilia-Romagna, Piemonte, Sicilia e Toscana hanno finanziato questa iniziativa promuovendola anche a livello locale. Questo nella consapevolezza che in un mondo sempre più globalizzato è importante conoscere e comprendere le dinamiche internazionali al fine di difendere in maniera più efficace i diritti dei lavoratori a livello sia locale che globale.
Istituto Sindacale per la Cooperazione allo Sviluppo L’ISCOS è un’organizzazione non governativa europea, promossa dalla CISL, apprezzata soprattutto nell’area della difesa dei diritti umani. Violazioni delle libertà sindacali nei paesi in via di sviluppo, diritti umani calpestati, povertà estrema, emergenze dovute a catastrofi naturali e guerre sono gli scenari nei quali ISCOS agisce dal 1983 portando i valori della solidarietà dei lavoratori italiani ai loro colleghi del Sud del mondo. Dal 2008 siamo attivi in Cina, con iniziative a sostegno dei lavoratori, dei migranti, dei disabili e delle vittime di discriminazione. Cineresie Cineresie nasce nel maggio del 2010 come sito d’informazione e analisi sulla società cinese contemporanea. La redazione, composta da giovani ricercatori, si propone di dare alcune letture originali su quello che è la Cina di oggi, scardinando la comune visione di questo paese come una realtà in bianco e nero. Per raggiungere questo obiettivo, Cineresie lascia, per quanto possibile, la parola ai cinesi stessi, fungendo da ponte tra questi ultimi ed il lettore italiano.
Stampa realizzata con il contributo di Iscos Emilia Romagna, Piemonte, Sicilia e Toscana.