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Domenico Faccenna GHERARDO GNOLI

Signore e Signori, un anno e mezzo fa, il 15 ottobre 2008, Domenico Faccenna ci ha lasciati all’età di quasi 85 anni (li avrebbe compiuti poco più di un mese dopo). Lo piansi allora senza poterlo salutare alle sue esequie, costretto com’ero nel letto di un ospedale romano. Mi ripromisi di farlo più in là, in un incontro doverosamente dedicato ad onorarne degnamente la memoria, ma decisi che nel frattempo l’Istituto avrebbe dovuto dare la notizia della sua scomparsa e della nostra irrimediabile perdita a tutti coloro che, in Italia e all’estero, lo avevano conosciuto, ammirato, amato, e ne diedi l’incarico al suo prediletto allievo, Pierfrancesco Callieri, il fedele collaboratore che già da otto anni gli era succeduto, dopo Maurizio Taddei, nella direzione della Missione archeologica nello Swat. Pierfrancesco – tutti lo sappiamo – non ha mancato di svolgere il suo compito con maestria e con devoto affetto, pubblicando su East and West un ricordo di Domenico, corredato di una bibliografia completa redatta insieme con Claudio Faccenna. Alle pagine 425-450 del 58° volume della rivista, interamente dedicato alla memoria di Domenico, il lettore troverà pertanto il ricordo del nostro amico insieme con la bibliografia della sua imponente opera scientifica. Cosicché oggi, cara Lidia, caro Claudio, cari amici e colleghi, non mi troverò impegnato a illustrare il grandissimo contributo da lui dato agli studi, sul quale d’altra parte si è diffuso tanto egregiamente anche Antonio Giuliano, un maestro dell’archeologia italiana, suo amico e compagno di strada di antica data, e del quale sono tornati or ora a parlare lo stesso Callieri e Anna Filigenzi, riferendosi all’opera svolta da Domenico per tutta l’attività archeologica dell’Istituto e per le missioni in Pakistan, in Afghanistan e in Iran. Mi limiterò, invece, a dargli quel saluto che da un anno e mezzo porto nel cuore e nella mente. Un saluto, questo, che inevitabilmente ripercorrerà le tappe di un rapporto durato mezzo secolo e cresciuto via via fino a trasformarsi in un legame di profonda e devota amicizia, mai 1


toccato da un’ombra, da una incertezza o meno che mai da un dissapore. Ai suoi inizî, la mia nei suoi confronti fu piuttosto la relazione di un giovane debuttante in un campo di studi nel quale lui era già un’autorità riconosciuta. Ci separavano quattordici anni e già da cinque o sei anni Domenico era stato associato dal Professor Tucci alla Missione archeologica dell’Istituto in Pakistan, dove si recò tra la fine di novembre e gli inizî di dicembre del 1955, nella fortunata ricognizione che segnò il principio dell’attività dello IsMEO nella valle dello Swat. Egli vi accompagnò il Professore nei suoi incontri col Governatore di quella regione, il principe Miangul Jahanzeb, Wali Major General dello Swat, e poi col Direttore dell’Archaeological Department of Pakistan, l’indimenticabile Raoul Curiel. Il seguito lo conoscete e lo conosce bene l’intera comunità scientifica internazionale: cinquant’anni d’ininterrotta attività, decine e decine di ricognizioni e di scavi, centinaia e centinaia di pubblicazioni, che hanno assicurato un indiscusso primato all’archeologia italiana. Fu proprio allora, tra il 1961 e il 1962 – anno, quest’ultimo, in cui egli fu nominato dal Professor Tucci direttore del Centro Scavi e Missioni Archeologiche in Asia dell’IsMEO – che ebbe inizio il suo speciale rapporto con me, caratterizzato dai suoi costanti incoraggiamenti e suggerimenti. Ricordo ancora – doveva essere, se non erro, la primavera del 1962 – un nostro casuale incontro a Roma, in piazza Navona, in cui egli mi spronò con gentile e quasi paterna insistenza a collaborare alle attività di ricerca dell’Istituto anche sul campo. Il progetto scientifico del Professor Tucci, come è noto, contemplava la stretta collaborazione interdisciplinare tra archeologi, storici, filologi, ecc., e Domenico ne condivideva entusiasticamente l’impostazione. Ma egli andò oltre e mi propose una sorta di iniziazione alla ricerca archeologica che io non rifiutai e che mi portò ad unirmi ad una missione che Salvatore Puglisi conduceva in quel tempo ad Arcevia. Fu così che poi, nel settembre 1962, mi recai nel Sistan persiano con la missione diretta sul campo da Umberto Scerrato. Un’esperienza mai dimenticata, rivissuta nel pensiero una infinità di volte. Il mio compito precipuo era quello dell’epigrafista, ma lo scavo di Dahane Ghulaman, un sito del V secolo a.C., non mi avrebbe dato la possibilità di cimentarmi allora in quel campo di studi. Nessuna iscrizione venne alla luce nei resti di quell’importante sito provinciale dell’Impero achemenide. Un anno dopo sarebbe stato diverso: il Professor Tucci mi diede l’incarico di studiare e

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pubblicare un gruppo di iscrizioni giudeo-persiane occasionalmente scoperte dall’Architetto Andrea Bruno nella regione del Ġ∑r, in Afghanistan, nella zona del celebre minareto di Jåm. Ma fu sempre Domenico ad agire – per così dire – dietro le quinte, d’intesa, naturalmente, col Professor Tucci. Tra i miei primi scritti appariranno allora, tra il 1962 e il 1963, due articoli brevi sulle iscrizioni ebraiche o giudeo-persiane d’Afghanistan (su East and West 13 e 14) e il volumetto Le iscrizioni giudeo-persiane del Ġ∑r quale n° 30 della «Serie Orientale Roma» (1964), e inoltre, sempre su East and West 14 (1963) uno studio – che sarà poi oggetto di un’attenta revisione critica di Maurizio Taddei – sulla iconografia di un frammento proveniente dallo Swat, nonché, nel 1965, un tentativo d’interpretazione storico-religiosa dell’edificio sacro scavato dalla nostra missione nel Sistan, negli Atti del Convegno «La Persia e il mondo greco-romano» (pubblicati nel 1966), organizzato dall’Accademia dei Lincei con la collaborazione dell’IsMEO. Mi scuso per questi riferimenti a lavori miei, ma li ho fatti solo per farvi intendere quanto Domenico generosamente si fosse impegnato per indurmi a collaborare con le missioni e le ricerche dell’Istituto, agendo con questo intendimento da luogotenente, direi, del Professor Tucci. E a ben guardare quella sua volontà di acquisirmi ad una causa comune è stata una sua costante nei nostri rapporti e si è ben presto tramutata quasi in una preoccupazione: che io potessi tirarmi da parte per qualche motivo oppure, col tempo, per le difficoltà che s’incontravano frequentemente (e spesso del tutto gratuitamente) sulla strada che avevamo intrapresa insieme per continuare l’opera del nostro maestro. Negli ultimi tempi o, meglio, proprio negli ultimi mesi, a tale preoccupazione si sostituì in lui – così mi è parso – la fiducia che non avrei abbandonato il campo, per delusione o per stanchezza. Per un certo periodo, nel 2008, soleva telefonarmi quasi ogni settimana spronandomi ad andare avanti. Non mancai di rassicurarlo e di presentargli la situazione dell’Istituto in termini positivi, anche più positivi di quanto obiettivamente non fossero. Oggi mi avvedo che quelle sue preoccupazioni e quei suoi incoraggiamenti in realtà non sono stati vani, perché hanno in me rafforzato la volontà di non venir meno alla promessa che feci al Professor Tucci quando, nell’aprile del 1979, assunsi la presidenza dell’IsMEO, convincendomi che fino a quando i colleghi e gli amici riterranno che io debba continuare nel mio attuale impegno, e fino a quando

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il gravoso involucro del mio corpo, che ahimé comincia a cedere, me lo consentirà, il desiderio di Domenico non potrà da me essere contraddetto. Alla base dei suoi ripetuti incoraggiamenti v’era quindi una fiducia che mi ha sempre colpito e spesso commosso. È una delle cose che hanno avuto più valore per me e che da una parte è stata fonte d’imbarazzo e da un’altra di conforto: esserne all’altezza, non deludere quella fiducia è stato più volte un problema di non poco conto. Domenico aveva lo stesso atteggiamento del Professor Tucci e del Professor Moscati. Domenico, come Tucci e Moscati, aveva contato sulla collaborazione dell’allora Istituto Universitario Orientale di Napoli con l’IsMEO. Domenico giudicò positivamente il trapasso dalla presidenza di Tucci, nell’ottobre del 1978, a quella di Moscati (momento decisivo nella storia dell’IsMEO). Fu sempre Domenico a dare tutto il suo incondizionato appoggio al nuovo corso dell’Istituto dopo l’aprile del 1979, contribuendo insieme con Umberto Scerrato e Maurizio Taddei a garantire una assoluta continuità all’opera dell’IsMEO, che pure andava aprendosi a nuove esperienze, allargando le sue attività di ricerca e di studio al Nepal, all’Oman, allo Yemen e all’Oriente più vicino. Per lui contava soprattutto mantenere vivo e integro l’interesse dell’Istituto per le ricerche nella valle dello Swat; e ciò poteva farsi – se ne rese subito conto – senza impedire che gli orizzonti si aprissero ulteriormente e che l’IsMEO acquisisse una posizione centrale, grazie anche all’intesa con l’ateneo napoletano, negli studi orientali in Italia e all’estero. La prospettiva di larghe intese con gli studiosi e le istituzioni di altri paesi, dalla Unione Sovietica alla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania o agli Stati Uniti d’America, fu costantemente al centro dei suoi interessi, cosicché egli si riconobbe sempre nell’intensa e multiforme attività dell’IsMEO/IsIAO, sorretta com’era da un’ampia rete di accordi internazionali, che si sono sempre più consolidati ed estesi. E all’Istituto, appunto, è sempre rimasto profondamente legato. La fedeltà all’insegnamento di Tucci, la lealtà verso gli amici più cari, l’amore per l’opera che lui stesso aveva contribuito a far crescere insieme con i suoi collaboratori e allievi sono i vincoli ineludibili che hanno continuato, in oltre mezzo secolo, a farlo vivere con l’Istituto e per l’Istituto: direttore della missione nello Swat fino al 1994; direttore del Centro Scavi fino al 1978; membro per oltre ventitré anni del Consiglio di amministrazione dell’IsMEO, dal 1972 al 1995, e poi per quattro anni del Consiglio

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scientifico dell’IsIAO, dal 1996 al 2000; membro dell’Editorial Board di East and West fin dal 1964; coeditor della serie «Reports and Memoirs» dal 1978 al 1997; componente, infine, del Nucleo di controllo strategico dell’attività istituzionale dell’IsIAO dal 2001 al 2008. E l’Istituto ebbe sempre presente anche nella sua veste di Socio Corrispondente (1983-1990) e poi di Socio Nazionale (dal 1990) dell’Accademia dei Lincei (si ricordi che con i Lincei l’IsMEO prima e l’IsIAO poi organizzarono due importanti convegni internazionali nel 1994, «La Persia e l’Asia centrale», e nel 2002, «La Persia e Bisanzio», in continuità con altri due convegni organizzati dall’Accademia d’intesa con l’IsMEO: «La Persia e il mondo greco-romano» (1965) e «La Persia nel Medioevo» (1970). E tale fu il suo comportamento pure in altre istituzioni delle quali fu chiamato a far parte, quali, ad esempio, la Pontificia Accademia Romana di Archeologia (dal 1984) e l’Istituto Archeologico Germanico, nella sua Sezione di Roma. Ma parliamo dell’uomo. Cosa, questa, non facile in sé e per sé e ancora meno facile per chi non abbia avuto la fortuna di conoscere direttamente e profondamente la concreta realtà umana di Domenico. E ciò soprattutto perché il suo era un carattere gentile sì, ma naturalmente schivo e riservato. Dotato di una forte disciplina interiore, scrupoloso, tenace, quasi ostinato nell’osservanza delle regole e dell’ordine, nei rapporti di lavoro era più incline all’azione che alla parola. La sua affabilità e la sua signorilità andavano di pari passo con la sua innata capacità di essere un capo missione saggio e autorevole: seppe mantenere sempre rapporti eccellenti con i membri della missione e con il personale pakistano, operai o guardiani della casa dell’Istituto a Saidu Sharif, dai quali fu sommamente rispettato e amato. La sua qualità di funzionario dello Stato (direttore del Museo Nazionale d’Arte Orientale fino al 1978, a cui si sentì particolarmente legato fino a quando fu forte e incisiva la collaborazione del Museo con l’Istituto, e poi Ispettore Centrale per l’Archeologia del Ministero per i Beni Culturali fino al pensionamento nel 1988) era sentita da lui come una vera e propria missione da svolgere per l’interesse pubblico; e alla valorizzazione dei beni culturali si dedicava con uguale impegno, che si trattasse sia del patrimonio italiano sia di quello dei paesi nei quali l’Istituto era attivo, nel rigoroso rispetto delle leggi vigenti e con una meticolosa attenzione ai problemi della conservazione e del restauro archeologico. Anche per questo fu sempre un interlocutore

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più che affidabile per i varî direttori delle antichità del Pakistan, spesso suoi amici carissimi, da M. Ishtiaq Khan a Khurshid Hassan, a Ahmad Nabi Khan, a Rafique Mughal e a Saeed-ur-Rahman. L’amicizia per lui era come se fosse sacra e non poteva essere incrinata in nessun modo e per nessun motivo: esigeva una fedeltà assoluta. La parola data valeva per sempre. Il rispetto per il prossimo una regola inviolabile: mai asprezze, mai giudizî sommarî. La comprensione dell’altro un obiettivo mai trascurato. La scrupolosa e positiva valutazione delle altrui capacità la base di ogni rapporto negli studi e nel lavoro: in questo era tanto esigente con gli altri quanto con sé stesso. Ma su tutto prevaleva l’idea che si faceva della persona, della sua maturità e della sua morale integrità. Se dovessi dire quali aspetti mi hanno sempre colpito della sua personalità, direi, senza esitazione alcuna, la sua forza d’animo e la sua serenità. Questa vinceva ogni contrarietà; quella impedì che la sua vita si perdesse nel dolore e nella disperazione. Fu forte e sereno nonostante tutto, riuscendo ad essere sempre padrone dei suoi sentimenti, certo in ciò coadiuvato dall’amore e dalla forza d’animo della sua impareggiabile e adorata Lidia. Domenico e Lidia: un esempio per noi tutti, incrollabili negli affetti familiari e nelle più dure avversità della vita. Quel 18 maggio 1997, quel dolore atroce, quell’addio assurdo, imperscrutabile, che tanto lo mutò nell’animo, senza scalfirne coraggio e dignità, non lo distolse dagli impegni che aveva assunto in primo luogo con sé stesso. Se vediamo la sua bibliografia, ci accorgiamo che una trentina di pubblicazioni lo dimostra con tutta chiarezza: da Il fregio figurato dello St∑pa Principale di Saidu Sharif (2001) al Repertorio terminologico per la schedatura delle sculture dell’arte del Gandhara (con Anna Filigenzi) (2007), volumi magnifici che costituiscono ormai, per unanime consenso, il fondamento da cui non possono prescindere gli studi futuri. E altrettanto si dirà per l’ancora inedito Buddhist Architecture in the Swat Valley (con Piero Cimbolli Spagnesi), prossimo alla pubblicazione. *** Cara Lidia, caro Claudio, tutti coloro che, dentro e fuori l’Istituto che tanto deve alla sua opera poderosa e sapiente, hanno veramente conosciuto Domenico lo hanno amato e ammirato e condividono ora i vostri sentimenti. In me, unita alla gratitudine che sempre proverò per lui, per il dono che mi fece della generosa,

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fraterna e costante amicizia, la sua memoria è divenuta parte essenziale della mia vita. E chi non scompare col proprio corpo senza lasciar traccia di sé (dunque chi non muore veramente) è proprio nella memoria di chi resta che continua a vivere. Quindi – vedete – Domenico non se ne è andato, è vicinissimo a noi: quante volte continuiamo a parlare con lui, a ragionare dei nostri progetti, della nostra comune missione, del nostro comune avvenire! Lui – lo sento, lo vedo – è come trasfigurato nella mia mente in una immagine sorridente e serena che mi accompagnerà per tutto il tempo che potrò sopravvivergli. Roma, 29 marzo 2010

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