ottobre 2012
I Siciliani giovani www.isiciliani.it
A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?
Sicilia: la gente non vota più. I poteri reali - spesso mafiosi senza opposizione nel palazzo. Governo gattopardo eletto dal 15% Lontanissimi i tempi di Pio La Torre. Intanto in Calabria le donne fondano la loro prima tv.
ROCCELLA JONICA/ “FIMMINA TV” di Michela Mancini
E’ il primo segnale vero del dopo-berlusconi. Mentre la politica si recita, nel mondo reale accadono tante piccole cose
L’altra politica
NAPOLI/ LA GUERRA DEI CATTIVI RAGAZZI CIANCIO: ADDIO IMPERO MAZZEO/ IL CASO BOTTARI INTERVISTE: BASILIO RIZZO CASTANO/'NDRANGHETA CELESTE GIACALONE/ TRAP MIRONE/ ICASO MANCA RICORDO DI GIOVANNI SPAMPINATO PERIFERIE UN ALBERO PER LEA CAVALLI/ LA QUALUNQUE AL NORD SPARTA’/ NO MUOS MAZZEO/ GENERAZIONI DI PACE SATIRA/“MAMMA!” JACK DANIEL
CASELLI/ IL DNA DI TANGENTOPOLI DALLA CHIESA/ ‘NDRANGHETA COME LOBBY ROCCUZZO/ SCIDA’, SALVI: A CHI FANNO PAURA
ebook omaggio
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facciamo rete http://www.marsala.it/
I Sicilianigiovani – pag. 2
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“Noi siamo di più”
Immaginate una sala di un cinema con 161 poltrone dove siedono ragazzi, giovani, anziani, adulti, bambini e neonati. Chiudete gli occhi e nel momento in cui li riaprite davanti a voi su quelle 161 poltrone occupate da ragazzi, giovani, anziani, adulti, bambini e neonati ci sono solo corpi dilaniati, volti tumefatti, brandelli fumanti, addomi spappolati, crani sfondati, materia celebrare diventata un tutt'uno con il piombo sciolto dei proiettili esplosi. E' una raffigurazione raccapricciante. E' vero. Dà una stretta allo stomaco e guasta i bei propositi che avevate prima di imbattervi in quest'articolo. Mi rendo conto. Scusatemi, davvero. Non vi sto raccontando la trama di un film dell'orrore certo che no. Sono i corpi straziati dai killer che ho visto in tanti anni di cronaca nera. Quei 161 morti accatastati nel cinema, sono morti veri. Sono le vittime innocenti della camorra in quarant'anni di mattanza per le strade di Napoli. Sono le vite umane strappate con immane violenza ai loro affetti dai clan straccioni. Sono le storie dei giusti colpiti dalla barbarie cieca dei gruppi di fuoco che nei decenni si sono affrontati per conquistare per conto dei loro capi, la leadership criminale. E' “normale” che tutto questo continui ad accadere nella capitale del Mezzogiorno d'Italia, in un paese occidentale tra i soci fondatori dell'Unione Europea? E' accettabile che per altri quarant'anni non si fermi questa carneficina? Le cifre sono cifre. Dentro quel numero “161” ci sono nomi e cognomi, sogni, intelligenze, desideri, amori, speranze, sentimenti, idealità. Dentro quel numero ci sono altri lutti: un padre, una madre, una moglie, un figlio, un fratello, una sorella, una fidanzata, un amico che non abbracceranno più.Dopo la resistenza al nazifascismo, le vittime innocenti della criminalità in “tempi di pace” rappresentano il più alto tributo di sangue versato dal dopo guerra ad oggi. Dopo Pasquale Romano, il 30enne trucidato sotto casa della fidanzata - in una desolata strada di Marianella alla periferia nord di Napoli – a chi toccherà? Alla fine si resta spiazzati, folgorati, commossi di fronte alle parole dei familiari di Pasquale che in punta di dolore ti suggeriscono la risposta che cercavi: “Il mondo non può più girare al contrario. Non bisogna avere paura dei camorristi. Sono loro che devono avere paura di noi. Noi dobbiamo continuare a uscire per la strada a testa alta. Sono loro che si devono nascondere. Noi siamo di più”. I Siciliani giovani (Arnaldo Capezzuto)
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I Sicilianigiovani – pag. 3
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I Sicilianigiovani OTTOBRE 2012
numero nove Questo numero
"Noi siamo di più" I Siciliani Il Dna di Tangentopoli di Gian Carlo Caselli La 'ndrangheta lobby fra le lobby di Nando dalla Chiesa Scidà, Salvi: a chi fanno paura di Antonio Roccuzzo Lettera al presidente Napolitano di Giambattista Scidà Comincia ora di Riccardo Orioles
3 6 7 8 9 10
Italie
E' nata la tv delle donne di Michela Mancini E intanto, Telejunior... di Nicola Capizzi e Michela Mancini Dal boia chi molla all'arraffa-arraffa di Dario Costantino Rewind-Forward di Francesco Feola
12 13 16 17
Mafie
Messina/ Quando cominciò tutto di Antonio Mazzeo Napoli/ La guerra dei cattivi ragazzi di Antonio DiCostanzo Dell’Utri/ Si stringe il cerchio di Arnaldo Capezzuto Trapani/ Mafia e antimafia di Rino Giacalone
20 22 24 26
Nord e Sud
Catania/ Ciancio addio di Claudia Campese, Salvo Catalano 28 Interviste/ Basilio Rizzo di Paolo Fior 30 Cetto La Qualunque al nord di Giulio Cavalli 32 Sistema
I FILI DELLA RETE Abbiamo qualche difficoltà a coordinare le iniziative che arrivano dalle varie città, e che tendono a superare le nostre capacità di risposta. Poco male: non siamo una redazione centralizzata ma una rete, perciò la maggior parte delle decisioni possono essere tranquillamente prese dai vari gruppi locali, che non sono diramazioni di un centro ma testate e soggetti autonomi. Nodi di rete appunto, il cui coordinamento non è affidato a una improbabile disciplina ma al senso di responsabilità e di condivisione di ciascuno. Finora ha funzionato, e non c'è niente di strano, perché è il modello (vincente) di internet e non quello (obsoleto) delle vecchie aziende, imprese e (persino) partiti. Bisognerà vedere adesso se funzionerà nella fase seconda, quella più propriamente “industriale”, che si aprirà con l'andata in edicola del prodotto stampato. Quando? Da dicembre, se vogliamo (le condizioni tecniche ci sono), o da subito dopo (se i test preliminari dureranno qualche giorno in più). L'edicola, di per sè, non è importante: la forza di questo giornale, come di ogni altro giornale vero, è oramai prevalentemente nella rete; la carta è in più. Ma per noi è importante sentimentalmente (e dunque “politicamente”): la parola “I Siciliani” è una bandiera, e s'ha da vedere dappertutto.
Contrada e la mafia grigia di Pino Finocchiaro
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Milano e la 'ndrangheta Celeste di Ester Castano Riina Jr fra libri e belle ragazze di Salvo Ognibene Dossier/ Il caso Manca di Luciano Mirone Mafia Spa di Aaron Pettinari
34 37 38 42
La settimana scorsa a Napoli (scelta non casuale) abbiamo aperto la campagna per l'andata in edicola del giornale. La riprenderemo a Bologna, al “festival” (dal 27al 30) di Diecieventicinque, che festeggia un anno e che dall'inizio fa parte, molto brillantemente, della nostra rete. Sospettiamo che vogliano emulare i loro amici di Modica (il Clandestino), col loro Festival del Giornalismo estivo, ormai nazionale. Stringe il cuore pensare fra quale povertà e con che sacrifici tutti questi ragazzi, al nord e al sud, portino avanti quest'impresa di tutti, questa rete. E con quale allegria, e con che felicità di risultati. Davvero, è un mondo nuovo. Un giornale precario, organizzato da precari, scritto da precari, in una generazione spietatamente condannata al precariato. Ma che non hanno domato, che ancora ha speranze e ricordi, e che probabilmente alla fine vincerà. “Voi avete portato alla rovina l'Italia – disse quel tale – ma noi la ricostruiremo”.
I Sicilianigiovani – pag. 4
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DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119
SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI
Sistema
Contrada e la mafia grigia di Pino Finocchiaro Milano e la 'ndrangheta Celeste di Ester Castano Riina Jr fra libri e belle ragazze di Salvo Ognibene Dossier/ Il caso Manca di Luciano Mirone Mafia Spa di Aaron Pettinari
33 34 37 38 42
Per Giovanni Spampinato
“Compagno cronista" di Attilio Occhipinti Appunti di viaggio di Giulio Pitroso
45 46
Satira
"Mamma!" a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani
49
Libri
Napoli a piena voce di Napoli Monitor
53
Graphic journalism
Lorenza Lanzino di Celeste Costantino, Marina Comandini 54 Italia
Non tutte le antimafie. portano in paradiso di Salvo Vitale La fine della politica di Pietro Orsatti Storie/ Satripan cadupàn... di Jack Daniel
56 58 60 Storia
Fotoreportage
Quartieri dall’alto di Mara Trovato
61 65
Tecnologie
Crowdfunding e bitcoin di Fabio Vita
66
Italia
Quale Provincia di Francesco Appari, Giacomo Di Girolamo 68 Come ti sfrutto il pubblicista di Carmelo Catania 70 Petrolio di Enrica Frasca, Francesco Ruta e Giorgio Ruta 72 Periferie di Domenico Pisciotta e Giovanni Caruso 74 Tre città del Sud di Attilio Occhipinti 76
Un'aspirina contro la polmonite di Riccardo De Gennaro Al mercato delle belle idee di Giovanni Abbagnato
80 81
Società civile
Un albero per Lea Giornalismo di Valentina Sgambetterra e Martina Mazzeo Da Niscemi a Ravenna di Sara Spartà Generazioni di pace di Antonio Mazzeo
82 83 84 86
Immagine
La lettrice di Fabio D'Urso e Luciano Bruno
87
Il filo
Musica
Triste, solitario y surreal di Antonello Oliva
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Politica
Sindacato
Cara Camusso... di Gabriele Centineo
Placido Rizzotto di Elio Camilleri
78
Di chi è la colpa di Giuseppe Fava
Un ebook in omaggio con questo numero Il drammatico “J'accuse” dell'antimafia catanese
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I Sicilianigiovani – pag. 5
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Corruzione e anticorruzione
Il Dna di Tangentopoli di Gian Carlo Caselli
C’è una forte tendenza a collocare la data di nascita della corruzione, in Ita-
meno di una legge contro la corruzione.
processi, fra cui alcuni “celebri”, come
Per superare i ricatti e i veti incro-
quello Penati o quello Ruby-Berlusco-
lia, al 1992. Vent’anni fa, quando
ciati delle diverse componenti della
l’inchiesta di “Mani pulite” fece esplo-
“maggioranza”, il governo Monti è sta-
dere lo scandalo di una corruzione così
to costretto a mettere la fiducia al Se-
radicata nella politica, nell’amministra-
nato su di un progetto che ora andrà
zione e nell’imprenditoria da costrin-
alla Camera per la seconda lettura. In-
gerci a coniare una nuova parola ( cor-
tanto però risulta evidente che il testo
ruzione “sistemica”) per poterne
votato al Senato per alcuni decisivi pro-
delineare l’ampiezza e le implicazioni.
fili costituisce - incredibile ma vero ! – un sostanziale arretramento.
Prima di “Mani Pulite”
Oggi esiste un solo reato di concussione. Nella nuova legge la conclusione
Ma anche prima di Tangentopoli ci sono stati, in Italia, gravissimi scandali ricollegabili a fenomeni di corruzione diffusa: Italcasse, fondi neri IRI, Lockheed, babane e petroli, Teardo, Zampini, Longo e Nicolazzi. Dunque, la corruzione è una triste realtà del nostro Paese, si potrebbe dire
si sdoppia, essendo previste la concussione per “costrizione” e quella per “induzione”. Per la prima le vecchie pene sono leggermente aumentate e la prescrizione rimane di 15 anni. Per la seconda invece sono previste pene dai 3 agli 8 anni che comportano una prescrizione ridotta a 10 anni.
da sempre. Ma ancor più triste è un’altra realtà: la costante assenza di
Di fatto cancellati molti processi
robusti e significativi interventi di contrasto della corruzione dilagante –
Ora, statisticamente la concussione
sia prima sia dopo Tangentopoli – sul
per “induzione” è di gran lunga la più
piano legislativo come su quello dei
frequente, per cui c’è il rischio – quasi
controlli (amministrativi e sociali, cioè
la certezza – che in futuro si lavori a
dell’informazione). E così, nel terzo
vuoto, mentre per il passato (essendo la
millennio, nell’anno di grazia 2012, sia-
nuova norma retroattiva) potrebbero ri-
mo ancora a discutere se dotarci o
sultare di fatto cancellati moltissimi
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ni). La nuova norma è incorrente Tanto premesso, è evidente che la nuova norma è incoerente: mentre si dice di voler combattere la corruzione, di fatto la si favorisce. Tanto più che mentre si abbassa la prescrizione, nella concussione per “induzione” è punita anche la “vittima”, che perciò sarà portata a starsene zitta per una inevitabile solidarietà con il concussore. E dire che l’Europa da sempre ci rimprovera duramente per le troppe prescrizioni. E il falso in bilancio? Che almeno si abbia il pudore di non dire – in questo caso – che è l’Europa a chiedercelo. Cosi come avrebbe poco a che fare col pudore negare che si è persa una grande occasione per reintrodurre nel nostro sistema una norma di civiltà, quella che punisce il falso in bilancio: posto che esso serve a costituire quei fondi neri che sono appunto l’anticamera della corruzione.
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Società incivile
La 'ndrangheta lobby fra le lobby di Nando dalla Chiesa
Domenico Zambetti, assessore
tù di un’investitura naturale, di un vin-
pubblica è stata presa a picconate
alla Casa della giunta Formigoni, è
colo associativo o di fiducia, perché si
dall’uomo che guida da vent’anni il
stato eletto alla Regione Lombardia
sa che dalle istituzioni il proprio rap-
centrodestra dalle sue ville brianzole,
con migliaia di voti della ‘ndrangheta.
presentante vittorioso non potrà che
dove il governatore ne ha fatto un or-
aiutare gli “amici” in tutte le forme
pello del tutto subalterno alla fame di
necessarie e possibili.
potere del pianeta ciellino, dove la si-
Un bel pacchetto: 4000, pare. E’ uno dei rarissimi casi fin qui accertati di compravendita dei voti, a far data
nistra ha avuto il suo baricentro in Fi-
dal 1992, l’anno in cui venne introdot-
I candidati “normali”
to l’articolo 416 ter (il voto di scam-
tile per questo tipo di scambi.
bio mafioso). Insomma, un’autentica
Dunque Zambetti non è un mafio-
mosca bianca nel nostro infinito mu-
so. E questo per un verso alleggerisce
seo degli orrori. I voti comprati
La ‘ndrangheta è diventata lobby tra le lobby, come l’unione dei com-
il cuore. Per altro verso però genera
mercianti, come l’Azione Cattolica,
una preoccupazione ancora maggiore.
come le cooperative.
Perché vuol dire che alla ‘ndrangheta possono rivolgersi anche i can-
Però se ha comprato i voti, se ha
lippo Penati, il terreno è diventato fer-
E anche la mafia ora è “normale”
didati normali, solo un tantino o tanto
dovuto scucire cinquanta euro per
spregiudicati, in cerca di voti comun-
ogni crocetta sul suo nome, vuol dire
que. Che la ‘ndrangheta è diventata un
scambio tra privati, sanità inclusa, i
che l’assessore non era organico alle
interlocutore possibile (e interessato)
clan sono diventati parte normale del
cosche.
di molti, che sta sul mercato e lì può
gioco: quello politico o quello degli
trovare clienti a iosa. Dipende dalla
affari, che sotto Formigoni sono di-
si ricevono senza mercanteggiarli. Il
moralità pubblica. E questo diventa il
ventati praticamente la stessa cosa.
rapporto del candidato con l’organiz-
tema.
Quando si è organici, infatti, i voti
zazione è tale che lo si sostiene in vir-
In una regione dove la moralità
Dove tutto o quasi è stato ridotto a
E’ con questa sconvolgente novità, finalmente diventata fatto evidente, che la Lombardia è chiamata a fare i conti. Se almeno una volta vorrà tirare la testa fuori dalla sabbia.
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Giustizia/ Nella città dei Cavalieri
Scidà, Salvi: a chi fanno paura? Catania. “Questa Procura non s'ha da fare|”. Don Rodrigo, don Abbondio, l'Azzeccagarbugli, l'Innominato, e - sullo sfondo - i bravi di Antonio Roccuzzo La saggezza (e l’eleganza) spesso e da decenni non abita più nei Palazzi di giustizia. A Catania, men che meno. Il giudice Giambattista Scidà saggiamente sosteneva: “Poiché ho scelto di fare il magistrato, devo dare ogni giorno l’esempio di moralità e di coerenza alla mia comunità”. E citando Piero Calamandrei ricordava uno dei principi della legalità costituzionale: “La giustizia deve essere e apparire un potere separato dagli altri due, poiché ha il compito di controllarli entrambi”. Ecco, cito Titta Scidà, ma penso alla storia di Giovanni Salvi e della corsa (riaperta?) al vertice della Procura della Repubblica di Catania. La questione, un po’ grottescamente, è nuovamente nelle mani del Csm e in quelle del Consiglio di Stato: Giovanni Tinebra e Giuseppe Gennaro hanno fatto ricorso, rivendicato il maggiore diritto di essere procuratori e rimesso in discussione la scelta di 12 mesi fa. Vedremo l’esito finale, detto che quel Palazzo non ha certamente bisogno di corsi e ricorsi, di liti e pretese dopo decenni di rimozioni, scandali e teste sotto la sabbia. Ma secondo me, Scidà aveva ragione e quando usava quelle parole descriveva e fustigava, per contrasto, la tradizionale “non estraneità” del potere giudiziario alla politica e all’economia deviate a Catania. Dei tre concorrenti, Salvi è l’unico “estraneo” a Catania. E mi piace immaginare che, indiscusso curriculum a parte, la maggioranza del Csm un anno esatto fa, poco prima che
Scidà morisse non senza aver invocato una scelta “estranea” a Catania per quella poltrona, abbia fatto la scelta di Salvi anche in ossequio di quello esprit de loi: mettere al vertice dell’ufficio della pubblica accusa (di cui Catania ha grande bisogno, dopo decenni di distrazioni e inazione) un uomo che è - e appare – del tutto “estraneo” al contesto. “Nec prope, nec procul” Un magistrato vicino alla giustizia e lontano dalle relazioni localistiche. “Nec prope, nec procul”, dicevano i latini e si riferivano alla necessità di stare alla giusta distanza dal fuoco. Giovanni Salvi, in fondo, è questo: né vicino a Catania, né lontano dalla fedeltà alla legge. Ce n’era, ce n’è e ce ne sarà ancora tanto bisogno. Per questo, chi pensa – come me - che un procuratore “forestiero” come Salvi sia una garanzia in più di indipendenza e autonomia per il diritto a Catania, spera che - nonostante i ricorsi - Salvi debba rimanere al suo posto. Nel suo curriculum, non troverete mai neanche una traccia di presunte relazioni pericolose con potenti, faccendieri, potenti. L’unico – nella rosa – a poterlo fare. Ma la scelta era ed è giusta per una ragione anche professionale. Nel loro ricorso, accolto, Tinebra e Gennaro esibiscono i loro curriculum ed eccepiscono a Salvi una “minore esperienza” in materia di mafia. Insomma: Salvi è inesperto di indagini sulla mafia. Ma è così? No, non è così. Basta digitare Wikipe-
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dia, per rendersene conto. Siccome, da ex-cronista di giudiziaria anche a Roma, ne sono stato testimone diretto, ecco un breve riepilogo dei processi curati da Salvi (certo molto lontano da Catania). Nel 1987, pm del processo sulla morte di Roberto Calvi: fu Salvi a far riaprire il processo dopo un’archiviazione per suicidio decisa dalla Cassazione. Fu la mafia e non i suoi debiti a suicidare il banchiere dell’Ambrosiano sotto il ponte dei Black Frairs di Londra, fu Salvi a chiedere e ottenere l’arresto di Pippo Calò (il banchiere dei corleonesi) e di Flavio Carboni (faccendiere della P2) per quel delitto politico-economico-mafioso. Le indagini sul boss Pippo Calè Fu Salvi, insieme alla procura di Palermo, a raccogliere le testimonianze del boss Francesco Di Carlo che ricostruì la morte di Calvi e che mise a fuoco il ruolo di Michele Sindona in quel contesto di alta mafia. E quella ricostruzione è sopravvissuta al terzo grado di giudizio. E fu il pm romano Giovanni Salvi che, indagando sugli affari di Pippo Calò, scoprì gli scenari criminali dello scandalo Italcasse, uno dei primi nel suo genere scoperto in Italia: Salvi scoprì che c’erano fondi di Pippo Calò (dunque della mafia) e del suo socio romano Domenico Balducci negli affari dell’Italcasse: Calò e Balducci avrebbero garantito, attraverso una loro società, le spericolate operazioni bancarie di imprenditori come il costruttore Caltagirone e la Sir di Rovelli.
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E fu infine il pm Salvi a scoprire che la romanissima banda della Magliana aveva interessi in appalti proprio a due passi da Catania, nel porto di Siracusa. Salvi è stato il pm in molti grandi processi sui misteri d’Italia: il memoriale Moro e il delitto Pecorelli ma anche tutti i processi sul terrorismo nero: i Nar, Avanguardia nazionale, Ordine nuovo. E spesso, in quelle trame di terrore neofascista, sono affiorate piccole figure di camorristi, mafiosi, faccendieri e banchieri. La banda della Magliana e la Sicilia Ecco, Salvi è un magistrato competente in materia di mafia, molto competente. E’ stato anche pm nell’aula del processo sulla strage di Ustica ed è stato il primo pubblico accusatore del mondo a ottenere una condanna sull’operazione Condor. Ricordate? Il regime di Pinochet sopprimeva i suoi oppositori precipitandoli da aerei, desaparecidos. Salvi ha ottenuto la condanna di Manuel Contreras Sepulveda, capo degli 007 di Pinochet, per quei delitti. Uno che di Catania non sa nulla potrebbe obiettare: perché questa difesa di Salvi? Perché “nec prope, nec procul”. Dunque, al di là di carte bollate e sentenze amministrative, la domanda va fatta ai catanesi: ma voi affidereste la pubblica accusa della vostra città a un magistrato così gentiluomo e così “incompetente” in materia di mafia?
MEMORIA/ UN ANNO FA
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE NAPOLITANO
di Giambattista Scidà Fra pochi giorni il CSM potrebbe nominare il Procuratore della Repubblica di Catania. Chiunque vinca la gara, la sconfitta della legalità sarà certa. Essa si è consumata presso il Ministero della Giustizia, allorché il Ministro ha dato consenso per ciascuno dei tre magistrati proposti dalla Commissione V, pur essendo a conoscenza di fatti che non solo imponevano rifiuto, per uno dei tre, ma davano ragione di ritenere l'incompatibilità di costui con l'ambiente catanese e con la stessa funzione che in atto egli vi esercita. Riporto in appendice il testo tempestivamente sottoposto al Ministro, eliminandone solo il cognome del magistrato. Com'è chiarissimo, si tratta di fatti , ognuno dei quali è legato a tutti i precedenti, da strettissima relazione: essi sono un tutto omogeneo, compatto, che nel suo insieme, rivela tremenda rilevanza. Chi si limita ad accennare a qualcuno dei fatti, senza evocarli tutti, si procura l'apparenza del coraggioso, mentre evita di condursi davvero secondo coraggio, come la situazione richiede. C'è poi chi agisce in malafede. Tra quelli che hanno dato e danno mano alla rotta della legalità, sono proprio coloro che si sbracciano, ostentatamente, per un Procu-
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ratore estraneo a Catania, ma sorvolano sui comportamenti del magistrato locale. Lo aiutano con il loro silenzio, mentre si mascherano da fautori di una nomina diversa. Sono i suoi amici più preziosi. La distruzione della legalità avviene, da questo stesso lato e da altri, in CSM, nelle Commissioni, e nel plenum. Si asside a Capo dell'assemblea l'on. Vietti, che avrebbe ragione di decisamente astenersene. Componente del consesso in altra consiliatura egli volle essermi nemico, con aperta ingiustizia, nell'interesse di altri: dapprima (anno 2000) per reprimere le mie istanze di verità, a proposito dello scandalo giudiziario di viale Africa, e impedire che il magistrato, gestore di quel processo, e lui pure eletto al CSM, per quello stesso quadriennio, ne venisse pregiudicato; e poi (2001) per riparare l'odierno aspirante Procuratore dalla mia giusta accusa davanti alla Commissione Antimafia (seduta del 7-12-2000: ....ha acquistato casa da un mafioso....): I fatti di esso avv. Vietti, in tali circostanze, sono consacrati del processo verbale di seduta plenaria del CSM, del giorno 22 marzo 2001. Come può egli assere arbitro, ora, non fosse altro che dirigendo la discussione, tra le ragioni fatte valere dai miei scritti e gli opposti interessi di quel magistrato? Ella sa tutto, Signor Presidente della Repubblica, anche da una mia lettera recente. Non posso credere che voglia consentire, restando ancora indifferente, allo scempio in corso. (“Ucuntu”, 21 ottobre 2011)
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Politica
Comincia ora La campagna elettorale per le prossime elezioni. Con un “partito” da costruire al posto delle vecchie tribù di Riccardo Orioles “Chi è?”. “La politica!”. “Mi arrendo!”. I siciliani non votano. Non votavano sotto i romani, non sotto gli arabi, poi sono arrivati i normanni, gli aragonesi, gli spagnoli, gli austriaci, i borboni, e nessuno di tutti questi signori ha mai preteso di far votare i siciliani. Ci hanno provato i piemontesi, ma per modo di dire (uno ogni dieci), l'ha levato subito Mussolini, poi sono arrivati gli americani e finalmente ci hanno fatto votare tutti quanti (ma meglio per i mafiosi, e assolutamente non per i communisti), si può dire per forza. Per dire che qui in Sicilia (come in Veneto del resto, o negli Stati nel Papa) non è che di votare abbiamo tutta 'sta gran voglia. Ci viene più facile ribellarci, o meglio ancora (che porta meno rischi) protestare sotto un balcone e poi tornare a casa bofonchiando. Unica eccezione, non dappertutto e per poco tempo, i comunisti (La Torre, Rizzotto) e, per meno ancora, qualche cattolico onesto e qualche prete. Chi comanda davvero Non c'è da allarmarsi troppo, signori miei. Tanto, chi comanda davvero, è un'altra cosa. Si chiama potere mafioso, e non prevede elezioni. I principali politici, compresi i più rivoluzionari (ma tutti erano rivoluzionari, qui, a giudicare dai cartelli: Che Guevara sarebbe stato preso per
moderato), si guardano bene dal parlarne troppo, compresi quelli che erano tanto incazzati da arrivare a nuoto. Vince A di destra, o vince B di centrosinistra? Che importa: si accorderanno alla svelta, tutt'e due sono stati - o sono - amici di Lombardo. Meglio il programma A o il programma B? Che importa: sono tutt'e due bellissimi, lavoro ai disoccupati e prosperità a tutta l'isola; nessun governante siciliano, in tremila anni, ha mai promesso meno di questo. Sempre colpa di Federico secondo? Ma cos'è: siamo noi siciliani che siamo fessi, sicilitudine storica, colpa di spagnoli o arabi o di Federico secondo? No, no: i furbissimi milanesi ci hanno messo niente a farsi fregare da quelli di Lega e cadrega, peggio che i catanesi con Scapagnini; e nella capitale, dove pure dovrebbero averne viste tante, il Marcio su Roma è stato molto più facile dell'omonima marcia. Ma allora? Siamo diventati fessi tutti gl'italiani in una volta, così d'un tratto? Ecco, temo di sì. La politica non c'è più, o almeno non è più dove l'avevano messa i vecchi nostri, al tempo che si lavorava, si faceva politica e si votava davvero. La casta, i politici? Mah. La casta s'è presa le fabbriche e se l'è portate in Cina, rubandoci molto più di
L'altra metà d'Italia CARMELA E LE ALTRE
“...Carmela Petrucci, 17 anni, uccisa...” (dalle cronache)
Un altro femminicidio, un’altra vita di giovane donna frantumata a coltellate per l’incapacità di un uomo di accetta la fine di una storia. E’ cosi che è morta a 17 anni Carmela Petrucci, uccisa dall’ex fidanzato della sorella Lucia, a sua volta ferita da numerose coltellate. Dalle dichiarazioni di questi è emerge la volontà di uccidere: è uscito di casa armato e con l’idea precisa di “far pagare” una scelta cui non si rassegnava. Poi l’aggressione, Carmela che col proprio corpo fa schermo alla sorella e, morendo, la salva così. Carmela è la 101esima donna uccisa da un uomo dall’inizio del 2012. Non è un fenomeno non isolato. Quasi un assassinio ogni due
tutti i politici ladri presenti passati e futuri. Ma ha avuto l'accortezza di comprarsi, contestualmente, giornali tv e ogni altro mezzo di comunicazione, così la gente se l'è presa coi ladri di serie B e C ignorando completamente quelli di serie A che le rubavano figli e futuro. Un Lombardo-bis con altro nome Non c'è molto altro da dire, di queste elezioni. Il trionfo del kitsch (“Sono il nuovo Giuseppe Fava!” è arrivare a dire un imbecille), del vecchio “cambiare tutto per non cambiare niente”. Tecnicamente, adesso ci sarà un Lombardo-bis con altro nome, sostenuto dallo schieramento delle primarie palermitane (Lumia, Crocetta, Sonia Alfano) e perciò nominalmente antimafioso: viva Falcone, onore ai caduti, e accordi con l'Udc del post-Cuffaro. “Ma hanno giurato di non rubare più!” obiettano i “rinnovatori”, sorridendo. D'altronde, a tanti loro elettori, non è che gliene freghi poi tanto. Va bene: e noi “di sinistra” (qualunque cosa voglia dire oggi questa parola, che originariamente indicava i gentiluomini seduti alla sinistra dell'onorevole speaker dei Comuni)? La sinistra, nei singoli e nel complesso, avrebbe potuto fare anche altre cazzate oltre quelle che ha fatto, ma sinceramente non saprei dire quali.
giorni. La donna - è il concetto che sta alle spalle di questi casi - è proprietà privata, e per tutelare la proprietà si può ammazzare. La società lo tollera, l’educazione collettiva è scarsa. Aspettiamo la vittima numero centotrentadue? Anna Bucca *** Io uomo condanno gli uomini. La loro stupidità, il loro “esser padroni”, la loro violenza da deboli che vogliono nascondere la debolezza. “Le donne non hanno anima - nei secoli i padroni maschi hanno detto - non devono alzare la testa, guardare avanti”. L’assassino di Carmela è solo uno dei tanti. Io, uomo, ora grido agli altri uomini: “Adesso basta! Non lasciamo questa ribellione solo alle donne, alle nostre compagne. Contro il femminicidio, facciamo anche noialtri la nostra parte”. Giovanni Caruso
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“Antimafia “politica” e non emozionale La prima, il tribalismo selvaggio: ogni tribù per sé, ciascuna per i fatti suoi. La seconda, l'assenza di lotta sociale e cioè – qui ed ora – di antimafia “politica” e non emozionale. La terza, la totale e categorica disattenzione a quella che nobilmente si chiama la “società civile” e che in realtà siamo noi poveracci che ogni giorno lottiamo, senza tante etichette, sulla strada. Nessuno s'è accorto, ad esempio, dei ragazzi di Modica o degli universitari di Bologna. Eppure erano là, una classe dirigente bell'e formata, il primo interlocutore di ogni rinnovamento. I movimenti per l'acqua, o per la pace, o contro il ponte, non sono “entrati in politica” che assai rudimentalmente, e nessuno li ha aiutati a farlo. Le donne si sono viste alla fine come invitato povero (la Marano), quello chiamato tanto per non essere tredici a tavola. Tenori tanti, ma niente orchestra. Dovremo fare da soli Grillini e Grillo (brav'uomo, ma turistico: “Problemi della Sicilia? Il traffico...”) sono un segnale, non la soluzione. Ahimè, non ci sono salvatori supremi. Nessuno verrà a tirarci fuori da noi stessi. Dovremo fare da soli. Senza illusioni e palingenesi, giorno per giorno e faticosamente. Essere qui nel duemila quello che fu, nel dopoguerra, la generazione dell'occupazione delle terre. Partire dai “movimenti” (acqua, pace, precariato, antimafia) per formare a poco a poco un “partito”; o, meglio ancora, una rete. Sarà un lavoro lungo, e alla fine non verrà fuori un partito nel senso tradizionale (e anche grillino) del termine, ma un'altra cosa, profondamente diversa come cent'anni fa differivano, rispetto ai vecchi circoli radicali, le prime leghe bracciantili o i primi fasci dei lavoratori. Non osiamo nemmeno immaginare che nomi, che strutture, avrà fra cinque anni tutto questo. Ma qualcosa del genere ci sarà, oppure noi siciliani saremo sempre minorenni.
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Un volantino
Sosteniamo i Siciliani giovani
"A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?”
Vi ricordate l’anno scorso, quando Santoro vi chiese i soldi per il suo “servizio pubblico”? Dieci euro per sostenere il progetto. In centomila risposero, una grande dimostrazione di affetto e di sostegno sicuramente. Lo sapevate che ora Servizio Pubblico va in onda su La7? E i soldi che avevate dato per creare quel progetto autonomo? Vi sono stati restituiti? Noi adesso vi chiediamo di sostenerci, promettendo di non passare a La7. E’ passato un anno da quando dal Festival del Clandestino abbiamo annunciato ai microfoni di Telejato la rinascita de I Siciliani. Non abbiamo più rifatto un giornale, abbiamo fatto I Siciliani giovani, che poi, forse, lo eravamo già. I Siciliani sono un gruppo sparso per l'Italia, Diecieventicinque a Bologna, Stampo antimafioso a Milano, Telejato, Il Clandestino, Napoli Monitor, La Domenica, e potrei continuare. I Siciliani sono un patrimonio comune, sono ragazzi e ragazze sparsi un po' in tutta Italia, sono anche professionisti e giornalisti come Mazzeo, Capezzuto, Giacalone, Finocchiaro, Salvo Vitale, Pino Maniaci. I Siciliani siamo noi giovani, che almeno qui non rappresentiamo il futuro, siamo il presente e lo viviamo da protagonisti con a fianco degli ottimi maestri. Abbiamo provato a mettere insieme il vecchio e il nuovo, passato e futuro, vivendo insieme in questo presente. I Siciliani giovani dallo scorso dicembre hanno faticato e lavorato, e quello che abbiamo fatto l'avete visto, ci siamo anche beccati le denunce e le intimidazioni. Siamo nati perché Giambattista Scidà ci ha ridato l'idea, perchè Giancarlo Caselli e Nando Dalla Chiesa si sono imbarcati con noi, su questa barca che vuole attraversare e raccontare la Sicilia e l'Italia, insieme, facendo rete, perseverando quella pubblica verità che ci ha insegnato il Direttore de “I Siciliani”, Pippo Fava. I Siciliani giovani però si fa anche con tutti voi. Usciremo, probabilmente, in edicola come mensile fra un mese, esattamente dopo trent'anni dai "vecchi” Siciliani. Noi ci stiamo provando a fare tutto ciò ma abbiamo bisogno di voi. Tanti piccoli aiuti fanno un grande aiuto. Adesso vi chiediamo un contributo per sostenerci promettendovi che come sempre andremo avanti, navigando su questo mare in tempesta, rimanendo liberi, senza padroni alle spalle e di certo non daremo via la baracca come qualcuno, passando a La7. Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it
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Informazione e giornalismo/ Altri modelli
Strane antenne crescono E' nata la tv delle donne
“Fimmina Tv” Nel posto più abbandonato d'Italia, nella Locride in Calabria, un gruppo di donne ha deciso di prendere la parola. Come? Facendosi la sua tv. “Non solo contro la mafia. Abbiamo molte altre cose da dire” di Michela Mancini
«Sai che nella Locride erano frequenti i matronimici? Insomma qui erano le donne a dare il nome ai figli». Nominare le cose non significa anche crearle? Fimmina tv è un’emittente con un solo mese di vita, è nata in Calabria, nella Locride, a Roccella Jonica per la precisione. Ha debuttato il primo settembre su canale 684 del digitale terrestre. Quello che la rende speciale si intuisce dal nome. No, non è una televisione destinata ad un pubblico femminile. Fimmina tv non esclude nessuno, ma a farla – questa televisione – sono giornaliste donne. Quasi tutte almeno. L’idea è stata di Raffaella Rinaldis, ora direttrice. Ha una voce chiara, sottile. Nata a Chivasso, vicino Torino, si è trasferita in Calabria a sei anni, e lì è diventata giornalista.
«Ho lavorato per quindici anni scrivendo di nera e giudiziaria. Nella Locride, le notizie che contano sono queste: i morti ammazzati. Poi ad un certo punto mi sono chiesta se questo fosse davvero l’unico modo per raccontare questo territorio. Possiamo inventarcelo un modo nuovo? ». E se lo sono inventato davvero questo modo nuovo di raccontare, partendo dalle donne. Le donne di questa Calabria ancora troppo sconosciuta per chi viene da fuori: luoghi pieni di storie, ma spesso così silenziosi. E sbaglia chi interpreta quel silenzio come omertà. E' solo segno di una strana fierezza. La Calabria è una terra cocciuta, e i boschi della Locride sono boschi fitti dove puoi perdere anche il nome. Per generazioni le donne hanno scelto quel silenzio. La Calabria è una terra strana, così quieta in superficie, così impetuosa dentro. Raffaella è una donna luminosa, innamorata di suo marito, una roccia che l’ha sempre sostenuta. È una giornalista con un'innata attitudine al viaggio. È andata in giro per tutta Europa, ma non è solo questo. L’amore per il viaggio è qualcosa di più profondo: la scoperta del nuovo, dell’inesplorato. I viaggi nelle storie degli altri. «Nella mia esperienza ho capito che le donne sono quelle che vogliono raccontare, che si vogliono identificare in altre storie. Non si tratta di vivere altre vite, ma di trovare coraggio in quello che raccontano gli altri. Se vivi solo il tuo dramma, le tue esperienze, ti senti sola al mondo. Condividendo, ascoltando, riesci a trovare la forza che prima ti mancava». La squadra è composta da quindici giornaliste dai ventidue ai quarant'anni, ma anche gli uomini danno una mano. Ci sono tecnici, registi, montatori e un cronista, Antonio Falcone, che si occupa di cinema e cultura. Ma Fimmina tv non è solo una televisione, né solo un modo onesto di fare informazione.
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«Non volevo creare solo una televisione ma un nucleo di persone che stanno insieme. Donne che ho incontrato nell’arco della mia vita e che ho portato con me. Mi danno tanto sia da un punto di vista umano che professionale. Certo i problemi sono tanti, ma stiamo cercando di superarli. È meraviglioso: quando una di noi è depressa, l’altra la tira su e viceversa. È un continuo reciproco. Ma stare insieme è così bello, che se ne sono accorti anche i nostri mariti, e i padri delle più giovani». Donna racconta donna «Credo che alla fine - continua a vulcaneggiare Raffaella - quando fai qualcosa di buono la maggior parte delle persone finisce per emularti. Certo, non puoi sperare che lo facciano tutti. Ma se facendo questo lavoro avremo spinto anche una sola ragazza a sviluppare il suo senso critico, beh, allora potremo dire di aver fatto qualcosa». Nel mondo del giornalismo italiano i vertici della piramide sono garantiti al sesso maschile. Un esempio: le donne dirigenti in Rai sono solo il 4%. Molti periodici destinati ad un pubblico femminile sono gestiti da uomini. Raffaella non ci sta, non perché sia femminista, ma perché le sembra sciocco. «Una donna sa raccontare una donna. È una verità inattaccabile. E poi quel giornalismo lì è marketing. Non siamo un oggetto commerciale, non veniteci a dire quello che ci deve piacere. Noi non combattiamo una battaglia femminista. Loro hanno un percorso storico molto importante alle spalle, ma noi non combattiamo in nome di un ideale. La nostra unica denuncia è quella contro le discriminazioni, quella femminile è solo un simbolo, ma noi le combattiamo tutte». E se discriminare significa lasciare che il pregiudizio annulli l’incontro con la diversità, allora, il primo pregiudizio che
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“Donne emancipate nel cuore della Locride: e che c'è di strano?
queste donne vogliono combattere è quello sulla propria terra «Locride sinonimo di ndrangheta. Vero? No. Non va bene. Vogliamo trasformarla, questa parola. Locride significa Magna Graecia, culturauna natura meravigliosa. Il nostro territorio storicamente è stato caratterizzato dal matriarcato. Qui non c’erano i patronimici, ma i matronimici: era la donna a dare il nome». “La verità è che ci piace ascoltare” Ernesto De Martino, in Mondo Magico, racconta che quando nasceva una donna l’acqua del parto veniva buttata nel camino. Quando veniva partorito un uomo, l’acqua veniva buttata fuori casa. È affidato all’uomo “il fuori”, alla donna viene consegnata la cura dell’interiorità. Questo a noi donne ha consegnato un bel fardello: proiettate all’interno, sensibili, emotive. La modernità ha preso l’acqua del nostro parto e l’ha buttata fuori casa insieme a quella degli uomini. Eppure ancora ci rimproverano di essere troppo inclini all’introspezione. La verità è che ci piace ascoltare, ci piace creare calore. Raffaella ha creato un luogo, ha chiamato le sue colleghe più giovani ad esercitare il mestiere. «C’è anche una signora di cinquant’anni nella squadra. Ha cominciato ora, a fare la giornalista».
A Milano forse, ci sarebbe stata meno sorpresa davanti a una faccenda come questa. Chi viene dal nord si stupisce di trovare donne emancipate nel cuore della Locride, come se davvero questa terra fosse rimasta al medioevo. Raffaella vuol raccontare questo territorio, anche per sfatare certi miti. Non sarà un tv solo antimafia. «Parleremo di tutto, perché è tutto un territorio che dobbiamo raccontare. Il fatto che in Calabria ci siamo moltissimi comuni sciolti per mafia è un fatto gravissimo che non esitiamo a denunciare. Ma non è l’unico fatto grave. Nella Locride c’è un forte fenomeno di prostituzione, molte ragazze sono sparite. Nessuno ne sa più nulla. Ecco, queste sono notizie su cui non si può tacere». Raffaella parla spedita, non si ferma mai. Racconta sorridendo: «Ho registrato la testata della tv l’otto marzo. È stata una pura combinazione: i documenti del consiglio dell’Ordine non arrivavano mai, e poi sono arrivati proprio quella mattina. Ho chiamato la cancelleria per sapere se il tribunale quel pomeriggio fosse aperto: “Si, vieni” mi hanno risposto le impiegate. Hanno tenuto aperti gli uffici apposta per farmi registrare. Chiamala sorellanza: una strana energia che permette che ogni donna condivida la gioia dell’altra».
Scheda GIORNALISMO E SERVIZIO PUBBLICO Secondo un sondaggio realizzato per la prima volta nella storia della Rai sui propri giornalisti - i cui risultati sono stati presentati al convegno “Immagine femminile e ruolo del servizio pubblico” organizzato dalla Commissione Pari Opportunità dell’Usigrai l’8 marzo scorso – la situazione del nostro Paese è tutt’altro che rassicurante. Il dato che emerge di più è quello sull’età: la Rai infatti risulta essere un’azienda vecchia, la somma dei giornalisti tra i 40 e i 65 anni corrisponde all’82,99% dell’intero campione mentre quelli tra meno di 30 anni fino ai 40 rappresentano solo il 16,99%. Altro dato sensibile è l’alta percentua-
E INTANTO IN SICILIA E' IL MOMENTO DI TELEJUNIOR di Michela Mancini SicilianiG. e Nicola Capizzi Telejunior «Pronto, Franci? Siete atterrati? Non passate da Trapani, venite direttamente qui a Partinico. È successo un macello, stanno bruciando le antenne. Non ce la facciamo da soli». «Va bene, passiamo da casa a Trapani a prendere la macchina e le lenzuola e arriviamo. Un’ora al massimo e siamo lì». Quando è suonato il citofono, un’ora dopo, nella redazione di Telejato non si capiva niente. Era il 29 settembre, quella mattina un incendio a Monte Bonifato aveva bruciato le apparecchiature che trasmettevano il segnale della televisione. Appena ci siamo accorti di non poter andare in onda, Gianni, il figlio di Pino, è salito in macchina per raggiungere la postazione in fiamme. Caricandosi una parte delle attrezzature sulle spalle è riuscito a sottrarle al rogo. Le ha portate in redazione in tarda serata, il danno era enorme; abbiamo scrostato plastica abbrustolita per ore.
le di giornalisti che non hanno figli (il 43,77%), quasi esclusivamente i colleghi maschi hanno dichiarato di avere più di un figlio, a testimonianza che riuscire a conciliare lavoro e famiglia per una donna giornalista risulta ancora molto difficile. In totale il personale giornalistico della Rai è di 1.656 unità di cui 1.097 uomini e solo 559 donne. Tra i dirigenti (direttori, capiredattori, capiservizio e rispettivi vice) solo il 4% sono donne e nel ruolo di direttore sono solamente due, Bianca Berlinguer al Tg3 e Barbara Scaramucci a Rai Teche. Il massimo livello raggiungibile per le giornaliste sembra essere quello di caposervizio. I numeri delle donne: http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=9062
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La redazione di Telejato e quella di Fimmina Tv .
Scheda CHI FA NOTIZIE IN EUROPA? La ricerca dell’Osservatorio europeo sulle rappresentazioni di genere (OERG), nato all’interno dell’Osservatorio di Pavia, dal titolo: “Chi fa notizia in Europa?”, ha considerato i dati relativi ai telegiornali in prima serata delle due principali tv, una pubblica e una privata, di cinque paesi europei: Italia (Tg1 e Tg5), Francia (France 2 e Tf1), Germania (Ard e Rtl), Inghilterra (Bbc1 e Itv1) e Spagna (Tve e Telecinco). La ricerca ha indagato tre ambiti in particolare: chi fa notizia nei tg, cioè le persone di cui si parla e quelle intervistate, chi dà e fa le notizie, quindi conduttori, giornalisti e corrispondenti, infine ha studiato come sono confezionate le notizie in una prospettiva di genere. Fra i tg che danno maggiore visibilità all’universo femminile ci sono Francia e Spagna, il nostro Paese si attesta invece all’ultimo posto con la quota di presenza femminile più bassa di tutti i tg, inoltre le donne sono presenti come rappresentanti della gente comune e raramente ricoprono ruoli autorevoli, come per esempio quello dell’esperto. Mediamente le donne fanno notizia come vittime due volte più degli uomini (12% contro il 7%).
Sul fronte del chi da o fa le notizie risulta che nel 54% dei casi i telegiornali sono condotti da donne e l’Italia presenta un dato curioso con il suo 58% si colloca infatti ben 4 punti sopra la media. Per quanto riguarda poi la centralità femminile nelle notizie le donne sono raramente messe al centro, solo l’8% delle notizie è focalizzato su di loro. A fare notizia sono soprattutto gli uomini, tranne nella cronaca nera, ma a dare le notizie come conduttrici e giornaliste sono le donne. Le donne sono poco presenti nell’informazione politica, soprattutto in Italia e Inghilterra (11% in entrambi i casi). Si distingue invece la Francia dove le notizie di politica nei tg includono maggiormente le donne. Si nota poi una forte dicotomia fra i ruoli “comuni” più rappresentati dalle donne e i ruoli “autorevoli” rappresentati dagli uomini, l’Italia sotto questo punto vista registra la maggiore segmentazione, tra gli esperti intervistati nei tg italiani solo il 10% è di sesso femminile (contro il 90% del sesso opposto), mentre ben il 66% delle opinioni popolari è dato da donne. La presenza femminile nell'informazione secondo l’ultimo rapporto Who Makes the News del Global Media Monitoring Report: http://www.whomakesthenews.org/images/stories/website/gmmp_reports/2010/gmmp_2010_preliminary.pdf
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“Niente retorica e buoni sentimenti.Il nostro è il giornalismo Scheda TELEJUNIOR, TELEJATO del lavorare” Telejato è una televisione comunitaria a conduzione familiare, attiva sul territorio di Partinico da oltre dieci anni. Con il passaggio al digitale la piccola emittente di Pino Maniaci rischiava di chiudere i battenti. Una legge contenuta nella finanziaria 2011, firmata dal governo Berlusconi, impone regole molto restrittive per le televisioni comunitarie e a Telejato non potevano essere assegnate le frequenze. Grazie a un lavoro di squadra e alla creazione di un consorzio, la tv antimafia vince la sua battaglia: al momento dello switch off può continuare a trasmettere e i canali a sua disposizione sono diventati sei. Tra questi c'è Telejunior, il canale dei giovani, una scuola di giornalismo e un posto dove s'impara a fare informazione vera. Nonostante un incendio abbia distrutto il ripetitore di Monte Bonifato, Telejato non si ferma: la nuova sede viene inaugurata e, grazie alla bravura dei tecnici, il segnale ora raggiungerà anche Agrigento, Messina, Trapani e Palermo. Giulia Paltrinieri, Telejunior
Quando sono arrivati Francesca e Nicola abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Quelle facce – diciamo semifresche – comunicavano ottimismo; non rimaneva che dividersi il lavoro. In tarda serata, nonostante la febbre alta, è arrivato Salvo Intravaglia, il nostro tecnico. Salvo è innamorato di Telejato. Quella sera è riuscito a fare miracoli, recuperando pezzi che credevamo inutilizzabili. Le attrezzature salvate sono state montate sul terrazzo della redazione stessa. C’era un vento bollente, l’unico odore che sentivamo era quello della puzza di bruciato. Il segnale su Partinico è tornato all’una di notte. Ci siamo messi a fare il telegiornale. La mattina non era potuto andare in onda, dovevamo dare un segnale preciso: non ci riuscite a fermare. Quella notte, seduti per terra su uno dei balconi della redazione, non riuscivano a dire molto. Francesca era venuta una sola volta, eppure sembrava fosse lì da sempre. Sofia osservava silenziosa. Nicola, instancabile come sempre, ha cercato di estorcere sorrisi, e come sempre c’è riuscito. Puzza di bruciato, sapore di caffè, mozziconi di sigarette, occhi semichiusi: siamo andati a dormire come zombi. La nostra resistenza non sarà mai come quella iPino e famiglia, è inutile, questione di dna.
I giorni seguenti sono trascorsi tra paura di non farcela a sistemare tutto entro il 4 (inaugurazione della nuova sede e di Telejunior), costanti incursioni di Carabinieri e Polizia, e corse in aeroporto di Gianni. Ogni giorno arrivavano in media tre, quattro persone da tutta Italia. Tutti lasciavamo le nostre città per andare a Partinico, per esserci all’inaugurazione. Dopo l'incendio tutto è cambiato Ma dopo l’incendio tutto è cambiato. Adesso eravamo davvero una squadra, perché sentivamo la responsabilità di quella redazione. Non era più partecipazione esterna, ma fatica e resistenza. Non nelle parole, ma negli occhi stanchi di Fabio, che non si erano mai visti. Nei sorrisi spezzati di Letizia, nella forza di Giulia, negli abbracci di Francesca, negli occhi lucidi di Eleonora. Eravamo lì non perché facessimo parte di qualcosa: noi eravamo qualcosa. Nel viaggio da Bologna, Eleonora – piccola, ossuta, con due occhi enormi spalancati sul mondo – aveva perso il cellulare. Arrivata a Partinico se n’era praticamente dimenticata. Il mondo esterno era lontano, c’era una battaglia da combattere e un’urgenza che ti faceva scordare la fame. Il sonno no, quello mai. “Il futuro è sempre così incerto...” A Borgetto, nella casa in cui la Protezione Civile ci ospitava, non riuscivamo a chiacchierare molto. La sigaretta notturna sulla panchina c’era sempre, per non smentire le tradizioni: «Ho fatto un paio d’esami all’università, sono andati bene», «Col mio ragazzo..? Crisi nera. Il futuro è sempre così incerto che....». Sbadigli, tentativi di discorsi. «Forse è meglio andare a dormire, domani...». Eleonora ci provava, ma si addormentava parlando. Le ho sor-
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riso, le ho fatto una carezza, ma già russava. I ragazzi arrivati da Quarrata, in provincia di Pistoia, non hanno esitato un momento a mettersi al lavoro: Valentina, Arianna e Assunta armate di santa pazienza hanno rimesso a nuovo la redazione, appendendo quadri, ordinando cassetti e archivi. Rossano, l’unico uomo toscano, a cui è toccato sopportare un esercito di donne a Borgetto, ha provato a tenerci svegli durante la notte, ma ha saputo farsi perdonare. «Ti prendo un bicchiere di spumante, lo vuoi? E un pezzo di torta?» ripeteva alle nostre facce stanche il giorno dell’inaugurazione. Lo spirito del mestiere Una giornata di festa che rimarrà nella storia, anche se la nostra storia – quella di Telejunior – l’hanno costruita i giorni di lavoro e di preparazione. Giorni densi, giorni pieni di entusiasmo, ma anche di rabbia, di impotenza. Dietro la nuova sede di Telejato ci sono anni di sacrifici della famiglia Maniaci. Dietro quel 4 ottobre, una festa ineccepibile per gli ospiti, c’erano le mani di Gianni e la dedizione di Nicola, la passione che nessuno di noi ha lesinato. Ce ne siamo resi conto tutti, anche se non ce lo siamo detti per pudore, che il giornalismo è un’altra cosa. Non è sufficiente scrivere i pezzi, fare i servizi, cercare le notizie. Il giornalismo per noi di Telejunior ha poco a che fare con la retorica dei buoni sentimenti che la stanchezza spazza via con facilità. Il giornalismo era scrostare le attrezzature e sperare in silenzio che l’ennesimo tentativo di zittirci non andasse a buon fine. Così è stato: adesso il segnale raggiungerà Trapani, Palermo, Messina ed Agrigento. Nel frattempo quello che è accaduto ci ha insegnato una cosa: lo spirito del mestiere. Speriamo di tenerlo a mente.
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Reggio Calabria
Dal boia chi molla all'arraffa-arraffa Storia della nuova destra reggina di Dario Costantini 14 luglio 1970: i moti di Reggio Calabria. Da lì ricomincia la storia della destra eversiva reggina, che ha portato i fascisti nei palazzi di governo, ripuliti dall’immagine giovane del leader Giuseppe Scopelliti.Quella vicenda ha lasciato un segno tangibile, con cui la città non ha ancora fatto i conti. La scelta del capoluogo a Catanzaro, le promesse politico-industriali, l’università a Cosenza, mettevano in un angolo Reggio. I boia chi molla hanno guidato l’onda del dissenso, giocando un ruolo che è sconfinato oltre la protesta. “Questa è la nostra rivolta – dicevva Ciccio Franco - il primo passo per la rivoluzione nazionale”. Si capisce cosa balenava fra le capocce nere, che assaltavano la prefettura, inneggiavano alla violenza, tentavano invano di isolare la regione, a furia di bombe sui treni, dalle mobilitazioni degli operai del sindacato. La deleggitimazione dello Stato La rivolta antisistema missina coincideba, in tutto o in parte, con la delegittimazione dello Stato voluta dalla ‘ndrangheta. Da lì nasce il legame stretto fra la destra eversiva e le cosche reggine. E' questo il retroterra su in cui cresce la figura di Scopelliti: militante del Fronte della gioventù (di cui diventa segretario nazionale), idolatra di Almirante, presidente del consiglio regionale e assessore al lavoro.
Un uomo di potere, convinto erede di quella storia, che esaurita la rivolta, si è invaghita del contropotere mafioso. E ha rinunciato alla “rivoluzione”, preferendo gli appalti. Scopelliti diventa sindaco di Reggio dopo l’esperienza che aveva regalato più speranze alla città: l’amministrazione di Italo Falcomatà, primo e ultimo sindaco dalla sinistra reggina. La città ricorda ancora quegli anni: il riscatto delle periferie, la lotta contro l’arroganza mafiosa, la cura del territorio. Morto Falcomatà, Reggio ha pianto. Ma la sinistra non ha retto il colpo, e il Comune è finito in mano ai Boia chi molla. E intanto la Reggio perbene... La Reggio perbene ha continuato a fare i soldi schierandosi al fianco del giovane rampante abituato al potere. È stata confinata al suo lungomare, ai concerti di Mtv, Rtl 102.5, ale modelle sul corso. Il palcoscenico migliore per nascondere una città che non ce la fa ad arrivare a fine mese. Le aziende partecipate che non pagano gli stipendi, le casse integrazioni, i buchi milionari, la sanità ridotta in frantumi. Quest’anno nelle vetrine delle librerie un volantino comunicava alle famiglie che i cedolini per i libri di testo non sarebbero stati ammessi perché mai rimborsati. Intanto il Comune comprava al doppio del prezzo di mercato Italcitrus, promuoveva Massimo Pascale segretario del sindaco e Luigi Tuccio assessore, entrambi parenti di Pasquale Condello, cugino dell’altro Pasquale: il Supremo. E apriva una join venture legata alla cosca Tegano, stilava una corsia preferenziale per gli appalti a favore delle aziende amiche. L’elenco continua con l’arresto di importanti sostenitors di Scopelliti Governatore, in primis Santi Zappalà, già condannato a
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quattro anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso. Si sgretola così l’integrità pubblica del modello Reggio, morto nella solitudine del suicidio di Orsola Fallara, lasciata sola al suo destino, vittima sacrificale di un sistema che per reggere ha abbandonato la sua commercialista. Come attraverseremo il caos? Del modello Reggio restano la disoccupazione giovanile sopra il 30 per cento, i servizi inesistenti, l’industrializzazione realizzata a singhiozzo nel consumo padronale della forza lavoro, sospesa fra indeterminatezza ed oppressione, oggetto della speculazione mafiosa. La marginalità politica ha portato ad un senso profondo di abbandono. Da qui nasce la sfida più alta che deve cogliere la sinistra: riprendere in mano la missione di cambiamento reale, perché quel sentimento non trascenda nell’ostilità della disperazione.Al capolinea dei poteri egemonici si ingenera incredulità, seguita dal caos e da un nuovo ordine che si ricrea. Lo spirito col quale si attraversa la fase caotica, il senso di rivolta che attraversa le fasce sociali più colpite, sarà la premessa sulla quale si costruirà il futuro. Una storia da far valere Reggio Calabria ha una storia che può far valere. La storia di Italo Falcomatà, dei sindaci che hanno riscattato le periferie, rivalutato il lavoro, la bellezza di una terra affranta. È la reazione dei metalmeccanici di Trentin alle rivolte fasciste, di quella strofa di Giovanna Marini, la più bella, che dà alla gente di Reggio la dignità di esserci, di contare: “E alla sera Reggio era trasformata, pareva una giornata di mercato, quanti abbracci e quanta commozione: gli operai hanno dato una dimostrazione”.
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accadrà ieri
REWIND
FORWARD accadde domani a cura di Francesco Feola
Dodicimila
Dopo Gheddafi
I pratesi faranno
Il 5 ottobre il primo produttore mondiale di platino, Amplats, annuncia il licenziamento di 12.000 dei 28.000 minatori che da giorni hanno proclamato uno sciopero selvaggio a Rustenburg, nel nord del Sudafrica. Nei giorni seguenti gli scontri fuori alle miniere continueranno, facendo alcuni morti tra i minatori.
Il 15 ottobre in Libia Ali Zeidan viene eletto primo ministro. Oppositore di Gheddafi fin dal 1980, quando disertò abbandonando l’ambasciata libica in India, Ali Zeidan dovrà riuscire a formare un nuovo governo, impresa non riuscita al suo predecessore, Mustafa Abu Chagour.
Mercoledì 9 novembre a Prato, nella Sala del Consiglio provinciale, in via Ricasoli 25, verrà presentato il VII Rapporto Immigrazione Oltre la “pratesità”. Identità e appartenenze nella città multiculturale. www.pratomigranti.it
MINATORI LICENZIATI
(E BERLUSCONI) UNO NUOVO
Bombe, soldati E RELIGIONI: MIX SBAGLIATO
Il 16 ottobre l’esercito nigeriano annuncia di aver ucciso a Maiduguri 24 membri del gruppo islamista Boko Haram colpevoli di aver fatto esplodere alcune bombe. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di imporre la sharia, ovvero la legge islamica, nel paese.
I giudici SCIOPERANO PER LA GIUSTIZIA Il 6 ottobre 800 magistrati marocchini partecipano ad un sit-in davanti alla Corte di cassazione di Rabat chiedendo maggiore autonomia, la fine della corruzione nel sistema giudiziario, e migliori condizioni, sia salariali che lavorative
In senso inverso ROMA E IL TEATRO STRANO
Domenica 4 novembre comincia a Roma, in via Vaiano 7-15, il Laboratorio teatrale multietnico promosso dall’associazione Aniwe/Per tutti con Insensinverso. Il laboratorio si svolgerà da novembre fino ad aprile 2013. www.romamultietnica.it/it/news/teatro/ item/9223-laboratorio-teatrale-multietnico.html
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LA PACE CON LA CINA?
La Sapienza
PROVA A MEDIARE
Scade il 26 novembre il termine per partecipare al master di primo livello in “Mediazione interculturale per la salute”, organizzato dal dipartimento di Scienze medico chirurgiche dell’Università la Sapienza di Roma. Lo scopo è formare persone che operino nell’assistenza a persone e comunità migranti, rom e sinta. www.romamultietnica.it/it/news/master/item/9287-master-in-mediazioneinterculturale-per-la-salute.html
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Messina/ Il caso Bottari
L'omicidio eccellente da cui cominciò tutto Fanno presto a passare, quindici anni. E chi se lo ricorda più com'era, Messina, prima del secondo terremoto - quello mafioso? di Antonio Mazzeo
Il prossimo 15 gennaio saranno trascorsi già quindici anni da quella maledetta sera in cui fu assassinato a Messina il professore Matteo Bottari, stimato gastroenterologo del policlinico universitario. Tre lustri, un tempo immenso. Un delitto efferato che stordì una città permeata di silenzi, omertà, luoghi comuni. A partire da quello di essere esente da qualsivoglia condizionamento della criminalità organizzata. I silenzi, le omertà e i luoghi comuni persistono come allora. E al povero professore Bottari continua ad essere negata memoria e giustizia. Perché Messina ha metabolizzato il sangue e ha scelto di continuare a vivere sotto il dominio della borghesia mafiosa. E perché gli inquirenti è come se avessero gettato la spugna, sconfitti, dopo aver brancolato quindici anni nel buio senza riuscire ad individuare i moventi, i mandanti, neanche l’ombra dei prezzolati angeli della morte del professionista.
Poco dopo le 21 del 15 gennaio 1998, il professore Bottari si era messo alla guida della propria auto, un’Audi 100 di colore nero a trazione integrale. Giunto all’incrocio tra il viale Regina Elena e il torrente Annunziata, nella zona residenziale a nord della città, l’auto rallentò, forse per il rosso del semaforo, forse per lo squillo del cellulare. Bottari era tallonato da un pezzo ma non si accorse di nulla. Superato il semaforo, la sua Audi venne raggiunta e affiancata da una moto. Scattò l’agguato. Pallettoni calibro 45 Uno dei killer imbracciava una lupara con pallettoni calibro 45, quelli usati per la caccia al cinghiale. Erano rivestiti di rame. Rinforzati, indeformabili, per non dare scampo alla vittima. Poggiata l’arma sul finestrino della fiancata destra, fu fatto esplodere il caricatore. I proiettili devastarono la testa del professionista, che si accasciò agonizzante sul volante. L’auto finì contro un marciapiede del lungo stradone della Panoramica. Titolare della cattedra di diagnostica e chirurgia endoscopica dell’Università e docente di numerose scuole di specializzazione della facoltà di Medicina, Matteo Bottari svolgeva l’attività chirurgica anche presso cliniche private della città di Messina e della Calabria. La sua non era però una vita confinata tra le aule universitarie e le sale operatorie. Genero dell’ex rettore dell’Ateneo Guglielmo Stagno d’Alcontres, antiche radici nobiliari nella penisola iberica, Bottari frequentava i circoli esclusivi della borghesia peloritana. Vantava pure un’affiliazione dal 1990 alla prestigiosa loggia “Giordano Bruno” del Grande Oriente d’Italia, quella frequentata dai docenti di punta dell’ateneo, compreso il futuro rettore Diego Cuzzocrea. Ed era membro del Rotary Club di Taormina insieme all’imprenditore Dino Cuzzocrea, il fratello di Diego, anch’egli massone e contitolare della clinica privata “Cappellani” presso cui il Bottari stesso operava da quattro mesi, due pomeriggi la settimana.
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Da quella clinica il gastroenterologo si era allontanato per raggiungere la propria abitazione la sera che venne assassinato. Per trovare una spiegazione o un indizio, la polizia indagò a 360 gradi sulla vita e le relazioni umane e professionali della vittima. Scartata la pista dell’omicidio d’onore che avrebbe potuto fare le fortune dei rotocalchi rosa, si puntò il dito sugli inevitabili contrasti nel mondo accademico e sulle gelosie di qualche collega in competizione per una cattedra. Era scoppiata da poco l’inchiesta sulle megaforniture di farmaci e apparecchiature in campo sanitario, amici e colleghi del Bottari c’erano implicati fino al collo, ma anche questa pista si arenò per l’assenza di plausibili riscontri. Poi ci s’indirizzò inutilmente sugli appalti per la ristrutturazione e l’ampliamento del policlinico che avevano fomentato appetiti di avvoltoi e sciacalli. Le ipotesi di depistaggio S’ipotizzò persino che il gastroenterologo fosse stato vittima di una vendetta trasversale, magari per uno sgarbo commesso dal potente congiunto. O che si fosse trattato di un tragico e imperdonabile “errore di persona”: lo suggeriva qualche cronista locale e l’allora direttore amministrativo del policlinico Salvatore Leonardi, ex presidente della provincia ed ex sindaco di Messina. “Un delitto di mafia, ma anche di soldi, tanti soldi e di affari”, spiegò l’allora superprocuratore antimafia Pierluigi Vigna, consentendo così che si accendessero finalmente i riflettori dei media nazionali sulla città babba, quella che in tanti credevano essere l’isola felice risparmiata dall’occupazione mafiosa. Dopo una lunga indagine della Commissione parlamentare antimafia, il suo vicepresidente, l’on. Nichi Vendola l’etichettò invece come la “città verminaio”. Oggi a quel delitto la stramaggioranza dei messinesi non ci pensa più e l’impunità non turba i sogni di amministratori e pubblici funzionari.
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Tutti, tranne il comandante del Corpo di polizia municipale, Calogero Ferlisi, che alla sera del 15 gennaio di quindici anni fa ci pensa spesso e con inquietudine. “Forse ero io, quel giorno, la vittima designata dalla criminalità mafiosa”, afferma Ferlisi. Pure lui teme che Matteo Bottari sia scomparso per un errore di persona. La sua persona. La battaglia di Calogero Ferlisi Nell’ottobre 2010, Calogero Ferlisi ha deciso di presentare un esposto al procuratore della Repubblica e al prefetto di Messina per esporre i propri dubbi e timori, quelle oggettive “coincidenze” che lo legherebbero all’efferato delitto in cui Messina perse la sua equivoca innocenza. C’era innanzitutto la sua sorprendente somiglianza fisica con il professore Bottari e il possesso, al tempo, di un’autovettura Audi 100 di colore scuro, lo stesso modello cioè di quella in cui viaggiava il professionista quando fu raggiunto dai killer. E nel gennaio 1998 erano appena cinque le Audi 100 circolanti in tutta la città. Il comandante del corpo di polizia municipale ha raccontato agli inquirenti che in quei mesi era solito percorrere quotidianamente il tragitto compreso tra la propria abitazione e quella della madre ubicata sulla Panoramica. Qualche tempo prima del delitto, inoltre, la sua autovettura era stata danneggiata ad opera di ignoti dopo essere stata parcheggiata sotto casa. “Il possibile scambio di persona da parte degli assassini potrebbe essere stato facilitato dal fatto che il luogo del delitto era poco illuminato e la visibilità era ulteriormente ridotta a causa di un acquazzone”, ha ricordato Ferlisi. “La vittima stava inoltre utilizzando un cellulare che potrebbe avergli coperto parzialmente il volto”. Come pubblico ufficiale, la criminalità organizzata aveva più di un buon motivo per decidere di liberarsi di lui con la violenza. Nel gennaio 1998, Ferlisi aveva 39 anni (10 in più di Bottari), era capitano di corvetta della Marina militare e
prestava servizio presso l’Ufficio demanio della Capitaneria di porto di Messina con l’incarico di responsabile della sezione demanio-contenzioso. Il reparto di Ferlisi si caratterizzò allora per l’instancabile e rilevantissima attività repressiva, concretizzatasi in particolare con la demolizione e il sequestro di casupole, piscine, esercizi commerciali, ristoranti, alberghi, ecc., insistenti sul demanio marittimo. Nella sua relazione sull’attività di polizia giudiziaria svolta dall’1 luglio 1998 al 30 giugno 2009, la Capitaneria di porto di Messina segnalava di aver comunicato 192 notizie di reato per “violazione di norme in materia di demanio marittimo, polizia dei porti, sicurezza della navigazione, pesca e inquinamento marino”. 704 verbali per violazioni Erano stati sottoscritti 704 verbali di accertamento per violazioni amministrative e ordinato il sequestro di 129 aree con relativi manufatti abusivi, 11 automezzi impiegati per discariche abusive, 56 reti ed attrezzature di pesca e un’imbarcazione da diporto. Nonostante l’esito favorevole delle operazioni, la Capitaneria lamentava tuttavia “la non tempestiva collaborazione” degli organi tecnici preposti all’elaborazione della documentazione tecnica necessaria per l’appalto dei lavori di demolizione ordinati. Il reparto diretto da Calogero Ferlisi, nello specifico, si era messo in luce per l’azione di monitoraggio degli scarichi abusivi, per la mappatura di alcune chiusure abusive sull’accesso al mare e per le indagini sulle occupazioni abusive nelle spiagge della zona di Mortelle-Tono, tra le più belle dal punto di vista paesaggistico. Per occupazione abusiva di suolo demaniale era stata denunciata perfino l’Enel ed erano state aperte indagini sull’utilizzo dei padiglioni della Fiera di Messina per le feste private di facoltosi cittadini e sulle violazioni alle norme sul-
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la sicurezza della navigazione nello Stretto, corridoio marittimo superaffollato e ad alto rischio di collisione. Erano stati avviati controlli a tappeto sulle attività degli stabilimenti balneari e sulla localizzazione dell’inceneritore di san Ranieri (oggi dismesso) all’interno delle strutture superstiti della cittadella-fortezza del seicento, nella centralissima zona falcata di Messina. A riprova della serietà dell’impegno nel contrasto alle illegalità, la Capitaneria di porto aveva pure istituito una sezione “ambiente” con compiti di tutela e valorizzazione della fascia costiera e aveva firmato un protocollo d’intesa con l’associazione Legambiente per una collaborazione nel controllo ambientale. I provvedimenti emessi della Capitaneria generarono un introito record, per gli indennizzi, di circa 5 miliardi di vecchie lire, prelevati in parte dalle tasche della Messina bene, professionisti, imprenditori e persino elementi di spicco della criminalità mafiosa. Tra i manufatti attenzionati ci fu pure, in contrada Marmora-Rodia, la megavilla di 2.085 metri quadri con tanto di parco, piscina olimpionica e campi da tennis di proprietà di Michelangelo Alfano, ritenuto sino al suo misterioso “suicidio”, nel 2005, come l’“anello di congiunzione tra Cosa Nostra e la mafia messinese”. Ferlisi contro Riina Nell’immobile si sarebbe nascosto per qualche tempo il superboss Totò Riina e dopo la recente confisca è entrato a far parte del patrimonio comunale. Fu lo stesso Calogero Ferlisi a guidare, nel 1998, i militari che effettuarono il sopralluogo alla villa che ricadeva in parte sul demanio marittimo. “Ci fece entrare il buttafuori dalla spiaggia e ci accolsero quasi gentilmente”, ricorda il comandante dei vigili. “Alfano era con alcuni suoi familiari e amici nella sauna. Ci ricevette lì, nella sauna stessa, ma noi eravamo in divisa. Andammo via madidi di sudore ma sequestrammo la parte della villa abusiva”.
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Durante la campagna anti-abusivismo, Calogero Ferlisi ricorda pure di aver monitorato gli immobili di proprietà del presidente di sezione del Tribunale civile di Messina, Giuseppe Savoca, del costruttore Salvatore Siracusano e dell’ex sottosegretario al Tesoro, on. Santino Pagano. I tre vennero successivamente indagati (e prosciolti) nell’ambito dell’inchiesta Gioco d’azzardo su una presunta associazione mafiosa internazionale dedita al traffico di armi e riciclaggio di denaro sporco. Fra Savoca e Siracusano “Trovandomi a leggere sulla stampa alcuni passi dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dai magistrati - racconta Ferlisi - mi sono imbattuto su un’intercettazione ambientale, avvenuta in un bar del centro di Messina nell’estate del 2001, in cui il dottore Savoca e il costruttore Siracusano si soffermavano sull’omicidio Bottari. Per gli interlocutori si sarebbe potuto trattare di un errore nell’individuazione della vittima. Proprio ciò che penso e temo di più”. Ma, dopo che gli ha sparato gli ha detto: ma non credete che avete sbagliato vittima, direbbe il Siracusano nell’intercettazione. Loro erano andati ad ammazzarlo a domicilio - onestamente visto che non c’era nessuna possibilità di scelta, loro non sono andati, la replica di Savoca. Ci sono i figli di Bottari. Gli feriscono un figlio. Si sono accorti di una macchina della Polizia. Poi le voci si accavallano. No, se ne è accorto lui, spiega un “altro soggetto non individuabile”, come scrivono gli inquirenti. Poi è ancora Siracusano: Lui gli ha detto c’è ne andiamo sul sicuro. Allora hanno deciso che gli conveniva di farlo quando stava fuori, in mezzo alla strada. Ora è Lui che comanda. Per la cronaca, il magistrato e il costruttore hanno contestato la veridicità delle trascrizioni, accusando gli uomini della Direzione investigativa antimafia di averne manipolato il contenuto. Dopo una serie di perizie e controperizie, nel
luglio 2011 il Giudice per le indagini preliminari di Lecco aveva messo un punto alla querelle emettendo la sentenza di proscioglimento nei confronti degli investigatori, ma la Cassazione l’ha annullata rinviando il fascicolo al Gip. A rendere ancora più complessa la vicenda è quanto avvenuto un anno e mezzo dopo il delitto Bottari. Il 30 settembre 1999, Calogero Ferlisi fu improvvisamente trasferito da parte del comando generale delle Capitanerie di porto alla Capitaneria di Crotone. Dopo essersi inutilmente opposto all’anomalo provvedimento, il successivo 2 ottobre Ferlisi decise di rassegnare le proprie dimissioni dal corpo militare. Lo scalpore fu enorme e ci furono attestati di solidarietà da parte di associazioni e forze politiche peloritane. Il 7 ottobre 1999 fu presentata un’interrogazione da parte del sen. Giovanni Russo Spena (Prc). Il trasferimento di Ferlisi “Lo spostamento senza preavviso (di norma trascorrono quattro mesi) desta sconcerto per i tempi e i modi con i quali si è mosso il comando generale delle capitanerie di porto”, scrisse il parlamentare. “Si coglie il capo sezione nel pieno di un attacco senza precedenti contro l’illegalità che da decenni ha invaso e deturpato il patrimonio demaniale del Messinese. Chiediamo pertanto di sapere quali reali motivi abbiano spinto ad agire il Ministero della difesa, su cui gravano legittimi sospetti di aver voluto bloccare l’opera moralizzatrice, altamente meritoria, del Ferlisi”. L’11 ottobre del 2001 fu il deputato leghista Dario Galli a presentare un’interrogazione al ministro delle infrastrutture e dei trasporti. La risposta, scritta, arrivò il 4 marzo successivo con la firma del sottosegretario Nino Sospiri. “Le motivazioni che hanno indotto il comando generale delle capitanerie di porto ad adottare il provvedimento di trasferimento sono state dettate dalla necessità di tutelare l’ufficiale, atteso che la presenza dello stesso nella sede di
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Messina, per sua stessa ammissione, aveva fatto emergere ipotesi di incompatibilità ambientale”. Tutelare. Da cosa e da chi? Questo il governo non lo ha spiegato, come non ha spiegato le ragioni di una supposta incompatibilità ambientale del Ferlisi. Che però a Messina c’è rimasto sino ad oggi in qualità di comandante del Corpo di polizia municipale. “Ci siamo incrociati con il Ferlisi in occasione della campagna di Legambiente Messina contro le chiusure abusive degli accessi in spiaggia nella zona di Torre Faro-Mortelle”, ricorda Daniele Ialacqua, animatore della Rete No Ponte ed ex presidente del circolo ambientalista. “La Capitaneria era già intervenuta in passato, nel quadro di una serie d’interventi contro l’abusivismo costiero, ma grazie a Ferlisi l’azione questa volta fu più incisiva, arrivando a mettere in discussione anche la legittimità di una serie di ville di vip. La notizia del suo inopportuno e sospetto trasferimento d’ufficio in Calabria, in piena ed efficace azione repressiva delle varie illegalità perpetrate a danno del demanio marittimo, ci spinse ad una dura presa di posizione nei confronti dei vertici marittimi e a dar vita ad una campagna di solidarietà con sit-in, comunicati stampa e l’invio di lettere di protesta al Ministero. A tal riguardo ricordo che inaspettatamente quest’ultimo ci rispose respingendo le nostre accuse e adducendo motivazioni al trasferimento che sorpresero lo stesso Ferlisi quando lo mettemmo al corrente della risposta”. Perché l'hanno allontanato? Le vere ragioni di quell’allontanamento restano ancora ignote. E altrettanto ignote e inspiegabili, restano le ragioni che hanno spinto Cosa nostra ad uccidere, selvaggiamente, uno dei più quotati docenti dell’ateneo peloritano. Ha collaborato all’inchiesta Enrico Di Giacomo.
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S C A F F A L E
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Scampia/ La mattanza
La guerra dei “cattivi ragazzi” Già 44 omicidi: periferia nord come il Far West. Per le strade a caccia di “nemici” da uccidere. Chi sono i “girati”. Chi ha organizzato le stragi di Antonio Di Costanzo ladomenicasettimanale.it Vecchi boss spodestati. Mire espansionistiche e “cattivi ragazzi” che vogliono più potere, più soldi. Ecco la nuova guerra di Scampia. Una guerra che parte all’inizio del 2011 quando comincia la nuova scissione. O meglio, quando avviene la scissione negli scissionisti. La scissione Nel cartello criminale che si era ribellato ai Di Lauro si apre una frattura. Il clan guidato dalle famiglie Amato-Pagano, capaci di aggregare i vari gruppi scontenti dei Di Lauro e scatenare la faida del 2004, inizia a scricchiolare. Nasce un nuovo consorzio del sangue, formato dagli Abete-Abbinante con gli alleati Notturno e Aprea. Famiglie legate anche da solidi legami di parentela che decidono di ribellarsi alla dittatura degli Amato-Pagano. Nascono così i cosiddetti “Girati”.
La nuova strategia L’obiettivo è quello di ricacciare il clan che ha guidato la rivolta contro Paolo di Lauro, alias Ciruzzo ‘o milionario, nei comuni di Melito, Mugnano e Casavatore. In pratica i Girati vogliono strappare Scampia e Secondigliano a quelli che fino al 2011 sono stati i leader degli scissionisti, ovvero, vogliono prendersi il più grande market della droga d’Europa. Ad accelerare l’inizio della nuova guerra, sostengono gli inquirenti, sono le scarcerazioni di Arcangelo Abete e Giovanni Esposito detto ’O Muort che tornano su “piazza” proprio quando il gruppo Amato-Pagano è colpito dall’arresto del boss Carmine Amato, nipote di Raffaele detto a Vicchiariella, con le redini delle famiglie finite nelle mani del solo Mario Riccio. I rapporti di forza Arcangelo Abete, 43 anni, per una serie di “congiunture favorevoli”, come sostiene la Procura, gode impropriamente di una situazione di libertà proprio in una fase di riassestamento dei rapporti di forza all’interno della compagine scissionista, finalizzata a ridurre il potere criminale degli Amato-Pagano, durante la quale emergono i gruppi Abete-Abbinante, capaci di saldare in alleanza anche i Notturmo e gli Aprea di Barra e lanciare così la sfida a chi è rimasto fedele a Riccio. All’inizio di gennaio 2012 la faida in sedici giorni conta cinque morti: il 5 a Giugliano, via San Vito, viene ucciso Rosario Tripicchio; l’11 a Melito tocca a Patrizio Serrao e il 16 dello stesso mese,
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di nuovo a Melito, i killer ammazzano Fortunato Scognamiglio. Agguati eccellenti Il 9 in un’auto bruciata erano stati trovati i corpi carbonizzati di Raffaele Stanchi, “Lello bastone” e del suo autista Luigi Mondò. Si tratta di un duplice omicidio eccellente che determinerà altre tragiche conseguenze. Il conflitto si chiude con un altro caduto importante: Biagio Biancolella, figlio di Francesco, detto Ciccio ’o Manaco, esattore degli Amato-Pagano per le estorsioni nel settore degli appalti pubblici e privati nei comuni di Melito e Mugnano, di cui il figlio aveva preso il posto. Biancolella cade sotto i colpi dei sicari il 9 maggio in via Cesare Pavese a Mugnano. Dopo questo colpo gli Amato-Pagano sono costretti a lasciare Napoli e rifugiarsi nei soli comuni a Nord. Per gli AbeteAbbinante è la svolta. Ormai hanno in mano il mercato della cocaina (con un volume di affari che va dagli otto ai dodici milioni di euro ogni due mesi) e sono sicuri di poter conquistare tutte le vecchie piazze un tempo controllate dai Di Lauro, accaparrandosi anche i proventi che derivano dalla vendita di eroina, hashish e marijuana.
Nella loro avanzata gli Abete-Abbinante non hanno fatto i conti, però, con i “cattivi ragazzi” della cosiddetta “Vianella Grassi”, il complesso di case simile a un fortino che sorge in via Vanella Grassi, alle spalle di corso Secondigliano. Tra i vecchi boss di Scampia e i giovani armati di Secondigliano iniziano le prime frizioni. Un’escalation continua con episodi eclatanti come quando due giovani vengono salvati dalla polizia mentre sono stati sequestrati e legati all’interno di un’auto. L’offensiva di quelli della Vianella secondo gli inquirenti, inoltre, nasconderebbe la regia occulta del clan Di Lauro ridimensionato dalla prima faida eppure, a giudizio degli inquirenti, ancora pienamente operativo intorno alla leadership di Marco Di Lauro, 31 anni, latitante da quando ne aveva 24, figlio del padrino “Ciruzzo ' o milionario” che è detenuto dal 16 settembre del 2005. Il gruppo Vanella Grassi Il gruppo della Vanella Grassi, rileva la Procura negli atti dell’inchiesta che alla fine di luglio ha ricostruito le più recenti dinamiche criminali di Scampia, “appare il migliore alleato possibile del clan Di Lauro”, con l’obiettivo di richiamare alla base e ricompattare anche “transfughi dal cartello scissionista, ma già in passato affiliati al clan Di Lauro e comunque pronti a ridisegnare e rinegoziare gli assetti criminali del territorio”.
Un’alleanza quasi naturale considerando anche i rapporti di alcuni personaggi di primo piano della Vanella Grassi con i Di Lauro, come Antonio Mennetta. Nel marzo del 2007, con il duplice omicidio Giuseppe Pica e Francesco Cardillo, all’epoca referenti sul territorio del clan Di Lauro, il gruppo della Vianella capeggiato da Salvatore Petriccione (coadiuvato dai nipoti Fabio Magnetti, Rosario Guarinio e Antonio Mennetta e da numerosi killer come Salvatore Frate), che durante la faida del 2004-2005 costituivano l’originario gruppo di fuoco di Marco Di Lauro, passa con gli scissionisti. La decisione non viene condivisa subito da Antonio Mennetta, che in quel periodo era detenuto. Durante il periodo di detenzione, comunque, Mennetta non interrompe i suoi rapporti con il gruppo di appartenenza, pur manifestando grandi perplessità per la scelta operata dallo zio e dagli altri affiliati di aderire al cartello scissionista.
le anche perché quelli della Vianella possono contare su un commando di fuoco di giovanissimi pronti a tutto. Il punto di non ritorno L'episodio eclatante che dà vita alla terza faida, uno scontro che per la ferocia ricorda quello iniziato nel 2004, è proprio l’omicidio di Raffaele Stanchi, alias Lello ‘o bastone, contabile e gestore della Piazza di spaccio del Lotto P (le cosiddette case dei puffi), per conto degli Amato-Pagano. Questo agguato, eccel-
Il tessitore Marco Di Lauro Con la sua scarcerazione, nel dicembre del 2010, torna sul territorio un personaggio ritenuto dagli inquirenti di primo piano, in passato fortemente legato a Cosimo e Marco Di Lauro, che riprende il proprio ruolo all’interno del clan, soprattutto nel settore del mercato degli stupefacenti, con chiare aspirazioni espansionistiche, cercando di trarre vantaggio dalla situazione di indebolimento della cosca Amato-Pagano. Considerato questo scenario lo scontro con gli AbeteAbbinante e i loro alleati è conseguenzia-
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lente, assesta un colpo al cuore del clan segnando il momento di maggiore contrapposizione nel cartello scissionista, ma allo stesso tempo determina l’allontanamento definitivo della compagine della Vianella Grassi, aprendo un terzo fronte. “Lello ’o bastone” viene ucciso in quanto non vuole pagare una partita di droga acquistata proprio da quelli della Vanella Grassi.
stare alla dittatura dei nuovi padroni, quelli Abete-Abbinante, che con gli alleati Notturno-Aprea hanno strappato Scampia ai potenti Amato-Pagano. Esplode uno scontro durissimo che è ancora in corso con agguati, sparatorie, conflitti a fuoco con le forze dell’ordine. Gruppi armati girano a caccia di nemici da colpire. Due gli episodi più eclatanti: il 23 agosto sulla spiaggia di Terracina viene ammazzato Gaetano Marino, detto “moncherino”, fratello di Gennaro “Mc Key”. Per le strade a caccia di “nemici”
Gli hanno tagliato la mano destra Il 9 gennaio del 2012 in un’auto carbonizzata vengono trovati due cadaveri. Uccisi a colpi di arma da fuoco. A una delle due vittime i killer hanno tagliato la mano destra. L’uomo torturato, mutilato e ucciso insieme con il suo autista non è un personaggio qualunque ma rispondeva al nome di Raffaele Stanchi, “contabile e gestore della piazza di spaccio del Lotto P per conto degli Amato-Pagano”, lo definiscono i pm del pool anticamorra Stefania Castaldi, Maurizio De Marco e Vincenza Marra. Amante della bella vita, Stanchi aveva gestito per anni il fiume di denaro garantito dalle “Case dei Puffi, una delle piazze di spaccio più redditizi di Scampia. Il “contabile” è un camorrista esperto,
uno di quelli che ne ha viste tante e ha superato indenne le altre faide. Forse si sente intoccabile e commette un grave errore: sottovalutare i “cattivi ragazzi” della Vanella Grassi, ai quali decide di non pagare una partita di droga ritenendo, scrive la Procura, che un’azione del genere non avrebbe avuto alcuna conseguenza per il loro “scarso rilievo criminale”. Stanchi viene sequestrato insieme al suo autista, Luigi Mondò, e ucciso con lui dopo il macabro taglio della mano destra: quella con cui avrebbe dovuto versare il denaro per la partita di droga. L’omicidio di Stanchi ha due conseguenze: rappresenta “il momento di maggiore contrapposizione tra i gruppi del cartello scissionista” e segna, a giudizio della Procura, “l’allontanamento definitivo della compagine della cosiddetta Vanella Grassi”. I cattivi ragazzi non intendono sotto-
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Pochi giorni dopo in un bar di via Roma verso Scampia, di fronte al carcere di Secondigliano, con tre colpi alla nuca viene freddato Raffaele Abete, fratello del capoclan Arcangelo, detenuto, e zio del ventenne Mariano Abete, latitante. I cattivi ragazzi della Vianella a suon di piombo riescono a conquistare parte della piazza di spaccio del Lotto P e la Vela Celeste. A Scampia è guerra. Come nel 2004. Lo Stato reagisce la periferia Nord viene blindata da polizia e carabinieri, ma la guerra non si ferma. Commando armati girano per le strade a caccia di nemici. Basta solo essere identificato come individuo vicino al gruppo avversario per diventare un obiettivo. Per vedersi disegnare sulla schiena un mirino. http://www.centoautori.it/index.php/centonews/949-scampia-la-guerra-deigirati-e-dei-cattivi-ragazzi-della-vinella
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Saccheggio della Biblioteca dei Girolamini
Libri a Dell'Utri si stringe il cerchio Da Firenze spuntano nuove intercettazioni di Arnaldo Capezzuto
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Si allarga lo scandalo dei libri antichi trafugati dalla biblioteca di Girolamini a Napoli. Dalla Procura di Firenze giungono una serie di intercettazioni telefoniche dove emergono contatti tra De Caro e Dell'Utri. I due si telefonano di continuo e parlano principalmente di affari e testi antichi. L'inchiesta continua... “Dottore le ho trovato il 'De rebus gestis' di Carafa che è uno dei più rari” dice Massimo De Caro, direttore della Biblioteca dei Girolamini di Napoli, parlando con il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri che gli risponde “Del Carafa, si, non ce lo abbiamo”. La telefonata è intercettata il 22 febbraio scorso dalla procura di Firenze in un altro filone d'indagine. Libri antichi trafugati De Caro agli arresti dal 23 maggio per lo scandalo dei libri antichi trafugati dalla Biblioteca dei Girolamini interrogato dai pm ha confermato di aver consegnato a Dell'Utri, appassionato bibliofilo, tre testi di Girolamini. Per non mettere nei guai il senatore del Pdl De Caro però ai magistrati sottolinea che “Escludo categoricamente che il parlamentare fosse a conoscenza della loro provenienza illecita. Il 'De rebus gestis' l'ho dato personal-
mente a Dell'Utri. E' stato un regalo, un gesto d'affetto”. Secondo De Caro in un solo caso il parlamentare avrebbe saputo della provenienza di un testo dalla Biblioteca dei Girolamini e riguarda la rilegatura Carnevari. Ma De Caro sostiene che il libro fu consegnato al fondatore di Forza Italia e del Pdl solo per “far verificare da un esperto di fiducia l'originalità della rilegatura”. I magistrati non sembrano credere ai racconti dell'ex
Amicizia di interessi A NAPOLI OLTRE ALLE DOSI SI SPACCIANO LIBRI RARI De Caro, l'esecutore A Napoli oltre alla droga adesso si spacciano testi rari. All'appello mancano precisamente duemila e duecento volumi molti dati all'estero: Germania, Spagna, Usa, Australia presso case d'asta o collezioni private. Marino Massimo De Caro, direttore della biblioteca dei Girolamini- in carcere dal 23 maggio - è considerato uomo di Dell'Utri. La sponda del senatore gli ha consentito – attraverso l'intercessione anche dell'ex capogabinetto del Mibac Salvo Nastasi – ad esempio di diventare consulente prima del ministro Galan e poi del tecnico Ornaghi e tanto altro. Tra le mani dell'amico dell'ex premier Silvio Berlusconi è spuntata “stranamente” una rara edizione di un libro di Gian Battista Vico made in Naples. Ma ci sono altri punti di contatto tra De Caro e Dell'Utri entrambi sono indagati dalla Procura di Firenze per corruzione. “Sfruttando il suo ruolo istituzionale - si legge negli atti - il senatore avrebbe favorito alcuni imprenditori del settore energetico ricevendo da tali soggetti - per il tramite di De Caro - somme consistenti di denaro apparentemente giustificate dall'acquisto di un documento antico”.
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direttore della Biblioteca e hanno calato i loro assi: un'altra conversazione. E' del 29 marzo. “Massimo fai il prezzo” dice Dell'Utri. E De Caro: “La prossima settimana sono solo nel convento, tutto il convento per me. Se vuole dottore...da solo...sono solo, ho le chiavi perché i padri vanno via”. La domanda sorge spontanea ma perché invitare Dell'Utri senza la presenza di altre persone? Il mistero resta. Dubbi e perplessità che sono rimaste tali anche dopo l'interrogatorio dello stesso senatore Marcello Dell'Utri che in gran segreto ascoltato dai magistrati della Procura di Napoli (Michele Fini, Antonella Serio coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Melillo) ha fatto scena muta ed è andato via. Le indagini proseguono. Nel mirino degli investigatori Dell'Utri, condannato per mafia e sott'inchiesta dalle procure di mezza Italia è nel mirino degli investigatori. La sua passione senza freno per i testi rari e preziosi è sospetta. Forse è un bibiofilo per necessità. Un mercato quello dei testi antichi che si può trasformare in una buona copertura per chi vuole imbastire operazioni e movimenti finanziari. Questa dei libri è una strana storia, l'ennesima quando c'è di mezzo Dell'Utri, il grande burattinaio. Silvio Berlusconi in cui compare come vittima di una ipotetica estorsione operata dallo stesso Dell'Utri alla domanda del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia di perché ha versato in dodici anni la somma di 40 milioni di euro al senatore, l'ex premier ha affermato: “Marcello è un mio amico e un collaboratore prezioso ho dato quei soldi perché lui ha solo due filoni di spesa: famiglia e libri antichi”.
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Trapani
Mafia e antimafia I volti della mia città Conosciamo i mafiosi trapanesi, vecchi e nuovi. E chi li ha combattuti e li combatte... di Rino Giacalone Nel tempo a Trapani i visi dei boss sono stati quelli di Totò Minore, Francesco Messina Denaro, i campieri diventati latifondisti, Vincenzo Virga e Francesco Pace, i boss diventati imprenditori, Mariano Agate e Francesco Messina, l’imprenditore ed il muratore diventati mammasantissima da quando furono ammessi a sedere alla tavola del corleonese Totò Riina, Vito ed Andrea Mangiaracina, anche loro mazaresi, che potevano permettersi (Andrea) di incontrare a quattr’occhi il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il senatore a vita le cui accuse di mafiosità sono state prescritte (ciòè non più perseguibili perché il tempo a disposizione dato ai giudici per pronunciare la condanna è risultato scaduto quando Andreotti finì davanti ai giudici di Palermo). Oggi la mafia è quella di Matteo Messina Denaro erede di Francesco, il “patriarca” del Belice, capo di una Cosa nostra che dalla mafia delle armi e delle bombe è ora diventata “sommersa” ma per questo non meno percepibile. Ma è anche la mafia di imprenditori mai punciuti e che usano le imprese come un mafioso potrebbe bene usare un’arma. Ci sono gli imprenditori che pagano la “quota associativa a Cosa nostra”, che si informano come debbono comportarsi se prendono un appalto fuori da Trapani, come avrebbe fatto Vito Tarantolo al quale sono stati appena sequestrai beni oltre 30 milioni di euro, o è la mafia degli imprenditori che scontati la pena sono tornati liberi e ricevono ogni giorno l’omaggio della gente.
Come succede a Ciccio Genna che giorno per giorno abita al Borgo, una volta cuore della mafia delle campagne, e dove riceve saluti e distribuisce consigli. Oggi la mafia di Matteo Messina Denaro è fatta anche da insospettabili, persone apparentemente al di sopra di ogni sospetto, che si muovono tra la politica e l’economia, e fanno tanta campagna elettorale in questi giorni. La mafia a Trapani non ha colore politico, te la ritrovi distribuita in modo trasversale, da sinistra a destra, anche perché qui non c’è poi una sinistra, tranne rare eccezioni, così “chiacchierona” contro i mafiosi e i corrotti, spesso guarda e non parla. Montalto, Cassarà, Rostagno... Conosciamo i volti dell’antimafia che ha avuto e ha il volto di Gian Giacomo Ciaccio Montalto, magistrato, ucciso nel 1983, di Ninni Cassarà, capo della Mobile, ucciso nel 1985, di Mauro Rostagno, giornalista, ucciso nel 1988, di Giuseppe Montalto, agente penitenziario, ucciso nel 1995, di Alberto Giacomelli, giudice, ucciso nel 1988, di Rino Germanà, poliziotto, commissario a Mazara, sfuggito ai sicari di mafia nel 1992, di Carlo Palermo, magistrato, scampato all’autobomba di Pizzolungo nel 1985, di Margherita Asta, attivista di Libera, figlia e sorella delle vittime della strage di Pizzolungo, di Giuseppe Linares, ex capo della squadra Mobile e oggi dirigente della divisione Anticrimine della Questura di Trapani da dove dà la “caccia” ai tesori e alle casseforti della nuova mafia, di Andrea Tarondo, magistrato della Procura di Trapani, che ha alzato tanto il livello di contrasto contro i mafiosi e i colletti bianchi, andando anche a riaprire armadi che si pensavano fossero stati chiusi per sempre come quelli sulla Gladio trapanese, da meritare una cimice collocata dentro la sua auto da qualche manina di un qualche 007, non è stato lavoro di qualche mafiosetto ma da specialiasti. L’antimafia ha il volto sofferente di un ex prefetto, Fulvio Sodano, inchiodato su
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una poltrona e legato ai respiratori per potere continuare a vivere, cacciato da Trapani nel 2003, ha ancora il volto di tanti ragazzi, studentesse e studenti, che hanno capito quanto grave sia la situazione che hanno deciso di dedicare ore di studio alla legalità, smentendo il neo sindaco di Trapani, un generale dei carabinieri, Vito Damiano, che aveva detto di non gradire motlo che di mafia si parlasse a scuola, e invece questi studenti hanno detto di volere capire il male che la mafia ha seminato in questa terra, e conoscere così quali strade non dovranno mai percorrere. Vorremmo conoscere adesso i volti di chi, a sentire qualcuno, ha fatto antimafia per fare carriera, che così ha ottenuto lavoro, guadagni, spesso ce li hanno indicati come “professionisti dell’antimafia” che era la stessa cosa che tanti anni addietro veniva pronunciata nei confronti di due giudici dilaniati dal tritolo mafioso. Anche Falcone e Borsellino venivano chiamati professionisti dell’antimafia, additati, indicati, così alla fine sono finiti ben posti al centro del mirino che i mafiosi tenevano acceso attendendo il momento buono per premere i loto timer: lo hanno fatto, a Capaci, il 23 maggio del 1992, in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio dello stesso anno. Anni prima lo avevano fatto a Pizzolungo, il 2 aprile 1985, quando cercarono di uccidere il pm Carlo Palermo e fecero a pezzetti una mamma ed i suoi due figlioletti. Nel 1983 stessa cosa, autobomba imbottita di tritolo, per Rocco Chinnici, il capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Anche loro venivano guardati come professionisti dell’antimafia. Benvenuti a Trapani Una lunga premessa per dire “benvenuti a Trapani”. La città della vela e del sale, si legge all’ingresso della città sui cartelli turistici, dove nel 2005 si è sperimentato, prima di attuarlo altrove, il sistema “protezione civile” e “grandi eventi” per fare svolgere le gare internazionali della Coppa America, dove il denaro scorreva a fiumi e la mafia si ingrassava.
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“...Non solo non si è dimesso, ma ha firmato un protocollo col ministro dell'Interno Cancellieri...” La città che in 20 giorni ha messo una targa su una strada dedicandola ai “grandi eventi” per celebrare i fasti della vela mondiale e che invece ha impiegato decenni, vent’anni, per dedicare una via, una piazza, alle vittime di Cosa nostra. D’altra parte Trapani è la città dove i sindaci andavano dicendo che la mafia non esisteva mentre Cosa nostra piazzava autobombe e ammazzava magistrati, e oggi ci sono sindaci che dicono che di mafia non bisogna parlarne o che l’antimafia è peggio della mafia, o ancora ci dicono che la mafia è sconfitta mentre loro stessi vengono condannati per favoreggiamento a imprenditori mafiosi, come è successo al primo cittadino di Valderice Camillo Iovino, che condannato non si è dimesso, ma nemmeno c’è stato chi ha molto insistito perché lo facesse, e con la faccia tosta giorni addietro è salito in prefettura per firmare assieme al ministro dell’Interno Cancellieri un protocollo di legalità contro la mafia e la corruzione. La città di Cosa Nostra e massoneria Benvenuti a Trapani quindi, la città dove Cosa nostra e massoneria hanno animato le stanze del potere segreto ma quello era, ed è, il vero potere, pubblicamente riconosciuto; la città cassaforte di Cosa nostra, dove si è annidato, è cresciuto, il potere economico dei boss che non portano più coppole e lupare ma indossano le grisaglie proprie dei manager; la città dove sono cresciute a dismisura banche e finanziarie dinanzi ad una povertà incredibile, alla disoccupazione crescente. Qui la mafia si è sommersa da tempo secondo una precisa strategia, perché così è diventata impresa, ha fatto diventare legale il proprio sistema illegale, qui la mafia “vive” mentre la gente è costretta a “sopravvivere” e spesso di questo i cittadini non si rendono conto. Per disattenzione, per complicità, per quieto vivere. Benvenuti a Trapani. Trapani è tante cose, rappresenta lo zoccolo duro della mafia e non solo perché qui si nasconde l’ultimo dei grandi latitanti di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, 50 anni e dal 1993 ricercato per delitti e stragi, cresciuto seguendo l’esempio del padre, il patriarca della mafia belicina, Francesco Messina Denaro, campiere di grandi latifondisti, come la famiglia D’Alì di Trapani, Tonino è senatore dal 1994, e oggi è sotto processo per concorso esterno
in associazione mafiosa; ma Matteo ha anche impersonato i due volti della mafia, quella violenta, militare, di Totò Riina e quella di Bernardo Provenzano che ha saputo infiltrarsi dentro i gangli istituzionali, ritenendo migliore “scendere a patti con lo Stato”. La stessa mafia raccontata da Rostagno A Trapani la mafia resta quella che nel 1988 veniva raccontata da Mauro Rostagno, forte e inviolabile, protetta da insospettabili alleati, e così quando invece del solito boss le indagini colpiscono il colletto bianco, il professionista, il politico, spesso arrivano gli attacchi, “il terzo livello qui non deve toccarsi. E così succede che a Trapani c’è chi dice che è l’antimafia che produce la mafia o ancora c’è chi volendo per forza smentire sostiene che ci sono notizie gonfiate messe apposta in giro. Poi le stesse persone le ritrovi a celebrare Paolo Borsellino dimenticando che Borsellino ci ha detto che una sentenza di assoluzione non significa per forza non colpevolezza e se il reato penale non è stato possibile provare tra le pagine di queste sentenze spesso ci sono elementi che dovrebbero provocare le condanne morali, l’espulsione dall’impegno politico per esempio. Nelle aule del Tribunale di Trapani si è spesso ascoltata la storia di una mafia che è stato tanto sfrontata, che ha avuto, ed ha, tanti di quegli appoggi e di quelle complicità, da potere autonegare la sua esistenza. Il capo mandamento Francesco Pace, condannato a 20 anni, in un processo dove nessuno ha pensato di costituirsi parte civile, intercettato è stato sentito dire che la mafia lo ha rovinato, poi però ha continuato quel discorso quel giorno e negli altri ancora, parlando di appalti da pilotare, di cemento da vendere, di prefetti e poliziotti da far mandare via da Trapani. E quello che il boss andava dicendo trovava negli stessi momenti riscontro nei salotti e nei bar, era la prova che la mafia era capace, e lo è ancora, di fare tam tam di ciò che pensa e pretende che a pensarlo siano tutti in questa città. Un giorno l’allora capo della Mobile, Giuseppe Linares, si sentì dire da un noto avvocato che questi aveva saputo il suo trasferimento da Trapani era questioni di giorni. Si era creato un tam tam e le parole della mafia erano così circolate. Il sistema
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funziona da tempo: nel 1988 quando ammazzarono Mauro Rostagno, il capo mafia di Mazara Mariano Agate interpellato da altri “picciotti” disse che Rostagno “era stato ucciso per questione di corna”, mentre invece l’ordine di morte era partito da un giardino di agrumi nelle campagne di Castelvetrano dove Francesco Messina Denaro aveva convocato chi doveva occuparsi di “fare stare per sempre zitto quella camurria di giornalista”. A oltre 20 anni da quel delitto oggi in Corte di Assise a Trapani si stanno processando i mafiosi che uccisero Rostagno, e quella voce che questi era stato ucciso “per questione di corna” sfacciatamente è entrata anche in questa aula di giustizia, e il boss Mariano Agate, che Rostagno in tv sbeffeggiava, sarà certamente contento. Non viviamo in una terra normale purtroppo e ce ne accorgiamo ogni giorno di più. In una terra dove ogni giorno dovremmo ricordare che la mafia è merda, come diceva fino a 30 anni addietro a Cinisi Peppino Impastato contando i 100 passi che dividevano la sua casa da quella di don Tano Badalamenti, prima che una bomba lo facesse saltare in aria. Anche Peppino era un professionista dell’antimafia, e anche lui ha avuto il suo bel tritolo. Magari lo fanno a Trapani, lo facciamo, ma spesso tanti lo fanno per fare scena, spettacolo, spente le luci si torna al solito andazzo. Angileri che sta con Crocetta E così nessuno si stupisce se Doriana Licata, medico di Campobello di Mazara, la nipote di un grande imprenditore, Carmelo Patti, al quale lo Stato vuole confiscare 5 miliardi di euro di beni, perché si ritiene che quel denaro serva al super latitante Matteo Messina Denaro, oggi candidata alle elezioni regionali, ogni giorno spenda fior di denaro per conquistare il sostegno della gente, o ancora ti ritrovi con Crocetta che sostiene il rinnovamento antimafia della Sicilia soggetti come un consigliere provinciale, Matteo Angileri, che fino a qualche giorno addietro andava sostenendo che quasi era tutto inventato quello che si diceva su Trapani e se la prendeva con Michele Santoro per via di quel reportage dove si raccontava la storia di quel prefetto che aveva sfidato il potere mafioso e politico della città. Benvenuti a Trapani.
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Poteri
Mario Ciancio fine di un impero? Il giudice di Catania non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura etnea di Claudia Campese e Salvo Catalano www.Ctzen.it
Adesso l’uomo più potente di Catania potrebbe affrontare per la prima volta un vero processo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel frattempo ha annunciato un piano di tagli nelle sue due emittenti televisive del 50 per cento dei lavoratori, che hanno bloccato per una settimana tutte le trasmissioni. Non è un periodo fortunato per l’uomo più potente di Catania. Mario Ciancio Sanfilippo, editore del quotidiano monopolista cittadino La Sicilia e imprenditore nel settore dell’edilizia, negli ultimi mesi ha annunciato, in nome della crisi, tagli del 50 per cento dei lavoratori nelle sue due televisioni. Ma ad impensierire maggiormente l’ex presidente della federazione degli editori italiani è l’indagine sul suo conto dei magistrati catanesi.
Dopo quasi trent’anni di apparente immunità, infatti, Ciancio è stato iscritto nel registro degli indagati nel marzo del 2009 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ultima novità sta nella decisione del gip Luigi Barone che qualche settimana fa non ha accolto la richiesta di archiviazione per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa avanzata dalla Procura etnea nel maggio scorso. E ora, imputazione coatta? Adesso si dovrà attendere la nuova udienza, già fissata da Barone, in cui le strade possibili sono tre: l’archiviazione, ulteriori indagini sull’editore e i suoi presunti rapporti oppure un’imputazione coatta e l’inizio di un processo. Resta il fatto che la Procura è stata smentita per la quarta volta in poco tempo. Dopo i fratelli Raffaele e Angelo Lombardo e il senatore Fli Nino Strano, stavolta è toccato all’ottantenne imprenditore-editore. Quattro accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, quattro richieste di archiviazione, quattro rifiuti da parte dello stesso giudice per le indagini preliminari: Luigi Barone. Al centro dell’indagine c’è la costruzione del centro commerciale La RinascenteAuchan vicino all’aeroporto Fontanarossa di Catania. «Al quale era tra gli altri interessato anche Mario Ciancio», spiegano i magistrati. E, tra gli altri, ipotizzavano,
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anche alcuni esponenti criminali e presunti tali. A occuparsi della costruzione sarà la ditta dei fratelli Basilotta, considerata dai magistrati vicina a Cosa Nostra e oggi tra le carte del processo Iblis e del suo stralcio sui Lombardo. Nell’indagine etnea non mancano episodi e racconti che hanno fatto un pezzo della storia dell’informazione a Catania. Dalla mancata pubblicazione, da parte de La Sicilia, dei necrologi del giornalista Giuseppe Fava e del commissario di Polizia Beppe Montana – uccisi dalla mafia rispettivamente nel 1984 e ’85 – agli scritti, privi di contestualizzazione sui personaggi, riguardanti Angelo Ercolano, incensurato nipote del boss Pippo Ercolano, e Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto. Ma gli elementi a disposizione della Procura etnea risalgono anche a più in là nel tempo. Come quando il boss Pippo Ercolano, che non aveva gradito un articolo de La Sicilia in cui lo si definiva mafioso, andò a fare una scenata in redazione. La scenata del boss in redazione Ciancio, non presente, avrebbe saputo, racconta il collaboratore di giustizia Angelo Siino che accompagnava il boss. E sarebbe stato lo stesso editore-direttore, al chiuso del suo ufficio e in presenza di Ercolano, a sgridare il cronista responsabile secondo quanto riportato in diverse ordinanze del processo Orsa Maggiore firmate dal gip Antonino Ferrara.
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“E alla fine licenziare quelli che non ser vono più”
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Un atteggiamento che ha fatto definire l’editore etneo da Siino come un uomo «a disposizione» di Cosa Nostra. All’attenzione dei magistrati, infine, anche alcuni articoli de La Sicilia pubblicati durante le indagini per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Come ricostruiva un dossier de I Siciliani Nuovi, era il 1994 e il quotidiano etneo informava che il pentito Maurizio Avola si era autoaccusato non solo di aver ucciso il cronista catanese, ma anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Troppo giovane e alle prime armi per il secondo omicidio, avvertiva il quotidiano etneo, avanzando velati dubbi sulla sua credibilità. Ma Avola non aveva mai parlato di Dalla Chiesa, sottolineava
SCHEDA
MARIO CIANCIO Classe 1932, Mario Ciancio Sanfilppo è direttore ed editore del quotidiano etneo La Sicilia. Insieme alla figlia Angela siede nel consiglio di amministrazione dell'agenzia di stampa Ansa, di cui è stato anche vicepresidente. Ex presidente della federazione degli editori italiani Fieg ha partecipazioni in diversi giornali dell'isola e del Sud Italia, in tv e radio sia locali che nazionali, possiede lo stabilimento tipografico dove vengono stampati i quotidiani nazionali per la Sicilia e Reggio Calabria e l'agenzia di pubblicità Publikompass. Tra i suoi interessi imprenditoriali, oltre all'editoria, anche il settore dell'edilizia. Con la sua ditta Cisa – dalle iniziali dei suoi due cognomi – si è occupato di diverse costruzioni cittadine, anche pubbliche. Come il recente progetto di due parcheggi catanesi in project financing finiti sotto sequestro da parte della magistratura. L'accusa è di presunte irregolarità commesse in fase di assegnazione dei lavori dalla giunta comunale allora guidata dal sindaco etneo Umberto Scapagnini.
il sostituto procuratore Amedeo Bertone, temendo un tentativo di screditare il pentito e depistare le indagini: «Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false». Il tifo per Crocetta Nell’attesa Ciancio, che tifa per il candidato di Pd e Udc Rosario Crocetta in vista delle elezioni regionali del 28 ottobre e vende a ottantamila euro una pagina di pubblicità elettorale sul suo giornale, ha annunciato tagli dei lavoratori di più del 50 per cento: 28 dipendenti su 58 all’emittente Antenna Sicilia. Mentre nell’altra tv, Telecolor sono 24 su 40 i lavoratori a rischio. Cameraman, registi, montatori. Ad essere fatta fuori sarebbe l’intera linea di produzione. «È come se Marchionne volesse fare le Fiat senza motore», sintetizza il regista Guido Pistone. «È successo tutto all’improvviso, non ci hanno avvertito né fatto vedere i documenti». Secondo la Cgil il mancato preavviso ha una ragione chiara: le presunte irregolarità nella richiesta di contributi al Corecom, il comitato regionale per le comunicazioni, per l’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre. «Il primo agosto viene pubblicata la graduatoria del Corecom per ricevere i contributi – spiegano dal sindacato – al primo posto in Sicilia si piazza Antenna Sicilia, al secondo Telecolor. Il 2 agosto Ciancio av-
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via la procedura di mobilità». Uno dei criteri per l’assegnazione dei finanziamenti è il numero di dipendenti a tempo indeterminato all’interno dell’azienda. «Dopo aver ottenuto le migliori frequenze e i lauti contributi – denunciano – i lavoratori non servono più, quindi possono essere licenziati». Il 12 ottobre i lavoratori hanno occupato la sala di registrazione delle tv, bloccando le trasmissioni per una settimana. La rete è stata costretta a mandare in onda in tutta la regione solo telefilm. Tuttavia, a breve, Telecolor potrebbe avere sei lavoratori in più. O meglio, di ritorno. La Corte d’Appello di Catania nel secondo grado del processo ha deciso il reintegro dei sei giornalisti, Fabio Albanese, Giuseppe La Venia, Nicola Savoca, Katia Scapellato, Alfio Sciacca e Walter Rizzo, licenziati nel 2006 – senza giusta causa – da Ciancio. “C'è un giudice a Catania!” «C’è un giudice a Catania! Non solo perché ci restituisce il posto di lavoro ma anche perché ci ripaga di anni di isolamento», hanno voluto comunicare tutti insieme. A loro spetteranno tutte le mensilità non ricevute. Un’altra tegola, che secondo i sindacati potrebbe aggirarsi sul milione e mezzo di euro, per l’anziano Mario Ciancio il cui impero rischia seriamente di crollare.
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Inter viste/ Basilio Rizzo
Parla la Milano onesta: resistere e continuare a lottare E dopo Formigoni? E l'Expo? E Monti? E i grandi affari? E il Sistema? Non sono ottimistiche, le risposte della coscienza storica della Milano “non da bere” di Paolo Fior Dopo un quindicennio di potere incontrastato in Lombardia, Roberto Formigoni è arrivato al capolinea ma non cade: tratta da posizioni di forza la sua successione, i nuovi equilibri di potere della Regione, sceglie la data del voto e ha un peso determinante nella formazione delle alleanze nell'area politica del centrodestra. Nell'ultimo anno la sua giunta ha perso un pezzo dopo l'altro sotto i colpi delle inchieste giudiziarie e lui stesso è indagato per i suoi rapporti con l'imprenditore e amico Daccò, ma nessuno osa dare la spallata finale. Non l'opposizione che per quindici anni non ha fatto opposizione e che oggi dopo lo scandalo dell'assessore alla Casa finito in manette per voto di scambio con la 'ndrangheta - finge di fare la voce grossa chiedendone le dimissioni, ché tanto non costa nulla.
Non i suoi sodali del Pdl che nel sistema di potere formigoniano si sono trovati come i topi nel formaggio e ora - nonostante tutto - sono costretti ad andare sino in fondo anche a costo di andare a fondo; non la Lega che in tutti questi anni si è preoccupata solo di trattare sul prezzo e che ora che si vorrebbe smarcare, non può. La posta in gioco è alta: la Lombardia è una delle regioni più ricche d'Europa e gli interessi nella Sanità, nelle infrastrutture e nel cosidetto privato-sociale valgono molti miliardi di euro. Formigoni in questo quindicennio ha governato con abilità, facendo in modo che tutti avessero la loro fetta di torta: appalti, poltrone, posti di sottogoverno, favori. Un gioco a includere e forse non è un caso se la sinistra in tutti questi anni non ha mai provato a proporsi come reale alternativa e non ha mai espresso veri candidati, capaci di contendere davvero la guida della Regione alla destra. “Comunione & Fatturazione”... Ora il governatore è accerchiato e le inchieste hanno iniziato a toccare anche la Compagnia delle Opere, il braccio economico di quella che a Milano da decenni viene scherzosamente (ma non tanto) chiamata Comunione & Fatturazione, ma a sinistra come a destra si respira un'aria pesante, che sa di ricatto. Finita l'era Formigoni, la Lombardia potrà finalmente uscire dalla palude affaristico-criminale in cui è sprofondata?
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Questa domanda l'abbiamo girata a Basilio Rizzo, decano e presidente del consiglio comunale di Milano, fiero oppositore di un certo modo di fare politica anche a sinistra, attento osservatore di ciò che si muove in profondità, sotto la superficie della politica lombarda. A patti col Sistema Formigoni "Anche se dovessimo vincere le elezioni, temo che in Regione succederà come a Milano: Formigoni non ci sarà più ma l'armatura del suo sistema di potere non sarà facile da smantellare. C'è paura di confrontarsi con questo sistema di potere e anziché provare a scardinarlo è stata fatta la sccelta, più facile, di venirci a patti. L'esperienza di oggi mi fa dire che lo spoil system non è una cretinata: in Comune, all'urbanistica, abbiamo un assessore di grande capacità, ma l'assessorato è ancora per quattro quinti ciellino. E i dirigenti che erano veri e propri terminali della Compagnia delle Opere in Comune e sono andati via perché la cosa era talmente palese che non potevano restare, ce li siamo ritrovati pari pari nella società Expo, in posizioni altrettanto importanti. L'Expo è stato a mio modo di vedere il momento nel quale si è dimostrato che ci si arrendeva al potere formigoniano ancora prima di provare a combatterlo: con la scusa che non potevamo fare a meno di loro altrimenti avremmo perso l'Expo, abbiamo finito con l'accettare tutto".
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“Usciremo mai dalla palude?”
Basilio Rizzo
Un bagno di sangue economico - Perché, riusciremo a farlo l'Expo? "Su questo ci sono pochi dubbi, anche se certamente non ha più quasi nulla del progetto originario. Dalle serre dei popoli, dei produttori, si è ritarato tutto sul settore corporate, sulle aziende. D'altra parte lo sapevamo tutti che sarebbe andata a finire così, perché tutti capivano che quell'impostazione non avrebbe retto all'impatto dei conti. Ma malgrado il progetto sia stato snaturato, la mia impressione è che nel 2016 l'eredità dell'Expo sarà un bagno di sangue dal punto di vista economico. Noi, unico caso al mondo, per l'Expo abbiamo comperato le aree dai privati e lo abbiamo fatto a un prezzo talmente elevato che per rientrare saremo costretti a fare quello che avevamo detto di non voler fare: un'operazione speculativa immobiliare. E andrà a finire così. Titoletto - Insomma, in Regione è difficile immaginare una svolta. Se chiudo gli occhi e penso a un candidato non è che ne vedo uno che sul campo è stato capace di fare chissà che cosa, ma adesso ci sarà la corsa a candidarsi perché per la prima volta in molti pensano che si possa vincere. C'è già Tabacci pronto: ha la grinta per
poterlo fare, ma non è che dia garanzie... è lui che ha guidato le operazioni sulle aziende comunali. - Nel caso della vendita di Sea, la società degli aeroporti, è stato anche scavalcato il consiglio comunale. Un modo di agire che non ci si sarebbe aspettati dall'amministrazione Pisapia Non solo è stato scavalcato il consiglio, è stato fatto di peggio. Non si può dire a dicembre (e farci votare) che il Comune mantiene la maggioranza e poi a distanza di cinque-sei mesi cambiare idea senza neanche consultarci, senza nemmeno dire "siamo disperati, abbiamo bisogno di soldi, non possiamo che fare così". In realtà con la quotazione è stata scelta una strada che non farà entrare un euro nelle casse del Comune. I poteri delle Fondazioni - Ma anche la prima decisione, quella di vendere il 30% al fondo F2i di Gamberale, ha destato molti interrogativi... Secondo me c'è un disegno preciso, un tentativo dei poteri reali - non quelli legittimati, ma quelli che passano dalle Fondazioni, cioè da camere oscure e non palesi. Il governo si serve di questi gruppi di potere per sottrarre risorse e controllo agli enti locali. Da questo punto di vista l'operazione Sea è paradigmatica: tu per un verso decidi di privatizzare, ma in realtà cedi quote a un fondo come F2i che è "pubblico", nel senso che è controllato dalla Cassa depositi e prestiti. In pratica sostituisci un
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potere pubblico visibile, nel quale il rapporto tra amministrato e amministratori è legittimato e trasparente, con un qualcosa di opaco, non controllabile. Il disegno messo in atto dal governo precedente e adesso portato avanti da Monti è quello di sottrare risorse e poteri al controllo pubblico diretto, costituendo quelle che qualcuno già chiama "piccole Iri". Un pubblico che in realtà non è pubblico, perché è controllato da lobby di potere, dove le cose si decidono nel chiuso delle stanze, in assenza di controlli. Il Fondo F2i è dappertutto, sta comprando tutto: il sistema dei trasporti, le infrastrutture. Se dopo Sea dovessimo vendere la Serravalle chi comprerebbe? F2i certamente. E Metroweb, azienda un tempo pubblica, a chi è andata con i suoi chilometri di fibra ottica? A F2i. Fuori dal controllo dei cittadini Quindi il vero disegno che io vedo e l'attacco alle Regioni cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi consiste in un rafforzamento del potere centrale dello stato attraverso strumenti che sono al di fuori del controllo dei cittadini. Così vogliono fare con la grande Multiutility del Nord, azienda nella quale vogliono fondere molte delle ex municipalizzate dell'energia. - Usciremo mai dalla palude? Bisogna resistere e continuare a lottare.
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Italia
Cetto La Qualunque in salsa calabropadana La privatizzazione della responsabilità partorisce tanti piccoli Zambetti che agiscono indisturbati e si garantiscono l'autopreser vazione di Giulio Cavalli Dunque alla fine anche nella celeste (e per niente celestiale) Lombardia un politico decide di comprare i voti dalla ‘ndrangheta come in quelle storie minuscole a cui ci ostiniamo ad abituarci appena sotto Roma. Mica un politico qualsiasi questa volta: l’assessore alla casa Domenico Zambetti decide di acquistare 4000 preferenze al modico prezzo di 200.000 euro (a proposito, un pessimo affare, caro Zambetti!) per garantirsi un posto in Giunta che ovviamente arriva. Domenico Zambetti, assessore alla casa della Giunta Formigoni quater con lo slogan “la forza della competenza”. Lo sgretolamento del formigonismo Sembra Cetto La Qualunque in salsa calabropadana e invece è l’ultima scena dello sgretolamento del formigonismo nella sua petulante multiformità di rivoli che abbeverano lobby da diciassette anni. Non importa che fossimo in molti a gridare da anni che la ‘ndrangheta fosse l’interlocutore privilegiato delle campagne elettorali in Lombardia, forse non conta che quattro scassaminchia ripetessero petulanti che non si voleva vedere ciò che era successo e sta succedendo e
succederà ancora per un bel po’. Ora l’allarme rosso dell’antimafia fatta tutta e solo di sdegno ha suonato a tutto volume e anche le casalinghe più lontane si sono svegliate di soprassalto per gridare allo scandalo e alla vergogna. E come sempre è scivolato via il punto, il centro del discorso, il cuore per una chiave di lettura collettiva davvero. Il sistema culturale e politico Lombardo è la culla migliore per le mafie per una storia che arriva da lontano e ha un nome preciso: il federalismo della responsabilità. Una Lombardia in cui la retorica leghista e formigoniana ha inculcato il diritto ad occuparsi della propria sfera personale con egoismo iperprotettivo occupandosi solo dopo del benessere e dei diritti degli altri: in Lombardia si sta tranquilli se il proprio paesotto appare tranquillo, se il proprio quartiere scorre tranquillo e se il proprio condominio infonde tranquillità. Lo sgretolamento della solidarietà Come se questi ultimi vent’anni avessero eroso lentamente il dovere della solidarietà lasciandolo all’angolo, anzi, peggio, considerandolo un vezzo democratico che non ci possiamo permettere
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in nome della Santa Sicurezza: essere solidali in Lombardia - ci dicono- è un atto irresponsabile che mette a rischio la sicurezza della nostra famiglia e dei nostri figli. Non è un caso che il reato di associazione a delinquere e di mafia (il 416 e il 416 bis c.p.) sia formalmente un reato di egoismo che pascola tra le fratture della infrastrutture solidali che vengono a mancare: un sentiero in penombra dove si incontrano i politici spericolati, gli imprenditori poco etici e ovviamente i soldati delle mafie per convergere insieme a loro. Un sentiero in penombra La privatizzazione della responsabilità partorisce tanti piccoli Zambetti che possono agire indisturbati nei coni d’ombra per garantirsi l’autopreservazione tra i quadri dirigenziali a disposizione per codardi, servi e faccendieri. Cosa succede quindi in Lombardia? Succede che qualcuno ha esagerato ed è cascato tra le maglie di una legge che consente pochissimi margini di manovra nel voto di scambio. Ma intorno, tutto intorno, ci sono gli altri che sono stati bravi ad essere inopportuni senza cadere nel reato. E questi sono il male peggiore.
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Contrada
Scoprì la mafia grigia e si alleò con lei "Spero che qualcuno si ravveda e si penta del male fatto a me e alle istituzioni", dice Bruno Contrada pochi minuti dopo la scarcerazione notificatagli nella sua abitazione palermitana dalla polizia penitenziaria. Il fine pena di Bruno Contrada è stato anticipato di tre mesi di Pino Finocchiaro
L'ex funzionario del Sisde tra domiciliari e carcere ha trascorso dieci anni in detenzione per concorso esterno in associazione mafiosa. Adesso Bruno Contrada è un uomo libero. Si conclude così la ventennale vicenda giudiziaria e detentiva dello 007 arrestato dai suoi stessi colleghi della Polizia di Stato il 24 dicembre del '92. In piena stagione delle stragi. Vent'anni di autentica pena, prima nel
dubbio delle accuse, poi, dal maggio 2007, nella certezza della condanna in via definitiva sancita dalla corte di Cassazione. Per gli ermellini, è un uomo dello stato al servizio della mafia militare e di quella stessa zona grigia di cui Contrada parla in un rapporto del 1982 dopo l'uccisione del segretario del Pci, Pio La Torre. Bruno Contrada rivendica i risultati di quelle indagini ma i magistrati di primo grado e la cassazione non la pensano allo stesso modo. Già nel 1979 Bruno Contrada avrebbe agevolato l'espatrio da Palermo del mafioso americano John Gambino sul quale indagava il capo della mobile, Boris Giuliano, ucciso pochi mesi prima. Un'indagine che porta al finto sequestro del banchiere Michele Sindona e all'omicidio a Milano dell'avvocato Michele Ambrosoli. Le accuse di concorso esterno contro Bruno Contrada non si basano solo sulle testimonianze dei pentiti. L'inchiesta rivela il suo interessamento per il rinnovo del porto di pistola per Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo esponente di quel gotha della borghesia mafiosa siciliana che Contrada rivendica di aver svelato e combattuto. Contrada, per i giudici di Palermo confermati dai revisori di Roma, favorì la fuga e l'espatrio nell'84 di Oliviero Tognoli indagato per riciclaggio di denaro di origine mafiosa. Insomma, Bruno Contrada conosce, frequenta e favorisce la mafia grigia. Invece, rende difficili gli ultimi giorni di vita dei suoi colleghi Boris Giuliano,
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Ninni Cassarà e Beppe Montana che inseguono sin in Svizzera l'odore dei soldi di Cosa Nostra portando all'arresto di Vito Roberto Palazzolo. Tutti e tre muoiono uccisi dalla mano nera della mafia militare, sopravvive il commissario Saverio Montalbano, destinato a compiti di routine dopo avere incrociato più volte e disdegnato i consigli autorevoli del collega Bruno Contrada. “Mica sono stato assolto” Quando Contrada parla di qualcuno che avrebbe danneggiato non solo lui ma le stesse istituzioni, il riferimento è chiaro. Dietro gli agenti della Criminalpol che bussano alla porta di Contrada alla vigilia di Natale del '92 ci sono Gianni De Gennaro, allora dirigente generale della Polizia, in procinto di assumere la direzione della DIA e Antonio Manganelli, a quel tempo già insediato al vertice dello Sco, il Servizio centrale operativo della PS. L'ex capo della polizia e l'attuale, furono i veri registi dell'inchiesta tesa a fare piazza pulita dei colletti bianchi fiancheggiatori che con la loro connivenza avevano consentito alla mafia militare di crescere indisturbata e uccidere decine di dirigenti, funzionari e agenti a Palermo. Tra loro gli uomini e la donna di scorta a Falcone e Borsellino. Contrada nel suo appartamento di via Maiorana ammette la sorpresa per il clamore mediatico. "Non capisco perché ci siano tutti 'sti giornalisti sotto casa, mica sono stato assolto. E' finita la mia pena”.
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Lombardia
La 'ndrangheta celeste Il messaggio è chiaro: la 'ndrangheta nel Sud Ovest milanese è di casa. E non si tratta di un tentativo d'infiltrazione, di un occasionale attacco delle cosche di Ester Castano www.stampoantimafioso.it
Dal blitz della notte fra il dieci e l'undici ottobre, e dall'ultima indagine della magistratura, la presenza mafiosa qui è emersa in tutta la sua solidità. L'indagine che ha portato in carcere politici e affaristi dell'hinterland di Milano, fra cui l'assessore regionale Pdl Domenico Zambetti, ha alzato il sipario su di un palco da troppo tempo ignorato o almeno sottovalutato. Gli uomini delle cosche calabresi non hanno più la necessità di bussare alle porte delle amministrazioni locali, non devono più chiedere il permesso per partecipare ai consigli comunali presentandosi con il sorriso sul volto e le mazzette in tasca: rappresentano ormai una realtà ben radicata, istituzionalizzata. Perchè sono loro, gli esponenti dei clan di Vibo Valentia, Gioia Tauro e Reggio Calabria, ad aver edificato i palazzi comunali lombardi. Sono i padroni di casa.
A Magenta, Cuggiono, Santo Stefano Ticino, Bareggio, Cornaredo, Marcallo Con Casone, Sedriano gli stessi edifici in cui in questi anni i partiti hanno gestito il bene comune e pianificato la cementificazione del territorio sono stati gli scenari dei succulenti banchetti fra insospettabili amministratori locali, imprenditori dai cognomi lombardissimi e i Mancuso, i Morabito, i Barbaro e Papalia. Calice di vino in mano, un brindisi ai cittadini che in campagna elettorale hanno scelto di essere rappresentati dal “più onesto di tutti”, il ”più pulito di tutti”, in cambio di ordine, sicurezza, pulizia delle strade, il nuovo palazzetto dello sport per i bambini, la festa in piazza l'ultima domenica del mese per i nonni. Il tutto all'interno di una fitta rete di complicità innocenti: do ut des, dare per avere. Niente di più semplice e ancestrale. Ed è in questo stato di cecità che le famiglie della 'ndrangheta hanno ridotto molti lombardi, a una “massa mafiosa”. La criminalità organizzata avanza mentre il Nord si culla nel rassicurante sogno del folklore padano. La famiglia Di Grillo-Mancuso Il caso di Sedriano è emblematico. Il sindaco Alfredo Celeste è stato arrestato per aver favorito l'affermarsi della famiglia 'ndranghetista “Di Grillo-Mancuso” sul territorio dell'Alto Milanese. Amicizie e favori sembrano legare il primo cittadino accusato di corruzione a faccendieri ed imprenditori dal basso profilo etico sin dalla sua candidatura nel 2009: secondo la magistratura non è un caso che Eugenio Costantino e Silvio Marco Scalambra, entrambi arrestati nel corso della medesima operazione, siano rispettivamente padre e marito della consigliere comunali di maggioranza Teresa
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Costantino e Silvia Stella Fagnani. Il primo è titolare di un negozio di compravendita dell'oro, settore prediletto del riciclaggio della criminalità organizzata di stampo mafioso, e secondo l'accusa avrebbe stretti legami con le cosche della 'ndrangheta; il secondo è un chirurgo con studio nei pressi di Pavia e con il pallino dell'edilizia, meglio conosciuto in paese come il “faccendiere del sindaco”. “Io certi nomi non li conosco” Se c'è di mezzo la 'ndrangheta perchè nessuno ha denunciato? “Io certi nomi non li conosco e non li voglio nemmeno sentire nominare", dice il vicesindaco Adelio Pivetta durante le perquisizioni dei Carabinieri negli uffici comunali. Fino a pochi giorni prima dell'arresto del suo superiore, l'undici ottobre, dichiarava che i problemi del paese si sarebbero risolti con installazioni di autovelox e messa al bando della prostituzione, gettando discredito su chi faceva invece notare che quattro auto incendiate nel parcheggio del Comune e sei colpi d'arma da fuoco contro un'auto parcheggiata di fronte al bar gestito da imprenditori di slot-machine non sono fatti tanto normali. Era stato un cittadino a trovare i bossoli, li ha raccolti e se li è messi in tasca, ed è toccato ai giornalisti avvertire la Polizia Locale. In quel caso l'Amministrazione Comunale cercò di non rendere pubblica questa storia, tappando la bocca alla stampa locale con minacce di denuncia per molestie. Sedriano come Palermo, anche qui a detta del sindaco e del suo vice il problema fino a ieri sembrava essere il traffico.Al centro della bufera giudiziaria il Bennet, nuovo shopping mall inaugurato lo scorso inverno dalla giunta Celeste.
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“Permessi speciali e gestione dell'appalto”
Secondo la Procura il sindaco sarebbe intervenuto in favore di Costantino con una serie di raccomandazioni fra cui permessi speciali per l'apertura di un localegelateria all'interno del centro commerciale e la gestione dell'appalto per la manutenzione del verde pubblico di Sedriano, oltre che per la piattaforma ecologica e smaltimento rifiuti. Il sindaco inoltre in occasione del Piano d'intervento integrato Villa ColomboEx Serre avrebbe ceduto alle pressioni urbanistiche di Silvio Marco Scalambra, marito della prorompente consigliera Fagnani già al centro dei pettegolezzi sedrianesi per una presunta liaison con il primo cittadino. Influente sui voleri della Giunta, il medico chirurgo sarebbe l'anello che lega Celeste a Costantino, avendo introdotto l'amico imprenditore dell'oro nella politica sedrianese per trarre vantaggio nella gestione delle proprie cooperative a sfondo sociale. Altro che amministrazione comunale inquinata: all'indomani dell'ordinanza di custodia cautelare, le relazioni fra le cosche e il duo Costantino-Scalambra, le consigliere di maggioranza e il sindaco sono talmente chiare che la cittadinanza chiede che il Consiglio Comunale sia sciolto per mafia. Ma non è la prima volta che Alfredo Celeste salta agli onori della cronaca. Curioso l'avvenimento che nel maggio 2011 lo vede coinvolto in prima persona nell'organizzazione di un convegno sulla creatività femminile. Come madrina della serata invita Nicole Minetti, indagata nel processo Rubygate per induzione e favoreggiamento della prostituzione. “Vieni anche tu e porta un po’ di gente”, avrebbe chiesto telefonicamente Celeste a Costantino, “ci saranno dei contestatori e dobbiamo essere più di loro”.
L’estro artistico della Consigliera Regionale, infatti, non andò a genio a tutti, tanto che un centinaio di cittadini di ogni partito politico e fascia d'età manifestarono in corteo davanti all'auditorium in cui si svolgeva l'evento. In tale circostanza, una suora e una maestra di scuola elementare, entrambe recatesi a Sedriano per protestare contro la Minetti, furono oggetto di percosse verbali e fisiche da parte proprio dello stesso Silvio Marco Scalambra che oggi è in cella. In quell'occasione su richiesta di Celeste costui obbligò la religiosa a salire sul palco per dare una parvenza religiosa all'evento, intimando all'insegnante di andarsene. La lettera ai carabinieri Pochi giorni dopo questo atto di prepotenza le due donne scrissero una lettera al Maresciallo dei Carabinieri. La lettera finisce. nelle mani del pacifista Antonio Oldani, esponente della sezione locale dell'Anpi ed ex assessore alla cultura, che informa immediatamente dell’accaduto gli organi di stampa. Venuto a conoscenza della lettera, testimonianza scritta della prepotenza del sindaco e dei suoi fedelissimi, Celeste chiede al suo amico avvocato, tale Giorgio Bonamassa, di valutare se in quella lettera ci fossero i presupposti di querela. Questo favore - la lettura di un foglio formato A4, ndr - costa alla cittadinanza ben 7.020 euro. "Il lavoro ha una sua dignità e in quanto tale dev'essere retribuito", dichiarò nell'ottobre 2011 il sindaco. La storia e la frase furono immediatamente riportate su Altomilanese, settimanale indipendente con sede a Magenta diretto da Ersilio Mattioni. Per aver pubblicato tale articolo cronista e direttore risponderanno in sede legale: minacciati di
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querela per diffamazione, le lettere in redazione sono arrivate una dopo l'altra anche agli edicolanti del territorio che hanno venduto il giornale con l'articolo in questione ed affisso la locandina. Del resto Celeste nei tribunali non si trova poi così male. Consigliere ininterrottamente dal 1985 e sindaco per la prima volta nell'88, all'inizio della sua carriera amministrativa sedrianese viene coinvolto in prima persona nel cosiddetto “scandalo della delibera falsa”. In base all'indagine della magistratura, negli anni '80 il pubblico ministero chiese nei suoi confronti una condanna di dieci mesi. Al tempo Celeste fu assolto, non perchè non persistesse la colpa, ma per il ritiro della denuncia da parte dell'accusa. Il tutto venne archiviato, e adesso in paese della vicenda giudiziaria rimane solo qualche rancore fra il primo cittadino e alcuni suoi ex collaboratori di giunta. Ma al professor Alfredo Celeste, tra i fondatori del Popolo della Libertà, le voci di paese poco importano. Neanche quella, rilasciata da un avversario politico suo coetaneo, che lo dipinge come un mangiadonne: "I pregi di Celeste? Di carattere sessuale: volgarmente parlando si è scopato un sacco di donne". “Omnia munda mundis”, scrisse San Paolo. Il primo cittadino Ex socialista, attuale vicecoordinatore del Pdl provinciale e professore di religione, un appuntamento in Comune con Alfredo Celeste non lascia indifferenti. Sia per l'arredo, fra cui una Madonna alta un metro posizionata di fianco alla scrivania, fra le delibere e la foto di Giorgio Napolitano; sia per il modo di fare accogliente che contraddistingue il primo cittadino di Sedriano.
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Informazione in Italia IL SINDACO E LA GIORNALISTA Una coraggiosa giornalista di 21 anni, Ester Castano, è stata bersagliata per un anno dalle querele per diffamazione e dalle diffide di Antonio Celeste (Pdl), sindaco di Sedriano (Milano), arrestato martedì 10 ottobre e messo agli arresti domiciliari per i suoi rapporti ravvicinati con il presunto boss della ‘ndrangheta Eugenio Costantino, anch’egli arrestato nell’ambito dell’inchiesta per voto di scambio che ha portato in carcere l’assessore alla Casa della Regione Lombardia, Domenico Zampetti del Pdl. La cronista scrive sul settimanale Altomilanese di Magenta. Di fronte a certi avvenimenti ha fatto le domande giuste. Il primo cittadino si e’ mostrato offeso e l’ha accusata di molestarlo con le sue domande; l’ha querelata e l’ha diffidata ripetutamente; le ha intimato attraverso i carabinieri di non avvicinarsi fisicamente a lui e - sempre per loro tramite - le ha “consigliato” di trasferirsi altrove. Negli ultimi mesi, ogni volta che pubblicava un articolo, Ester è stata convocata in caserma dai carabinieri che le hanno notificato una nuova diffida. Questa vicenda paradossale di una palese, continuata azione intimidatoria nei confronti di chi ha il compito specifico di informare i cittadini, fa vedere quanto sia faticoso e per nulla pacifico, in Italia, fare la cronaca locale rispettando i canoni del giornalismo. I guai di Ester sono cominciati proprio perché ha cercato di chiarire alcuni strani aspetti dell’episodio per cui il primo cittadino è finito agli arresti: la contestatissima pubblica manifestazione all’auditorium di Sedriano, a maggio del 2011, con ospite d’onore la consigliera regionale Nicole Minetti, madrina di un concorso di creatività femminile promosso dal sindaco. In quel periodo la Minetti era nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle “Olgettine”. Il sindaco sapeva bene che la manifestazione sarebbe stata contestata e ciò lo preoccupava. Perciò la sera prima, come rivela l’ordinanza di custodia cautelare della Procura di Milano, chiamò al telefono il presunto boss della ‘ndrangheta Eugenio Costantino pregandolo vivamente di partecipare e di portare con sé un certo numero di persone per far fronte ad eventuali contestatori. L’indomani fra il centinaio di contestatori di ogni orientamento politico radunato davanti all’auditorium con striscioni e cartelli, c’erano una suora e una maestra elementare che, malamente strattonate dall’energico servizio d’ordine, furono costrette a entrare all’auditorium e a salire sul palco. La suora e la maestra denunciarono la violenza ai carabinieri con una lettera che qualche mese dopo fu pubblicata dal presidente del Comitato Pace del Magentino, Antonio Oldani. Quella lettera fece clamore. Il sindaco reagì annunciando una querela. Ester Castano entra in scena perché, dopo la pubblicazione della lettera della suora, va a intervistare il sindaco e riferisce che il Comune ha stanziato 7020 (settemilaventi) euro per incaricare un legale di presentare
la querela. Nel suo articolo Ester dice anche che il legale incaricato è “un amico del sindaco”. Per questa affermazione Ester Castano è stata querelata per diffamazione e gli edicolanti sono stati diffidati per iscritto a non esporre la locandina del settimanale Altomilanese. Un altro motivo di frizione risale ad aprile 2012, quando nella tranquilla Sedriano fanno sensazione sei colpi di pistola esplosi contro un’auto parcheggiata vicino a un locale collegato al giro delle slot machines. “E’ una intimidazione?”. Ester Castano osò rivolgere questa domanda al sindaco Antonio Celeste, a margine della manifestazione del 25 aprile. Per questo fatto il 14 giugno scorso i carabinieri l’hanno convocata in caserma e le hanno letto e notificato un esposto del sindaco che la accusa di molestie e la diffida a non entrare mai più in contatto con lui. Ma questa è solo una delle tante diffide che il primo cittadino ha fatto notificare alla giovane cronista. Ester ne parla con ironia. “Il comandante dei carabinieri – dice – ormai mi conosce bene, perché molte volte, dopo aver letto i miei articoli, il sindaco mi ha fatto chiamare in caserma. La scenetta si è ripetuta sempre uguale: arrivo, entro nell’ufficio, il comandante mi riferisce che il sindaco gli ha chiesto di dirmi che devo smetterla di scrivere articoli su Sedriano e mi consiglia di svolgere altrove il mio lavoro. Mi fa leggere la lettera di diffida e poi ci salutiamo. Purtroppo non posso avere copia quelle pagine piene di falsità nei miei confronti”. In una di queste occasioni Ester Castano è stata accusata di aver istigato con un articolo un incendiario che ha dato fuoco ad alcune auto parcheggiate dietro il Palazzo Comunale semplicemente perché, dopo aver chiesto informazioni alla Polizia Municipale, aveva espresso dubbi sull’efficacia del servizio antincendio della scuola. “Da allora – dice Ester – il vicesindaco mi ha proibito di parlare con i vigili”. Come fa a lavorare un cronista in queste condizioni? Ester abbozza un sorriso: “E’ dura perché ci sono anche altri problemi. Il primo è il precariato. La cronaca la scrivo gratis per Stampoantimafioso.it di cui sono redattrice. Prima di lavorare per Altomilanese e per la Prealpina ho fatto giornalismo per una web tv locale: dopo dodici mesi di lavoro e 36 servizi video per i quali avevo fatto anche le riprese sono stata ‘espulsa’ dalla redazione e liquidata con un assegno di 20 euro e gli insulti del direttore. E’ dura, ma io continuo perché ho una passione insana per il giornalismo. Sono anche una studentessa di lettere povera ma molto molto contenta di ciò che fa”. - Cosa hai provato quando hai saputo che il sindaco che ti diffidava continuamente è stato arrestato? “E’ difficile dirlo. Sono contenta di aver fiutato giusto e di non aver mollato la presa. E’ una piccola grande soddisfazione. E meno male che a darmi coraggio c’è stato Nando Dalla Chiesa e ci siete stati voi di Ossigeno. Questo non mi ha fatto sentire sola. Mi ha permesso di continuare a fare il mio lavoro con la serenità e la determinazione di sempre”.
Alberto Spampinato
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“Quaresima obbligatoria e intanto lui mangiava con la 'ndrangheta” Uomo galante e dotato di grande autostima, Celeste non nega una visita nel suo ufficio proprio a nessuno. Purchè quel “qualcuno” non abbia idee politiche a lui contrapposte o gli dia filo da torcere. In tal caso, con una velocità disarmante, il sindaco Celeste si sveste dai panni di cavaliere complimentoso e indossa il volto dell'indifferenza. Di fronte agli avversari attua la tecnica del mutismo e, nei casi più critici, sfodera l'arma segreta: la denuncia per diffamazione. Classe '53, pugliese, Alfredo Celeste nasce a Fasano, paese di francescani, letterati e giacobini. Paladino della cristianità, nel 2009 inizia il suo mandato dichiarando che non celebrerà alcun matrimonio civile: l'unione fra la coppia, per il primo cittadino, è valida solo davanti a Dio. Niente carne al venerdì Per Celeste, laureato in teologia nel 2006 a Lugano, la moralità è cosa seria. Tanto da condurre in prima persona una crociata contro le “bocche di rosa” che sviano tanti mariti della piccola cittadina ad ovest di Milano dai propri obblighi coniugali. E poi quella fissazione per la cristianità obbligata: la scorsa primavera impose il “menù quaresimale” ai bambini della scuola materna ed elementare. Niente carne al venerdì fino alla domenica di Pasqua. E intanto lui se la faceva da anni con la 'ndrangheta.
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Veneto
Riina jr a Padova fra libri e belle ragazze Il figlio del “boss dei boss”: un giovane che vuol rifarsi una vita o il rampollo viziato di un clan? Scriverà – dice - un libro. E nel frattempo? di Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it
Giuseppe Salvatore Riina, terzogenito del boss di Corleone, giunge a Padova lo scorso 14 aprile 2012, portando con se il fardello di una fedina penale tutt'altro che nitida. Condannato per associazione mafiosa, viene scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena, pari a 8 anni e 10 mesi, viene rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone e successivamente trasferito nella città del Santo.
Il probabile motivo dell'abbandono della città di Corleone è da ricercare nella comparsa della famiglia Inzerillo "gli scappati" che dall'America ritornavano nella terra natia, così il trasferimento della sorella maggiore Maria Concetta a San Pancrazio Salentino, vicino Mesagne, e di "Salvuccio" in terra veneta, andato via da Corleone perché non essere all'altezza del padre. Il suo arrivo a Padova non passa certo inosservato provocando non poche polemiche. “Una vita normale” Nel giorno del suo arrivo, accompagnato dalla madre Ninetta Bagarella e dall'Avv. Francesca Casarotto, aveva dichiarato «Sono felice di essere a Padova, spero di essere messo nelle condizioni di fare una vita normale da giovane uomo». Di fronte alle accuse di chi temeva che la sua sola presenza fosse bastata ad attirare a Padova la criminalità organizzata, come se il territorio padano fosse un piccolo paradiso senza infiltrazioni mafiose, aveva poi assicurato: «Sono venuto qui per lavorare e continuare gli studi, visto che sono iscritto all'Università di Padova.». Il figlio del capo dei capi, in terra straniera, viene accolto dalla signora Tina Ciccarelli, responsabile della Onlus che avrebbe dovuto seguire il rampollo di casa Riina e accompagnarlo nel percorso rieducativo.
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Il profilo basso che quest'ultimo aveva mantenuto per un breve periodo, forse il tempo necessario per conficcare in profondità le radici nel terreno padovano, si è dissipato in breve tempo perché lusso e bella vita sono vizi difficile da sradicare. C’è chi dice di averlo visto alla guida di una BMW di grossa cilindrata, pur non avendo la patente, alle feste in locali che contano, indossando abiti firmati e in compagnia di belle donne che sembra facciano la fila per lui. E' così che oggi va in giro il "nullatenente" Riina. Sembra infatti che nonostante i divieti imposti, le frequentazioni le amicizie del carcere di Via due Palazzi continuano indisturbate nonostante l’apparente buon comportamento del rampollo di casa Riina, le firme in caserma sono puntuali nel rispetto del codice giuridico che regolamenta la sua condizione di sorvegliato speciale. “Papà mi ha insegnato” "Papà mi ha insegnato a rispettare gli altri - aggiunge - perché non è l'uomo descritto dalle cronache giornalistiche o dalle sentenze, ma un padre affettuoso, pieno di attenzioni e di principi. Non sono il boss prepotente e sbruffone che hanno dipinto. Sono un uomo che vuole riappropriarsi della sua vita. Anche se mi chiamo Riina". E annuncia che prima o poi scriverà un libro. Certo che, tra Università, lavoro e belle ragazze, il tempo faticherà a trovarlo.
“SUICIDATO” DA PROVENZANO?
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DOSSIER
“SIGNOR GIUDICE, NON ARCHIVI LA MORTE DI ATTILIO MANCA!” Appello al Gip di Viterbo sul caso Attilio Manca, il giovane urologo ucciso misteriosamente in un contesto mafioso a Viterbo
di Luciano Mirone Signor Giudice, Lei tra poco dovrà decidere se archiviare buona parte dell’indagine sulla misteriosa morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato cadavere a Viterbo il 12 febbraio 2004. E siamo certi che deciderà secondo coscienza, anche perché Lei, in questi otto anni, più che respingere per ben tre volte la richiesta di archiviazione che la Procura di Viterbo Le ha inoltrato, onestamente non avrebbe potuto fare. Adesso siamo alla quarta richiesta: non di archiviazione del caso, ma di archiviazione della parola “mafia”, di legittimazione della parola “droga”, di legittimazione di un assunto molto discutibile portato avanti dalla Procura di Viterbo con una ostinazione degna di miglior causa: ovvero che Attilio Manca sia morto per eroina, malgrado la montagna di dubbi che sommerge questa tesi. In pratica la Procura Le chiede di archiviare la posizione dei quattro barcellonesi indagati (un paio dei quali invischiati a vario titolo con Cosa nostra) e di rinviare a giudizio una pusher romana che avrebbe fornito ad Attilio la dose mortale di eroina. Non sappiamo cosa succederà: se un’ulteriore ombra si addenserà su questa vicenda o se le indagini prenderanno direzioni diverse. Non vogliamo prevedere nulla. Il problema semmai è a monte, nell’indagine condotta dalla Procura laziale in modo così anomalo da considerare eufemismo perfino la parola “superficialità”. Mi permetto di invitarLa, Egregio Gip, qualora non lo avesse ancora fatto, a guardare (e soprattutto ad ascoltare) la conferenza stampa che il procuratore capo di Viterbo, Alberto Pazienti, e il sostituto procuratore Renzo Petroselli (titolare dell’inchiesta), hanno tenuto in occasione dell’ultima richiesta di archiviazione. Una conferenza-stampa molto istruttiva, perché dagli stessi magistrati viene confermato, seppure indirettamente, quanto questo caso sia viziato da carenze investigative gravi, specie se si tiene conto che da qualche
tempo all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo comincia a fare capolino l’idea che davvero la morte di Attilio Manca potrebbe essere collegata con l’intervento alla prostata che nel 2003 l’urologo siciliano avrebbe eseguito segretamente a Marsiglia al boss Bernardo Provenzano (celatosi per l’occasione col falso nome di Gaspare Troia), e alla successiva assistenza che il chirurgo avrebbe fornito nel Lazio (e forse non solo nel Lazio) allo stesso boss. Infatti ultimamente sta emergendo una circostanza clamorosa: che Bernardo Provenzano, dopo l’intervento a Marsiglia, abbia trascorso una parte del periodo post operatorio proprio nel viterbese, tra Bagnoregio e Civitella D’Agliano. Un’ipotesi che i magistrati della Procura laziale, in conferenza stampa, liquidano con una risata: “Tramontata l’ipotesi Marsiglia, esce fuori l’ipotesi del Lazio”. A parte il fatto che l’ipotesi Marsiglia non è mai tramontata, quella del Lazio è affiorata solo alcuni mesi fa. Le due ipotesi non si escludono, semmai si integrano. Certo, Egregio Gip, non ci sono prove che dimostrino che Attilio Manca abbia davvero operato Provenzano, ma Lei ci insegna che le prove non cadono dal cielo, vanno cercate con pazienza, partendo dagli elementi di cui si è in possesso. L’arresto di Cattafi Ora, Signor Gip, si dà il caso che nelle ultime settimane sia stato confermato (con un arresto clamoroso) ciò che la famiglia Manca e pochi altri antimafiosi siciliani ripetono da anni: che l’avvocato Rosario Cattafi, potentissimo boss di Barcellona Pozzo di Gotto, potrebbe avere avuto un ruolo di primo piano nelle stragi del ’92 (soprattutto in quella di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta), nella Trattativa fra Stato e mafia, nonché in alcune operazioni finanziarie che hanno visto come protagonista Cosa nostra. Sì, perché da tempo si ripete che Cattafi è il trait d’union fra i boss, i servizi segreti deviati, la politica affaristico-mafiosa e certi magistrati non proprio rispettosi dello Stato di diritto. Insomma un potente più potente degli stessi Riina e Provenzano. Potrebbe uscire assolto o condannato, l’avvocato Cattafi, ma una sentenza non cambierebbe di una virgola una verità ormai incontrovertibile: i suoi legami con quelle entità. Per caso è mai venuto in mente a qualcuno di codesta Procura di sapere per quale ragione due mafiosi del calibro di Nitto Santapaola e dello stesso Provenzano ab-
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biano trascorso un pezzo della loro latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto, o magari di sapere per quale ragione un altro super boss – Gerlando Alberti junior, sì, Signor Gip, quello che ha ammazzato la povera Graziella Campagna, una ragazzina di diciassette anni che ha avuto il torto di scoprire la vera identità di Alberti – sia stato tenuto nascosto per diverso tempo in quella zona, godendo delle incredibili protezioni di alti magistrati della Procura di Messina, che per decenni hanno insabbiato le indagini? Ora, Egregio Gip, un fatto resta un fatto, ma tanti fatti diventano un contesto. E un delitto, perfino secondo un mediocre scrittore di libri gialli, va sempre inserito nel suo contesto. O no? “Inoculazione volontaria”… nel braccio sbagliato Ma procediamo con ordine. Secondo il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli, Attilio Manca sarebbe morto per overdose di eroina mediante “inoculazione volontaria”, mischiata ad un quantitativo di alcol e di tranquillanti. “Inoculazione volontaria”, proprio così. Dov’è la prova della “volontarietà” dell’azione? Non c’è. O meglio, non l’abbiamo vista. Anche perché c’è un problema grosso quanto una casa: il fatto che Attilio Manca la droga se la sarebbe “inoculata” nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che era un mancino puro. Orbene: dopo quasi un decennio, anche il “mancinismo puro” della vittima è stato messo in discussione dalla Procura di Viterbo, malgrado le tante conferme (di colleghi, di dipendenti dell’Asl, di amici, di familiari) dell’”uso esclusivo della mano sinistra da parte della vittima”. Ascolti in conferenza stampa cosa dicono il Procuratore e il Sostituto: siccome Attilio Manca era un chirurgo, doveva per forza sapere utilizzare entrambe le mani. Secondo quale principio scientifico? E allora, Egregio Gip, consenta di ricostruire la scena della morte, sia perché è giusto partire dai fatti, sia perché coloro che leggono questa storia per la prima volta possano comprenderla bene. La scena della morte Attilio Manca – in quel periodo in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo – viene trovato cadavere sul letto del suo appartamento la mattina del 12 febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e – secondo la famiglia – con il setto nasale deviato, il volto tumefatto, una serie di ecchimosi in tutto il corpo, e un testicolo gonfio. Sotto il letto una pozza di sangue.
“SUICIDATO” DA PROVENZANO? Nell’appartamento un caldo asfissiante dato che i regolatori dei termosifoni sono posizionati al massimo da molte ore (non si sa da chi, tenuto conto che Attilio li regolava a temperature normali). A qualche metro di distanza (nel bagno e in cucina) vengono rinvenute due siringhe con tappo salva ago ancora inserito, un pezzo del parquet del pavimento divelto, un peso da ginnastica rotto, la camicia e la cravatta della vittima poggiate su una sedia. Non vengono trovati i pantaloni, i boxer, i calzini, le scarpe e la giacca di Attilio, né vengono rinvenuti lacci emostatici e cucchiai sciogli eroina. Sul tavolo del soggiorno vengono trovati anche degli attrezzi chirurgici che, secondo gli stessi familiari e gli amici più stretti della vittima, non erano mai stati visti nell’appartamento. L’autopsia, condotta dalla dottoressa Danila Ranaletta, moglie del primario di Attilio, ha escluso sia le ecchimosi sul corpo, sia il setto nasale deviato, il volto tumefatto e le labbra gonfie. Una tesi che trova completamente d’accordo la Procura di Viterbo. Secondo la famiglia Manca, invece, il medico del 118, intervenuto dopo la scoperta del cadavere, avrebbe riscontrato questi particolari e li avrebbe inseriti nel referto. Come si vede, si tratta di due tesi del tutto contrapposte, che dovrebbero essere chiarite dalle foto del volto (mai pubblicate dai giornali e su internet). Il giallo delle foto Attualmente poche persone possiedono le foto del volto di Attilio da morto: probabilmente soltanto i magistrati di Viterbo, i legali dei Manca e i legali dei cinque attuali imputati. Dei familiari del medico, l’unico ad averle viste è il fratello Gianluca (chiamato pure a riconoscere il cadavere). Gianluca asserisce che si tratta di immagini raccapriccianti, talmente raccapriccianti da averne chiesto la non diffusione per evitare un ulteriore trauma ai genitori. Per evitare un trauma a Gino e ad Angela Manca, precipitatisi a Viterbo dopo il decesso del figlio, fu consigliato bonariamente di non vedere la salma di Attilio. A dare il “consiglio bonario” fu il primario del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, il prof. Rizzotto, colui che, secondo i Manca, in quelle prime ore spiegò loro che il figlio si era fracassato la faccia andando a sbattere contro il telecomando poggiato su una superficie morbida come il piumone. Peccato che dalle foto riprese da dietro (queste sì, diffuse e visibili) si veda il corpo di Attilio riverso sul letto, col telecomando sotto il braccio. In ogni caso, dal consiglio di Rizzotto si deduce – a prescindere dalle foto – che il volto di Attilio non doveva essere proprio normale. La stessa Polizia di Viterbo, in quelle prime ore, a dire dei familiari dell’urologo, aveva sollevato seri dubbi sul
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movente della droga. Tutto cambiò nel giro di qualche ora. Ma c’è da chiedersi: perché il prof. Rizzotto diede quel “consiglio bonario” ai Manca? Solo per un alto senso di umanità? Può darsi. Ma perché portò avanti una tesi inverosimile come quella del telecomando? Perché durante l’autopsia stazionava assieme ad Ugo Manca (cugino della vittima e perno di questa storia; ora vedremo perché) dietro la porta della moglie, mentre questa eseguiva l’esame autoptico sul corpo di Attilio? Perché la sollecitava a concludere in fretta l’autopsia? Perché diceva alla moglie che c’era l’esigenza immediata di consegnare il corpo alla famiglia Manca se la famiglia Manca, come sostiene, non aveva fatto alcuna premura? Perché nelle ore immediatamente successive teneva i contatti con la madre di Ugo Manca, che da Barcellona forniva e riceveva notizie? A che titolo? Gli stessi segreti di Alfano? Dai rilievi effettuati dalla Polizia scientifica, nell’alloggio di Attilio sono state rilevate cinque impronte, una del cugino Ugo Manca, e altre quattro non appartenenti a persone che la vittima era solita frequentare. Dunque, in quell’appartamento, delle persone estranee all’ambiente del medico, a parte il cugino, avrebbero lasciato le loro tracce nelle ultime ore di vita dell’urologo. A chi appartengono? Non si sa neanche questo. Da tempo vengono condotte delle inchieste giornalistiche su questo caso. Da queste sono emersi dei fatti incontestabili. 1) Attilio Manca, malgrado i suoi 34 anni, era un luminare della chirurgia alla prostata, essendosi specializzato a Parigi, patria del sistema laparoscopico, tecnica rivoluzionaria e meno invasiva del tradizionale intervento. 2) Francesco Pastoia, braccio destro di Bernardo Provenzano, poco prima di impiccarsi nel carcere di Modena (altra coincidenza...), disse che il boss era stato operato e assistito da un medico siciliano. 3) La città di Attilio, Barcellona Pozzo di Gotto, non è una cittadina come tante, ma il centro di una strategia dell’eversione che nel ’92 portò il boss Giuseppe Gullotti (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano) a recapitare direttamente a Giovanni Brusca (Corleonese come Bernardo Provenzano) il telecomando della strage di Capaci. 4) Nello stesso periodo, sia Provenzano che il potente boss catanese Nitto Santapaola trascorrevano la loro latitanza proprio lì, a Barcellona Pozzo di Gotto. Protetti da chi? 5) Il giornalista Beppe Alfano era stato ucciso perché aveva scoperto l’appartamento dove veniva nascosto Santapaola. E allora, tenuto conto di questo contesto, chi può escludere che Attilio Manca - se davvero ha operato Provenzano - potrebbe avere scoperto gli stessi segreti di cui era venuto a conoscenza Beppe Alfano? Chi può
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IL CASO ATTILIO MANCA escludere che il medico fosse venuto a capo di quella inconfessabile rete di complicità? Anche perché, a quanto pare, alcune settimane prima di morire, il medico potrebbe avere confidato certe notizie alla persona sbagliata. Che non è di Viterbo, ma di Barcellona. Cosa risponde in proposito la Procura di Viterbo? Che il giovane medico era un drogato e che i quattro barcellonesi indagati vanno prosciolti perché, a loro dire, “non c’entrano niente con questa storia”. Eppure c’è quell’impronta palmare di Ugo Manca, dalla quale si sarebbe potuti partire. Invece Ugo Manca dà la sua versione e viene tranquillamente creduto. Ugo Manca è il perno – non l’unico ovviamente – attorno al quale ruota l’intera indagine. Perché? Il perno Ugo Manca Condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, ma assolto in appello, Ugo Manca nelle ore immediatamente successive alla morte del cugino, dalla Sicilia si precipita a Viterbo per chiedere al magistrato titolare dell’indagine – a nome dei genitori e del fratello di Attilio, che però hanno categoricamente smentito – il dissequestro dell’appartamento. Perché? Nientemeno che per rivestire la salma. È un’ipotesi credibile? Nel frattempo la madre di Ugo – secondo la testimonianza dei familiari di Attilio – oltre a tenere i contatti con il prof. Rizzotto, si affretta a chiamare un alto magistrato romano (ripetiamo: a che titolo? Per un’amicizia pregressa o per l’interessamento di qualche collega siciliano?) affinché questi possa intercedere presso la Procura di Viterbo per il dissequestro in tempi rapidi della casa. Alla fine l’appartamento non viene dissequestrato per la ferma opposizione del fratello e dei genitori di Attilio. Ma è su quell’impronta lasciata sulla mattonella del bagno – in un luogo dove, secondo gli esperti più autorevoli, le tracce digitali tendono a distruggersi nel giro di qualche ora per la presenza di vapore acqueo – che Ugo Manca avrebbe dovuto dare spiegazioni più plausibili. Lui, Ugo, dice che è stato davvero in quella casa, ma circa due mesi prima, quando si è recato a Viterbo per sottoporsi a un banalissimo intervento di varicocele. Chi è il chirurgo che lo opera? Attilio Manca. Incredibile. Lo stesso Attilio Manca che oggi (quando non può più difendersi perché è morto) nelle aule di giustizia e nelle interviste viene accusato dal cugino Ugo di essere stato un eroinomane, capace di usare tutt’e due le mani per drogarsi. E allora in questa storia ci sono delle cose che non tornano. Ugo rischia gli organi genitali a causa di un cugino drogato? Un intervento di varicocele si fa su quella parte del corpo. È un alibi convincente?
“SUICIDATO” DA PROVENZANO? Perché rischiare tanto, se un intervento del genere Ugo può farlo agevolmente all’ospedale di Sant’Agata di Militello, dove presta servizio come dipendente amministrativo, o di Barcellona, o di Patti o di tanti altri nosocomi vicini? Ugo si fa duemila chilometri per recarsi a Viterbo per un’operazione così semplice? Anche questa versione non sembra per niente convincente. Eppure, Signor Gip, sa cosa hanno detto in conferenza stampa i procuratori di Viterbo a proposito di Ugo Manca? Testuale: “Manca Ugo era in ottimi rapporti con il cugino Manca Attilio. Manca Ugo era di casa a Viterbo, in quanto punto di riferimento dei barcellonesi che dovevano farsi operare all’ospedale ‘Belcolle”. È un aspetto che apre scenari inquietanti e che, in sostanza, conferma che ci troviamo di fronte a un caso che presenta troppe stranezze. La prostata dell’estortore Se da un lato la Procura laziale è portata a giustificare l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca attraverso la storia dell’”assidua frequentazione tra cugini”, dall’altro emerge una circostanza inedita e oscura sul ruolo avuto da questo personaggio equivoco. Sì, perché un conto è dire che Ugo contattava telefonicamente il cugino per mandare qualche barcellonese ad operarsi a Viterbo. Un altro è dire che lui a Viterbo “era di casa” per intercedere presso l’ospedale (solo con Attilio o con qualche altro medico?) per le cure alle quali dovevano sottoporsi i barcellonesi. E qui entra in gioco un altro personaggio appartenente al mondo della mafia barcellonese. Anche lui – poco tempo prima – si reca nella città laziale per farsi operare da Attilio: si chiama Angelo Porcino, è stato condannato per estorsione, ed è uno dei quattro barcellonesi indagati per i quali la Procura laziale ha chiesto l’archiviazione. A quanto pare ai magistrati di Viterbo non risulta neanche che Porcino – ufficialmente titolare di una sala giochi – abbia un cellulare. Dunque non si sa se questo tizio parli al telefono e con chi, se faccia uso dell'apparecchio di altri (eventualmente di chi), quali sono i contenuti dei suoi presunti colloqui telefonici soprattutto nel periodo in cui si è recato a Viterbo, e cosa abbia fatto realmente nella città laziale nei giorni della sua degenza. Non si sa praticamente nulla. Si sa solo che ha contattato Attilio – autonomamente o per mezzo di Ugo? – per un intervento alla prostata (lo stesso, guarda caso, al quale si è sottoposto Provenzano). Non sappiamo se Porcino c’entri qualcosa in questa vicenda, però sia in lui che in Ugo Manca si riassumono due incredibili paradigmi: l’appartenenza a un mondo che si spinge fino a Viterbo per farsi curare da un medico bravissimo (ma “drogato”), e il modo di condurre le indagini da parte degli investi-
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gatori laziali. Ma quel che appare paradossale è che non si sa neppure chi siano gli altri barcellonesi (ripetiamo: solo barcellonesi?) che Ugo Manca avrebbe portato a Viterbo per farsi operare. Magari i magistrati della Procura lo sanno, ma per riservatezza non lo dicono. Eppure in conferenza stampa hanno dato la sensazione di annaspare. Perché se dovesse risultare che Ugo era il punto di riferimento delle operazioni e delle cure cui si sottoponeva un determinato mondo, il quadro potrebbe cambiare notevolmente. C’entra Provenzano con quel mondo barcellonese con il quale era in stretto contatto? Ma ipotizziamo pure che Provenzano non c’entri assolutamente nulla con questa storia. Ipotizziamo che si tratti di semplici congetture. Resta quel mondo poco scrutato dai magistrati laziali, collegato con Viterbo attraverso la figura di Ugo Manca, che potrebbe avere avuto l’esigenza di rivolgersi a un grande medico originario della stessa città per risolvere “privatamente” certi problemi di salute, stando lontano dai riflettori dell’isola. Ipotesi? Può darsi. Ma la storia della mafia è piena di casi del genere. Che proprio per questo non vanno mai sottovalutati. L’improvvisa comparsa degli attrezzi per le operazioni chirurgiche trovati a casa di Attilio è casuale? Non lo sappiamo. Se è casuale deve essere spiegato concretamente perché. Se è legata a qualcosa di inconfessabile, in quell’appartamento, la sera dell’11 febbraio 2004 – nelle ore che hanno preceduto la morte di Attilio – potrebbe essere accaduto di tutto. Anche perché, a parte la circostanza del volto sfigurato e del testicolo gonfio – che la Procura laziale smentisce – c’è da chiarire la circostanza del parquet divelto, del peso da ginnastica rotto, di alcuni indumenti della vittima stranamente introvabili, e tanto altro che adesso vedremo. Un eroinomane… controllato Il giovane medico, secondo Pazienti e Petroselli, si faceva di eroina ma non era un tossicodipendente. Si drogava, a loro dire, solo in certi momenti, magari quando era depresso, ma l’eroina riusciva a tenerla sotto controllo, senza subirne dipendenza. L’eroina? Sotto controllo? Senza subirne dipendenza? I familiari smentiscono categoricamente che Attilio si drogasse, qualche spinello al tempo del liceo, poi basta. La madre sostiene che beveva un bicchiere di vino ogni tanto, a tavola nei fine settimana, ma mai alla vigilia di un intervento chirurgico, in sala operatoria voleva essere lucido. I genitori, si sa, sono obnubilati da dolore, quindi sono portati a raccontare balle, non lo fanno per male… certo. E i colleghi, e il personale dell’ospedale “Belcolle”, e gli amici di Viterbo? Anche loro raccontano un sacco di balle.
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IL CASO ATTILIO MANCA Vuoi mettere queste testimonianze con quelle dei barcellonesi? Non scherziamo. Ora ci arriviamo ai barcellonesi. Quindi Attilio Manca era un eroinomane ma non tanto, o meglio, era eroinomane solo in certi momenti. In che senso? Beh… Qui onestamente le contraddizioni sono tali e tante che si fa fatica a venirne fuori. Riavvolgiamo il nastro… Nei primi anni le carte processuali ci dicono che l’urologo è morto per suicidio da overdose. Adesso ci dicono che è morto per overdose senza suicidio. Nell’ultima trance dell’indagine la parola “suicidio” misteriosamente scompare, resta solo la parola drogato. Dunque Attilio Manca, secondo i magistrati, è sì un drogato, ma “controllato”, nel senso che non può fare a meno del buco, ma vi ricorre ogni tanto, magari il giorno prima di fare un delicato intervento chirurgico, tanto per tenersi in forma. Infatti, come previsto dal programma del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, Attilio doveva operare la mattina del 12 febbraio, quando è stato trovato morto. Però siccome è medico sa benissimo che quell’intruglio micidiale di eroina, di alcol e di tranquillanti può portarlo alla morte, ma siccome lo sballo è sballo, più cose ci mette dentro più si assicura l’effetto psichedelico. E così mentre l’intruglio mortale circola nelle sue vene, gli salta in mente una cosa che può cambiare la sua vita: rimettere i tappi negli aghi delle siringhe. Strafatto si precipita in cucina e poi nel bagno, barcolla ma deve portare a termine la missione, senza ovviamente lasciare impronte sulle siringhe, poi torna in camera da letto, crolla sul piumone e si fracassa il viso sbattendolo sul telecomando. Il sangue per terra è causato da edema polmonare scatenatosi per l’overdose, mica perché è stato pestato. Questa la tesi ufficiale. Quando viene ritrovato morto, nel suo braccio vengono rinvenuti due buchi (gli unici in tutto il corpo). Su questo la Procura sostiene una tesi per noi del tutto nuova: che sarebbero stati praticati in tempi diversi. Ce ne sarebbe uno recente e uno più vecchio. Questo secondo Pazienti e Petroselli dimostrerebbe tre cose: che Attilio si drogava, che quella sera non era la prima volta che si drogava, e che era un drogato “controllato”. Elementare, Watson. Lo scandalo delle impronte digitali I magistrati non hanno spiegato per quale ragione – malgrado le ripetute richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Repici – per ben otto anni si sono rifiutati di rilevare le impronte digitali sulle due siringhe. In conferenza stampa hanno dichiarato che siccome le siringhe erano troppo piccole (immaginiamo delle normali siringhe da insulina: sono proprio così piccole?), la Procura non ha ritenuto di ordinare il rilevamento delle impronte perché non si sarebbe trovato nulla.
“SUICIDATO” DA PROVENZANO? È possibile una cosa del genere con i sofisticati mezzi scientifici di cui dispongono le Forze di polizia? Soltanto poco tempo fa, dopo una precisa richiesta del Gip, le analisi sulle siringhe sono state fatte. Su una non è stato trovato nulla, sull’altra una labile traccia non assolutamente comparabile a un’impronta, quindi da non considerare valida come prova. Dalle analisi effettuate non è stato accertato né che Attilio si sia drogato, né che altri lo abbiano drogato forzatamente per simulare una morte per overdose. Non esiste alcuna prova sia nell’un senso che nell’altro. Però i magistrati affermano che in una delle sue siringhe è stata rinvenuta una minuscola traccia di eroina. L'esame salta fuori otto anni dopo E così per la prima volta abbiamo sentito parlare di esame tricologico. I giudici hanno garbatamente spiegato che trattasi di analisi sul capello della vittima per accertare se questa abbia assunto degli stupefacenti. Ebbene: ci è stato detto che sì, anche nei capelli di Attilio sono state trovate delle tracce di stupefacenti. Ecco la prova “inconfutabile”. A parte il fatto che non è stato specificato di quali stupefacenti si tratta, non si comprende perché questo esame tricologico sia saltato fuori dopo otto anni, senza che alla famiglia Manca sia stato notificato nulla, e senza che le sia stata data la possibilità di nominare un perito di parte. Però siccome nella siringa è stata trovata eroina, siccome “è provato” che “Manca Attilio si sia inoculato volontariamente l’eroina nel braccio sinistro”, siccome i vicini di casa non hanno sentito rumori, Manca Attilio è morto drogato. Stop. Le indagini sul procuratore Cassata La droga, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata una pusher romana a fornirgliela, l’unica persona, tra i cinque indagati, su cui la Procura chiede il rinvio a giudizio. Evidentemente ci saranno prove inoppugnabili per affermare con sicurezza un assunto del genere, In conferenza stampa è stato detto che la pusher capitolina riforniva di stupefacenti il “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Il “gruppo barcellonese”. Di cui Attilio avrebbe fatto parte. Formato da chi? Ecco allora che Barcellona torna alla ribalta, non come epicentro di una criminalità organizzata che ha contatti non solo con il “gotha” di Cosa nostra siciliana, della ‘ndrangheta calabrese e della camorra campana, ma con altissimi magistrati come il procuratore generale di Messina Franco Antonio Cassata – residente da sempre a Barcellona, ricadente nello stesso Distretto giudiziario messinese – oggi sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa; con un ex ministro come Domenico Nania (oggi vice presidente del Senato), con l’ex sindaco di Barcellona
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Candeloro Nania (cugino dell’ex ministro), con l’ex presidente della Provincia di Messina Giuseppe Buzzanca, e con tanti altri autorevoli personaggi. Per la Procura di Viterbo, Barcellona non torna alla ribalta per questo. Torna alla ribalta per le presunte pratiche a base di droga da parte di Attilio e del “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Tutto qui. Ai magistrati di Viterbo sfuggono evidentemente dei tasselli importanti per completare il mosaico. Eppure tante volte è stato scritto – e i procuratori sicuramente lo hanno letto – che in quella cittadina della lontana Sicilia esiste un circolo paramassonico denominato “Corda fratres”, che occupa un intero primo piano di un palazzo del centro. Chi non è di Barcellona pensa al classico circolo di paese, dove si gioca a carambola o a carte, si legge il giornale, si conversa amabilmente di corna e di politica, si organizzano dotte conferenze di letteratura e di arte. La “Corda fratres” è anche questo, ma è molto altro. Pur essendo frequentata anche da gente perbene, è un centro di potere dove i boss Gullotti e Cattafi convivono alla luce del sole col magistrato Cassata e con l’ex ministro Nania, con il cugino sindaco e col presidente della Provincia. Un livello superiore, che bypassa il livello medio delle persone perbene e decide il destino della città. Altro che un circolo di paese... Non c’è giovane di Barcellona che, conseguita la laurea, non si iscriva alla “Corda fratres”. Sicuramente per prestigio, ma anche per “sistemarsi” professionalmente attraverso le potenti aderenze di cui dispongono i personaggi più in vista. Come si spiega che il magistrato Franco Cassata, vero animatore del Circolo – pur essendo da anni oggetto di durissime interrogazioni parlamentari, di inchieste giudiziarie e giornalistiche, pur essendo chiacchierato per le sue amicizie discutibili – diventa Procuratore generale di Messina? Solo oggi, messo sotto inchiesta dalla Procura di Reggio Calabria con accuse gravissime, al Csm si parla di un suo trasferimento per incompatibilità ambientale. Solo oggi, cioè quando Cassata è alla soglia della pensione. Come si spiega il fatto che diverse testimonianze rese all’Autorità giudiziaria contro Attilio Manca provengano dall’ambiente della “Corda fratres” fortemente intossicato da certi condizionamenti? Testimonianze che cozzano con quelle di Viterbo, che paiono di segno completamente opposto. Quei rapporti “altolocati” E qui per dovere di cronaca bisogna dire che i rapporti “altolocati” intessuti all’interno di quel sodalizio non si fermano qui. C’è l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con il giudice Cassata, l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con Rosario Cattafi, l’amicizia stretta fra queste
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IL CASO ATTILIO MANCA variegate entità e parecchia gente recatasi dai magistrati a testimoniare contro quel “drogato di Attilio Manca”. Significa qualcosa o pensiamo che i contesti non contino nulla? Le telefonate scomparse Ma ipotizziamo pure, Signor Gip, che Attilio fosse davvero un drogato. Questo spiega a tutti i costi una morte per overdose? Questo significa che i magistrati non abbiano il dovere di indagare a trecentosessanta gradi? Questo significa non considerare anche l’ipotesi dell’omicidio, magari tenendo conto che la scena del presunto delitto potrebbe essere stata camuffata? Anche ammesso che Attilio fosse stato un drogato, non sarebbe stata utile una maggiore prudenza sulla dinamica della morte, dato che diversi elementi ci portano a ritenere che quella sera, nella casa di Attilio Manca, potrebbe esserci stato uno scontro violento? Non è detto che sia così, ma non può essere escluso a priori. Eppure la Procura di Viterbo lo ha escluso dicendo “Non ci sono elementi”. Li ha cercati? Fin dall’inizio si è sposata la tesi della morte per overdose “volontaria”, e non ci si è spostati di un millimetro. Restano poi da chiarire i gialli di almeno due telefonate intercorse fra Attilio e la sua famiglia, che secondo il legale dei Manca non risultano nei tabulati telefonici. Il giallo delle due telefonate La prima telefonata proviene dalla Francia nello stesso periodo in cui viene operato Provenzano. In quel caso Attilio dice alla madre che deve assistere a un intervento. A quale? Non si sa. Il procuratore Pazienti ha affermato che dai controlli effettuati, il dottor Manca in quel periodo risultava in servizio al “Belcolle”. Come se con un aereo non fosse facile raggiungere la Francia in poche ore anche nei fine settimana o nei giorni liberi. La seconda telefonata riguarda l’ultimo colloquio fra Attilio e la madre, intercorso il giorno prima del ritrovamento del cadavere. Il medico – chissà da quale luogo e in quale situazione, ma sicuramente provato – avrebbe lanciato dei messaggi in codice in cui avrebbe cercato di dire di cercare la verità proprio a Barcellona Pozzo di Gotto. Congetture anche queste, certo, ma ci chiediamo se è vero che nei tabulati quelle due telefonate non risultano. I procuratori hanno detto che quelle telefonate non ci sono mai state. Ne prendiamo atto. Quel che appare certo è che ci troviamo di fronte a tanti, troppi, “buchi neri” che Lei, Egregio signo Giudice per le indagini preliminari, è chiamato a chiarire attraverso un compito che si prospetta assai delicato. Buon lavoro.
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Mafia Spa
Puzza di droga la nuova economia Quanto incide la crisi finanziaria globale nelle casse del crimine organizzato? Secondo recenti indagini, il mondo della finanza sarebbe sempre più collegato con le mafie e i cartelli dei narcos
di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com
Uno schema logico che profeticamente era già stato individuato da Giovanni Falcone. Nel novembre 1990, in una conferenza tenutasi presso il Bundeskriminalamt di Wiesbaden (RFT) segnalava come l'apertura delle frontiere all'interno della Comunità Europea avrebbe necessariamente favorito l'espansione della mafia e della criminalità organizzata con i sistemi mafiosi. Da quel momento in poi, infatti, il sistema economico è stato profondamente deregolarizzato, seguendo le regole della globalizzazione economica, basata su consumismo, operazioni finanziarie spregiudicate e privatizzazione. Ed è su questo sistema che le mafie transnazionali hanno tratto una crescita esponenziale del proprio guadagno. E con la crisi economica le possibilità si sono allargate ulteriormente. Le mafie, di fatto, sono le uniche “imprese” ad avere enormi disponibilità di denaro (proventi dei traffici illeciti ndr) da poter investire in ogni settore.
Il nuovo salto di qualità Nella seconda metà del 2008, quando le banche si trovavano ad affrontare pesanti problematiche di liquidità, le organizzazioni criminali mondiali, da sempre dedite al riciclaggio di denaro, sono entrate in maniera più preponderante nel mondo della finanza passando dalla porta principale grazie alla fornitura di un enorme flusso di capitali. E se questo “quadro” era già concreto e reale ancor prima del crack Lehman, che ha dato il via alla crisi economica globale, a maggior ragione oggi, che ci troviamo in una situazione peggiore, è evidente come le banche del mondo vengono attratte dal denaro facile del crimine. La casistica è davvero vasta. Si può pensare alla Wachovia Bank, che ha letteralmente “chiuso più di un occhio” sulle transazioni di denaro legate alla guerra della droga in Messico. O ancora di HSBC, che ha fatto fronte a 700 milioni di dollari in sanzioni per aver favorito il riciclaggio di denaro di signori della droga messicani, terroristi internazionali e banche iraniane (sottoposte a embargo). Banche e mafia Secondo le stime delle Nazioni Unite, il riciclaggio di denaro sporco nel 2009 ammonterebbe ad un volume di 1600 miliardi di dollari, di cui oltre un terzo risalirebbe a forme di crimine organizzato. Nel febbraio 2012, in una recente seduta del congresso USA sul crimine organizzato, il capo della Sezione Riciclaggio del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, Jennifer Shasky Calvery ha ricordato come: “Le banche negli Stati Uniti sono usate per accogliere grandi quantità di capitali illeciti occultati nei miliardi di dollari che vengono trasferiti tra banca e banca ogni giorno”.
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Un esempio di certe operazioni finanziare viene fornito da una recente inchiesta di due economisti colombiani, Alejandro Gaviria e Daniel Mejiia dell'Università di Bogotà: il 97,4% degli introiti provenienti dal narcotraffico in Colombia viene puntualmente riciclato da circuiti bancari di Usa ed Europa. E non è una cifra da poco: si parla di 352 miliardi di dollari. Ma se per le banche il vantaggio è prettamente commerciale, per la criminalità è doppio. Da una parte la connivenza del sistema bancario permette alle mafie di ripulire i propri guadagni illeciti, dall'altra la crisi offre grandissime occasioni per aumentare il bacino dei propri affari, specie nel campo dell'usura o del mercato nero. Secondo lo scrittore e giornalista venezuelano Moisés Naím: “Fino a pochi anni fa le mafie avevano molta influenza su alcuni personaggi all’interno dei governi, ora sono i governi stessi a prendere il controllo delle reti illegali internazionali”. Secondo Naìm esempi concreti a riguardo “vengono dati dall'ex giudice supremo Eladio Aponte, che in Venezuela sta fornendo prove che dirigenti governativi di primo piano sono anche i capi di importanti bande criminali internazionali. Per non parlare dell’Afghanistan, dove il fratello del presidente, il governatore di Kandahar Ahmed Wali Karzai, assassinato nel 2011, era stato ripetutamente accusato di essere coinvolto nel traffico d’oppio, la principale attività economica del Paese”. In Italia... Ovviamente neanche l'Italia è immune dall'incidenza delle criminalità organizzate. Secondo l'ultimo rapporto di Sos Impresa “Mafia spa” fattura oltre 100 miliardi di euro all’anno, il 7% del Pil.
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“Duecentotrenta gruppi operativi della 'ndrangheta in Germania”
Secondo l'associazione “Le imprese italiane subiscono 1.300 reati al giorno, 50 all’ora, un reato al minuto ed è sempre più difficile distinguere tra economia legale e non”. Il motivo? “Le imprese (e non solo) sono attratte da capitali mafiosi e quindi possono diventare complici. Proprio grazie alla connivenza con il mondo politico e amministrativo e di professionisti compiacenti le mafie si sono insediate nel Centro e Nord Italia. Controllano la quasi totalità del mercato del gioco d’azzardo, anche lecito, dello smaltimento dei rifiuti, specialmente quelli tossici e nocivi, del ciclo delle costruzioni fino ad arrivare a nuovi settori”. Grazie alla liquidità di cui dispongono, senza il bisogno di accedere al regolare credito bancario (anche se non sono da escludere aiuti da banche “amiche” ndr), le mafie non risentono della crisi ed anzi la sfruttano aprendo nuove strade. Imprenditori tentati Non è improbabile che imprenditori onesti ma in difficoltà, a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito, possano rivolgersi alla criminalità organizzata per sopravvivere, tanto che il racket dell’usura legato alle cosche, già oggi sufficientemente diffuso, potrebbe divenire la nuova fonte di liquidità per gli imprenditori. E ciò ovviamente distruggerebbe ancora di più la nostra economia. A rendere ancor più grave la situazione nel nostro Paese è poi il meccanismo di integrazione che si è avviato non solo tra le varie mafie (Cosa nostra, 'Ndrangheta e Camorra) ma anche con il sistema criminale della corruzione politica. “Con il sistema di corruzione così diffuso in tutto il Pese è stato introdotto un nuovo modo per convivere con la mafia – ha ricordato ancora una volta il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia al Festival della Legalità - La batta-
glia in questo modo diventa più difficile perché si tratta di sconfiggere la corruzione che con la mafia è una faccia della stessa medaglia. Speriamo che il Parlamento nazionale riesca ad approvare subito la legge anticorruzione”. Un appello lanciato anche dal fondatore di Libera don Ciotti: “Nessuno sconto, nessuna mediazione è possibile nella lotta alla corruzione, così come nella lotta al riciclaggio e alle mafie. La convenzione di Strasburgo parla chiaro: la corruzione deve essere sradicata. Quindi il Ddl sulla corruzione in discussione al Parlamento non deve essere svuotato da mediazioni che ne mortificano i contenuti. Deve diventare il trampolino di lancio di una vera lotta alla corruzione che ogni anno si mangia ben più di quel 3% del Pil italiano, cioè di quei 60 miliardi di Euro denunciati dalla Corte dei Conti”. Anche il resto d'Europa non è immune alla presenza delle mafie. Spagna e Grecia sono divenuti i nuovi “Stati porta” per le rotte della cocaina in Europa tanto che la “capitale” della Catalogna, Barcellona, viene definita come “la nuova Marsiglia”. E' li che 'ndranghetisti, narcos colombiani e messicani si incontrano per quella che ormai è una joint-venture della cocaina con ricavi da capogiro (mille euro per ogni euro investito nel sistema produttivo ndr). Proprio la 'Ndrangheta, sostituendosi a Cosa nostra come broker internazionale dei traffici di droga, rappresenta uno dei massimi esempi di nuova “holding criminale”. Un'organizzazione talmente potente da gestire direttamente l’importazione della cocaina verso l’Europa , utilizzando rotte sempre più sicure che coinvolgono America, Africa ed Europa, grazie ai rapporti con le mafie di numerosi paesi. Non è un caso che la 'Ndrangheta sia inserita nella black list delle organizzazioni terroristiche dal governo degli Stati Uniti. Traffici internazionali di droga dimo-
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strati, passando dal Sudamerica alla Grecia, anche da un'indagine dall'antimafia milanese nel 2011, che portò all'arresto di 11 persone, al sequestro di 117 chili di cocaina, 48 di hashish. Non solo. Secondo altri dati nel Paese ellenico, venendo a mancare i canali di prestito ufficiali a causa della crisi, sempre più persone ricorrono ai prestiti illegali, rivolgendosi agli strozzini. Un mercato nero di prestiti illegali che produrrebbe un giro d'affari di circa 5 miliardi di euro all'anno. Un'attività che pare sia quadruplicata dall'inizio della crisi nel 2009. Mafie italiane in Germania Non si può poi dimenticare la Germania. Sono passati poco più di cinque anni, da quando il 15 agosto 2007 a Duisburg , sei persone vennero trovate assassinate davanti al ristorante “da Bruno”. Era l’ultimo atto della “faida di San Luca”, tra i clan di 'Ndrangheta Nirta-Strangio e Pelle Vottari, iniziata nel 1991. Le indagini di questi anni hanno dimostrato il radicamento delle organizzazioni criminali italiane nella Bundesrepublik. Nel 2009 il Bundeskriminalamt, la polizia criminale tedesca, ha dichiarato che esistevano in Germania 230 n’drine con 1800 affiliati. Un dato importante, e indicativo di come lo Stato tedesco oggi sia divenuto punto nevralgico di contatto e di "intelligence" tra le varie mafie internazionali in Europa. Ad attirare i criminali più che la posizione centrale all'interno del continente Europeo sono le stesse leggi tedesche, troppo deboli e inefficaci e i metodi d'indagine limitati in materia di organizzazione criminale. Nella Repubblica Federale, come in tutti paesi Ue eccetto l’Italia, non è riconosciuto infatti il reato di associazione mafiosa né sono previste norme sul carcere duro per i mafiosi.
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“Alcune banche hanno superato la crisi con i finanziamenti delle mafie”
Come se non bastasse, le leggi sul riciclaggio sono più blande rispetto al nostro Paese (secondo un’indagine Ocse sul tema, in Germania nel 2011 sono stati “recuperati” 170 milioni di euro contro 1,3 miliardi dell’Italia), dato che per questo reato è prevista l’”inversione dell’onere della prova”, ovvero chi fa un investimento non è obbligato a provare che i soldi provengano da una fonte pulita. A ciò si aggiungono i limiti d'indagine per gli inquirenti con l'impossibilità di effettuare intercettazioni in luoghi pubblici o appartamenti privati. Il contrasto internazionale Mettendo insieme tutti questi dati si evince come i capitali mafiosi stanno traendo profitto dalla crisi economica europea e, più in generale, dalla crisi economica dell’Occidente, per infiltrare in maniera capillare l’economia legale. Eppure tali capitali non sono solo l’effetto della crisi globale, ma anche e soprattutto la causa, perché presenti nei flussi economici sin dalle origini di questa crisi. Nel dicembre 2009, il responsabile dell’Ufficio Droga e Crimine dell’Onu, Antonio Maria Costa, rivelò di avere le prove che i guadagni delle organizzazioni criminali fossero l’unico capitale d’investimento liquido che alcune banche avevano avuto a disposizione durante la crisi del 2008 proprio per evitare il collasso. Una soluzione ad una problematica così globale è chiaro che non può essere trovata solo dall'inasprimento delle leggi di un singolo Paese ma deve essere affrontato in una maniera globale così come ha sempre chiesto Giovanni Falcone. “Persiste dunque la necessità di un corrispondente adeguamento della legislazione internazionale e della realizzazione di una costante ed efficace collaborazion-
e internazionale - diceva nel 1990 - Ciò significa soprattutto l’abolizione dei cosiddetti paradisi fiscali, che fino ad oggi hanno reso vani i tentativi, anche i più decisi, di alcuni Paesi per identificare i flussi di denaro provenienti da attività illecite. Questa è una lotta in cui si devono sentire impegnati tutti i componenti della comunità internazionale, perché dall’esito di questa lotta dipende se la criminalità organizzata potrà essere distrutta o almeno ridimensionata entro limiti in cui non rappresenti più una seria minaccia per la società”. Ed è in questa direzione che cerca di muoversi la nuova commissione antimafia europea che ha come presidente l'europarlamentare italiana Sonia Alfano. “Di recente, la ’Ndrangheta ha riciclato 28 milioni di euro in poche ore, acquistando un intero quartiere in Belgio” - ha raccontato la presidente del Crim. “Il parlamento europeo - ha continuato - vuole conoscere il modello Italia di lotta alla mafia, che tanti risultati ha dato sul fronte del contrasto all’ala militare delle organizzazioni criminali e per questo dopo aver visitato la Serbia sarà presto in Italia a Palermo, Roma e Milano per ascoltare non solo magistrati e investigatori, ma anche rappresentanti del sistema bancario e del mondo imprenditoriale. Ma le audizioni sono mirate anche a capire perché l’Italia sia in ritardo sulla legislazione riguardante il riciclaggio e la corruzione. Ad esempio, continua a non essere previsto il reato di autoriciclaggio”. Tra gli obiettivi fissati dalla Alfano anche quello “di predisporre un piano di contrasto a livello europeo, con la previsione di un testo unico antimafia, che permetta in tutti i paesi dell’Unione Europea di punire la partecipazione ad organizzazioni mafiose, di aggredire i patrimoni criminali e di contrastare efficacemente i fenomeni corruttivi e il rici-
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claggio di denaro, compreso quello attraverso il sistema finanziario”. Riforme importanti quanto necessarie. Non a caso Antonio Ingroia ha detto sì al lavoro in Guatemala dove le Nazioni Unite gli hanno chiesto di dirigere una Commissione internazionale contro l’impunità. Il procuratore aggiunto, spiegando le proprie motivazioni, ha ribadito: “è fondamentale potenziare l’azione di contrasto su scala transnazionale. L’Italia, che suo malgrado ha esportato la mafia, ora deve portare all’estero anche l’antimafia sotto il profilo organizzativo e strategico. In Guatemala la Commissione contro l'impunità in Guatemala ha diverse funzioni: la prima è legislativa, con supporto di conoscenza per nuove leggi, l'altra è giudiziaria poiché a causa della grande corruzione in quel paese vi sono poche condanne e molte assoluzioni”. Una sfida internazionale “In questo quadro – ha aggiunto Ingroia - avendo io partecipato (per attività di investigazione e convegnistica) a numerosi incontri in Guatemala mi è stato offerto, dal capo di questo organismo che poi è l'ex governatore generale del Costa Rica, l'incarico di guidare l'unità di investigazione. con me collaborano una quarantina tra magistrati e poliziotti provenienti da tutto il mondo. Per me è una sfida affascinante. Vent'anni fa Giovanni Falcone per primo capì che bisognava rilanciare la sfida sul piano nazionale. Io credo che sia arrivato il momento di puntare al livello internazionale con un'azione che va pensata, coordinata e attuata. Bisogna contare su organismi stabili in cui ci si incontra e ci si confronta. Tanto in America quanto nell’Est, europeo e asiatico”.
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Memoria/ Giovanni Spampinato
Il compagno cronista Un mestiere così Nella Sicilia degli anni Settanta, fra mafia e strategie della tensione di Attilio Occhipinti Sei pallottole e Giovanni Spampinato muore. Ragusa, la notte del 27 ottobre 1972, perde un giovane giornalista, fatto fuori perché faceva bene il suo lavoro, che, secondo alcuni, coincide col ficcare il naso in faccende poco chiare. Troppo scomodo in questo caso, soprattutto dopo che aveva documentato l’alleanza fra gruppi neofascisti e criminalità organizzata. Era corrispondente de L’Ora e dell'Unità ai tempi della “strategia della tensione”. Sono trascorsi quarant’anni da quella notte e i Ragusani non sembrano ricordare molto la figura di Giovanni Spampinato. Che il giornalismo d’inchiesta, quello che narra il marcio, quello che denuncia la corruzione e inchioda i criminali, sia pericoloso è risaputo. Non si rischia solo di essere ammazzati. Ma anche di essere dimenticati, che poi è come morire. Li chiamano i rischi del mestiere. «Questo atteggiamento di fiducia nel proprio mestiere, di giornalista che tiene gli occhi bene aperti, credo sia il primo insegnamento che possono trarre dalla sua breve esperienza di vita i giovani di oggi»: questa è l’eredità di Spampinato secondo Carlo Ruta, giornalista d’inchiesta, autore di “Morte a Ragusa” (2004), che fa luce sulla storia del cronista. Lo stesso Ruta è stato al centro di una vicenda che l’ha visto coinvolto, suo malgrado, con l’accusa di stampa clandestina. Per questo è stato condannato nel 2008, ma assolto dalla Corte suprema di Cassazione nel 2012, in quanto la presunta “clandestinità” di cui era stato accusato non può essere estesa ad un blog su internet. Da ricordare anche l’episodio in cui, una notte, gli viene rubata la macchina con dentro le copie di “Morte a Ragusa”, che il giorno dopo sarebbero state distribuite.
«Negli ultimi anni Novanta, quando ho cominciato a occuparmi del caso, si trattava di una storia dimenticata, rimossa, tenuta in vita solo dal ricordo che custodivano dei fatti alcuni amici e compagni del giovane ucciso. Lungo quei sentieri mi sono trovato quindi a “incontrarlo” e a confrontarmi con la sua esperienza, con il suo punto di vista». L’esempio di Carlo Ruta è utile per analizzare altre sotie simili, dove un tipo di narrazione scomoda (tipicamente, l'inchiesta, trova ostacoli che rendono tortuoso il cammino verso la cosiddetta realtà dei fatti. Il “Clandestino” e gli altri «L'anno scorso abbiamo documentato il degrado in cui versava una parte dell'ospedale di Modica: quadri elettrici con l'acqua sotto, tubi rotti, rifiuti di ogni sorta. Abbiamo pubblicato un video e un articolo. La risposta non è stata "Provvediamo subito" ma "Vi quereliamo per procurato allarme e violazione di domicilio". Ovviamente non c'era nessun cartello che vietava l'accesso. Comunque alla fine, anche dopo le proteste di molti, la querela non è stata presentata. Non aveva senso. La cosa bella di questa storia è che quei settori che abbiamo visitato sono stati puliti subito dopo. Quindi avevamo ragione», dice Giorgio Ruta de Il Clandestino, mensile cartaceo di Modica nato nel 2006. «E’ vero che oggi per minacciare un giornalista si usa di più l'arma della querela che quella dell'aggressione fisica. A volte esistono querele che hanno soltanto lo scopo di intimidire, niente di più», continua Giorgio Ruta. Una querela è stata invece recentemente
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archiviata, quella della Busso Sebastiano S.r.l. nei confronti di Claudio Conti (Legambiente), Giulio Pitroso e il direttore della testata La Verità. A questo proposito Giulio Pitroso: «La reazione dei miei conoscenti alla querela è stata più vicina a un coro di 'telavevodetto', rispetto a un minimo accenno di vicinanza, termometro del fatto che la mentalità comune - senza voler troppo generalizzare - di Ragusa vive ancora in un senso di forzato perbenismo, per cui non ci si deve mai esporre apertamente». Forse siamo difronte ad un cambio di tendenza, poiché in passato si era solito ferire fisicamente gli “impiccioni”, mentre in questo presente sembra ferir di più la notifica del tribunale. Senza dimenticare gli espliciti atti intimidatori come quello subito dal giornalista modicano Saro Cannizzaro, collaboratore del Giornale di Sicilia, al quale fu bruciato il portone di casa nel settembre del 2011 oppure l’episodio che ha visto coinvolta Pinella Drago, giornalista sciclitana anche lei collaboratrice del Giornale di Sicilia, cui ignoti hanno incollato con della colla attack il lucchetto della cappella in cui riposa il defunto marito. In provincia c'è pure ScicliPress, cartaceo mensile, nato nel 2008. Ne parlano Bartolo Lorefice e Paolo Cirica: «Giovanni Spampinato vive e cammina con le gambe dei giovani iblei impegnati nel mondo del giornalismo (tesserati e non) e che, da free lance, danno dignità e lustro ad una categoria che, dalle nostre parti, ha proprio bisogno di nuova linfa. Penso al nostro ScicliPress, ma anche agli amici de Il Clandestino, di Generazione Zero e ai singoli disseminati in giro per la provincia: Roberto Sammito a Scicli, Andrea Sessa e Andrea Gentile a Vittoria.
“Un bel premio. Alla memoria”
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APPUNTI DI VIAGGIO DI UN 21 MARZO
Crediamo che Spampinato sarebbe orgoglioso del nostro impegno per una informazione con la schiena dritta». Il mosaico del giornalismo ibleo nel 2011 si è arricchito di un altro tassello, Generazione Zero, quotidiano online impegnato nella realizzazione d’inchieste legate all’ambiente e alle precarie condizioni dei siti archeologici, con un occhio di riguardo verso i giovani, gli immigrati, i precari.
di Giulio Pitroso
I giovani cronisti di ora Al giornalismo ragusano di nuova generazione dobbiamo accostare la tradizione incarnata da Sicilia Libertaria, il mensile anarchico, giunto al suo trentaquattresimo anno di vita, diretto da Pippo Gurrieri. Un esempio di giornalismo militante che ha fatto e continua a far parlare di sé anche oltre lo stretto di Messina. L’eredità e il ricordo di Giovanni Spampinato vivono nel lavoro dei giovani giornalisti ragusani che scrivono fino a consumarsi le dita, denunciando la corruzione e l’indecenza di certi ambienti dall’aria malsana. Eppure, tra la gente, lo si cono-
sce poco Giovanni Spampinato. Qui ne ne parlano poco e, magari, male. Perché “l”hanno ammazzato per un fatto di antipatia”, perché “era un giornalista azzardato”, perché “le chiacchiere non costano un centesimo”. Intanto nel 2007 il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha insignito Spampinato del premio Saint Vincent per il giornalismo alla memoria. Alla memoria, appunto.
Scheda GIOVANNI SPAMPINATO Città: Ragusa Mestiere: Studente di Filosofia/Giornalista per l’Unità, L’Ora, Dialogo Specialità: strategia della tensione, rapporti tra criminalità e neofascismo, archeomafie Assassinio: operato da Roberto Campria, sulla base di una presunta persecuzione nei suoi confronti da parte del cronista. Figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa, Campria sarà condannato a 21 in primo grado, a 14 in appello, ma ne sconterà solo 8. Campria era stato sospettato dal giornalista dell’omicidio dell’ingegnere Tumino, come lui vicino all’estrema destra e coinvolto nell’antiquariato. Riconoscimenti: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha consegnato alla memoria il Premio Saint-Vincent nel 2007. La quinta edizione del “Master in giornalismo investigativo e analisi delle fonti documentarie” di Milano, promosso dall’Associazione Giornalismo Investigativo, è stato intitolato alla memoria del giornalista siciliano Giovanni Spampinato nel 2011. La sala stampa della Provincia di Ragusa è stata intitolata a Giovanni Spampinato. Sul suo utilizzo si è aperta una ragionevole polemica, che ha visto addirittura documentare la scomparsa della targa commemorativa della sala stessa. Sospetti: non sono mai state aperte indagini sulla responsabilità di eventuali mandanti, ma è chiaro che diverse ipotesi, ben documentate nell’opera dello storico Carlo Ruta spingerebbero verso una rianalisi del caso. Nel n.9 de “La Verità”, giornale d’inchiesta diretto da Gianni Bonina, (che sul caso ha scritto un libro, recentemente rielaborato in “Il fiele e le furie”), lo stesso parla delle possibilità di riapertura del caso che sarebbero state costruite negli anni Zero; nel numero 10, l’allora Procuratore Fera replica ad alcuni passaggi dell’articolo. L’opera di Luciano Mirone ne “Gli Insabbiati” e “C’erano dei cani, ma molto seri” di Alberto Spampinato fanno molto riflettere sul caso. A distanza di quarant’anni si potrebbe cominciare a parlare di mandanti e di reti occulte, che avrebbero avuto l’interesse di eliminare questo giovane cronista. (g.p.)
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La pelle del bus era blu. I bagagli riposavano nel suo ventre e noi sulle sue scomode poltrone. Saremmo potuti andare con il viaggio organizzato, ma il nostro programma non poteva prevederlo. L’Unione degli Studenti (UdS), cui facevamo parte, imbastiva un coordinamento nazionale di un giorno dopo la manifestazione, approfittando anche dei rimborsi per le spese di viaggio di Libera. Così, a ridosso di quel 21 marzo 2010, XV giornata memoria e impegno in ricordo delle vittime delle mafie, partivamo verso Milano: manco a dirlo, tutto il carico del nostro bistrattato idealismo ci faceva sembrare questa storia di quasi picari una romantica avventura. Piero, allora coordinatore della sezione dell’UdS Ragusa, andava allo scientifico, all’ultimo anno. Era l’incarnazione dello stereotipo di Sinistra: i dreadlocks raccolti in una fascia, vari e lunghi discorsi in tasca, pretese di ragionevole cambiamento. Eravamo solo in due a partire, anche per via della fifa matta di essere bocciati che hanno gli studenti al secondo quadrimestre. Raccolto nella paura ben più concreta del freddo nordico, m’ero equipaggiato di eskimo in poliestere, diffidenza alle sale da barba, gigantesco zaino militare modello “Grande Guerra”, con sacco a pelo annesso; Piero optava per una sobria giacca a vento e uno zainetto reduce delle medie. Eravamo due profughi. Alle tre del pomeriggio, la corriera partì. Ci lasciammo alle spalle le livide pietre di Ragusa, l’insistente attitudine alla pioggia del suo cielo, la massa indifferente dei concittadini. Quest’ultima, nostra conoscente stretta, s’era palesata quando i megafoni della protesta gracchiavano contro Gelmini, Fioroni e Moratti, in piazze semivuote o mal riempite. Era successo, all’ombra dell’imperiale aquila, sull’asfalto a forma di M di uno spazio che i più vecchi chiamano ancora “piazza Impero” o di fronte alla lastra dei caduti per mano del fascismo, di faccia alla cattedrale, in piazza San Giovanni.
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“Un giornalista curioso”
La stazione di Catania ci si palesò come una cartolina dall’Inferno: dei signori arroganti dicevano agli autisti dove mettere la macchina, una vecchia orinava disinvolta quasi in mezzo alla gente e ovunque regnava una disperata calma apparente, interrotta dagli annunci di una voce-robot. L’attesa fu immensa. Terminò, quando cominciò il buon senso. «Ma sei sicuro che partiva alle sette?» chiesi io. Non abbiamo mai avuto talento per i dettagli, anche per quelli essenziali. Il nostro treno era già passato qualche ora prima, come diceva la scritta tatuata sui biglietti, che Piero teneva in borsa. La cosa ci costò qualche decina di euro e qualche ora. Partimmo di sera. Le discussioni inquiete, cui non si poteva trovare una fine, mentre il treno ci cullava con il suo verso cadenzato, il senso d’angoscia di una gioventù che si sa già senza futuro ci prepararono a un sonno profondo, che consumammo sulle brutte poltrone di uno scompartimento vuoto. Al mattino, ci svegliarono due poliziotti con un cane. Il nostro aspetto non ci aiuta-
va. «Dove siete diretti?». Manifestazione nazionale antimafia. «No Mafia Day?». Non sapevamo che fosse e loro sapevano della nostra. Imbarazzante silenzio. Avevano un accento che profumava di soppressata. Eravamo da qualche parte in Calabria; l’aria del mattino era splendida. «Arrivederci».
Scheda L'ARTE RICORDA GIOVANNI SPAMPINATO
Qualcuno del settore, pessimista, ci dice che gli artisti sono autoreferenziali, non interessa loro fare certi discorsi, neppure fuori dai cd.
Canzone “Questa è la triste storia di Giovanni Spampinato,/cronista del ragusano che cercava la verità./Da solo andò /fino in fondo, ma poi venne ammazzato/dal figlio di un magistrato e dai silenzi di una città” fa il pezzo del pozzallese Filippo Susino, “Lone Wolf”. A tutt’oggi, è l’unica canzone che perviene sul tema, a quarant’anni dalla morte del giornalista. «La storia di Spampinato io l'ho conosciuta tanti anni fa tramite un libro di Carlo Ruta. Mi sono subito appassionato del suo personaggio e mi sono documentato più approfonditamente... E dopo circa 2/3 anni mi sono deciso a dedicargli una canzone!» dice il ventinovenne, ex bassista degli Skaramanzia. «Lui era nominato da tutti "lupu solitariu" perché conduceva le indagini sempre da solo... Era una persona diffidente.... Per questo Lone Wolf (dall'inglese "lupo solitario")». I più, però, di Giovanni Spampinato non sanno nulla.
Teatro “L’Ora di Spampinato” è un lavoro portato avanti da Danilo Schininà e Vincenzo Cascone, finanziato anche attraverso libere sottoscrizioni. Il prodotto verrà presentato in via definitiva nel quarantennale della morte del giornalista, il 27 ottobre 2012. Danilo Schininà, insieme a Roberto Rossi, è anche autore de “Il caso Spampinato. Inchiesta drammaturgica”. «Per me dar voce a Spampinato ha una doppia importanza. Da un lato, mi riempie di orgoglio e di responsabilità interpretare- anche se solo vocalmente- un personaggio realmente esistito, che ha vissuto le strade e le piazze che vivo anche io ogni giorno, un giovane curioso e brillante come anche io spero e sogno di essere che ha inevitabilmente scritto una pagina importante di storia della nostra città, portando la gente del tempo ad interrogarsi su cose che stavano un po' più in basso della superficie. Dall'altro lato, è compito
del progetto "L'ora di Spampinato", quindi anche mio, togliere la sabbia che in questi pochi decenni si è venuta a creare intorno a questa faccenda, sabbia che ha impedito a moltissime persone- specie della mia generazione- di venire a conoscenza della storia e della vita di Giovanni Spampinato, e di tutto il suo impegno politico e professionale» dice Giovanni Arezzo, giovane attore ibleo già diplomato alla “Silvio D’Amico”.
D’altro canto, Ragusa era stata una capitale del manganello nero, ai tempi dell’ascesa del duce, vuoi la mancanza di latifondo, vuoi lo scarso radicamento mafioso. Era come il nord. Di questo si è sempre vantata la gente di qui, di essere diversa dagli altri isolani. Isola nell’isola. Quando Ragusa esportava fasci Poiché non è auspicabile cominciare il percorso su rotaia dagli Iblei e volendo noi viaggiare a bassi costi, la nostra prima tappa fu la stazione ferroviaria di Catania. Negli anni della strategia della tensione, Ragusa arrivò ad esportare ed importare neofascisti, in un triangolo speciale con Siracusa e Catania. Quest’ultima oggi si raggiunge dal capoluogo ibleo in circa due ore, a fronte di un centinaio di chilometri: le migliorie al percorso sono state segnate da una lotta politica tra Vito Bonsignore, cugino di Firrarello (Pdl), e Raffaele Lombardo.
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Da qualche parte in Calabria Molti Siciliani pensano che la Calabria sia una terra di disperazione e miseria. Sembra il colmo. La peggiore maledizione dei Siciliani è, infatti, quella di credersi i migliori al mondo. Per questo ci interroghiamo spesso del perché qualcuno non valorizzi veramente la nostra terra. Quando qualcuno arriva dal mare, sia egli di Washington o di Roma, e impone il suo sfruttamento, noi pensiamo che sia il nostro salvatore, mentre lui s’impone anche su chi vive una storia altrui, come la chiamava Carlo Levi.
Cinema C'è una sceneggiatura mai tradotta in pellicola, “Il caso Spampinato – morte di un giornalista curioso”, che ha ricevuto una menzione speciale al Premio Mattator. «La sceneggiatura su Spampinato, nonostante abbia avuto un riconoscimento importante a livello nazionale, a Ragusa è stata ignorata anche da chi avrebbe potuto avervi interesse. La sceneggiatura è stata anche sottoposta alla Rai tramite uno sceneggiatore televisivo che faceva parte della giuria del concorso per sceneggiature Mattador 2011» dice Francesco Greco, uno degli autori. (g.p.)
“Un vecchio titolo di giornale”
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E chi solleva dei dubbi? Si pensi al giornalista che sospettò dei legami tra un imprenditore greco, un certo Mephalopoulos, venuto a spendere grana a Siracusa, e il regime dei Colonnelli: finì ammazzato e la sua città si distrasse dalla sua scomoda memoria. Nella città imperiale di Roma, cambiammo treno. Da lì fu tutto svelto. Le mie speranze di arrivare in tempo, si fecero, però, tenui. La piana, un po’ imbronciata, ci scorreva accanto, attraverso i finestroni. Cielo grigio. Nonostante la fama dei treni nordici, non recuperammo. Fummo a Milano che tutto era già finito. Non ci restò, allora, che dirigerci verso il coordinamento UdS. A Rogheredo, in stazione, aspettavamo un treno, quando ci accorgemmo che, intorno a noi, altri ragazzi aspettavano il mezzo con la stessa aria da naufraghi. Col naso rotto dai nazisti C’erano un diciassettenne genovese biondo, una ragazzina vestita da scout, accompagnata da un fidanzato alto e barbuto. Non fu difficile riconoscersi e parlarsi. Difficile fu, invece, mandar giù il boccone amaro delle cose che dicevano i compagni: come se un impero crollasse in mano ai barbari. A Padova un adolescente con il naso rotto dai nazisti, a Genova la scomparsa progressiva del sindacato, a Ragusa la cronica difficoltà di ricambio con nuove leve e, su tutto, l’aria di divisione e conflitto tra gruppi di tutta la penisola. Arrivati a destinazione, in un paesino della Pianura Padana, trovammo ragazzi da tutta Italia che stavano già discutendo, divisi in gruppi di lavoro. Molti erano i generali, i capi e vicecapi di questo esercito, che si rivelava, in realtà, friabile. C’era chi contestava la Cgil, chi temeva gli autonomi; tutti volevano “incidere su determinate tematiche che stanno a monte”. Fumanti sigarette a margine delle riunioni, mentre qualcuno rischiava di innamorarsi. Esclusi i capi, nessuno superava i vent’anni. In serata fu allestita una mensa dagli scout locali, che, con cortesia e disciplina, ci servirono della buona pasta rimestata in un pentolone.
«Vegetariano?» chiese la ragazzetta con il mestolo in mano. No, grazie. Qua e là, i meridionali imbastivano cori e altre goliardate. Mentre affondavo la forchetta, entrò uno scout con un’icona dall’aspetto familiare, in bianco e nero. “Era di Ragusa”, dissi Era la foto di Giovanni Spampinato, un giornalista di Ragusa, ucciso tanti anni fa per aver fatto bene il suo lavoro. «Era di Ragusa» dissi al ragazzo, che, dopo avermi spiegato di come il suo gruppo lo aveva “adottato” per la manifestazione, accolse con nordico e partecipe distacco il mio goffo orgoglio. Nel tempo lontano - ma non troppo -, in cui Ragusa viveva una quotidiana violenza politica, connessa al crimine, Giovanni Spampinato era un ragazzo di 26 anni, uno studente, un giornalista, di Sinistra.
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Le avrebbe capito bene, le nostre angosce. All'amica Angela Fais scriveva così: “Come vedi va tutto bene. Con Giacomo si lavora alla perfezione, certo resta sempre il problema economico, il lavoro mi assorbe molto e rende poco. Ieri Nino G. mi ha accennato alla possibilità di una mia utilizzazione a Catania, sempre come collaboratore. Dovremmo parlarne con più precisione. Certo che, in un modo o nell'altro, debbo trovare una sistemazione che mi consenta un minimo di indipendenza economica. E questo, stando a Ragusa, non credo sia possibile. Tra l'altro, ho la ragazza che studia a Roma, e il fatto di vederci solo nelle feste crea problemi. Comunque, non so proprio cosa farò”. *** E noi che oggi non ci troviamo in condizioni diverse, ci permettiamo di pensare che è come se avessero fatto violenza pure a noi.
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Kanjano e Carlo Gubitosa
la mia terra la difendo un ragazzo, una protesta, una scelta di vita
Introduzione di Don Luigi Ciotti Prefazione di Riccardo Orioles Con un ricordo di Andrea Camilleri Formato 15x21, 80 pagine, b/n ISBN 9788897194033 12 euro richiedilo su su www.mamma.am/giuseppe
L
a rabbia e la speranza di un ragazzo innamorato della sua terra. Un viaggio nel cuore della Sicilia per riscoprire la storia di Giuseppe, il ventenne di Campobello di Licata che ha affrontato “il pregiudicato Sgarbi” con una telecamera, due amici e un pacco di volantini. Ventidue anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, cittadino indignato per passione. Il volto di Giuseppe Gatì è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contesta-
zione che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva il Pool Antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Carlo Gubitosa e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione sterile, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita che ha molto da insegnarci.
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Quante lotte, e quante volte coi denti stretti e i pugni in tasca ti sei “arraggiato� contro lo schifo che ti circondava.Non so se da qualche parte hai visto quello che hai lasciato (...)
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vivo in campagna, ed ogni giorno che passa, mi innamoro sempre più delle mie caprette. ho deciso di rimanere qui, in questa terra bellissima e maledetta, vivendo onestamente, rifiutando il compromesso e l’illegalità. non ho voluto lasciare tutto, come hanno fatto e continuano a fare in tanti. io voglio vedere crescere i miei figli tra il candore dei mandorli in fiore e sotto l’ombra degli ulivi.
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gli autori Kanjano
Al secolo Giuliano Cangiano, è un cantastorie per bambini e per adulti. Da una quindicina d’anni naviga tra la satira, il fumetto e il racconto per l’infanzia: ciò che conta è raccontare, il mezzo adatto cerca sempre di trovarlo. Laureato in Filosofia con una tesi su Andrea Pazienza, ha lavorato come autore satirico per L’Erroneo, Pizzino, Emme (L’Unità), Paparazzin (Liberazione), Il Male e L’Antitempo. Ha pubblicato, con Gianluca Ferro, “L’estate di Michele” per Sergio Staino e “Jano&Drilla” per DedíA Edizioni. Collabora con parecchie riviste online e su carta ed è direttore editoriale di “Mamma!”, rivista di giornalismo a fumetti e satira. Si guadagna da vivere col design di cose che non indossa e facendo l’illustratore.
Carlo Gubitosa
Giornalista per mestiere, ingegnere per necessità, fumettista per passione. Scopre il potere della scrittura satirica e del fumetto sulle pagine del quotidiano Liberazione, dove ha tenuto a battesimo l’inserto di satira “Paparazzin” assieme a Mauro Biani, celebrandone anche il funerale. Per ripicca, assieme ad un gruppo di satiri, giornalisti e fumettari ribelli ha fondato nel 2009 la rivista di giornalismo a fumetti Mamma! (www.mamma.am). Ha collaborato con molte testate italiane di satira come Il Male, Emme, Il Misfatto.
le altre novità il pazzo mondo a stelle e strisce manuale a fumetti per capire gli stati uniti
Formato 20x20, 96 pagine a colori
ISBN 9788897194040 15 euro www.mamma.am/tomtomorrow
l’eroe dei due mari taranto, il calcio, l’ilva e un sogno di riscatto
Formato 15x21, 96 pagine b/n
ISBN 9788897194064 10 euro www.mamma.am/eroedeiduemari
mauro biani chi semina racconta sussidiario di resistenza sociale
Formato 17x24, 240 pagine a colori
ISBN 9788897194057 15 euro www.mamma.am/maurobiani
NEL MONDO DI TOM TOMORROW il pinguino Sparky ci guida attraverso le nevrosi della società statunitense con editoriali che parlano di guerre, inganni governativi, manipolazioni mediatiche, turbocapitalismo, estremismo politico e fanatismo religioso. Un genere di racconto nato sugli “alt-weeklies”, i settimanali di informazione alternativa statunitensi. Un cocktail a fumetti di passione calcistica, malapolitica e inquinamento, nato da un romanzo di successo e arricchito dai dati di cronaca che hanno portato il “caso Taranto” alla ribalta nazionale. A metà tra il calcio moderno e quello di provincia, la bellezza e il degrado, il sorriso e il lutto, le vicende di Taranto diventano un simbolo delle lotte di tutti i sud del mondo impegnati a difendere la propria dignità contro poteri più grandi di loro. Il meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie.
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Testimonianze
Napoli a piena voce Un libro collettivo di Napoli Monitor Napoli a piena voce è un libro collettivo. In primo luogo perché scritto a più mani: quelle di chi lavora nella redazione di Napoli Monitor, per far si che il giornale possa arrivare ogni mese in edicola, e ogni giorno proporre dei nuovi contenuti sul sito internet. In secondo luogo perché raccoglie le voci di decine di persone, che raccontano la città attraverso le vite e le esperienze di chi la abita. Raccontare la città “Ogni due anni la redazione lavora a un libro che approfondisce i temi del mensile, prendendo più tempo per l’indagine e più spazio per la scrittura. Quello che avete tra le mani è il terzo della serie, un po’ diverso dai primi due, pensati come raccolte di reportage con un filo conduttore comune. Stavolta volevamo un libro più omogeneo, in cui l’impronta di ogni autore risultasse più leggera e la composizione dei singoli tasselli rendesse subito chiaro, e se possibile rafforzasse il disegno complessivo. Grazie a un articolo di Sandro Portelli sul Manifesto, avevamo scoperto i libri di Louis ‘Studs’ Terkel, maestro della storia orale statunitense e conduttore per quarant’anni di un programma di interviste alla radio. L’articolo di Portelli gli rendeva omaggio.
Terkel era appena scomparso, all’età di novantasei anni, ma per fortuna esisteva un’antologia in italiano, piena di bellissime interviste tratte dai suoi libri sui grandi temi della storia degli Stati Uniti. Ci trovammo delle somiglianze con il nostro modo di raccogliere storie e decidemmo di lavorare a questo libro tenendo in mente il suo modello”.
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Napoli a piena voce Autoritratti metropolitani di Luca Rossomando con Marco Borrone, Andrea Bottalico, Alessandra Cutolo, Salvatore De Rosa, Carola Pagani, Salvatore Porcaro, Riccardo Rosa, Viola Sarnelli, Davide Schiavon Bruno Mondadori Editore
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Roberta Lanzino
Una storia di violenza, morte e 'ndrangheta Tratto dalla grafic novel Roberta Lanzino (Ragazza) di Celeste Costantino e Marina Comandini
In libreria e online dal 26 ottobre
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Roberta Lanzino ha 19 anni, vive con la sua famiglia a Rende (provincia di Cosenza), è una studentessa universitaria al primo anno, studia Scienze economiche, è bella e ha un Sì della Piaggio di colore blu. È il 26 luglio del 1988 e Roberta, proprio con il suo motorino, va verso la casa al mare. I suoi genitori Franco e Matilde sarebbero partiti pochi minuti dopo a bordo della "Giulietta" di famiglia. Roberta quella mattina indossa dei jeans blu, una maglietta rosa salmone e gli occhiali da sole. Per questioni di sicurezza Roberta imbocca una strada secondaria. Purtroppo perde l'orientamento, si smarrisce. Due uomini con una Fiat 131 le stanno alle calcagna e al momento giusto le tagliano la strada, la violentano, la colpiscono senza pietà al collo e alla testa con un coltello, conficcandole poi in gola una spallina per strozzare le urla. Muore soffocata, Roberta. Il suo corpo viene ritrovato alle 6.30 del mattino dopo. Le indagini partono subito ma la verità arriverà soltanto nel 2007. I Sicilianigiovani – pag. 55
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Società civile
Non tutte le antimafie portano in paradiso Cosa vuol dire fare antimafia senza esserne dei “professionisti”? di Salvo Vitale Anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto, Marco Travaglio ebbe a dire: “Magari ce ne fossero tanti professionisti dell’antimafia!” Ma si rivolgeva a chi dell’antimafia ha fatto una professione di vita, una scelta ideologica e non un mestiere. Le categorie dell’antimafia nate in questi ultimi anni sono tantissime: proviamo a individuarne qualcuna: - L’antimafia di mestiere. C’è chi con la sigla dell’antimafia ci lavora, dà lavoro e vuole anche esprimere il principio che un’imprenditoria libera dalle catene della mafia è possibile. E’ il caso di prendersela con questi? Il riferimentoriguarda le due maggiori associazioni antimafia, Addio Pizzo e Libera. Nel sito di Addio Pizzo troviamo vera e propria agenzia di viaggi per realizzare una forma di turismo civile o impegnato, con visite guidate nei “luoghi” dell’antimafia, pullman, soste per i pasti e per gli acquisti, alberghi. Una parte minima della quota è offerta, come contributo, ai titolari delle strutture visitate (per esempio il museo della Legalità di Corleone o la Casa Memoria di Cinisi). Turisti a parte, esiste anche un progetto di Addio Pizzo sulle visite guidate delle scolaresche a Palermo: i prezzi variano da sette a dieci euro a testa, a seconda del numero e dell’itinerario. Per esempio, cento alunni che pagano sette euro a testa (pullman esclusi), frutteranno 700 euro che, solo per pagare le prestazioni di una guida, sembrano troppi. Su Libera si possono fare infinite altre illazioni, giustificabili nel momento che ormai si tratta di una struttura che coinvolge circa duemila associazioni che non è facile tenere sotto controllo.
Il bilancio 2010 (sul sito) a pareggio è di 3.047.710: la maggior parte delle entrate è alla voce “Istituzioni”, riferendosi certamente a progetti finanziati di educazione alla legalità nelle scuole. Il costo dei prodotti biologici (che sembrerebbe a prima vista incompatibile col mercato) mediamente risulta molto alto perché comprende il sostegno alle coop che agiscono in territorio difficile per portare avanti il progetto rivoluzionario di un’economia che può fare a meno della protezione mafiosa. “Turismo civile e responsabile”? Una sottovoce a questo tipo di antimafia è quella che Telejato ha chiamato “l’antimafia in pizzeria”, suscitando le ire di Giovanni Impastato che ogni anno organizza, in uno spazio continuo alla sua pizzeria, alcune iniziative fatte di relazioni su temi specifici. Come poi ha precisato lo stesso Pino Maniaci, “Il problema economico, ci rendiamo conto, vuole anche il suo spazio: anche se con i compagni di Peppino non è mai successo, nessuno si scandalizza se qualcuno dà un contributo per la gestione o per le iniziative. Ma se tutto questo diventa un “tour di turismo civile e responsabile”, con apposito pacchetto di viaggio, pullman, luoghi da visitare e contributo da versare, si va un po' oltre il fare antimafia e basta”. - L’antimafia religiosa. E' praticata in gran parte da scout che trovano una struttura, spesso religiosa, dove poter dormire, mangiare, pregare, e girano varie situazioni per apprendere qualcosa su realtà che spesso non conoscono se non per sentito dire. I riferimenti obbligati sono le figure di don Puglisi o di don Diana, martiri: va bene se si ha l’accortezza di distinguere tra una Chiesa che non ha mai preso le distanze dalla mafia, o si è lasciata inquinare,e una chiesa militante dove singoli preti (don Ciotti, don Gallo ecc.) hanno preso forti posizioni di condanna e di distanza. Qualche difficoltà nasce dall’attribuzione, fatta dall’Espresso di “Papa antimafia” a Ratzinger, per il solo fatto di avere espresso parere favorevole alla richiesta di beatificazione di padre Puglisi. E’ davvero troppo poco e non pare che finora
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papa Benedetto si sia distinto per avere espresso un chiaro anatema come quello gridato dal suo predecessore Wojtila nella Valle dei templi, nel 1993. - L’antimafia di parata. E' la più praticata: ormai è d’obbligo come minimo partecipare, per l’anniversario della morte della vittima, a una messa in memoria, cui sono invitati gli uomini in divisa, i parenti, qualche giornalista con telecamera, le autorità, compreso il sindaco, e altri rappresentanti istituzionali. Per i rappresentanti delle forze dell’ordine la parata può anche essere esteriorizzata con il trombettiere che suona il "silenzio", mentre tutti tacciono, assumono una faccia triste, e i militari presenti si schierano con la mano destra aperta a taglio sulla fronte per il saluto militare. Ultimamente, prima con Rita Atria e poi con Rostagno, sta venendo in uso una piccola cerimonia laica al cimitero, davanti alla tomba del caduto. In altri casi si dà luogo a un capannello per scoprire una lapide o una targa di intestazione di una strada, oppure a un corteo: quello che ha avuto continuità e partecipazione numerosa, e contenuti, è quello che ogni 9 maggio si snoda da Terrasini a Cinisi per ricordare Peppino Impastato. L'antimafia dei convegni Strettamente collegata è "l’antimafia dei convegni", con relatori più o meno importanti latori di testimonianze personali, oppure esperti che si dilungano in dotte relazioni bla-bla, con linguaggio incomprensibile e certamente non rapportato ai livelli di preparazione di chi ascolta; il tutto con biglietto, albergo e pranzo prepagati, preceduto da un manifesto, da una locandina e dall’indispensabile presenza dell’operatore televisivo, con relativa intervista. Difficile constatare che, chi esca dopo avere ascoltato, possa anche avere interiorizzato qualcosa che lo porti ad operare con più coscienza su questo difficile terreno. Per non parlare delle megaparate organizzate in occasione del 23 maggio, per ricordare Falcone, con nolo di navi, distribuzione di magliette, borsette, berrettini ed altri gadget e allegri schiamazzi, il tutto con spese alte.
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“Il metodo è quello di Danilo Dolci: abituare la gente ad acquistare un modo di pensare autonomo” - L’antimafia scolastica. Da alcuni anni i piani dell’offerta formativa prevedono progetti di “educazione alla legalità”, approvati dal Collegio dei docenti e finanziati, in parte con le magre risorse delle scuole, in parte con i fondi regionali (POR), nazionali (PON) o europei (FERST). Si tratta di presentare articolati progetti con formulari precisi, dettagliato utilizzo delle somme, da giustificare al centesimo, e che in parte vengono distribuite tra ore da pagare ai docenti e non docenti,, spese per l’intervento di eventuali relatori e formatori, spese per pubblicizzare l’evento, spese per la costruzione di un “prodotto”, da allegare alle note giustificative. “A scuola non si parla di mafia” Negli interventi finali la scuola assicura un pubblico, quello degli studenti, felici di uscire per qualche ora dalla loro aula e curiosi di ascoltare qualcosa di diverso: sui docenti ci sarebbe da fare un discorso a parte, considerato che alcuni approfittano di questi momenti per "evadere", magari andare a fare la spesa o sistemare il registro, altri, ma solo per far credere che lavorano, sporgono forti lamentele al preside, perché vengono sottratte loro “ore di lezione”, altri ancora sparano giudizi feroci, come: ”I ragazzi sono stanchi di sentir parlare di mafia”, oppure: “E’ stato tutto un momento di indottrinazione politica di sinistra”. Oppure, ma questo l'ha detto anche il sindaco di Trapani, che "a scuola non bisogna parlare di mafia, per non mettere paura agli studenti, ma meglio parlare di altro, di gastronomia per esempio". Molti preferiscono non occuparsene Non ci occuperemo di costoro, ma del fatto che non basta e non può bastare una conferenza a formare sensibilità e coscienze antimafia. Anche l’articolazione dei singoli progetti, rivolti per lo più a un’utenza di una ventina di ragazzi, non serve, se produce qualche cartellone, qualche coretto con l’immancabile “I cento passi” dei Modena o “Pensa” di Fabrizio Moro, o ancora qualche filmato con immagini prese da Internet. Tali progetti hanno qualche possibilità di risultato se diventano patrimonio e obiettivo di tutti i docenti, momento centrale dei loro piani
di lavoro, da coordinare con i contenuti della disciplina che si insegna, in linea con quanto portato avanti dagli altri docenti. E, a parte la buona volontà di pochissimi, moltissimi preferiscono non occuparsi della questione. In ogni caso, anche queste forme spesso improvvisate del “fare antimafia” vanno incoraggiate e messe in atto, perché, diceva Sciascia, “Per sconfiggere la mafia ci vorrebbe un esercito di maestri”. L'antimafia sociale - L’antimafia sociale. La definizione è nata a Cinisi, con il Forum Sociale Antimafia, nel 2001, e si riferisce alla scelta militante di essere costantemente presenti in tutti i momenti di lotta che nascono sul territorio, di appoggiarli, di considerarli come momenti di costruzione di una “resistenza” al sistema mafioso, sull’esempio di quella che era la lotta di resistenza al nazifascismo. E’ una scelta d’impegno e di sacrifici, perchè implica dedizione, convinzione e lavoro sociale, oltre che politico. Si tratta di dare una precisa direzione, alla propria vita e a quella delle persone con cui lavori, attraverso la denuncia, la manifestazione, se è necessario l’occupazione: come con la partecipazione alle lotte degli operai della Fiat di Termini, ai No-Tav in Val d’Aosta, al neonato movimento No Muos contro le antenne Usa a Niscemi, ecc. Anche la costante presenza nelle scuole o nelle associazioni che organizzano momenti d’impegno civile è un passaggio di questa antimafia militante. L'informazione ufficiale - L’antimafia informativa. Come al solito c’è un’informazione di massa, “ufficiale”, di ciò che è consentito dire, e un’informazione periferica, ristretta, difficile da diffondere, priva di mezzi, ma ricca d’impegno, che stenta a farsi spazio.
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La prima ha a disposizione i grandi mezzi e le grandi testate: è quella che costruisce eroi, che nasconde criminali politici o ne addita solo alcuni al pubblico ludibrio, in rapporto alle indagini dei magistrati e delle forze dell’ordine o in relazione alle scelte dello schieramento politico per cui lavora il giornalista. In questo contesto tutto sembra in ordine, pare che i principali mafiosi siano stati arrestati e che la mafia stia finendo; non si parla, se non di straforo dei fili che legano onorevoli e camorristi, impresari e forze istituzionali corrotte. Insomma, il solito mondo dorato dove basta individuare qualche responsabile alla Cuffaro, cui far pagare tutto, affinchè tutto resti per com’è sempre stato. L'informazione dei volantini L’altra antimafia mediatica è quella che si serve dei volantini, del retro bianco dei manifesti per scrivere un messaggio, di qualche scalcagnata radio, come lo era Radio Aut, e di qualche altra scalcagnata emittente televisiva com’è Telejato. Il metodo è quello di Danilo Dolci: abituare la gente ad acquistare un modo di pensare autonomo, a rendersi conto che si trova in un insieme di situazioni che li usa come vittime, come consumatori, come elettori, come destinatari finali di progetti costruiti non per essere al servizio della comunità ma per autoaffermazione e arricchimento. Vent’anni di berlusconismo hanno fatto il deserto e creato generazioni di giornalisti leccaculo, mentre si studiano nuovi meccanismi di controllo, soprattutto sulla pubblicazione delle intercettazioni. Carcere e diffamazione C’è voluto il caso del ventilato carcere per Sallusti per porre all’attenzione un problema vecchio, la diffamazione a mezzo stampa e le sue conseguenze penali. Il tutto con l’avvertenza che spesso si tratta di persone insospettabili e che sbattere i loro visi in prima pagina può provocare imprevedibili reazioni. *** Nota: questo articolo rimane aperto ad eventuali contributi di quanti credono all’esistenza di un’antimafia “militante” e di quanti sono rimasti delusi da altre antimafie.
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Italia
La fine della politica La modernità e il laboratorio per ciechi di Saramago di Pietro Orsatti
Apro, inevitabilmente, con lo sberleffo anche demagogico. Non è possibile astenersi. Il ministro Cancellieri ha recentemente paragonato l’attuale crisi di legalità e credibilità del sistema politico (dal livello nazionale a quello regionale) “una nuova Tangentopoli”. Ritorno con la memoria a quel biennio 92/93 e devo ammettere che, se ci si limita non solo al piano del malaffare e della corruzione, in realtà il paragone è fin troppo minimalista. La crisi economica e finanziaria di oggi è di gran lunga peggiore di quella già molto pesante del ’92, come il livello di distruzione sistematica del sistema industriale e produttivo del paese realizzato in questi vent’anni. Senza contare lo sbracamento sconcio del livello culturale e “ideologico” della classe dirigente italica, che quando cerca di assumere un carattere austero, come quello che ci spaccia l’attuale “tecnicità” presunta panacea morale (basti vedere quali siano i criteri etici di selezione
all’interno delle tante Bocconi e Luis e dei cda di aziende e fondazioni per averne un’idea), diventa ancor più nauseante. Nostalgia (quasi) dell’arrogante ma alto e spietato intervento in correo di Craxi alla Camera dei deputati nel ’92. Nostalgia, obbligatoria, se andiamo a guardare gli atteggiamenti arroganti e la finta indignazione di quella sorta di attempata comparsa di uno spettacolo di Lady Gaga che si è incatenata alla poltrona di governatore della Lombardia al secolo Roberto Formigoni o dello svacco coatto di quell’ultrà da curva Nord che ci ha propinato in un mix devastante di vittimismo e decisionismo da talk show di gossip Renata Polverini nel Lazio. Da prassi illecita a cultura E proprio partendo da queste due regioni diventa evidente la continuità e il legame storico e strategico fra l’attuale crisi e quella emersa nel ’92 con l’arresto di Mario Chiesa. Un’evoluzione/ degenerazione progressivamente trasformatasi da prassi illecita a cultura. E deflagra, nello scoperchiamento della cloaca politico/affaristica, una delle più oscene truffe mediatiche che ci siano state propinate in questi vent’anni: la bontà del decentramento e del federalismo come panacea contro gli effetti degenerativi della prima Repubblica. Un decentramento e un federalismo che hanno al contrario prodotto la crescita esponenziale dei doppi incarichi, dei
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soldi spesi, delle tasse, delle metastasi dei comitati d’affari, degli sprechi e del clientelismo di massa. Le parentopoli oscene messe in atto dal centro destra nella Capitale non sono esclusiva del giù orrido sistema del potere di Alemanno ma anche dello speculare potere porchettaro della Polverini. “Annamo a magnà, ce n'è per tutti” Ritorna alla memoria quell’incredibile siparietto tamarro della pajata e polenta in piazza Monte Citorio con l’apoteosi di menti bisunti, schizzi di sugo, rutti e ghigni compiacenti che videro protagonisti i Bossi e i Maroni, i Polverini e gli Alemanno. Dita unte e grasse esposte davanti al tempio del potere legislativo: “annamo a magnà, ce n’è per tutti”, il messaggio per nulla nascosto. “Se magna”. E hanno magnato. Nel nome del federalismo e del decentramento, della modernità mediatica che si è auto-lobotomizzata per non vedere come in meno di 4 anni i bilanci della politica nelle Regioni si moltiplicassero a dismisura. Modernità oleosa come una piastra per arrostire salsicce in una sagra di paese, come quelle che piacevano tanto al bulimico Fiorito. Che andava a tirare monetine a Craxi e poi si bonificava sui propri conti privati i soldi che sottraeva come fosse una moderna e distorta versione di Robin Hood ai bilanci già enormemente gonfiati e grondanti vergogna del suo gruppo consiliare.
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“Sì, signor ministro. Il manicomio”
Modernità che ha risucchiato tutti, non solo gli ingozzanti tifosi di Berlusconi. Tutti. Una modernità che vuole sangue e lacrime da coccodrillo da sparare in televisione e sui social network per assolvere la maggioranza del popolo della politica politicata da destra a sinistra e offrire i mostri più grotteschi dell’ubriacatura collettiva. Modernità che si riduce in banalità di 160 caratteri e, per fare esempi comprensibili, slogan da accidi sindaci toscani che si autodefiniscono il nuovo, i censori, i rottamatori, per offrire una pappa di slogan e banalità ben impacchettati al pubblico per nascondere la fame non sazia di chi è stato marginalizzato dal tavolo del grande banchetto. Modernità che è inventarsi un movimento di plastica condito da banalità e controllo orwelliano affarucoli editoriali e piacionerie narcisistiche come quello delle Cinque stelle che appena si avvicina alla realtà si schianta sulla propria inconsistenza paranoide. Modernità che è il sistema informativo di questo paese che è passato dal vendere le penne a mettere
in comodato gratuito le anime e i corpi del giornalismo italiano. A vedere come stiamo andando alle prossime e sempre più sconcertanti elezioni politiche e alle tante elezioni amministrative regionali e locali che ci rovineranno addosso nei prossimi mesi non si può certo essere ottimisti. E ancor meno pensare che si stia prospettando chissà quale rivoluzione. Non confondiamo un presunto scatto d’orgoglio con un peto. La continuità del potere Dopo aver ascoltato la dichiarazione disarmante e disarmata (e profondamente minimalista) del ministro Cancellieri mi è tornato in mente un brano di Saramago, che sarebbe stata una perfetta surreale risposta a quella ministeriali parole: “Sì, signor ministro, il manicomio, E allora vada per il manicomio, Del resto, sotto tutti i punti di vista, è quello che presenta migliori condizioni, perché non solo è circondato da un muro per tutto il suo perimetro, ma ha anche il vantaggio di essere costituito da due ali, una da destina-
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re ai ciechi propriamente detti, e un'altra ai sospetti, oltre a un corpo centrale che fungerà, per così dire, da terra-di-nessuno, attraverso cui coloro che siano diventati ciechi passeranno per andare a raggiungere coloro che lo erano già”. E’ l’assenza di idee ancor prima di dignità che lascia disarmati. Come se la caduta del potere per l’abuso delle proprie prerogative alla fine non alimentasse il rinnovamento delle persone e del senso di comunità ma la continuità del potere stesso. Ormai il manicomio è perfettamente costruito. E perfettamente organizzato. L’unica speranza che rimane, per sabotare la perfezione del meccanismo, è che in questo momento di traballamento si inseriscano come spine nel monolite del potere persone che impediscano l’omogeneità del flusso di scambio e malaffare. Creando dei piccoli cortocircuiti che risveglino quel poco di sinistra che ha ancora senso chiamare tale in questo Paese. Microscopiche speranze. A volte, temo, solo illusioni senili.
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Storie
Satripan cadupàn saleim Si svegliò nel cuore della notte, l’anziano pensionato... di Jack Daniel Si svegliò nel cuore della notte, l’anziano pensionato, inquieto come s’era addormentato. Era sdraiato sul divano, davanti al televisore ancora acceso ma ormai muto. Per qualche momento si sentì smarrito: perché non era nel suo letto? Ma poi, a poco a poco, i ricordi affiorarono: la sera prima, il suo desiderio di cambiamento, di ribellione, che l’aveva spinto a raggiungere quella vecchia sezione di partito vicino casa. Salvo scoprire che, nel frattempo, era diventata ben altro. Segni dei tempi, era finita l’epoca dei partiti di massa, era iniziata quella dei contatti personali, ancorché non sempre intimi. “Ricominciare dai bar” E quindi doveva cambiare tattica e strategia e la mattina dopo, di buon’ora, avrebbe iniziato la sua personale opera di mobilitazione. Rinfrancato, quando ormai albeggiava, guadagnò il letto, accompagnato da un “finalmente” della curiosa vicina che quasi stava cedendo al sonno. “Bisogna ricominciare dai bar”, si ripromise: aveva individuato in quei centri spontanei di aggregazione il luogo privilegiato per ripartire, per coagulare un movimento. E l’illuminismo, poi, non era forse nato nei Caffè?
Uscì in strada e, faticosamente si recò in un quartiere piuttosto distante. Lì arrivato vide un bar alquanto affollato e, quindi, promettente. Il suo programma consisteva nell’ ordinare un normale caffè al banco, aprire casualmente il giornale testé acquistato e lasciar cadere un qualunque commento su una qualche misura governativa. “Forse parla in santrito” Da quello, immaginava, si sarebbe innescata un’accesa discussione. Una fiammella sulla benzina. Ordinò il caffè con gesto sicuro, aprì quindi il giornale e, battendo le nocche sulla foto di un qualsivoglia ricco professionista, temporaneamente ministro “Pape satan, pape satan aleppe” si trovò a commentare. «Come, scusi?» chiese il barista. «Satripan cadupan saleim» proseguì l’anziano pensionato. «Non capisco.». E quindi chiarì meglio il concetto, e aggiunse una pertinente citazione letteraria, «Rin manavé bilian sutù». Seduti al tavolino, quattro studenti, in adorazione dell’ultimo Iphone, addirittura distolsero per un attimo gli occhi dal loro idolo. «Ma che lingua parla, quello?». «Mai sentita». «Secondo me è una lingua antica.». «Come il latino?». «Peg-
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gio, una cosa tipo santrito». «E perché quello parla così?». «Sarà un vecchio professore fuori di testa», e scrollando le spalle, ritornarono ai pii esercizi di devozione. Il silenzio regnò sovrano... Il pensionato, convinto non solo di parlar chiaro, ma anche di esprimere opinioni non certo banali, vedendo scorrere su uno schermo appollaiato in alto, a fianco del bancone, le immagini di ministri, politici e aspiranti salvatori della Patria, talvolta un po’ buffi e comici, si profuse in una lunga e acuta analisi che avrebbe messo in guardia chiunque dal soffermarsi su particolari di poco conto (oserei dire sovrastrutturali) come piccole ruberie o scandali, per concentrarsi, invece, sulle ben più pregnanti dinamiche sociali ed economiche del sistema occidentale e che concluse con «Rotales minca, toride gelu». Si guardò quindi attorno soddisfatto, certo di aver suscitato unanime e interessato consenso. Il silenzio regnò sovrano, seppur perplesso. Solo dopo un po’ fu rotto dal barista che, aprendogli i palmi delle mani davanti agli occhi (uno col pollice ripiegato) «Sono novanta centesimi. Novanta. Anderstend? Nainti.».
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Periferie
Quartieri DALL'ALTO Agglomerati grigi, case su case, mancanza di spazi verdi, scheletri di cemento incompiuti, assenza di luoghi di aggregazione sociale che non siano biliardi e circoli per anziani gestiti da una fatiscente presenza politica. All'essere umano che vi abita tutto sembra, o diventa col tempo, tragicamente normale. PerchÊ vengono progettati cosÏ certi quartieri periferici? A quale scopo? di Mara Trovato I Sicilianigiovani – pag. 61
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Dovrebbe cominciare tutto da qui. Il cambiamento, la rinascita, la speranza di un futuro migliore. Parole sentite e risentite, slogan elettorali a scadenza periodica. Parole che non fanno più presa, non destano interesse perché qui, nella periferia catanese, il tempo si è fermato. Politicamente e socialmente tutto deve restare così com'è, e quel preciso ordine di cose tramandato meccanicamente da generazione in generazione.
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Forse chi vive in questi quartieri il mondo dall'alto lo deve guardare con occhi grigi. Grigi di agglomerati di cemento, sporchi, trascurati, spenti come vecchi ed inutili bastioni dove tanta gente viene ammassata. Un pullulare di energie che è meglio sedare e convincere che non esiste alternativa migliore.
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"Visto così dall'alto, uno sale qua sopra e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre, che è ancora più forte dell'uomo e invece non è così! In fondo tutte le cose, anche le peggiori, una volta fatte poi si trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere. I balconcini, la gente ci va a abitare e ci mette le tendine, i gerani, la televisione e dopo un po' tutto fa parte del paesaggio, c'è, esiste, nessuno si ricorda più di com'era prima, non ci vuole niente a distruggere la bellezza…E allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e 'ste fissarie, bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla" Peppino Impastato
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www.isiciliani.it Primo maggio 1890
Sindacato
“Cara compagna Camusso...” Lettera aperta dalla Sicilia alla segretaria della più antica organizzazione sindacale di Gabriele Centineo
Cara compagna, ho appreso, nel corso di una riunione alla CGIL, che saresti venuta domenica 14 ottobre all'hotel Excelsior di Catania. Per un momento ho collegato l'evento alla drammatica crisi del lavoro che domina le nostre comunità ed alla necessità di preparare la manifestazione del 20, premessa, forse, di uno sciopero generale. Un'azione di lotta molte volte promessa, deliberata, minacciata e sempre rinviata in ossequio alla politica di unità nazionale che, Monti duce, il PD persegue ed impone. Una grave ingenuità la mia. Si tratta soltanto di una manifestazione elettorale di sostegno alla Segretaria Generale della CGIL Sicilia ed al suo candidato presidente Rosario Crocetta; ammetterai che si tratta di una scelta pesante, alcuni dicono sconcertante. Certo, nel tempo non sono mancate iniziative simili. Basterà ricordare, alle ultime amministrative, il tonfo della segretaria di Agrigento e, prima ancora, di Italo Tripi. Non sappiamo se analoga sorte colpirà Mariella Maggio. Il problema vero è che è in atto da anni, in forma pubblica o sotterranea, la tendenza a trasformare la CGIL in un comitato elettorale del PD e che questa tendenza è tanto più grande quanto minore è l'insediamento sociale delle due organizzazioni.
Ricordiamo l'esito infelice di Faraone a Palermo nonostante il visibile appoggio della SLC. Un caso di familismo sindacale che articola la più vasta categoria del familismo amorale. Ora il problema è questo: posto che la CGIL ha dichiarato l'incompatibilità tra cariche sindacali e mandato elettorale, e conseguentemente l'indisponibilità delle strutture nella competizione, cosa deve intendersi per struttura? La/il Segretaria/o è una struttura. È naturalmente del tutto legittimo che la compagna Camusso si batta per le sue idee, ma è del tutto inopportuno che entri così pesantemente in campo. Il problema è ulteriormente complicato dalla natura della coalizione che viene a sostenere e che è in assoluta continuità con la devastante esperienza Lombardo e dalla manifesta volontà, al di là della concorrenza elettorale, di ricongiungersi, nel governo, delle due frazioni in cui si sono divisi i lombardiani: Crocetta e Micciché. E che di unità, sotto l'egida della Confindustria Sicilia, si tratti è mostrato dal reciproco riferimento alla manifestazione interclassista, di unità sicilianista, del 1° marzo, unica originale iniziativa del sindacato siciliano. Il disastro Lombardo Che l'esperienza Lombardo sia stata disastrosa ci è stato detto chiaramente dalla Corte dei Conti, dalla UE, da tutti. È facile, è ragionevole, chiunque lo capisce, ma è una semplicità che è difficile da fare. Così è stato per il PD siciliano che, dopo lacerazioni interne, ha minacciato, a dimissioni di Lombardo già annunziate, una mozione di sfiducia, ma non ha avuto il coraggio di presentarla. Come diceva don Abbondio, non c'è nulla da fare: se uno il coraggio non ce l'ha non se lo può dare. È stato difficile trovare nella CGIL siciliana qualcuno che abbia dato un giudizio positivo su Lombardo. Mariella Maggio ha sempre dosato i suoi commenti, spesso
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analiticamente acuti, ma non ha mai mosso un muscolo per interrompere quell'esperienza. Solo tu, in un'intervista alla Sicilia, quando già incombeva sul Presidente l'inchiesta Iblis, hai dato una valutazione moderatamente ottimista: avevamo sorvolato pensando "viene dal continente, non sa di che cosa parla, cu sapi chi ci 'ncucchiaru". Ora comunque, se Crocetta ti sta bene, bene! Ognuno porta su di sé la croce delle proprie responsabilità. L'idea di solidarietà Ma se non possiamo convenire su questo giudizio, almeno possiamo condividere valutazioni, diciamo, di natura estetica: Crocetta è impresentabile. Nelle sue lunghe dichiarazioni alla stampa, nelle decine e decine di pagine a pagamento sui quotidiani e settimanali, il suo è un linguaggio violento verso gli avversari, o, più semplicemente, verso quelli che non condividono il suo percorso. A questi spettano o gli appellativi di checche isteriche o di terroristi (Renato Curcio sarebbe l'unico più a sinistra di lui). Naturalmente, verso le donne, il tono è più leggero. Così Giovanna Marano è soltanto "scema" e comunque si può sanare la gaffe inviandole un cesto di rose. Il peggiore maschilismo siculo. Ci saremmo aspettati da te, da Mariella Maggio, un sia pur timido distinguo. Ad una prestigiosa dirigente sindacale, così come ad ogni compagna/o è dovuta quella solidarietà che costituisce il filo che dovrebbe unirci nella CGIL. Al di là del vincolo associativo avrebbe dovuto muoverti quella forte solidarietà di genere che pure, con forza, e più volte, hai evocato anche in occasione dello SNOQ. Per questo non verrò ad ascoltarti. Raccoglierò firme per i referendum 8x18 che tu così irragionevolmente osteggi. Con immenso rammarico Un vecchio compagno della CGIL
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La moneta elettronica
Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (in tempo reale)
Pianeta
Crowdfunding e bitcoin: oggi sposi? Il mondo del crowdfounding, la raccolta di fondi “collettiva” in rete, comincia a incrociarsi con quello della moneta elettronica. Che ne verrà fuori? di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com
Btcjam è un servizio di microcredito attivo da meno di un mese. Con esso è possibile chiedere bitcoin in prestito e stabilire i tempi di restituzione. Non è esattamente Kickstarter - il più famoso servizio di “crowdfunding”, da crowd, folla e funding, finanziamento ma qualcosa di complementare, su una piattaforma monetaria del tutto indipendente.
Un altro esempio illustre è quello francese del Louvre, quando il museo parigino sviluppò la campagna “Tous Mécénès” (Tutti Mecenati) per raccogliere fra migliaia di amanti dell'arte i fondi (non pochi) necessari a rilevare da un collezionista privato Le tre Grazie, il capolavoro rinascimentale “Le tre grazie” di Cranach. Una serie eterogenea di servizi Btcjam è tutto questo, e anche ti più. Qui incontri - ad esempio – il tizio che si è rotto gli occhiali e ha bisogno di acquistarne un altro paio subito, prima del ventisette, ma non vuole indebitarsi con una finanziaria; o quello che deve pagare con urgenza bollette, tassse universitarie, cure mediche. Altri casi di crowdfunding riguardano invece non tanto l'utente comune quanto quello “specializzato” e ha bisogno di raccogliere fondi per creare nuovi servizi (per esempio siti basati sul bitcoin) o macchinari (ad esempio computer per “minare” bitcoin). Del bitcoin, la moneta su cui si appoggia il Btcjam, sappiamo da tempo (alme-
Il crowdfunding è stato portato alla notorietà dalla prima campagna eletorale di Barak Obama, quando una parte delle donazioni (non dalle corporation venne raccolto fra gli elettori con questo mezzo.
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LINK DEL MESE http://it.wikipedia.org/wiki/Crowd_funding http://www.scientificamerican.com/article.cfm? id=3-years-in-bitcoin-digital-money-gainsmomentum http://arstechnica.com/tech-policy/2012/10/78percent-of-bitcoin-currency-stashed-underdigital-mattress-study-finds/? &utm_medium=twitter&utm_source=twitterfeed
no i nostri lettori) che si tratta di un oggetto elettronico basata su un sistema di computer che calcola le transazioni e l’immissione di nuova moneta. Attorno a questo ci sono entità piccole e grandi che forniscono una serie eterogenea di servizi (fra loro, il famigerato Silk Road, una specie di Ebay accessibile via Tor e che accetta solo pagamenti in bitcoin): Mt.Gox, il più grande cambiavalute in bitcoin del pianeta, e poi il trader cinese Btcchina il russo Btc-e, ecc. Molto attivo Spendbitcoin.com, col quale si può usare la moneta elettronica per acquistare beni o servizi anche su Amazon. Il mondo del bitcoin, da un certo punto di vista, comincia così ad avvicinarsi a quello del microcredito, il complesso
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“Un'economia senza banche piglia-tutto”
DA “SCIENTIFIC AMERICAN” NEL TERZO ANNO, LA MONETA DIGITALE BITCOIN ACQUISTA SLANCIO
La rete di scambio della valuta digitale ora include più di 1.000 commercianti e almeno decine di migliaia di utenti indipendenti, come si cerca di risolvere gli ostacoli che si frappongono alla partecipazione Conchiglie, strisce di pelle, giganteschi dischi di pietra, rettangoli decorati di carta. Tutti loro hanno qualcosa in comune: una volta, le persone li hanno usati come moneta [currency]. Nel 2009 quando Bitcoin prende vita, uno e zero sono aggiunti alla lista. E come ogni nuovo formato [format] che li ha preceduti, questa moneta [currency] digitale ha cambiato alcune delle caratteristiche base del concetto di moneta, compreso chi la controlla e come e dove viene spesa Oggi i pionieri di Bitcoin forniscono alcuni indizi circa i vantaggi di una valuta digitale decentralizzata e anonima. Per esempio, venditori indipendenti per ricevere pagamenti online direttamente dai clienti, WikiLeaks lo utilizza per schivare i blocchi finanziari [da parte di Paypal, banche e gestori di carte di credito] e il mercato nero Silk Road dove, accedendo attraverso Tor, vengono vendute droghe e farmaci in Bitcoin. Ma non tutto funziona bene. Al sistema manca un modo rapido per permettere alle persone di scambiare i soldi contanti in Bitcoin. Nonostante il numero dei negozi e servizi che usano Bitcoin sia in crescita, non è ancora possibile trovare molti posti dove spenderli. Nella conferenza di questo mese a Londra, il team di sviluppo bitcoin e molti creatori di applicazioni
si stanno spendendo per rendere tutto più user friendly: passare da una moneta di nicchia per tecnofili a una valuta che compete col denaro a tutti i livelli Immaginate di spedire denaro con la stessa facilità di una email: questo non sarebbe stati possibile prima di bitcoin. Molti piccoli cambiavalute online sono stati attaccati con successo dagli hacker rubando bitcoin per centinaia di migliaia di dollari; il più grande cambiavalute ha aggiornato i suoi sistemi di sicurezza permettendo l’uso di una chiavetta tipo quella delle banche; e richiede un documento di riconoscimento per poter operare Il team di sviluppo sta cercando di implementare un sistema di scambio già nel protocollo bitcoin, nel meccanismo alla base del programma. Nessuno sa realmente come i governi reagiranno se bitcoin guadagna diffusione, ma molti considerano i cambiavalute come l’obiettivo più facile per chi vuole regolamentare Bitcoin. Decentralizzando i cambiavalute può render questo lavoro praticamente impossibile Sono pochi i negozianti che usano solo Bitcoin. Molti – per esempio, un centro massaggi a Vancouver, un negozio di chitarre nel New Hampshire e 18 utenti su Etsy, una specie di Ebay, vendono prodotti fatti in casa come miele, cioccolata, vestiario – hanno Bitcoin come opzione oltre ai pagamenti tradizionali. Quando finalizzano la vendita in Bitcoin sanno che la transazione non può essere invertita; chi vende non ha la preoccupazione di aver accettato una carta di credito rubata. Usando Bitcoin chi vende può ricevere pagamenti da ogni parte del mondo, immediatamente, senza rischio di frode. Al termine del suo intervento, Garzik mobilitato per la moneta ha chiesto molta pazienza per un lungo periodo. "Quanto tempo ci è voluto per creare l'euro, implementare l'euro, distribuire ampiamente la moneta, i registratori di
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sistema ideato (e in parte realizzato) dal Nobel Muhammad Yunus: un meccanismo di piccoli e piccolissimi prestiti destinati ad imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai circuiti bancari tradizionali, e in grado quindi di rivitalizzare economia altrimenti troppo deboli per un qualsiasi decollo. Questo implica un'indipendenza di fatto dal circuito bancario ufficiale, i cui interessi non sempre coincidono con quelli dei piccoli utilizzatori. Un'indipendenza che il bitcoin cerca di raggiungere per altra via, puntando sus una rottura delle dipendenze ancor più a monte, nel momento stesso dell aformazione della moneta. Come pagheremo Newsweek? Newsweek lascia la carta: il fatto che il secondo periodico tradizionalmente più venduto – dopo Time – negli Stati Uniti abbandoni il cartaceo e si affidi interamente a smartphone, tablet e computer forse non c'entra col bitcoin, e forse sì. Mossa disperata perché il cartaceo non vendeva più? Successo (in termini di utenti paganti) della versione online? Chissà. Di certo c'è che, fra un anno o due, una parte di questi accessi verrà pagata in bitcoin, o in altra moneta analoga, e non in dollari, yen o euro. Questo apre una prospettiva.
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Istituzioni
Questa Provincia s'è abolita da sè Enti inutili e spreconi, le province? Ma no! Basta guardare quella di Trapani... di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it
Un’ora prima di dimettersi, Turano mette mano al portafoglio (della Provincia) ed elargisce contributi a go-go per circa 880 mila euro. Associazioni culturali, sportive, di tutti i tipi. “Ci sono enti che non hanno un soldo, noi li avevamo e li abbiamo spesi”, si difende. Poco male se così si è prosciugato il fondo di riserva per finanziare progetti ed eventi con pochi partecipanti, altri mai esistiti. Come la famosissima “sagra della cassatella”. Contributi a go-go
Ci sono dentro pure le province, nel pentolone degli enti spendaccioni che di questi tempi fanno tanto parlare di sé. Inoltre molte di quelle adocchiate sono in via d’estinzione, secondo i programmi del governo Monti. Enti inutili e spreconi. Fuori controllo. Proprio come la Provincia regionale di Trapani, che nei piani del governo dovrebbe essere tra quelle da depennare. Mimmo Turano, ex presidente della Provincia dimessosi per puntare al comodissimo scranno dell’Assemblea regionale siciliana, aveva anche provato ad “annettere” la città di Menfi, in provincia di Agrigento, per rientrare nei parametri e salvare tutto. Ha anche promesso un assessorato ad un menfitano. Niente da fare.
Ma queste non sono state le ultime e uniche prebende della Provincia di Trapani. E’ un ente che da sempre ha finanziato sagre ed eventi a volte andati totalmente deserti. Il tutto in nome dello sviluppo del territorio e del turismo. Eppure se ne sono accorti tutti adesso, soprattutto i consiglieri di opposizione. Funziona così. Le opposizioni sono ritardatarie per natura. Chiedono al commissario straordinario Luciana Giammanco di controllare le delibere. “Tutto regolare”, dice. Ma una volta scoppiato il bubbone degli 880 mila euro last-minute, lo stesso Ufficio legale della Provincia prende in mano le carte ed esamina centesimo per centesimo i contributi. L’Ufficio smentisce il commissario straordinario: “Le delibere sono irregolari”. Fa niente. Anche perché la Giammanco, poco dopo, si è apprestata a nominare un consulente esterno: l'ex sindaco di Bagheria,
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il lombardiano Francesco Giuseppe Fricano. Si occuperà di supporto, coordinamento e società partecipate, per un compenso annuo di 52 mila euro. Fricano è stato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa per la vicenda relativa alla costruzione del centro commerciale di Villabate. Ma la sua posizione è stata archiviata. E' stato invece condannato in appello a due anni per bancarotta fraudolenta. Che strana Provincia quella di Trapani. Si parla tanto di legalità e trasparenza, e poi rischia il forfait dai processi di mafia che si celebrano nel territorio. Ci sono quelli contro Matteo Messina Denaro e i suoi fiancheggiatori. C’è quello, sentitissimo, sull’omicidio di Mauro Rostagno. E altri sui piromani che periodicamente devastano le riserve naturali. La Provincia Regionale di Trapani rischia di non essere più parte civile in questi processi. Oppure, se lo sarà anche in quelli futuri, lo farà con un’apposita delibera, individuando - a caro prezzo - un professionista esterno. Ma come? Ma non ne hanno, avvocati? Non ci sono i legali alla Provincia di Trapani? Si, ci sono. C’è anche un dirigente degli affari legali, ma con uno degli ultimi provvedimenti dell’ex Presidente Mimmo Turano, lo scorso Luglio, sono stati privati di qualsiasi potere di rappresentanza dell’ente. Insomma, l’avvocatura, in Provincia, è come se non
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“Osser vatori, assessorati, e tutto per la legalità...”
esistesse più. Viene depennata la copertura in ambito penale dalla lista degli affari di cui si possono occupare gli avvocati della Provincia. Casus belli è stata la richiesta degli avvocati di avere pagati i rimborsi per le spese effettuate per seguire le cause per conto dell’Ente. A dare manforte a Turano ci pensa la Corte dei Conti (“agli avvocati non spetta alcun rimborso”) subito smentita dal Giudice del Lavoro. All’ufficio legale della Provincia sono stati tolti, in quattro anni, 8 impiegati su 16, tagliati tutti i compensi e perfino il rimborso delle spese vive sostenute per raggiungere le sedi giudiziarie e fare le udienze. La trasparenza non traspare... Non è un caso che la Giunta provinciale, quando decide di fare la guerra agli avvocati della Provincia, e di non pagare i compensi che il Giudice del Lavoro dice che invece gli spettano, dà l’incarico all’avvocato Girolamo Signorello, avvocato di Castelvetrano, per fornire tutti i pareri necessari contro la “temeraria pretesa” degli avvocati della Provincia ricorrenti. Lo stesso Signorello (che è stato, tra le altre cose, anche assessore ai lavori pubblici a Castelvetrano) verrà poi nominato a fine Agosto da Turano presidente della Megaservice, il carrozzone della Provincia. Signorello, da sempre vicino al Sindaco di Castelvetrano, Gianni Pompeo,
in questa campagna elettorale - dicono i ben informati - sta però sponsorizzando a Castelvetrano proprio Turano. L’ex Presidente si difende dicendo che contro di lui “è in atto una squallida mascalzonata politica che ferisce per la strumentalità con cui è orchestrata ma che per fortuna non può cambiare le carte in tavola. Pensavo di essere difeso e non di essere isolato”. Un gran bel pasticcio. Con il concetto di legalità la Provincia di Trapani ha sempre singhiozzato. Tempo fa esisteva l’assessorato alla legalità e trasparenza. L’assessore incaricato era Baldassare Lauria, avvocato penalista. Tra i suoi clienti di spicco Lauria aveva Vito Roberto Palazzolo, il tesoriere di Cosa nostra. In un altro processo di mafia ha difeso anche il consigliere provinciale Piero Pellerito, poi condannato a 6 anni in primo grado per falso e soppressione di atto pubblico, adesso sorvegliato speciale. Non è mafioso Pellerito, ma da infermiere avrebbe fatto falsificare un referto medico per un dipendente di un’azienda in odor di mafia. "Se non era per Pitrinu eravamo arruvinati" dicono due mafiosi intercettati al telefono. Nessun problema. La Provincia di Trapani ha anche un Osservatorio sulla legalità. Chissà scappi qualcosa. È stato istituito nel 2010 proprio su iniziativa di Turano, per zittire chi puntava il dito sulle vicende poco chiare che coinvolgevano l’Ente. Un osservatorio che, però, non ha mai osservato. Tant’è che non è stato mai col-
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legato all’Ufficio legale dellaDaumier, Provincia. Honoré 1850 E neanche all’Assessorato alla legalità e trasparenza. Ha anche un soprintendente l’Osservatorio, e pagato anche profumatamente: 35 mila euro l’anno. È l’avvocato Salvatore Ciavarino. Al Soprintendente dell'Osservatorio sono demandate la verifica delle condizioni di legalità e trasparenza delle procedure d'appalto nonché quella di “fatti ed evenienze negative” che riguardano gli amministratori e i burocrati e l’Ente “eventualmente rappresentati anche attraverso esposti anonimi”. Una parola. Ma dell’attività dell’osservatorio non si sa nulla. Eppure di “evenienze negative” ce ne sarebbero parecchie. L'Osservatorio non osserva L’osservatorio, dati alla mano, non ha mai prodotto un richiamo all’amministrazione, un controllo, un’istanza. Non è intervenuto né sugli amministratori né sui loro atti. Tra questi, neanche i gli 880 mila euro di contributi hanno minimamente solleticato l’Osservatorio. Oppure il rinnovo del contratto di affitto che la Provincia ha fatto del terreno di sua proprietà, il Feudo Rinazzo: sono 225 ettari, dati in concessione per 20 anni ad un prezzo non proprio di mercato: solo 10.000 euro l’anno. E sul Feudo insiste la richiesta di concessione per la costruzione di un parco eolico. Niente. Di spese pazze, di vuoti etici e di legalità la Provincia ci campa. Fin quando non scompare.
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Precari
Come ti sfrutto il pubblicista L’iscrizione all’albo pubblicisti spesso costringe l’aspirante giornalista ai soprusi di editori senza scrupoli. Tante testate dichiarano il falso, fingendo di pagare gli articoli, altre fanno addirittura sborsare agli aspiranti pubblicisti le ritenute d’acconto di Carmelo Catania
È il sogno nel cassetto di tanti giovani: curiosare, chiedere, capire il più possibile per poi raccontare agli altri ciò che si è compreso. Quella del giornalista è una professione cui molti aspirano. Ma come lo si diventa? La legge n. 69/1963, istitutiva dell'Ordine dei giornalisti, prevede l’iscrizione in appositi Albi. I giornalisti vengono suddivisi in due elenchi: professionisti e pubblicisti e quest'ultima rappresenterebbe in teoria la strada più semplice. Ma chi è il “pubblicista” e in cosa si differenzia dal “professionista”? «Sono pubblicisti – dice la legge 69 – coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi».
Molto spesso però, questo desiderio si tramuta in sfruttamento da parte delle testate, illudendo chi scrive con la storiella dell’iscrizione all’Albo dei pubblicisti, essendo oggi abbastanza difficile trovare in Italia una testata che retribuisca un ragazzo senza esperienza per una collaborazione. Disposti a tutto... Succede così che l’aspirante pubblicista risponda ad offerte di collaborazioni a titolo gratuito, con testate telematiche e/o cartacee, per l’attribuzione del tesserino”, un controsenso, considerato che documentare l’avvenuta retribuzione per il lavoro giornalistico svolto, costituisce requisito indispensabile per conseguirlo. Sono così frequenti i casi in cui l'aspirante lavora gratuitamente e si paga di tasca propria i contributi, falsificando la documentazione fiscale pur di dimostrare una collaborazione retribuita con una testata. Ma ci sono in giro anche millantatori e strani personaggi che cercano di attrarre giovani aspiranti giornalisti, promettendo loro l’iscrizione all’albo in cambio di denaro, dietro la partecipazione a fantomatici corsi non riconosciuti dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione della Stampa. Centinaia di testimonianze Basta googlare un po’ per leggere centinaia di testimonianze. Nel 2010 è stata anche pubblicata un’inchiesta sul fenomeno dello sfruttamento degli aspiranti pubblicisti sulla testata online Repubblica degli stagisti, che ha raccolto le testimonianze di due giovani costretti a falsificare le ricevute fiscali pur di ottenere il tesserino “rosso”. «La mia storia non è molto diversa da quella di tanti altri», racconta “Carlo” (un
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nome di fantasia attribuito dalla redazione). «Pezzi scritti e non pagati, in barba alla legge. Retribuzione certificata da parte dell’editore, dichiarando il falso». «Ho accettato di pagarmi da sola i contributi scrivendo per un blog online – aggiunge Franca (altro nome di fantasia, altro racconto di vita reale) – . Il direttore mi rilascia le ritenute d’acconto e io gli restituisco i soldi in contanti. Ovviamente non ho nessuna retribuzione: di fatto, pago in tasse circa 160 euro ogni sei mesi e in più lavoro gratuitamente». ...pur di diventare pubblicisti Maria Ausilia Boemi, segretaria provinciale di Assostampa Catania, nella relazione annuale 2012 parla di «aspiranti pubblicisti – quindi non ancora in possesso del tesserino – che leggono i telegiornali, colleghi o aspiranti tali che non vengono pagati e che firmano buste paga false. E ci sono anche aspiranti colleghi che si pagano da soli le ritenute d’acconto per potere poi conquistare il tesserino (questo peraltro, non avviene solo nelle televisioni)». Il miraggio Franco Zanghì, giornalista di Patti nel messinese, raccontando il mese scorso sul suo TG6 una confusa – per le contraddittorie dichiarazione dei protagonisti – storia di «vertenze di natura economica» tra il rappresentante del comitato di redazione di una piccola testata locale online e il suo editore/direttore responsabile ha commentato: «Del fatto abbiamo ritenuto doveroso chiedere un parere all'Ordine dei Giornalisti della Sicilia [...]. Ma purtroppo molti editori – anche di grandi giornali – sfruttano giovani e meno giovani aspiranti giornalisti con miraggio del "Tesserino da Giornalista"».
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“Il vero problema dei giovani giornalisti? Lo sfruttamento”
Una pratica diffusa ma illegale “Comprare” il tesserino pur essendo diventata una cosa “normale”, è illegale e prevede serie conseguenze per chi falsifica i documenti fiscali necessari all’iscrizione all'albo dei pubblicisti.
Scheda PER DIVENTARE PUBBLICISTI: I REQUISITI In Sicilia tra spese di segreteria, costi per marche da bollo, tasse per concessione governativa e altri pagamenti si arriva a sborsare 582,62 euro per presentare le domande di iscrizione all’albo dei pubblicisti. Il calcolo si basa su quanto riportato nella modulistica ufficiale e nelle istruzioni reperibili nel sito dell'Ordine. Per dimostrare la non occasionalità della collaborazione vengono richiesti almeno 90 articoli scritti e pubblicati nell’arco dell’ultimo biennio, se questi vengono pubblicati su quotidiani (60 su periodici), emittenti televisive, radiofoniche o siti internet regolarmente registrati presso la cancelleria del Tribunale competente come testate giornalistiche, dovranno presentare almeno 90 servizi o articoli effettivamente andati in onda o pubblicati on line. Una retribuzione minima nel biennio di non meno di1000 euro da attestare con modelli F24 rilasciati al massimo per ogni anno di attività e non cumulativi.
Secondo l’avvocato Gianfranco Garancini, esperto di diritto giornalistico, infatti: «Un atto del genere costituisce truffa e falso ideologico a un ente pubblico, ai sensi degli articoli 640 e seguenti e 479 e seguenti del codice penale». Dalla truffa all'evasione fiscale Le testate, usufruendo di un vantaggio economico diretto dallo sfruttamento dei collaboratori, commettono un complesso di reati che può spaziare dalla truffa all’evasione fiscale. Ma anche gli aspiranti giornalisti sono «correi» e, in quanto tali, teoricamente andrebbero incontro a pene di tipo economico e detentivo, anche se in pratica è difficile si finisca in galera per reati del genere, ma si può comunque arrivare a sanzioni pecuniarie molto elevate. Ovviamente la domanda di iscrizione all’albo dei pubblicisti è destinata ad essere respinta mandando in fumo due anni di lavoro non retribuito. Gli Ordini che dovrebbero vigilare... Il reato di truffa è perseguibile dietro querela di parte. Gli Ordini, in quanto pubblici ufficiali, avrebbero l’obbligo di fare esposto in tal senso. È difficile, però, trovare le prove concrete di questo fenomeno, salvo nei rarissimi casi in cui vi sia una denuncia specifica. Impossibile, di fatto, un'azione preventiva perché gli stessi Ordini non conoscono la situazione degli aspiranti fino al momento della presentazione della domanda. Gli unici controlli vengono effettuati solo sulla documentazione fiscale e sul
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piano teorico è possibile costruire una documentazione fittizia per una iscrizione all’albo dei pubblicisti. Vittorio Roidi, sostenendo nel suo libro Cattive notizie che «Come tutte le cose che invecchiano (l’Odg) non va buttato, ma sostituito con un organismo moderno» ne auspicava una profonda riforma. Con il dpr di riforma delle professioni il governo Monti ci aveva pure provato ma in pratica non è cambiato nulla. Il tesserino non fa il giornalista Nella maggior parte dei Paesi europei non esiste un Ordine dei Giornalisti. Ad esempio, in Gran Bretagna non è mai stato istituito alcun organismo di natura pubblica in rappresentanza dei giornalisti, e la formazione universitaria specifica non è richiesta per l’esercizio della professione. Così come in Irlanda, Germania, Austria, Norvegia, Olanda, Grecia, Svezia, Francia e Finlandia. Per essere considerati giornalisti è necessario, semplicemente, essere assunti e scrivere per una testata. Storie, queste e tante altre ancora sconosciute, che evidenziano come il vero problema per un giovane che vorrebbe avvicinarsi al giornalismo, l’attività teoricamente “retribuita” in pratica si traduce in sfruttamento intellettuale, alimentato dal miraggio del raggiungimento dell’agognato tesserino che comunque non rappresenta una certificazione di qualità, né un riconoscimento di tipo meritocratico. C’è spesso ignoranza e presunzione fra coloro che per grazia ricevuta e immeritatamente hanno ottenuto l’iscrizione all’Albo dei pubblicisti e non conoscono, né rispettano l’etica professionale.
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Petrolio/
Minardo e Prestigiacomo: le mani sull'oro nero Petrolio al largo di Pozzallo. E subito, i “soliti noti”... di Enrica Frasca Caccia, Francesco Ruta e Giorgio Ruta www.ilclandestino.info
La Leonis, colosso galleggiante da 110 mila tonnellate ricavato dalla trasformazione dell’ex petroliera Leonis in FSO (Floating Storage Offloading), è ormeggiata a circa 2 miglia dalla piattaforma Vega ed è ad essa collegata tramite condotte sottomarine. Il consorzio CEM La nave è adibita alla ricezione del greggio estratto, al suo pretrattamento, e infine al trasferimento sulle petroliere che trasportano il greggio verso gli impianti di raffinazione. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto indetta da Edison, il Consorzio CEM (Construction, Erection and Maintenance), che dopo aver acquistato Leonis dalla Fratelli D’Amico Armatori Spa, ha eseguito i lavori per la trasformazione della petroliera in FSO e ne è divenuto noleggiatore. Oltre 100 milioni di euro
Si discute di un possibile allargamento della piattaforma petrolifera Vega a largo di Pozzallo. E tra i soliti noti dell’imprenditoria siciliana c’è chi si frega le mani odorando il petrolio. Si fiutano affari da centinaia di milioni di euro. Nel caso delle piattaforme Vega l’affare per l'imprenditoria locale si chiama “Leonis”. Si tratta della nave appoggio messa in funzione nel 2009 in seguito alla dismissione della Vega Oil, protagonista di una vicenda approdata in questi mesi in tribunale.
Un’operazione da oltre 110 milioni di euro, di cui 80 anticipati da Eni ed Edison in cambio di un contratto di noleggio a lungo termine e 34, destinati all’acquisizione dell’unità navale e alla copertura dei lavori di trasformazione in FSO, versati dal gruppo UniCredit. Terminati i lavori di conversione, nel 2009 la Leonis è stata rimorchiata dai cantieri di Augusta sino al sito della connessione con la piattaforma Vega. Già nel periodo dell’inaugurazione, avvenuta nel 2008, l’allora Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo era
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“oggetto” di interrogazioni parlamentari che sollevavano un conflitto d’interessi. Il compito del Ministro era infatti quello di vigilare sull’operato di colossi petroliferi clienti delle aziende di famiglia. Del CEM, consorzio formato da alcune tra le maggiori imprese siciliane di progettazione, costruzione e montaggio industriale, fa infatti parte la Coemi Spa, impresa di famiglia dei Prestigiacomo nata nel 1974 a Priolo, che oggi vanta, tra gli altri, clienti come Eni, Erg, Esso, Enel, Siemens. L’amministratore delegato è Maria Prestigiacomo, sorella dell’ex Ministro. I padroni della Fincoe Ma non finisce qui: la Coemi è controllata dalla Holding Fincoe Srl che ne possiede il 99%. A detenere gran parte delle quote Fincoe proprio la famiglia della Prestigiacomo, con un 9,7% intestato al padre Giuseppe, un 21,5% alla sorella Maria Pia e un altro 21,5% a Stefania fino al 2009, quando la quota è passata alla madre. Ma la Leonis riserva altre sorprese. Tra i “noti” che hanno fiutato l’affare figurano famosi personaggi dell’imprenditoria nella nostra provincia. Il “Progetto Leonis” è la punta di diamante della Tea Shipping Srl, una società di gestione marittima e navale con sede legale a Milano e sedi operative a Milano e Pozzallo, che si occupa dell’unità navale in questione. Amministratore unico di questa società è Raimondo Minardo, figlio del più famoso Saro.
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“Fino all'ultima goccia...”
SCHEDA/ LA TRIVELLA “MARI SPIRTUSIATU E SODDI NENTI”
È di nuovo febbre dell’oro. Ma stavolta è nero e lo scenario è il Canale di Sicilia. A riaprire la corsa è il Piano Energetico redatto dal Ministro per Sviluppo Economico, Corrado Passera, che intende portare la produzione di petrolio, che attualmente copre solo il 10% del fabbisogno nazionale, alla copertura del 20% della domanda. Una strategia che chiude le porte alle energie alternative e le spalanca ai signori del petrolio con un susseguirsi di richieste, concessioni e permessi per esplorare e bucare altro fondale marino; un decreto che fa ripartire tutti i procedimenti per la ricerca e l’estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel 2010 dopo l’incidente a una piattaforma che ha devastato il Golfo del Messico. Il programma piace molto alle grandi società d’estrazione perché contiene la proposta di abolizione del limite di 12 miglia dalla costa entro il quale non si possono impiantare trivelle. Ma a cantare vittoria sono per lo più le società petrolifere estere, le quali definiscono l’Italia “il miglior Paese in cui avviare l’attività di estrazione”. Il motivo di tanto entusiasmo è il regime fiscale a totale svantaggio dello Stato, che prevede royalties per l’estrazione di idrocarburi in territorio italiano del 4% per il petrolio e del 7% per il gas a fronte di una media mondiale dei quasi l’80%. Inoltre una franchigia fa sì che i detentori delle concessioni versino la percentuale solo in caso di estrazione di almeno 300 mila barili l’anno. Nessun limite infine, per il rimpatrio degli utili. Non c’è da stupirsi quindi se delle
quarantuno istanze per permessi di ricerca nel territorio italiano attualmente in valutazione, solo tre facciano capo a compagnie italiane (Eni ed Enel). Ad oggi i permessi di ricerca petrolifera già rilasciati nel mare italiano sono 19, di cui ben 11 nel canale di Sicilia per un totale di 6815 kmq di superficie marina. Oltre ai permessi già rilasciati, pendono sul Canale di Sicilia 18 richieste di permessi di ricerca per oltre 5mila kmq, di cui la metà in corso di valutazione ambientale: è il caso della piattaforma Vega B. Sul tavolo del Ministro, da fine luglio, anche la richiesta presentata da Edison per realizzare l’impianto di perforazione Vega B all’interno della concessione petrolifera C.C6.EO. Un altro impianto di estrazione dovrebbe quindi sorgere a circa 6 Km a ovest della Vega A, la piattaforma appartenente a Edison per il 60% e ad Eni per il 40%, attualmente attiva a una distanza di12 miglia dalla costa pozzallese. La più grande piattaforma off shore italiana, realizzata nel 1984 e attivata tre anni dopo, produce olio greggio e gas naturale da venti pozzi. Il suo raddoppio metterebbe in produzione la seconda sacca petrolifera che fa parte della medesima concessione. E mentre la procedura per la realizzazione della Vega B approda al Ministero dell’Ambiente in attesa di VIA, alcuni dati non sono certamente incoraggianti. Nonostante il bilancio di 25 anni di attività della Vega A sia di quasi 60 milioni di barili di petrolio prodotti, i profitti dello Stato Italiano rasentano la nullità. Secondo un calcolo approssimativo la Vega A ha prodotto, dalla sola estrazione di greggio, circa 500 milioni di euro, versando allo Stato neanche 5 milioni. Nessuna percentuale invece sui gas naturali, che Edison ed Eni hanno “accuratamente” estratto entro franchigia. Mari spirtusiatu e soddi nenti. Enrica Frasca Caccia
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All'interno della società figura anche Marco La Pira, socio in un'altra azienda impegnata nel settore marittimo insieme a Riccardo Radenza, imprenditore nel settore alimentare e Giorgio Zaccaria, figlio dell’imprenditore edile Giuseppe. Ex assessore Udc Altro socio della Tea Shipping è Massimo La Pira, ex assessore dell’Udc e del Pdl a Pozzallo, coinvolto ed assolto nell'inchiesta Modica Bene. Sebbene il settore petrolifero sia destinato ad esaurirsi nel giro di pochi anni, pare proprio che esso consenta ancora ai signori del petrolio di fare affari. Se il raddoppio del campo Vega dovesse essere approvato, la Leonis continuerebbe la sua attività anche per la nuova piattaforma, che sarà collegata alla prima. Non più di sette anni Così, mentre dal Ministero dello Sviluppo economico fanno sapere che lo scenario di sviluppo in Italia non supera i sette anni per l’estrazione di gas e i quattordici per l’olio greggio, i nomi che contano continuano a investire sull’oro nero. Fino all’ultima goccia.
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Periferie
“Puliamo i quartieri dal degrado e dalla cattiva politica” Catania. Negli antichi e storici quartieri degli Angeli Custodi e San Cristoforo, discariche e aree abbandonate proliferano con il silenzio complice di un Comune indifferente, che non dà risposte di Domenico Pisciotta e Giovanni Caruso
DISCARICA DI VIA ZURRIA
(QUARTIERE ANGELI CUSTODI) È compreso tra Via Zurria, Via Cristoforo Colombo e Via Marano. Si tratta dell'ennesima costruzione iniziata e mai finita. Doveva diventare un parcheggio multipiano. I lavori sono fermi da anni, a causa di un contenzioso tra le ditte, incaricate della realizzazione, e una controllata di Acqua Marcia S.P.A., il cui ex presidente, Francesco Bellavista Caltagirone, è sottoposto alla misura della custodia cautela in carcere perché imputato per truffa aggravata ai danni dello Stato, nell'ambito dell'inchiesta sul porto turistico di Imperia. Lo spettacolo offerto agli abitanti è imbarazzante. Nel cantiere si scarica, illegalmente, materiale di risulta dell'edilizia e alcuni abitanti vi gettano ogni sorta di rifiuto.
In tale contesto di degrado, i fruttivendoli di via Marano si sono impadroniti dell'unica costruzione coperta, all'interno del cantiere, destinandola a deposito della frutta e garage. Il proprietario di un immobile confinante ha, invece, allestito un balconcino sul tetto del "deposito dei fruttivendoli". Il Comune ha dichiarato che la messa in sicurezza del cantiere spetta alla proprietà dello stesso. L'Acqua Marcia, alla nostra redazione, ha affermato che, nel più breve tempo, vi provvederà. Mentre eseguivamo il sopralluogo, un abitante del quartiere ci ha detto: «Questa situazione dura da più di due anni. Ora ci sono topi, muschitti e gatti». - In effetti la recinzione non è sicura… «Siccome io sono un po' malandrina sai che farei: io sti cosi i pigghiassi e li butterei tutte là sotto». - Ma non è pericoloso per i bambini che giocano? E per le macchine che passano? Avete fatto la domanda al Comune per mettere in sicurezza? «Abbiamo fatto tutto, e non fanno niente». - E' vero il Sindaco ha detto che non è di competenza del comune. «Allura è inutile che andiamo al Comune». - Sotto il manufatto di cemento che ci
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fanno quella macchina e quelle cassette della frutta? Cos'è un deposito? «Si lo sappiamo, abbiamo fatto le denunce ed è venuta la polizia. Hanno cominciato con questo schifo quelli della frutta. Lo utilizzano come magazzino e la frutta marcia, la munnizza e tutte cose le buttano qua. Lo abbiamo detto ai fruttivendoli. È venuta la polizia e hanno chiuso i cancelli, e pensavano che la situazione si fosse risolta. Ma appena la polizia ha furiatu l'angolo, chiddi rapenu regolarmente e questo posto la stanno utilizzando anche come garage. Mettono macchine. Hanno fatto quello che hanno voluto questi della frutta». - Ma oltre all'immondizia e alla frutta gettano anche materiale di risulta dell'edilizia? «Si, si si si si, vengono con i camion e scaricano regolarmente... L'altro giorno è venuto il presidente della Municipalità e ha minacciato di chiudere il cancello con un catenaccio a costo di non far usare più la piscina se non si mette tutto in sicurezza. Io abito qua sopra e mi vedo ogni giorno questi "spettacoli". Stu fetu e sta munnizza chiamunu i muschi di settembre che mi parunu kiu spacciati di l'autri... ».
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Lo stato del cantiere è balzato, dopo anni, agli onori della cronaca dopo alla denuncia dell'On. Licandro. É scoraggiante che la politica si accorga dell'esistenza dei quartieri popolari solo all'approssimarsi delle elezioni,e nella fattispecie uomini di sinistra che se ne servono come strumento di propaganda contro l'Amministrazione Comunale. Lungi dal difendere l'operato di un'Amministrazione che tanto non ha fatto per la città, pretendiamo una politica che realmente urli, si batta, s'incateni e chiuda cancelli, per 365 giorni l'anno, per garantire l'interesse comune.
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AREA VERDE ATTREZZATA DI VIA DE LORENZO
(QUARTIERE SAN CRISTOFORO) Dalla mano di Melissa la piccola lumaca viene posata su quello che doveva essere un prato. Sarebbe stato un bel prato, tanto da invitarti a sdraiarti odorando i profumi della campagna. Il ritratto appena descritto potrebbe farci pensare che ci troviamo in aperta campagna o sulla nostra bellissima Etna, e invece no, ci troviamo nell’”area verde attrezzata” di via De Lorenzo nel quartiere di San Cristoforo, Catania. In questo luogo qualche anno fa il comune di Catania progettò nell’ambito del Piano integrato per San Cristoforo Sud un’”area verde attrezzata” con parco giochi e addirittura degli avveneristici pannelli solari che servivano all’automantenimento energetico. Ma come ormai è di abitudine tutto ciò che viene progettato, appaltato e costruito con i soldi pubblici sistematicamente viene abbandonato, un po da per tutto nella città ma soprattutto nei quartieri popolari e così anche a San Cristoforo. Piazza don Puglisi, Piazza don Bonomo e l’”area verde attrezzata” di via De Lorenzo, dove il 29 settembre Legambiente ha scelto per la giornata “Puliamo il mondo” e per la prima volta il nostro quartiere. I volontari di Legambiente, il GAPA, e una classe della scuola elementare Cesare Battisti accompagnata da un insegnante, un netturbino del comune di Catania, gli abitanti della zona e perfino il parroco di San Cristoforo don Ezio, si sono attrezzati di guanti, sacchetti, scope, zappe e zappette per pulire un luogo del tutto abbandonato e vandalizzato. Così con le carriole si sono tolte panchine e tavoli divelti, una grande quantità di plastica,
enormi siringhe utilizzate per dopare i cavalli sfruttati per le corse clandestine, tagliata l’erbaccia e cancellata un’oscena svastica e croce celtica dalle pareti del parco e infine piantato qualche pianta qua e là. Tutto questo fra i nitriti dei cavalli che sono rinchiusi nelle stalle abusive a pochi metri dal parco. Ma leggiamo cosa hanno risposto alle nostre domande alcuni abitanti della zona. Sig. G: «Iu staiu cà da 3000 anni!... e chi ci mannu ca’ i me figghi a’ jucari… sta schizzannu lei?» - Ma se fosse curato li manderebbe? Sig. G.: «cettu fussi n’autra cosa!». - E in questo caso gliel’avrebbe detto a quelli delle stalle abusive di andare via da qua Sig. G.: «A’ cu i’ ssicuta chisti cà? Pi non parrari di chiddi ca trasunu chi moti pi fari motocross». - Lei non sapeva di questo posto? Lo conosceva? Netturbino sig. A: «Cettu… ju nascii cca!» - I suoi colleghi non sanno che dovrebbero venirea pulire anche qui? Netturbino sig. A: «Ora c’è il coordinatore, parli con lui!» - E il coordinatore non sa di questa situazione Netturbino sig. A: «Cettu… non lo so, penso di si…»
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Perché non riusciamo a tenere pulito un bene comune? Perché chi dovrebbe controllare e pulire abbandona all’illegalità, allo spaccio e al vandalismo? Perché gli abitanti devono avere paura di portare a giocare i loro figli in questo luogo? Oppure a godere il piacere di una bella giornata all’aria aperta? Perché è questo quello che succede nelle piazze e in questo parco a San Cristoforo. Eppure se andate sul sito del comune di Catania sembrano dei luoghi magnifici.
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“Per appaltare, per agevolare imprese ed aziende e ordini professionali”
Chiaramente chi ci governa dà la colpa di tutto questo agli abitanti: “Sono ignoranti, sporchi, non si meritano niente!”. Secondo noi questi luoghi sono stati progettati da una richiesta clientelare che viene dalla cattiva politica per appaltare, per agevolare imprese ed aziende e ordini professionali. Le gettate di cemento che i nostri architetti chiamano “giardini minerali” e tutto questo giro di affari poco trasparenti solo per un consenso elettorale e in più nella fattispecie per il “Piano integrato San Cristoforo Sud” si è disatteso il Piano originale imposto dalla Comunità Europea. Persino Piazza don Bonomo di fronte all’oratorio è stata vandalizzata e abbandonata a se stessa, così come via delle Salette che doveva essere area pedonale e lo è stata solo per due mesi. Anche se per piazza Don Bonomo il presidente della I municipalità, Carmelo Coppolino, c’informa che il consiglio di quartiere ha dato disposizione affinché si pulissero i muri della piazza. Nello stesso giorno a pochi passi da dove i cittadini pulivano e risistemavano l’”area verde attrezzata”, il personale e i volontari montavano gazebi e fronzoli vari per rendere “più bello che mai quel luogo” e magari qualcuno avrà detto agli spacciatori della zona: “pa sta sira e dumani non dovete venire, ni vieni a’ truvari u’ sindacu!”. Infatti il pomeriggio del 29 arriva il sindaco di Catania, i rappresentanti della Provincia le ACLI, i rappresentanti dell’Ateneo catanese e i parroci delle chiese della I municipalità per inaugurare la fiera dell’artigianato promossa dai salesiani e dalla “Fondazione per il Sud”, ma tutto con un sapore, visto il periodo, di campagna elettorale. Dobbiamo pensare che anche fra le piazze “ci sono figli e figliastri”.
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Giovani
Tre città del Sud Un ragazzo di Napoli, uno di Palermo e uno della provincia di Messina. Come si vive in questi tre posti? Che spazio hanno i giovani? Che responsabilità ha la politica? Ed ecco le loro risposte di Attilio Occhipinti
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Di dove sei? Giovanni: sono di Nizza di Sicilia, Provincia di Messina, versante jonico. Vincenzo: Sono di Afragola, una città che si trova nella periferia nord di Napoli. Giuseppe: sono nato a Roma ma cresciuto a Palermo. Se dovessi pensare ai problemi più gravi che caratterizzano il posto in cui vivi, quali sarebbero i primi che ti vengono in mente?
Giovanni: I problemi che maggiormente affliggono il posto in cui vivo sono riconducibili alla mala gestione dello smaltimento rifiuti e all'abusivismo edilizio che devasta intere zone collinari che rischiano di crollare al primo nubifragio (l'alluvione di Scaletta insegna). Le giunte dei paesi circostanti sono comandate ormai da anni dagli stessi figuri (il mio paese non cambia sindaco da 15 anni) che fanno il gioco delle tre carte (sale X, poi sale il vice di X, e poi di nuovo X); se sale l'opposizione il gioco è lo stesso. Vincenzo: Disoccupazione, criminalità organizzata, clientelismo e corruzione politica, mancanza di integrazione etnica e sociale, tessuto sociale sconnesso, insufficienza dei servizi pubblici. Apatici perché abbandonati Esistono intere fasce sociali che vivono in zone di marginalità, abbandonate dallo Stato; privi talvolta di quei diritti civili che dovrebbero essere garantiti e questo non fa altro che influenzare negativamente la mentalità, l’aspetto “culturale” e sociale delle persone. Il degrado lo si percepisce a livello culturale, cioè di mentalità. Questi ritardi non sono imputabili ad una mentalità “criminale” del mezzogiorno; semmai è vero il contrario: sono i ritardi sociali del mezzogiorno che influenzano negativamente la cultura di queste zone. Il problema numero uno allora è l’apatia, il disinteresse, il credere che quest’emorragia non possa essere sanata con la propria volontà. Giuseppe: In assoluto penso che i problemi più gravi di Palermo non siano quelli legati alla normale amministrazio-
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ne di una città perché a quelli c'è rimedio. Il vero problema è far capire ai Palermitani che loro meritano una grande città in cui vivere e di conseguenza affidargli delle responsabilità. Però crescono le associazioni I giovani rappresentano una parte attiva all'interno della tua comunità? Giovanni: Proviamo ad avere peso all'interno delle comunità, ma in verità non ne abbiamo. Vincenzo: I giovani rappresentano il futuro, la speranza. Sappiamo che il nostro Paese, governato da un’oligarchia gerontocratica (“la casta”), non investe affatto sul capitale giovanile, come magari fanno altre nazioni (si pensi alla Germania o agli Stati Uniti). Anche nella realtà napoletana, i giovani non trovano spazio. Giuseppe: I giovani a poco a poco si stanno svegliando, stanno cominciando ad indignarsi e a svolgere il loro ruolo attivo di cittadini. Parliamo ancora di una bassa percentuale ma sempre più ragazzi cominciano a non accettare l'idea che le cose non si possano cambiare solo perché non siamo abituati a vederle diversamente. Sono nate tante associazioni giovanili in questi ultimi anni, segno che il desiderio di cambiamento e di partecipazione a poco a poco va aumentando. Come trascorrono le giornate i ragazzi? Ci sono degli spazi sociali o strutture adeguate dove incontrarsi? Giovanni: A spasso sul lungomare o nei bar, alcuni punti di raccolta esistono, come il PuntoGiovani a Nizza, ma l'inadeguatezza della sede e la incostanza di
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“Diritti? Ormai, dalla politica sono scomparsi”
parecchi componenti avvelena i progetti e la volontà di agire. Vincenzo: Parecchi progetti finanziati dall’Unione Europea sono finalizzati a “togliere i ragazza dalla strada” occupandoli in attività pomeridiane con docenti. Indipendentemente dai risultati, o da come poi vengono effettivamente amministrati questi fondi; credo che ciò sia indicativo: il fatto che gran parte della gioventù trascorra le proprie ore, per la strada, aumenta il rischio di essere assoldati negli eserciti della criminalità organizzata; o comunque il rischio di seguire un percorso delinquenziale. Nella mia città con gli anni quegli spazi di incontro e dialogo (che possono anche essere il cinema, il teatro, il partito) vanno sempre diminuendo, lasciando la gioventù abbandonata a se stessa, offrendo spesso alternative che alla lunga non sempre hanno effetti positivi: per esempio i vari centri-scommessa, che negli ultimi anni sono spuntati come funghi. Centri-scommessa come funghi Giuseppe: Palermo è una città molto grande e sicuramente gli spazi dove incontrarsi non mancano, tranne in qualche quartiere periferico dove si fa fatica anche a trovare un’aiuola. Senza voler generalizzare, nella maggioranza dei casi a far la differenza però è la modalità di aggregazione. Noto sempre di più che il modo di stare insieme, senza distinzione di quartiere,
dal più popolare a quello più residenziale, delle volte sia mosso più dalla paura di essere rifiutato dal gruppo che dalla voglia di farne parte. Bisogna ritornare negli oratori, negli spazi comuni, nelle strade e far vedere uno spirito di aggregazione differente. Partire da questo per sensibilizzare i ragazzi al rispetto delle regole, dell'altro, alla bellezza dello stare insieme consapevoli che non si tratta solo di ragazzi, ma anche di cittadini. Che idea ti sei fatto della situazione politica del tuo paese? Sono necessari dei cambiamenti? Giovanni: Ripeto: sono anni che abbiamo lo stesso sindaco, che uno stinco di santo non è, ma che possiede un alto consenso popolare grazie alla propria professione (medico generale). Siamo nell'Immobilità più nera. Ovvio che servono dei cambiamenti, ma dovrebbero essere mentali e supportati da un'esperienza traumatica. Vincenzo: Sciascia una volta disse che la Sicilia poteva essere considerata come una sorta di microcosmo del paese Italia. Potrei dire lo stesso: le contraddizioni, i ritardi di Napoli e provincia sono una metafora (accentuata) dei problemi italiani. C’è scarsa partecipazione sociale alla vita pubblica. Questo ovviamente vale anche a livello nazionale, dove privilegi e interessi personali dettano l’agenda dei vari governi che si alternano. Credo che l’errore fondamentale di un certo modo di far politica, sia stato quello di pensare
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che alcuni problemi, anche nelle nostre realtà meridionali, potessero essere risolte con la violenza; imponendo dall’alto con forza quei (presunti) diritti. Non si risolvono problemi con l’esercito, quando quello stesso governo è legato talvolta a doppio filo con chi ha generato questi problemi. Bisognerebbe creare quella dimensione sociale di partecipazione dal basso, riuscire a garantire quei diritti che sono ormai scomparsi dall’agenda politica (si parla ancora di una questione meridionale?). Ecco, sì i cambiamenti sono necessari: ma qui e adesso. Non cambiamenti individuali: io sogno che si riesca finalmente a trovare un senso collettivo di trasformazione proprio nelle zone degradate, e abbandonate dallo Stato. Uscire da dietro il monitor Giuseppe: Palermo ha innumerevoli problemi, veniamo da una amministrazione oggettivamente fallimentare che ha fatto scendere la qualità della vita ai gradini più bassi di sopportazione. E' difficile vivere in una città che offre praticamente nulla, pochi servizi e poche opportunità; una città che per molto tempo ha visto tristemente l'interesse del singolo prevalere su quello della collettività. Credo però che per poter cambiare le cose sia necessario sporcarsi le mani, non si può sognare il cambiamento da dietro un monitor o stando fermi. Tocca sbracciarsi e darsi da fare a tutti i livelli, dal politico al cittadino, ognuno deve fare il proprio dovere fino in fondo assumendosi le proprie responsabilità. Non è necessario fare cose straordinarie, basta l'impegno profondo nel proprio campo di competenza.
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Musica
Triste, solitario y surreal Che sfiga, per una palazzina di tre piani diventata rifugio di barboni, collassare proprio l'11 settembre. Manco due parole in cronaca. Niente di Antonello Oliva E del gene della tristezza, presentato alla comunità scientifica lo stesso giorno del bosone di Higgs, ne vogliamo parlare? Bene, a quanto sostengono John O’Hara e Paul Gillespie, i due biologi genetisti neozelandesi autori della scoperta, si tratterebbe di un gene tra i più remoti e isolati del nostro codice, talmente elusivo e misterioso da essere sempre sfuggito a ogni rilevamento e tale da consentire comunque al momento solo ipotesi, pur se non prive di fondatezza. Secondo i due scienziati, questo gene potrebbe avere tra le altre funzioni quella di conservatore di una forma arcaica di memoria risalente a epoche in cui le forme di vita esistenti erano forse ancora di solo livello molecolare. E in tanta semplicità, dicono gli studiosi, è presumibile che regnasse ancora un equilibrio difficilmente riscontrabile dopo. Molto affascinante, e per quanto oscurata dal bosone (nessun giornale ne ha parlato), la notizia ha comunque destato molto interesse in ambito scientifico, e non meno, per quello che riguarda questa rubrica, in quello musicale, costringendo
critici, discografici e melomani a rivedere certe consolidate posizioni che della concreta e impegnata leggerezza facevano ragion d’essere. Il contributo più tangibile l’hanno dato però come al solito gli artisti, Gianna Nannini ospite da Fazio ha detto la sua, Ligabue ha subito lanciato il singolo “Allora chi siamo da dove veniamo e perché ogni tanto siamo tristi?”, Mina ha rinverdito il vecchio hit “Ma cos’è questa tristezza qua” e Mogol ha dichiarato all’Ansa che se non fosse stato per lui Lucio avrebbe fatto solo canzonette allegre. Purtroppo anche di queste cose se n’è parlato poco perché, quando si dice sfiga, nel frattempo c’è stato il patatrac di quel tizio della Regione Lazio, della Polverini e di tutti quei contributi variamente impiegati, ragion per cui giornali e tg adesso si mettevano a perdere tempo con le menate sulla tristezza di Pupo e la Nannini. Dove invece la cosa ha avuto esiti più diffusi è stato sul web, dove dai siti congiunti di Warner e Universal è stato annunciato per Natale l’uscita del cofanetto “Non solo triste – Greatest Hits”, mentre soprattutto nei social forum si è sviluppava un dibattito, spesso conciso e sintetico, a volte inutile, in ogni caso interessante. Insomma, vuoi per una cosa vuoi per un’altra, alla fine quella che sembrava una notizia destinata per la sfiga di prima a passare inosservata, ha finito per essere ospitata perfino sulle pagine di questo giornale (che notoriamente si occupa di altro), e se ciò non bastasse, per figurare nell’agenda della Commissione Sviluppo Economico del Parlamento Europeo, che nel frattempo aveva intanto provveduto a raccomandare ai Paesi membri di prestare all’argomento la massima attenzione e di considerarlo prioritario in un’ottica di immediata strategia di cassa. I più solerti a rispondere all’invito
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furono allora le compagnie telefoniche, che non sapendo più che cazzo inventarsi sostituirono prima tutte le suonerie con nuove suonerie tristi, e inondarono poi gli utenti di sms a pagamento con notizie che ne favorivano lo stato d’animo. Nel breve termine in realtà un po’ tutta l’economia ne trasse giovamento, furono ristampate le opere complete di Leopardi, Corazzini, Tenco, Ciampi, Cohen, De Oliveira, non quelle di Lolli, ma andarono pure quelle a ruba. Una tristezza dolce e conciliante La tristezza sembrava riportare l’uomo alle sue origini, forse lo riavvicinava addirittura a Dio si diceva, quel Dio che lo aveva sfrattato un giorno da quel giardino condannandolo a riguadagnarselo, e paradossalmente, più la si guardava in faccia la tristezza, più essa appariva dolce e conciliante, e si comprese allora, come se prima non ce ne fosse mai stata l’occasione, perché l’uomo aveva inventato la poesia, e aveva composto opere come il Requiem in re min. K 626, Crescent, Adele H, Nostalghia, Trilogia della città di K. Ma durò poco, perché passata quella domenica il lunedì mattina si venne a sapere che la notizia era inventata, e la storia del gene della tristezza solo una bufala. Di O’Hara e Gillespie nessuna traccia, inventati anche loro, come ogni altra cosa in questa pagina. Pura fantasia. Le borse a ogni modo reagirono male lo stesso, e si rischiò molto, ma alla fine, come in tutte le belle storie, trionfò il buon senso, e così la tristezza venne nuovamente bandita, i sostenitori attoniti dispersi, le fabbriche di maionese riaperte, e in men che non si dica, con un gran sospiro di sollievo di tutti, che a qualcuno sembrò però un singhiozzo, la musica tornò a essere quella di prima, ma ancora più leggera.
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Storia
Placido Rizzotto Teoria e prassi di una rivoluzione di Elio Camilleri Morto ammazzato n. 35 nell’elenco dei sindacalisti, degli animatori e degli organizzatori del movimento contadino; dopo Placido Rizzotto ne sarebbero caduti altri in quella feroce persecuzione contro le sinistre pianificata dal blocco agrario-mafioso protetto dagli apparati di polizia, deliberata “politicamente” dalla DC e dai suoi alleati anche americani. Lo scoppio della guerra lo portò sui monti della Carnia e avvertì sempre più profondamente l’assurdità della guerra, la sua stessa condizione di burattino caporale e poi di burattino caporal maggiore e, infine, di burattino sergente nelle mani di un dittatore che aveva già perso la guerra ancora prima di cominciarla. Dopo l’8 settembre ritenne di liberare l’Italia dai fascisti e dai tedeschi. Passò dalla guerra di Mussolini alla guerra di Resistenza, lasciò l’esercito del Duce ed entrò nelle Brigate Garibaldi. Placido ad un maturo e convinto sentimento antifascista accompagnò una progressiva adesione ai contenuti del marxismo. Se era vero che la storia è storia della lotta tra una classe dominante e una dominata, se è vero che da sempre le classi dominanti erano state battute da quelle dominate allora anche i contadini, i braccianti e i mezzadri di Corleone avrebbero potuto vincere. Corleone divenne la prossima trincea dove Placido avrebbe combattuto, una volta tornato a casa. Il 25 aprile 1945 lasciò i suoi compagni delle Brigate Garibaldi ed intraprese il lungo viaggio del ritorno verso la campagna per lavorare come prima con suo padre. Intraprese la fondamentale operazione di trasferire ciò che aveva
imparato durante la guerra partigiana dal piano della teoria al piano della realtà effettiva. Spiegò che se con il lavoro si produce ricchezza, in buona sostanza essa è acquisita dal proprietario dei mezzi di produzione cioè, nel caso di Corleone dal proprietario del latifondo. Fece capire, inoltre, che se, oltre al proprietario, c’era anche il gabelloto cui conferire una certa quantità di ricchezza, bisognava lavorare ancora di più, concludendo che era opportuno togliere di mezzo il gabelloto e l’intermediazione parassitaria, assumere direttamente la gestione della terra istituendo cooperative, utilizzando gli strumenti legislativi necessari. La gestione della terre Così aveva cominciato, giusto a Corleone Bernardino Verro e, dopo di lui, Alongi e gli altri per l’applicazione dei decreti Falcioni e Visocchi dopo la prima guerra mondiale, e tutti quelli che già si stavano impegnando a costo anche della vita, per l’applicazione dei decreti Gullo sulla concessione alle cooperative delle terre incolte o mal coltivate e per la divisione 60 a 40 tra proprietario e contadino del prodotto della terra. A Corleone Placido sentiva soprattutto l’amicizia ed il calore della maggioranza delle persone, di tutta quella gente che lo aveva pure eletto Presidente dell’associazione della Madonna della Rocca. Certo c’erano pure i gabelloti tra questi Luciano Liggio ed il dottor Michele Navarra, il capo della mafia, il barone Cammarata, il cavaliere Paternostro, il commendatore Bentivegna e gli altri latifondisti e, ovviamente, la schiera dei fiancheggiatori, servi ubbidienti senza parola, capaci solo di eseguire ordini, anche i più abietti, come vedremo. Lo straordinario risultato elettorale per la Costituente fu bissato nelle elezioni del 6 ottobre nell’elezione del Consiglio Comunale e completato il 20 aprile del 1947 nelle elezioni della prima Assemblea regionale. ciò dette impulso ad un’impetuosa ripresa delle occupazioni dei latifondi
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che il blocco agrario-mafioso non intendeva assolutamente concedere alle cooperative. La determinazione di Placido Rizzotto nella lotta per la terra scardinava alla radice quella che si riteneva quasi una legge di natura: i ricchi sopra e i poveri sotto, i potenti a comandare e i deboli ad ubbidire, i mafiosi a sfruttare e i contadini ad essere sfruttati. Allora cominciarono gli avvertimenti più ultimativi, i consigli più perentori: non ci voleva molto a capire che la situazione stava progressivamente precipitando e che il vuoto intorno a Placido stava inesorabilmente crescendo. La sera del 10 marzo Placido Rizzotto fu portato fuori dal paese per un “ragionamento”, durante il tragitto vide materializzarsi quel vuoto, quell’isolamento che nelle ultime settimane si era creato intorno alla sua lotta per la terra e la giustizia. La strada era deserta, le finestre chiuse e Placido all’improvviso si sentì solo, si svincolò dalla presa e per un attimo non sentì la pistola pressata sul fianco. Tentò la fuga, ma fu subito bloccato da altri complici, urlò, fu coperto, immobilizzato e buttato dentro un’automobile. Criscione, Collura, Liggio ed altri lo avrebbero portato con una macchina in contrada Malvello e lì lo uccisero, dopo atroci torture. Solo successivamente il corpo sarebbe stato buttato nella foiba a Rocca Busambra, in contrada Casale. I familiari di Placido riconobbero i reperti mostrati loro e ciò determinò la denuncia per Criscione, Collura e Liggio latitante di sequestro ed assassinio di Placido Rizzotto. Il 3 dicembre 1952 in Corte d’Assise a Palermo i tre furono assolti per insufficienza di prove, la sentenza fu confermata in Appello l’11 luglio 1959 ed in Cassazione il 28 maggio 1961. Soltanto qualche mese fa è stato possibile celebrare i funerali di Placido Rizzotto e vale la pena ricordare che il nipote ha chiesto di riscrivere la storia di questa terra, di farla conoscere. Questo articolo è un piccolo contributo.
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Politica
Un'aspirina contro la polmonite Decreto anticorruzione? Buone intenzioni, ma risultati aleatori. Ecco perché di Riccardo De Gennaro
Croazia, la 67esima economia mondiale), eppure il nostro governo “tecnico” vara una legge che ancora una volta va incontro ai problemi dell’ex presidente del consiglio Berlusconi, accorciandogli i tempi di prescrizione nel processo Ruby, e interviene soltanto sui punti più marginali del fenomeno. È vero, la guardasigilli Paola Severino ha annunciato che per gli aspetti più importanti (ripristino del falso in bilancio, incandidabilità dei condannati in primo grado per reati gravi, autoriciclaggio, voto di scambio…) si provvederà più avanti. Un primo passo o un paradosso?
Una legge si giudica dalla sua efficacia una volta che è entrata in vigore, ma non è difficile prevedere fin d’ora che il ddl anticorruzione del governo Monti, approvato dal Senato con il voto di fiducia e che attende la Camera, avrà la forza di un’aspirina contro la polmonite. C’è un Paese che sta affogando nella corruzione, uno dei più corrotti del mondo (nel 2001 eravamo al 29° posto su 91 Paesi esaminati nella classifica internazionale per grado di corruzione, nel 2010 siamo scesi addirittura al 67°), un Paese dove – come ha ricordato anche il Financial Times – la corruzione drena 60 milioni all’anno dalle casse della pubblica amministrazione (pari al Pil della
Ma questa non è altro che una promessa: i tempi di durata della legislatura sono tali che la responsabilità di condurre in porto le norme anticorruzione più incisive starà al prossimo esecutivo, che sarà di natura politica, quindi poco interessato alla questione, come tutti i governi precedenti. Qualcuno l’ha definito un primo passo, mai operato prima. Altri, viceversa, hanno sottolineato il paradosso di una legge contro la corruzione votata da un Parlamento nel quale siedono numerosi corrotti o aspiranti tali: il Senato ha approvato la proposta non grazie a una volontà di lotta alla corruzione, ma semplicemente per rifare un po’ il trucco alla politica di fronte all’elettorato dopo i casi Fiorito e Regione Lombardia.
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Non è un segreto che per costringere il Pdl a rimuovere le barricate il provvedimento ha dovuto tenere conto dei diktat di questo partito: il governo Monti, il “governo degli onesti”, avrebbe potuto e dovuto osare di più: il momento, a ridosso della campagna elettorale, non poteva essere più favorevole. La cena del “rottamatore” Il problema è che, nel tourbillon suscitato dagli annunci di chi si candiderà e chi non si candiderà, non si vede una possibilità reale di cambiamento del ceto dirigente, come dimostra peraltro la cena del “rottamatore” Renzi con la crema dell’alta finanza, organizzata peraltro da un business man la cui holding ha sede alle isole Cayman. Come ha scritto il sociologo Tonino Perna su il Manifesto, “la crisi verticale dei partiti, delle ideologie, porta a selezionare nel modo peggiore la classe politica” e “i partiti sono ormai diventati delle strutture autoreferenziali di potere, di lobby e di affari”. Se si vogliono cambiare le cose è necessario un controllo popolare e diretto sulla pubblica amministrazione. Il disegno di legge del governo Monti istituisce la figura del “commissario anticorruzione”, che potrà avvalersi nel suo operato delle forze della Guardia di Finanza. Ma, se l’intero sistema è corrotto, chi garantirà della sua incorruttibilità?
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Società civile
Al mercato delle belle idee In Sicilia si fa “la cosa giusta” nei “Cantieri che vogliamo”... di Giovanni Abbagnato La bella notizia, una volta tanto, è che i Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, dopo l’abbandono nel grigio decennio delle amministrazioni Cammarata, tornano a vivere grazie all’azione determinata di un movimento di persone, associazioni, centri sociali e altre realtà cittadine. Il motivo che ha determinato tanti a scrollarsi una rassegnazione da troppo tempo portata avanti nasceva dalla indignazione e la conseguente volontà di reagire alla sostanziale privatizzazione dello spazio – uno dei più vasti ed interessanti esempi di archeologia industriale in Europa già votato alla cultura e alla socialità - che la vecchia Giunta, ormai disfatta, stava realizzando con un colpo di coda, tanto indegno quanto illegittimo. Questo tentativo di sottrarre alla città un’area simbolo, di particolare importanza simbolica e socio-culturale, è stato neutralizzato grazie ad una mobilitazione collettiva sintetizzata negli slogan simbolo: “apriamo i Cantieri” e“i Cantieri che vogliamo”. Un movimento che ha prodotto una vertenzialità fatta di resistenza civile, ma anche di progettazione partecipata, di organizzazione di eventi e di tanto altro du-
rante i quali un movimento invitava la città a riappropriarsi dei Cantieri per le numerose opportunità che essi possono dare, dalle produzioni culturali in campo cinematografico, teatrale e di varia espressione artistica, alla fruizione organizzata a disposizione del quartiere circostante e, più diffusamente dell’intera collettività. Già da qualche mese i Cantieri ospitano manifestazioni interessanti, ma rimane in corso il dialogo, in piena autonomia delle parti, tra la nuova amministrazione e il Comitato “ i Cantieri che vogliamo”per provare a caratterizzare l’utilizzo, sempre più efficace dell’Area. Ciò in una rigorosa logica di “bene comune”che escluda una gestione esclusivamente centralizzata nelle istituzioni, come anche affidamenti a lungo termine che creino privilegi e impongano una fruizione passiva alternativa alla libera espressione della città in tutta la sua capacità di esprimere cultura e socialità. La logica del bene comune Ma i progetti significativi sono, oltre che realizzati, anche nobilitati dalle pratiche. In questo senso, il fine settimana dal 19 al 21 ottobre 2012 ha rappresentato uno spartiacque importante nella nuova fruizione dei Cantieri. Questo perché in questi giorni, in cui l’estate non si rassegnava a lasciare il passo all’autunno, ha aperto i suoi battenti a Palermo e alla Sicilia, una manifestazione importante come “Fa la cosa giusta Sicilia”. Una mostra–mercato sui consumi critici e gli stili di vita sostenibili e responsabili che, oltre a fare rivivere il maestoso capannone delle “tre navate”e altri spazi
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interni ed esterni dell’Area dei Cantieri , metteva in sinergia, positivamente innovativa, valori, relazioni e capacità di progettare futuro. Questo in una logica di responsabilità etica all’interno di un sistema di economia alternativa a quelli dominanti, la cui crisi, ormai evidentemente strutturale, mostra tutti i suoi aspetti di profonda e irresponsabile disumanità. E’ stato questo “Fa la cosa giusta siciliana”, la prima del centro-sud. Un modo per interpretare un’esperienza fieristica del Nord del Paese, attraverso la specificità di una Regione come la Sicilia di grandi complessità, ma anche di straordinarie potenzialità. Una Sicilia che vuole mostrare un volto diverso dagli stereotipi correnti, ma a partire dalla sua capacità d’innovazione in tutti i campi. Questo è stato dimostrato dalla presenza tra le strutture e i viali dei Cantieri - e prima ancora tra le pagine di una Guida ai consumi responsabili e alle buone pratiche, edita dal Comitato organizzatore nel 2011 - di un mondo, vasto e motivato delle produzioni e dei servizi compatibili e responsabili, dell’associazionismo e, più in generale, dell’impegno sociale ed antimafioso. Una grande festa, ma anche un modo per veicolare progetti e innovazione perché chi l’ha detto che edificare una nuova società basata sul rispetto dei diritti e delle libertà delle persone e dell’ambiente, sia un fatto da affidare a consessi elitari e seriosi? In questi giorni dai Cantieri culturali di Palermo parte verso tutti i territori della Sicilia il messaggio che ognuno, ogni giorno e nel proprio piccolo provando a vivere meglio sul piano ambientale, sociale ed alimentare - ha la possibilità, per se e per gli altri, di “fare la cosa giusta”.
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• ore 14.30 ritrovo sotto l’Arco della Pace • ci spostiamo insieme nel parco Sempione per il momento commemorativo
• a seguire iniziative proposte dai ragazzi di Libera in occasione dell’evento
• premiazione dei vincitori del concorso fotografico “Indifferenza” Tre anni fa -il 24 novembre 2009scompariva all’Arco della Pace la testimone di giustizia Lea Garofalo. Quest’anno, nello stesso giorno e nello stesso luogo, il presidio giovani Libera Milano vuole coinvolgere la cittadinanza nel ricordo di una realtà da non dimenticare. Per questo abbiamo deciso di piantare un albero come simbolo vivo nella città di Milano e presenza concreta della sua memoria.
CONCORSO FOTOGRAFICO “ L’INDIFFERENZA”
Concorso fotografico aperto a tutti dal tema “L’INDIFFERENZA”. Si partecipa con un’unica immagine jpg. È’ consentita la manipolazione digitale dell’immagine. Le fotografie potranno essere inviate al seguente indirizzo mail, concorso.indifferenza@gmail.com, dal 9 ottobre al 4 novembre 2012 e potranno essere votate alla pagina FACEBOOK, “Concorso fotografico l’indifferenza” dal 5 al 18 novembre2012. La foto inviata dovrà essere accompagnata da nome, cognome, indirizzo mail e numero telefonico. Le foto prive di questi requisiti non saranno caricate su facebook per essere votate. La foto più votata, alla mezzanotte del 19 novembre 2012, vincerà il “premio del pubblico”, mentre le tre vincitrici saranno scelte da una Commissione composta da due ragazzi del Presidio Giovani e una Laureanda dell’ Accademia delle Belle Arti di Brera. I vincitori verranno contattati via mail entro il 20 novembre. La premiazione si terrà nel pomeriggio del 24 novembre alla presenza del Presidente della Commissione antimafia di Milano David Gentili ( sulla pagina facebook verranno comunicati luogo e orario della premiazione) I premi consistono in: primo classificato (“ a cena con Libera” : prodotti e vini di LiberaTerra) , secondo classificato (“ a colazione con Libera” : prodotti di LiberaTerra), terzo classificato (felpa di Libera), “premio del pubblico” (maglietta di Libera). Le foto vincitrici verranno inoltre pubblicate on-line su “Stampoantimafioso” e “I Siciliani”. Regolamento completo alla pagina facebook “Concorso fotografico ’indifferenza.” Seguiteci su Facebook!
“Le radici del domani - Un albero per Lea”
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Mafia e media
Lezione di giornalismo Il famoso giornale inter vista il mafioso. Analisi e commento di Valentina Sgambetterra e Martina Mazzeo www.stampoantimafioso.it
Arrestano due dei tre fratelli Giacobbe a Pessano con Bornago, nel milanese. Il Giorno (www.ilgiorno.it) ne fa la cronaca, sotto forma di intervista. A parlare è il padre, Salvatore Giacobbe, boss della ‘ndrangheta condannato a vent’anni per associazione mafiosa. Vale la pena di leggere. Magari con qualche osservazione di tipo scientifico, per chiarire alcune delle dichiarazioni dell’intervistato; e anche con qualche riflessione sulle suggestioni che ne muovono sulle sue (gravi anche se involontarie) implicazioni. Spicca il riferimento alla spontaneità con cui gli imprenditori si rivolgerebbero ad un boss della criminalità organizzata per ricevere protezione o offrire appalti. Certo, esistono anche imprenditorii che ammiccano alla mafia vedendo, o credendo di vedere (la mafia non fa mai nulla gratis), in tali rapporti, l’opportunità di affari e profitti in una convergenza di interessi. Tuttavia, come insegna il sociologo Rocco Sciarrone, bisogna distinguere differenti tipologie di imprenditori declinate sulla base di una valutazione quanti/qualitativa del grado di coinvolgimento dell’imprenditore con l’ambiente mafioso. E’ un fatto che com’è vero che esistono imprenditori collusi o addirittura mafiosi, altrettanto vero è che ad una certa fetta dell’imprenditoria, specialmente piccola e media, la protezione viene offerta o, per meglio dire, imposta dal boss che controlla la zona.
Il meccanismo collaudato è il seguente: il clan individua la vittima e comincia a minacciarla in un crescendo di azioni finalizzate a spaventare sia l’imprenditore che i suoi cari; progressivamente, le minacce aumentano d’intensità: scattano i primi avvertimenti, le prime ritorsioni. Forse salterà una gru o un capannone prenderà fuoco. A questo punto, ossia dopo aver creato il problema, il boss si rivolge all’imprenditore offrendogli protezione da quelle violenze da lui stesso perpetrate: in pratica propone la soluzione, in un pericoloso incrocio di domanda e offerta. Oppure sarà l’imprenditore stesso a rivolgersi al boss locale, di cui la fama è nota, in cambio di una “vita tranquilla” e della possibilità di portare avanti la propria attività rassegnandosi ad inserire il pizzo tra i costi strutturali della sua impresa. Rispetto agli appalti la questione è analoga ed anche più complessa. Offrire un appalto alla mafia può costituire il tragico epilogo per un imprenditore pesantemente vessato. L’alternativa potrebbe essere quella di cercare altri segmenti di mercato, in altri territori, con costi talvolta insostenibili. “La mafia? Ma in fondo...” Un secondo spunto di riflessione nasce a seguito del tentativo, niente affatto velato, di sminuire la portata del fenomeno mafioso al Nord. «Limitiamoci alle infiltrazioni» dice Giacobbe. Ma l’obiettivo primo per la mafia, e in particolare per la ‘ndrangheta, è proprio il controllo del territorio anche a scapito del profitto. La ‘ndrangheta si è diffusa nel Nord attraverso la strategia della colonizzazione che ha portato ad una presenza ramificata e capillare di cellule, poi divenute vere e proprie colonie di ‘ndrangheta, in molte aree del Paese e fuori dal Paese. «Non rubano ai poveri i grandi boss», ci vuol far credere Giacobbe. Ma non spiega che l’estorsione, il pizzo, la protezione sono metodi che hanno come fina-
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lità prima il controllo del territorio e solo a seguire il profitto. Vogliamo aggiungere una riflessione sull’opportunità e sulle suggestioni di questo articolo. A partire dal titolo, con il riferimento al Padrino, l’impressione è che tutta l’intervista, volente o nolente, strizzi l’occhio allo stereotipo, al luogo comune. La presentazione confezionata per il boss – «in casa sua fu trovato un vero arsenale» – alimenta il mito dell’eroe onnipotente, nonostante la sentenza di condanna che, anzi, sembra indossata come una medaglia al valore, un riconoscimento di prestigio. E' pericolosa la fascinazione esercitabile da una simile figura, specialmente in tempi in cui un’aggressiva precarietà, materiale ed esistenziale, rischia di rinvigorire la presa di un principio tipicamente mafioso: la ricerca della via più breve al massimo risultato con il minimo sforzo. Tanto mafiose sono le risposte del boss, quanto pressappochiste le domande della giornalista. Al primo fa comodo una pagina di giornale in cui gloriarsi dei suoi pregi di "uomo d’onore", e alla seconda interessi lo scoop, la notizia ad ogni costo. Sembra di leggere un’intervista a una star chiamata a giustificare pubblicamente le bravate del figlio scapestrato a cui, insomma, “è giovane e gli si perdona tutto"... Non è difficile immaginarsi il ghigno fiero di Salvatore Giacobbe, giacca cravatta e niente coppola in testa, mentre risponde alle domande. E poi, davanti ad un’asserzione della portata di «non si sputa nel piatto dove si mangia», tradotto: “sono orgogliosamente un mafioso”, perché la giornalista sceglie di dare a Giacobbe un’altra occasione di celebrità ricordando che è stato citato in un libro? Sarebbe sufficiente agire con un po’ più di scrupolo, porre a se stessi qualche interrogativo in più e già la mafia farebbe i conti con un altro giornalismo.
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Pacifisti
Da Niscemi a Ravenna FOTO DI ALESSANDRO ROMEO
Ma sta cambiando qualcosa, in questo Paese? Al Nord, al Sud? Forse sì di Sara Spartà
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media ma la solidarietà crescente dei cittadini – l’impegno del piccolo gruppo di ragazzi che ha dato il via a tutto questo. Erano appena cinque, all’inizio. Ora sfilano in folla, e sono cinquemila. Siamo a poca distanza da Comiso, la terra che negli anni di Pio La Torre lottava contro gli stessi obiettivi e contro gli stessi soggetti. Una sfida lunga trent’anni, che dalla base di Comiso si sposta a Niscemi ma che ha gli stessi simboli, gli stessi colori, la stessa Sicilia che ha voglia di riscatto. Una sfida lunga trnt'anni
“Niscemi batte Obama” titola il “Manifesto” del 7 ottobre. Il giorno la manifestazione nazionale No MUOS davanti alla base della Us Navy di Niscemi aveva fatto parlare tutta Italia. Più di cinquemila persone sono arrivate da tutte le città e paesi della Sicilia per protestare non solo contro la base, ma anche contro tutte le altre ferite imposte alla dignità del territorio e alla salute dei cittadini. Dai No Tav ai No Ponte, dalle donne di No dal Molin ai No Radar sardi, hanno sfilato tutti insieme per dire basta alla militarizzazione del territorio e per promuovere i valori della pace e della vita. In testa al corteo c’era il Sindaco di Niscemi Francesco La Rosa e al suo fianco Rita Borsellino. E poi, solidali e decisi, i sindaci di vari comuni della zona. Un corteo lungo quattro anni: è da tanto che dura – fra il silenzio dei grandi
Si rivendica la libertà di questi territori dalle pretese dei militari americani e si festeggia la notizia del sequestro preventivo dell’intera area disposto dalla Procura di Caltagirone. Il provvedimento, emesso dal Gip a seguito di indagini iniziate nel luglio 2011, è basato sul divieto assoluto di edificabilità di quell’area e sulla violazione di varie prescrizioni fissate dal decreto istitutivo della stessa e dell’ambiente circostante. Il Muos infatti sorge all’interno di una Riserva Naturale Orientata, sito d’interesse comunitario. Rita Borsellino ha definito ambigua la risposta ricevuta dal Parlamento Europeo a seguito della sua interrogazione sul caso Muos. “Ambigua – ha precisato perché i documenti forniti per lo stesso risultano essere in regola.” E si dispiace del fatto, che denuncia come riprovevole, che la magistratura ancora una volta deb-
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ba sostituirsi alla politica. Dichiara inaccettabili le responsabilità della Regione Sicilia auspicando un maggiore interesse e rivisitazione di tutti gli atti e le procedure relative al Muos. Ai cancelli della CMC C’è voglia di chiarezza e di trasparenza. E se da un lato impera la gioia dei Comitati, dall’altro lato tutti lamentano come l’interessamento dei politici coincida con l’avvicinarsi delle elezioni regionali. Semplice coincidenza o reale interesse, questo sarà il tempo a dirlo. Nel frattempo i ragazzi non si fermano e con gioia, colori, sorrisi e determinazione continuano la marcia per la sensibilizzazione e la protesta che salpa verso il “continente”. A Ravenna il 13 ottobre hanno manifestato di fronte ai cancelli della CMC (l’antica Cooperativa Muratori e Cementieri, ora lontana dagli ideali di solidarietà originari) per la salvaguardia della terra e per la rivendicazione dell’etica nel lavoro nelle imprese e nelle cooperative come questa, che è general contractor di tutte le più grandi opere d’Italia, dal ponte sullo stretto di Messina al Tav in Val di Susa. Abbiamo manifestato anche per denunciare le collusioni con la mafia che molte imprese di questo circuito di appalti e subappalti intrecciano e che restano ancora in ombra. Afine mese è prevista una manifestazione anche a Roma.
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Ieri contro i missili, oggi contro il Muos
Da Comiso a Niscemi Generazioni di pace Chi l'ha detto che i giovani non s'impegnano più? La folla colorata e pacifica di Niscemi, i comitati che sorgono dappertutto, sono un segnale preciso. Che i politici ignorano di Antonio Mazzeo Come ritrovarsi a vent’anni. Con le stesse energie, l’ingenuità di ritenere il mondo diviso in buoni e cattivi, noi i buoni, loro i cattivi. Con il sorriso dipinto nel volto, gli occhi luminosi. E belli. I colori, poi, sono ancora gli stessi. L’azzurro del cielo siciliano in ottobre e le campagne che dopo l’arida estate tornano a macchiarsi di verde. E quelli dell’iride, il ponte della rinnovata alleanza tra l’Uomo e l’Eterno. La natura. La speranza di pace. Noi che abbiamo ormai i capelli grigi abbiamo sentito di rivivere l’ansia, le gioie, l’allegria festosa di quando circondavamo con i nostri corpi il filo spinato di quella che sarebbe diventata la base della morte atomica, a Comiso, trent’anni fa. Nel cuore della Sicilia Stavolta però siamo a Niscemi, nel cuore dell’ultima sughereta di Sicilia. A destra le querce plurisecolari, a sinistra la selva di antenne di una delle stazioni di telecomunicazioni militari più grandi del mondo. Sabato 6 ottobre, alla prima manifestazione nazionale contro l’Eco MUOStro che - nelle intenzioni di Washington - dovrà condurre sciami di droni ad invadere e disseminare il lutto nel pianeta, abbiamo ritrovato l’Altra Sicilia, quella che non vedevamo dalle lunghe marce contro i missili Cruise e i tragici cortei dopo
l’attacco allo Stato da parte dello Stato con le bombe e gli artificieri di Cosa nostra e dell’eversione neofascista. Quella Sicilia che non ha diritto di cittadinanza nei consigli comunali e alla Regione ma che non si china al passaggio del potente. Quella Sicilia che ripudia le armi e la guerra, s’indigna per le carcerazioni e gli abusi sui migranti e i richiedenti asilo, che difende i territori dai saccheggi, le colate di cemento, le perforazioni. Precari, cassintegrati... Giovani e studenti, i disoccupati e i precari per tutte le stagioni, i cassintegrati di Termini Imerese, quelli che nelle campagne e nelle serre la cassa integrazione non la vedranno mai. Le madri, le bambine, tantissime donne ed essere donna in Sicilia è due volte più duro che esserlo altrove. Il popolo dei No Muos incarna l’utopia dell’esserci e contare, del non delegare diritti e speranze. Un popolo che ringrazia quei magistrati in prima linea per la verità sulle Stragi e la Trattativa e quelli che han sfidato lo Zio Sam, mettendogli in catene a Niscemi la mostruosa creatura generatrice dell’apocalisse. Ma che sa bene che contro la Mafia e il MUOS non si vince nelle aule giudiziarie, perché è lotta politica, di piazza, nei quartieri, un confrontoscontro sociale. Un conflitto per il cambiamento e la trasformazione delle relazioni umane e sociali, per la giustizia
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economica in difesa dei Beni Comuni, per l’affermazione dell’uguaglianza e la promozione dei diritti. Oggi siamo più maturi di trent’anni fa, quando ritenevamo impossibili nuove guerre e ci nutrivamo dei miti del Progresso e della mobilità sociale. Sappiamo che la riconversione a uso collettivo delle basi di guerra non è un assunto etico ma è la scelta obbligata per assicurare la sopravvivenza a figli e nipoti. Bandire le armi è l’ultima opzione per garantirci pane e lavoro. Opporci al MUOS è riprenderci la Vita. Di fronte al muro di gomma e falsità innalzato dagli strateghi del Pentagono e dai servi sciocchi dei Monti boys, forse saremo costretti a distenderci supini sulle viuzze di contrada Ulmo e rendere inagibile e inoperativa l’enorme ordigno elettromagnetico made in U.S.A. che avvelena da oltre vent’anni i figli della terra di Niscemi. Dobbiamo provarci. Insieme Dovremo assumerci le nostre responsabilità sino all’ultimo. Rischiando di offrire le nostre persone alla cieca e ottusa repressione dei corpi dello Stato. Ma è in gioco il senso stesso della storia umana, con le sue mille contraddizioni ma con il suo valore unico, supremo. Dovremo provarci. Insieme. In quest’ultimo autunno senza il MUOS e i suoi satelliti nello spazio.
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Foto di Domenico Pisciotta
L'immagine
La lettrice
“ ...A Catania non comanda la mafia, perciò dimenticatevi del tutto dei morti in nome della giustizia sulla città, ammazzati con l'indifferenza di ogni giorno dimenticati in nome dell'ordine che ci controlla nella coscienza individuale ed in quella collettiva. E voi dimenticatevi i nomi dei martiri di questa ingiustizia chiamata caso Catania. Statevene quieti nelle vostre case, e lasciateli in silenzio nella terra di questa città, perchè come i vivi possano vivere nell'oblio della memoria... “ Fabio D'Urso e Luciano Bruno
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IL FILO
Di chi è la colpa di Giuseppe Fava
“I siciliani hanno espresso una classe politica di gran lunga inferiore alle loro capacità umane e alle necessità storiche”
Da trent’anni abbiamo l’autonomia regionale, una macchina costituzionale per risolvere la nostra tragedia di popolo, risolvere i nostri problemi sociali, costruire le strade, le scuole, gli ospedali, le case, le dighe, portare acqua nel cuore della terra arida, costruire fattorie, allevamenti, sovvenzionare le industrie utili, proteggere i monumenti, il mare, le coste, realizzare alberghi, impianti sportivi, ____________________________________
La Fondazione Fava
La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________
Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”
Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.
I siciliani hanno espresso una classe politica di gran lunga inferiore alle loro capacità umane e alle necessità storiche.
Il tuo voto ad un uomo così
Amico mio, chissà quante volte tu hai dato il tuo voto, ad un uomo politico così, cioè corrotto, ignorante e stupido, sol perché una volta insediato al posto di potere egli ti poteva garantire una raccomandazione, la promozione ad un concorso, l’assunzione di un tuo parente, una licenza edilizia di sgarro.
musei, teatri. Siamo invece immobili, La truffa civile
quasi putrefatti dentro i nostri problemi; l’Europa, cioè il livello di civiltà europea si allontana sempre di più.
Così facendo tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i par-
L'Europa s'allontana sempre più
lamenti e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiri-
Nella realtà non poteva essere altrimenti: molti politici ai quali i siciliani hanno delegato l’amministrazione della autonomia, erano privi di cultura tecnica, altri accecati dall’interesse personale e quindi disponibili alla corruzione, altri ancora infine senza ingegno, né fantasia, né inventiva, cioè praticamente stupidi.
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tualmente più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società. Di tutto quello che accade oggi in questa nazione, la prima e maggiore colpa è tua. (I Siciliani, febbraio 1983)
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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura
Fatta da: Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Lorenzo Baldo, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Claudia Campese, Arnaldo Capezzuto, Giovanni Caruso, Gian Carlo Caselli, Ester Castano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Gabriele Centineo, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Marina Comandini, Celeste Costantino, Fabio D’Urso, Nando dalla Chiesa, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Paolo Fior, Luigi Fonderico, Rino Giacalone, Carlo Gubitosa, Diego Gutkowski, Filomena Indaco, Margherita Ingoglia, Kanjano, Sabina Longhitano, Michela Mancini, Michela Mancini, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Pietro Orsatti, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Antonio Roccuzzo, Giorgio Ruta, Luca Salici, Valentina Sgambettara, Mario Spada, Sara Spartà, Mara Trovato, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà
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Ai lettori
1984
Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani
Ai lettori
2012
www.isiciliani.it
Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani
Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.
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In rete, e per le strade
I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.
facciamo rete!
I Siciliani giovani
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I Siciliani giovani 1982 -2012 "A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?"
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