I Siciliani - gennaio 2012

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I Siciliani giovani

Pino Maniaci

Giovanni Tizian

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

n.1 gennaio 2012

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Nord&Sud

Di questi due giornalisti minacciati dai mafiosi, uno sta in Sicilia e l’altro vicino al Po. Qual è la differenza?

INCHIESTE INCHIESTE

Il caso Mafia e Attilio politica/ Manca Barcellona

Mafia/ La buona borghesia di Messina Denaro

Egitto/ Per chi suona la campana

Società Tutto l’odio di Roma/ Il giorno dei forconi

Umberto Gay/ Milano palermitana Periferie: Palestina/ Catania/ Zen/ Torpignattara Economia/ La Coop salva Ligresti Cavalli/ L’ora della differenza Satira/ “Mamma!” CASELLI/ SCOPPIANO LE CARCERI SCOPPIA L‘ITALIA DALLA CHIESA/ SOCIETA’ INCIVILE


facciamo rete http://www.marsala.it/

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I Siciliani al lavoro

Il 5 gennaio scorso a Roma faceva molto freddo. Lo ricordo bene, perché sono stato in strada più di venti minuti ad aspettare Norma Ferrara. Non c’eravamo mai incontrati di persona, e così mi è sembrato brutto dirle qualcosa. E poi non c’era più tempo da perdere, perché dopo poco sarebbe dovuto cominciare l’incontro che avevamo organizzato insieme, prima per email e poi al telefono. “Ricordiamo Pippo Fava lavorando”, era questo il titolo dell’iniziativa che si stava per svolgere presso la Federazione nazionale della stampa italiana, in parallelo con quella che si stava tenendo a Catania. Volevamo ricordare Giuseppe Fava e presentare I Siciliani giovani. Ma avevamo molti dubbi sulla riuscita dell’incontro: sarebbero venuti i relatori? sarebbe venuto qualcuno ad ascoltarli? saremmo riusciti a fare qualcosa di costruttivo senza cadere nella retorica? Alla fine, con solo un quarto d’ora di ritardo, abbiamo cominciato. C’è stato chi come Lillo Venezia ha portato i suoi ricordi di Pippo Fava, e chi come Roberto Natale, presidente della Fnsi, e Enzo Iacopino, presidente dell’ordine dei giornalisti, ha parlato dell’attualità delle sue posizioni.. E dopo di loro sono intervenuti Danilo Chirico e Luigi Politano, dell’associazione daSud, Santo Della Volpe, di Libera Informazione, Alberto Spampinato, di Ossigeno. Ma soprattutto c’erano molte persone interessate ad ascoltare, che hanno lasciato i loro contatti e che forse diventeranno compagni di strada. Insomma, non doveva venire nessuno, e invece eravamo in tanti. Mi sembra di buon auspicio: anche il giornale che state leggendo non sarebbe dovuto esistere più, e invece c’è.

I Siciliani giovani

(di Francesco Feola)

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I Sicilianigiovani GENNAIO 2012

numero uno

Questo numero

I Siciliani al lavoro di Francesco Feola Società incivile di Nando dalla Chiesa Giustizia di Gian Carlo Caselli Da Milano di Giulio Cavalli Da Palermo di Giovanni Abbagnato

3 6 7 8 9

Mestiere di giornalista

Fra via Emilia e 'ndrangheta di Luca Salici Telejato/ A giugno via di Salvo Vitale Giornalisti di Riccardo Orioles

10 16 18

Altrisud

Per chi suona Piazza Tahrir di Jack Daniel Tunisi/ Testimonianze di Marta Bellingrer Rewind-forward di Francesco Feola

“E i poveri sempre più poveri” Il duemila e dodici avanza faticosamente, ingenerando speranze (alcune), delusioni (un po') e dando luogo agli antichissimi mugugni sui ricchi che sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ogni tanto si cerca di uscire da questa storia: male come in Sicilia (gl'ingenui - diciamo così - forconi), bene come in Egitto (gli studenti che guizzano fra militari e clero). Comunque quest'anno ha ancora undici mesi per mostrarci le sue buone intenzioni, Maya e Borse permettendo. La politica, in Sicilia, è una cosa abbastanza rudimentale, tando semplice che le persone serie (come tutti i politici) hanno difficoltà a capirla. I partiti sono esclusivamente due, la mafia e l'antimafia. Il primo è cosciente e unito, il secondo no. A Palermo - ad esempio - s'è persa la buona occasione di un sindaco antimafia: che avresti potuto essere tu, o lui, o il primo siciliano onesto che passa, ma con una squadra di assessori assolutamente straordinaria: Borsellino ai lavori pubblici, Orlando alla cultura, l'Alfano alla trasparenza, e così via. Ma di essere soldato semplice non si contenta nessuno. Todos generales. La politica si può fare anche in un'altra maniera. Fare un lavoro utile, farlo più seriamente che si può, unendo più persone diverse che si può, farlo crescendo i giovani e farlo senza padroni. Tutto questo è “politico” anzi, detto fra noi, è rivoluzionario, ma proprio alla maniera di don Milani o Che Guevara. Ma vaglielo a spiegare alle persone serie.

20 23 24

Inchieste

Una capitale di Cosa Nostra di Antonio Mazzeo Il caso Manca di Luciano Mirone Interviste/ De Matteo di Lorenzo Baldo e Giorgio Bongiovanni

26 30 34

Mafia e antimafia

Mafie al Nord di Gabriele Licciardi Milano palermitana diUmberto Gay Dove la cosca è Stato di Rino Giacalone Cannoli di Rino Giacalone Il caso Caravà di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Sardegna/ Contro l'omertà di Antonio Mura Lombardia/ Cermenate di Tommaso Marelli Uno che non si è arreso di Vincenzo Mulè

*

Ricordiamo con affetto Vincenzo Consolo, che scrisse per i Siciliani in momenti difficili e fu sempre un amico.L'Italia è assai più povera, senza di lui.

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DISEGNI DI MAURO BIANI

SOMMARIO Sicilia

L'amianto contro il mare di Sebastiano Ambra Ragusa/ Un posto all'Ato di Francesco Ragusa

50 52

Periferie

Librino/ Il teatro chiuso di Luciano Bruno Dalla Palestina a Catania di Dario Vicrar Straniera a Roma di Michela Mancini Periferie/ Torpignattara di Lorenzo Misuraca

53 54 56 58

Città

Economia

Catania/ Un teatro dei cittadini di Salvo Catalano Catania/ Avventura in autobus di Giulio Pitroso Una birra a Dublino di Giorgio Ruta

60 62 64

65

Immagine

Il Gran Magal di Santo .Mangiameli e Sandra Quagliata

82 84

Giornali strani

Satira

"Mamma!" a cura di Carlo Gubitosa

La metamorfosi di Unipol e Coop di Paolo Fior On the road di Fabio Vita

Quando il Male incontra i Siciliani di Norma Ferrara Il Male conquista la Dc di Lillo Venezia

86 87

Musica

75

Società

Da Tatum ad Allevi di Antonello Oliva

88

Scienze

Quando Milano educa alla mafia di DarioParazzoli 81

L'eredità di Archimede di Diego Gutkowski

90

Storia

Il Muro e il silenzio di Elio Camilleri

93

Polis

Rifiuti: pagliuzze e travi di Riccardo Rosa "Un'altra Primavera" di Giovanni Abbagnato

94 95

Reportage

Il giorno dei forconi di Alessandro Gagliardo Dietro i forconi di Salvo Vitale Reportage su Roma di Pietro Orsatti Una storia che puzza di Rudy Colongo

96 101 102 106

Siciliani

C'era una volta di Fabio D'Urso Il mio Paese di Giuseppe Fava Palermo, Zen di Grazia Bucca

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Società incivile

Ancora coi “professionisti dell'antimafia”? di Nando dalla Chiesa

Poi dice che il nord è diverso…A

sappiamo come è andata a finire al

Motivo: ha la scorta, quindi mettereb-

Milano in consiglio comunale la capo-

“carrierista” Borsellino, è qualcosa di

be a rischio scuole e studenti.

gruppo del Pd pensa bene di battezza-

più.

L’ineffabile preside del Leonardo,

re la nascitura commissione antimafia

Poi dice che il nord è diverso… A

Giosué Margiotti, ha anzi affermato

dichiarando la propria ostilità verso i

Genova l’associazione Libera sta pre-

che l’ingresso di don Ciotti nella sua

professionisti dell’antimafia, verso chi

parando da settimane la sua manife-

scuola sarebbe una violazione della

fa dell’antimafia una vetrina. Dice

stazione annuale per il primo giorno di

legge. Come pretende, vien da chie-

nelle sue dichiarazioni ufficiali in aula

primavera (quest’anno il 17 marzo) in

dersi, questo prete di venire a parlare

che è sempre stata d’accordo con

memoria di tutte le vittime di tutte le

di legalità quando lui è il primo a vio-

Sciascia e con la sua assai nota pole-

mafie e per sollecitare l’ impegno dei

lare le leggi?

mica degli anni ottanta.

cittadini in difesa della legalità e della

Bersaglio Borsellino Una polemica, forse vale la pena ricordarlo ai più giovani e agli smemorati, che aveva un unico bersaglio nome e cognome: Paolo Borsellino.

Torna in mente una lunga stagione

giustizia sociale. Riunioni, presenta-

in cui fior di palermitani scrivevano

zioni di libri e dossier, cineforum, in-

lettere al “Giornale di Sicilia” per

contri nelle scuole.

chiedere che i magistrati antimafia ve-

Il preside: “Don Ciotti? Via!” Ecco: due scuole superiori, due licei

Morale: se essere d’accordo allora

scientifici (il Cassini e il Leonardo da

con quell’articolo era del tutto im-

Vinci), hanno negato l’ingresso a don

provvido, essere d’accordo ora che

Luigi Ciotti, il presidente di Libera.

nissero messi a vivere tutti quanti su un’isola, così da non fare correre più pericoli alla cittadinanza. Nord e Sud Insomma, nord e sud uniti nella lotta... all’antimafia. Ce la faremo a unirci pure noi, mica per fargli paura, ma giusto per renderli un po’ ridicoli?

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Giustizia

Scoppiano le carceri, scoppia la società di Gian Carlo Caselli

Le carceri scoppiano. Ma i soggetti

Così, se la pena per un tossicomane,

Ma al termine della pena costoro o

che le popolano sono “socialmente in-

invece che una porta girevole, diven-

vengono espulsi o tornano nel limbo

visibili” (De Vito) ed è perciò facile -

tasse una via alla riabilitazione che te-

della clandestinità. E allora perché

ad una classe politica in ogni caso in-

nesse conto della sua fragilità, potreb-

non pensare al carcere come momento

capace di riforme - rimuovere di fatto

bero diminuire i costi umani che la ce-

di emancipazione anche per loro?

la questione. Clandestinità e margina-

cità tariffaria, viceversa, reitera: sen-

lità ne sono gli ingredienti principali.

za accorgersi che un presunto princi-

Per evitare in radice la periodica,

pio di giustizia si infrange appena

sterile riproposizione di tale emergen-

usciti dal carcere per la necessità di

za, deflazionare il contingente peni-

“farsi”.

tenziario è necessario ma non basta. Occorre alzare lo sguardo e mettere

Nel limbo della clandestinità

mano alle questioni che vengono ri-

Quanto agli stranieri (ormai il

solte sbrigativamente con il carcere e

47,9% ), gli operatori penitenziari

che determinano infine la questione

concordano nel riscontrare l’impegno

carceraria: l’immigrazione, il consu-

di quelli che sono ammessi al lavoro

mo di stupefacenti, la malattia mentale

interno od esterno.

e la marginalità senza più alcuna protezione. Spesa sociale e spesa penale Se diminuisce la spesa sociale, aumentano quella sanitaria e penale. In tempi di crisi economica, potrebbe essere utile invertire la tendenza.

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L'esigenza che spinge Se il carcere fornisse gli strumenti per salvaguardare l’esigenza (migliorare la propria vita) che spinge ad emigrare, è molto probabile che lo straniero sfuggirà al e dal crimine e contribuirà, in patria o in Italia, allo sviluppo sociale ed economico.


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Da Milano

Essere differenti: se non ora, quando? di Giulio Cavalli Abbiamo passato questi ultimi anni a sentirci ripetere quanto la Lombardia fosse la regione pioniera di un nuovo modello di imprenditoria illuminata e severità sociale. Abbiamo ascoltato il partito degli imprenditori (con il berlusconismo che qui in Lombardia è stato progettato, impastato e confezionato pronto per essere venduto) e gli autonomisti (con la Lega e tutte le sue ultime leghe interne) sventolare la retorica dell'eccellenza lombarda come stella polare di una politica liberale, simpatica come una trasmissione in prima serata e vincente, dedicata a tutti vincenti. La privatizzazione dei diritti Non so quanto coraggio abbiamo avuto, noi, mentre andava in scena tutto questo. Non so se forse non ci siamo perduti nei banali (e peraltro falliti) inseguimenti sui temi del centrodestra per provare a dimostrarci all'altezza, se qualcuno non abbia pensato che fosse una buona cosa imparare bene ad essere dei buoni perdenti e passare all'incasso o se semplicemente mancasse lo slancio e la fantasia. Certo non abbiamo osato. Certo in Lombardia, e non solo in Lombardia, abbiamo passato più tempo al tavolo della matematica, inseguendo la formula del cinquantuno per cento senza tenere aperta la finestra al paese che scorreva: segreterie di partito, riunioni di coalizione a cercare la matematica con un Paese che intanto privatizzava i diritti, liberalizzava i doveri, ha impacchettato i servizi in confezioni da dieci pezzi pubblicizzati con il sorriso del Governatore di turno. In vent'anni di Governo spericolato

con i ricchi e sempre timido con gli altri, in Lombardia, ci hanno già raccontato la favola triste della liberalizzazione salvifica, della finanza come unica cura dell'economia e della ricchezza come valore e la povertà come costo. Ricchezza come “valore”: le parole di Monti hanno lo stesso spaventoso retrogusto di un sistema che è già in atto, giù al nord, nella sanità di prima e seconda classe, nel lavoro diviso (e non più condiviso) tra gli acquirenti bulimici e chi può solo elemosinare di essere ancora spendibile, tra la politica che è l'ancella spudorata di un'imprenditoria sempre meno etica e le mediazioni sociali che sono solo trattative d'affari. Per questo credo che la Lombardia sia lo spettro che già c'è del nostro quadro nazionale; il vaccino da cui partire per ricominciare ad osare, per prendersi la responsabilità di tenere la barra dritta senza inseguire strani matrimoni, senza scorciatoie, per dire forte senza remore e senza impauriti moderatismi che abbiamo già visto la liberalizzazione che fissa il prezzo ai diritti e che non ha niente a che vedere con la liberalizzazione che sta nel 'rendere liberi tutti di accedere ai servizi': l'unica liberalizzazione che potrebbe essere accettabile. Noi non possiamo stare nei toni di grigi. Non possiamo accettare di collaborare con chi sta in mezzo non per virtù ma per speculazione. Non possiamo blandire questa moda del dichiararsi oltre le ideologie per non garantire l'omertà di posizioni. Noi stiamo a sinistra. Della sinistra che sta nell’idea che preserva il suolo, l’ambiente, l’acqua e l’aria come bene comune. Che crede nell’impegno dell’u-

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guaglianza: uguaglianza di possibilità, uguaglianza sociale e uguaglianza nei diritti e nei doveri. Della sinistra che trova inaccettabile questo paese come laboratorio del totalitarismo moderno. Che crede nel valore della laicità e vigila sulla libera professione delle fedi, che coltiva la ricchezza delle differenze, che pretende dignità nel lavoro, che crede nelle leggi come opportunità di convivenza e di tutela, che condanna lo sfruttamento e il mercimonio e che ha una storia di persone e di valori, che si spende sulle infrastrutture sociali come uniche urgenti grandi opere. Così, tanto per chiarire. Una recessione sociale e culturale Perché non esistono modi banali per potersi mettere insieme. Perché questa crisi è una recessione sociale e culturale, e solo dopo economica. Perché non è credibile e non ci appartiene questo gioco banale e vuoto di infilare nel cassetto della post-ideologia qualsiasi operazione di costruzione di un pensiero comune, di una forma collettiva di azione e di pensiero che, se infastidisce chiamarla ideale o ideologia, a noi basta chiamarla idea. Perché la trasparenza, la partecipazione, l’etica e la legalità sono le sentinelle di un indirizzo sociale e politico che non possono da sole bastarci come contenuto. Il momento storico del nostro Paese (e della desolante credibilità del nostro Paese nel mondo) chiama una generazione alla responsabilità di sostituire i modi (e le persone) del fallimento ma soprattutto alla responsabilità di costruire un nuovo modello.


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Da Palermo

I sindaci della decadenza di Giovanni Abbagnato

La responsabilità di raccontare un’altra direzione e declinarla ognuno nel proprio campo. Non accettiamo di aspettare che il terremoto dia a noi l’occasione da usare. Vogliamo costruire la prospettiva da osare. Insieme. Confiscare la bellezza. Presidiare con fenomeni di stampo antimafioso. Non occuparsi di infiltrazioni ma delle convergenze. In un tempo di corruzione, mafie, riciclaggio e mala politica con lo stesso spirito ispiratore, in un momento di emergenza morale oltre che economica scegliere da che parte stare è un obbligo. L'indifferenza, il compromesso e l'ossessione della mediazione sono solo un diverso grado di collusione: allora rivendichiamo con forza da che parte stare. Essere di parte com'è nel senso della storia e delle parole: essere partigiani. Perché è il nostro modo, il nostro obbiettivo e perché, come dice l'articolo 4 della Costituzione, ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. La Costituzione ci dice che essere indifferenti è incostituzionale: questo è il nostro tempo di essere differenti.

Le dimissioni del Sindaco di Palermo Cammarata - tra gli amministratori più screditati sul piano locale e nazionale – riporta ad una metafora che riguarda l’ulteriore degrado della classe politica e amministrativa siciliana che sembrava non potesse andare oltre i livelli di inefficienza e illegalità gestionale del tempo della prima Repubblica. Infatti, la Palermo di Cammarata , come la Catania di Scapagnini e del suo epigono Stancanelli, andava negativamente oltre perfino i costumi politici dei vecchi Sindaci, affaristi e clientelari. Incredibili livelli d'incompetenza Questo perché questi “nuovi”prodotti del rampantismo berlusconiano, portavano con sè, oltre a discutibilissimi valori di riferimento coincidenti con quelli del passato, un livello incredibile di incompetenza e irresponsabilità. Eppure il “signor nessuno" Cammarata viene eletto e confermato a primo e secondo mandato e il medico di Berlusconi, come il suo sostituto di parte, vengono acclamati dalla città etnea come provvidenziale novità amministrativa. I Sindaci delle più importanti città siciliane sono accomunati dunque dall’essere metafora, oltre che di un degrado politico generalizzato, anche di uno svilimento ulteriore delle qualità civili di due società metropolitane. Cammarata va via adesso perché tutto il PDL siciliano, nonostante la lunga e profonda faida interna, decide che non si può arrivare troppo vicini alle elezioni di primavera nel Capoluogo con in carica

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un Sindaco totalmente delegittimato, prima ancora che dalle valutazioni di prestigiosi giornali nazionali, dalla città nel suo complesso. E dire che per tanto tempo le fazioni del PDL avevano evitato, non senza difficoltà ,di andare alle estreme conseguenze di uno scontro, comunque in atto in sedi istituzionali fondamentali come quella della Regione. Questo per l’imprevedibilità dell’esito di un’eventuale scontro “all’ultimo sangue”, visto che Berlusconi ha accuratamente evitato di prendere chiaramente parte nella disfida, probabilmente in linea con le strategie di quel palermitano doc che è Marcello Dell’Utri, tanto importante per il Cavaliere e, quindi, in grado di dettargli qualche consiglio particolarmente autorevole. Ciò ha determinato nel tempo la “forte debolezza”di Cammarata che poteva così rimanere in sella mal sopportato da tutti, compresi i suoi alleati, ma ancora in grado di chiedere un prezzo per farsi da parte. Intanto la città continua ad affondare letteralmente nel suo degrado socio-economico e amministrativo. Un devastante dissesto Ma tutto questo attiene ad un devastante dissesto finanziario e ad esplosive questioni lavorative che prodotte da quel degrado politico – istituzionale, si presentano in modo drammaticamente concreto e apparentemente inarrestabile. Insomma, come disse qualcuno: “Quando si è arrivati al fondo si può continuare a scavare e quando si è già sull’orlo del baratro si può fare un passo avanti”. Povera Palermo e Santa Rosalia.


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UN MESTIERE DIFFICILE

Tra la via Emilia e la 'ndrangheta Giovanni Tizian, giornalista precario di 29 anni, da un mese è sotto scorta. Accade a Modena, in Emilia Romagna, dopo la pubblicazione di un libro-inchiesta sulle mafe al Nord. Sopra la linea Gotica, Giovanni, aveva ricominciato la sua vita dopo l'omicidio del padre Peppe, vittima innocente della criminalità organizzata a Locri nel 1989. di Luca Salici I Sicilianigiovani – pag. 10


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l’omicidio ci siamo trasferiti per cercare di ricostruire la serenità e la tranquillità che non avevamo avuto in Calabria. Con la morte di mio padre abbiamo sentito addosso tutta la voglia che quella terra aveva di mandarci via. Abbiamo provato in un colpo solo tutta la solitudine del mondo. Mia madre ci portò via, a Modena, città accogliente che mio nonno conosceva bene”. Una città in cui ricominciare daccapo una nuova vita. Senza dimenticare dove si è nati. Il giornalismo come impegno

La strada per Pietra Cappa, nel cuore dell'Aspromonte, è lunga e tutta in salita. Si passa in auto da Locri per arrivare a Bovalino, dalla statale 106, poi si gira verso San Luca, paese di faide e di odi mai sopiti. Si cammina per una via stretta. Ad indicarti il percorso solo cartelli bucati dai pallettoni delle lupare. Bisogna suonare il clacson davanti ad una mandria di pecore e ad un pastore che ti guarda negli occhi e ti domanda chi sei, con il solo gesto di asciugarsi la fronte con la mano. Dopo alcuni tornanti bisogna lasciare la macchina e proseguire a piedi per tre ore. Non perdendo di vista la punta della montagna. È l'estate del 2008. Ogni anno, in questo periodo, ci si ritrova su questi sentieri verso Pietra Cappa, per ricordare le vittime della 'ndrangheta. In prima fila Deborah, che in cima alla montagna

racconta la storia del padre Lollò, calciatore e fotografo. Il corpo di Lollò Cartisano lo ritrovarono proprio lì, in cima a quel monte che amava tanto fotografare. Lui fu l'ultimo sequestrato dalla 'ndrangheta negli anni Novanta. I suoi familiari pagarono un riscatto che non servì mai a nulla, e per dieci anni rimasero senza un corpo da piangere. Deborah racconta questa storia, guarda in basso, poi negli occhi di chi la ascolta a cuore aperto. Si alza uno dei ragazzi che ha sentito con attenzione: “Io mi chiamo Giovanni Tizian. E sono il figlio di Peppe, impiegato di banca, ucciso il 23 ottobre 1989”. Peppe Tizian fu ucciso a colpi di lupara mentre percorreva la statale 106. Uno dei tanti omicidi di 'ndrangheta che non ha avuto mai giustizia. Giovanni all'epoca era appena un bambino: “Cinque anni dopo

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Giovanni Tizian non aveva mai parlato pubblicamente dell'omicidio del padre. Per anni aveva tenuto tutto dentro di sé. Quel racconto spontaneo a Pietra Cappa rappresentò anche l'inizio di un percorso: tornato dopo le vacanze in Emilia, Giovanni comincia a mettere l'impegno antimafia davanti a tutto. Collabora e fa parte attivamente delle attività dell'associazione antimafia daSud e inizia a scrivere e a raccontare quello che accade in città, nella civilissima Modena. “Cominciando a scrivere – ricorda Giovanni – ho riaperto i conti con la mia vita. Il giornalismo mi ha tirato fuori il dolore”. Inizia a collaborare con la Gazzetta di Modena, con Narcomafie e con altre testate attente ai suoi lavori di inchiesta. Più si guarda attorno e più riconosce le dinamiche da cui è già passato: il giro torbido di denaro, gli affari dei clan, i traffici che stavolta passano tra la via Emilia e la 'ndrangheta. “Modena e l’Emilia Romagna rappresentano per le mafie un luogo strategico per i loro interessi – scrive Giovanni sul libro-inchiesta Gotica – Potevo forse illudermi che sarebbe bastato cambiare regione per non sentire più parlare di boss, mafia e picciotti? Ingenuamente l’avevo sperato”. L'Emilia è una delle regioni più ricche d'Europa. Registra tassi di occupazione molto alti, che superano il 70% e che arrivano all'80% proprio a Modena e Reggio. Un patrimonio che fa gola ai clan che hanno il monopolio di molti settori produttivi, come conferma il procuratore


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Alcune immagini della presentazione del libro Gotica alla Feltrinelli di Modena e della campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” (foto Gazzetta di Modena)

Un presente precario

di Modena Vito Zincani: "Il crimine organizzato è diventato più competitivo sul piano del prezzo, riuscendo a penetrare il sistema economico locale, in settori come il movimento terra, l'edilizia e la logistica. I contesti emiliani si sono dimostrati i più vulnerabili”. Le infiltrazioni delle cosche passano per l'edilizia, le sale da gioco, le discoteche e i locali notturni. E tutto l'indotto che le riguarda: immobiliarie, slot machine, sicurezza, cantieri, catering e forniture varie. “Sopra la linea gotica – racconta Tizian – una larga fetta della società confonde i mafiosi con gli imprenditori e pensa di poter fare affari con loro. Accettano delle buone proposte commerciali non rendendosi conto che dietro la giacca e la cravatta ci sono dei

sanguinari”. A Modena il clan più presente è quello dei casalesi. Tra Parma e Reggio Emilia, comanda la cosca ‘ndranghetista Grande Aracri. “Da quando lavoro in Emilia – racconta Giovanni – ho scoperto che casalesi, ‘ndrangheta e Cosa nostra, operano qui come se fossero a casa loro. Nell’ultimo anno le indagini sono state numerose: arresti, sequestri, processi. Le cosche corrono rapide di cantiere in cantiere e consolidano il loro potere. Raccontare i loro affari e seguire il percorso del denaro mafioso significa buttar giù la barriera di legalità creata grazie alla connivenza dei “colletti bianchi”. Dinamiche che rendono i boss invisibili e socialmente accettati”.

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Per questo lavoro documentato e coraggioso, Giovanni Tizian, da giornalista freelance di 29 anni, si trova sotto scorta dal 22 dicembre. “Vivo una situazione di doppia precarietà: sia fisica che economica – afferma –. Anche se sono stato minacciato, ogni giorno devo comunque scrivere il mio pezzo. Sennò non vengo pagato”. La Direzione distrettuale antimafia di Bologna ha aperto un'inchiesta sulle minacce che hanno portato la prefettura di Modena a dare la scorta a Giovanni. Indagini che rimangono segretissime. Anzi aver reso pubblica la notizia, a detta del capo procuratore Roberto Alfonso, ha creato seri danni all'inchiesta della Dda. «Siamo in una fase talmente delicata che nemmeno Tizian può sapere cos'è accaduto realmente – spiega Alfonso –. Si tratta di una situazione che va salvaguardata e che richiede di agire con tempestività e prudenza. Il giornalista in questi anni ha scritto tante cose, libri e articoli. Qualcuno si è risentito per qualcosa che ha trattato e che lo riguardava». Nonostante le minacce, Giovanni va avanti e non si stanca di ripeterlo nelle decine di interviste rilasciate. Spera che tutto questo possa in qualche maniera smuovere le assopite coscienze che non vedono o che fanno finta di non vedere le attività dei clan al Nord Italia. «Cerco di trovare il modo di continuare a fare questo mestiere – dice – e sono sicuro che lo troverò. Un giornalista, da solo, non può cambiare il mondo, ma credo profondamente nell’utilità sociale di questo mestiere».


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La campagna

Da Sud a Nord tutti si chiamano Giovanni Tizian I VIDEO

L’associazione daSud ha lanciato l'11 gennaio la campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” per tenere alta l’attenzione sul giornalista e ribadire che la lotta alle mafie – da Sud a Nord – deve essere una priorità del Paese. La sfida che i clan hanno lanciato a Giovanni è una sfida lanciata all’Italia che resiste e che vuole cambiare: a tutti il compito di organizzare un grande movimento di scorta popolare e civile. Associazioni, gruppi, comitati, partiti, singoli, giornalisti, organizzazioni, personaggi, artisti, trasmissioni radio e tv, giornali, amministratori, scrittori: tutti quanti possiamo fare molto per non fare sentire soli Giovanni e la sua famiglia. E per garantire che possa fare tranquillamente il suo lavoro.

La campagna – che ha avuto tappe a Bologna, Modena, Napoli, Palermo, Torino e molte altre città d’Italia e che vive con migliaia di adesioni sul web – è tornata a Roma lo scorso 26 gennaio, con la presentazione nazionale del libro di Giovanni Tizian insieme al magistrato antimafia Giuseppe Cascini, segretario nazionale dell’Associazione nazionale magistrati e in partenariato con l'FNSI, la Fondazione Libera Informazione e l'osservatorio Ossigeno. Durante l’incontro è stata lanciata anche la seconda fase della campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” con la proposta di diffondere buone pratiche antimafie per cambiare l’Italia, consultabile sul sito www.iomichiamogiovannitizian.org

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IL MURALE DELLA MEMORIA «Il "Crimine" non paga. La Locride è anti'ndrangheta», scritto sul "muro della vergogna". Quello contro il quale Giuseppe Tizian è andato a sbattere con la sua macchina, dopo essere stato sfgurato dal piombo di una lupara senza volto, imbracciata da due uomini in motocicletta. IL CASO NON È CHIUSO

IL POP CONTRO LA MAFIA


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IL LIBRO-INCHIESTA

'Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea Gotica

«Partimmo per l'Emilia Romagna. Lontano dalla logica violenta che opprime il paese da cui provengo. Dalla Calabria, regione ostaggio di pochi e lager di molti» Per gentile concessione della casa editrice Round Robin, pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo del libro Gotica di Giovanni Tizian Direzione Modena. Terra di motori, tortellini, tortelloni, aceto balsamico, ceramiche, cooperative, comunisti. Terra di accoglienza e solidarietà. Una città dove finalmente avrei potuto smettere di

essere scheletro e fantasma. Un luogo dove tornare a essere ragazzo. Dove poter recuperare gli anni perduti, annegati nell’oceano del dolore e del silenzio. Un modo per rimettere assieme i pezzi di quel che rimaneva della mia infanzia. In arrivo dal profondo sud, Modena appariva stranamente ordinata nella sua frenesia e dinamicità. Una città viva, fatta di luci, traffico, casino, palazzi, semafori, cinema e chilometri di piste ciclabili... Oggi sembra una follia un pensiero simile: la normalità. Ma negli occhi di un bambino di undici anni che veniva da un luogo dove non esisteva nulla o quasi, tutto era una scoperta. E se inizialmente ho provato tristezza e malinconia per la casa in cui ero nato, per il riflesso del sole, della luna e delle stelle sullo ionio, per la fragranza di gelsomino, basilico e menta, per il viola delle bucanville, per le aurore e i tramonti camaleontici, dopo qualche anno diventai cosciente della possibilità offertami dalla vita. E nonostante tutto potevo considerarmi fortunato. Sì, mi convinsi che a Modena avrei costruito il mio futuro lontano dai cartelli stradali bucati dal piombo, dagli sguardi che esigono asservimento, dai marciapiedi lastricati di sangue, dai boati dei kalashnikov in piena notte esplosi contro le saracinesche. Via da tutto questo per rimuovere e ricominciare. Già, chiedevo solo di rimuovere, di dimenticare, di cancellare le impronte di sangue ancora caldo e il puzzo di cancrena della mia terra impresse nei miei pensieri e nella

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mia anima. Una necrosi mai curata, lasciata progredire e agevolata dalla rinuncia a (r)esistere. Invece di amputare il piede malato ci siamo ritrovati con tutto il corpo colmo di pus. Una purulenza fatta di mazzette, malapolitica, corruzione, pizzo, droga, violenza, morti, bombe, piombo, lusso, ipermercati, appalti, clientele, cantieri, veleni e rifiuti. L’Emilia e la sua normalità mi avrebbero aiutato, ne ero convinto e rimango tuttora convinto della bontà di una scelta maturata nel caos. Una fuga per la libertà. Potevamo scegliere di restare. Di accettare gli aiuti di Sebastiano Romeo detto “U staccu”, defunto boss di San Luca, e di riavviare l’impresa carbonizzata. In Calabria non si muove nulla se non dopo il consenso del boss. Accettare aiuti da chi si proponeva di risollevare le sorti aziendali e della nostra famiglia, avrebbe voluto dire accettare le dinamiche assurde che portarono all’incendio alla morte di mio padre. Sciacalli, creatori di bisogni indotti. Fomentano la paura creando condizioni di insicurezza per proporti, previo pagamento, di riacquistare la tranquillità che diventa merce. Il pizzo strumento, moneta di scambio. Ma rimane un fatto, certo, indissolubile: la paura, in terra di mafia, la creano e la monetizzano i mafiosi. Le vittime, come consumatori accecati dal terrore del potere, ostentato dai bravi di Don Rodrigo, sono costrette a pagare ciò che gli spetta per diritto: la sicurezza.


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“Milano e Francoforte epicentri del riciclaggio criminale. Poli finanziari nei quali gli uomini della ’ndrangheta hanno messo radici, investito denari” Il passato non si cancella Eravamo troppo soli per iniziare una battaglia antimafia a Bovalino nel 1988. E già prima di iniziare questa ipotetica lotta piangevamo i nostri morti ammazzati. Non esistevano ancora associazioni a difesa delle vittime, la società civile calabrese respingeva la parola ’ndrangheta per paura di essere etichettata tutta, sommariamente, con quella “strana” parola. Un isolamento inquietante. Pauroso. Minaccioso. Che ci ha condotto al di là dell’Aspromonte, del Pollino e oltre gli Appennini. Se fosse accaduto oggi tutto ciò di cui vi ho parlato? Avremmo avuto il coraggio di rimanere nella nostra culla tra fiori e sapori mediterranei e lottare sul campo? Ipotesi di un passato traslato all’oggi. Domande che mi pongo spesso ultimamente e forse inutilmente. Il passato non si cancella e dopotutto è meglio che rimanga lì immobile a segnarci la strada, a evitare gli errori già compiuti e a ricordare gli abusi subiti. La mia strada portava a Modena. Innocente com’ero e ignaro della potenza delle mafie pensavo di chiudere definitivamente con certe realtà e intrallazzi. A quell’età non potevo immaginare che tanti mafiosi avessero già da tempo realizzato il loro progetto espansionistico. Arrivai a Modena nel 1992, in tempo per iniziare le scuole medie. Superai l’adolescenza e i conflitti con le regole imposte. Iniziai finalmente

l’università e cominciai a rendermi conto che la puzza di mafie e di morte aveva raggiunto la tranquilla pianura padana fin da quando vivevo a Bovalino. I bastardi sfruttano la nostra terra, ci chiedono il pizzo, trasformano le nostre strade nel Far West dei film di Sergio Leone e in silenzio approdano, con i loro “piccioli” insanguinati, nelle località del Nord Italia per reinvestirli, pulendoli dalle croste insanguinate che li rendono riconoscibili, riciclandoli in attività legali. E questi si definiscono uomini d’onore. Lasciare la loro terra morire di fame, di disoccupazione, di veleni e di dolore per non mostrarsi padroni di tutto, per non ostentare la ricchezza illecita, per non destare sospetti tra la popolazione che li guarda con rispetto e riverenza. L'ossatura del Paese Nella Locride e nei paesi aspromontani gli ’ndranghetisti non ostentano la ricchezza e i patrimoni accumulati. I mammasantissima vivono in palazzotti grigi, a più piani, ma anonimi. Al loro interno però si lasciano andare. È un pullulare di oggetti di valore: rubinetti in oro, quadri, tecnologia di ultima generazione. A moglie e figli bisogna mostrare quanto benessere dà la ’ndrangheta. Non al popolo, però, perché l’invidia è elemento essenziale della delazione. Celare la ricchezza è funzionale al mantenimento del mito del capomafia vicino al bisognoso. Folklore.

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Puro folklore. La realtà è una sola: investono al Nord, per non destare sospetti tra gli investigatori, per non creare invidia tra la gente del posto e ripulire in maniera indolore milioni e milioni di euro. E così, economie già ricche e prosperose vengono inondate da un fiume di ricchezza sommersa, non dichiarata, invisibile, sporca, putrida, frutto dei crimini peggiori. Economia legale ed economia illegale viaggiano su due binari paralleli, sempre più spesso accade che s’incrociano, si uniscono fino a formare un ibrido in cui l’illegale sfuma nel legale facendo perdere ogni traccia. Da San Luca, Platì, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Castelvetrano, Casal di Principe, San Cipriano D’Aversa, Napoli partono grossi capitali illeciti che da Sud affluiscono nell’economie già opulente del Nord e nei mercati finanziari. I capitali mafiosi nel loro fluire da sua a nord formano una sorta di ossatura del Paese, la sua spina dorsale. E se risulta possibile, pur con numerose difficoltà, rintracciare, sequestrare e confiscare un immobile acquistato con soldi sporchi di un clan, è impossibile rintracciare la provenienza del denaro se questo è stato utilizzato per l’acquisto di titoli azionari. La tracciabilità del denaro non è più possibile perché quei soldi si perdono tra i meandri della finanza. Diventano azioni. Si comprano, si rivendono. Nella finanza d’avventura il capitale mafioso ha trovato accoglienza, necessaria omertà e massima invisibilità.


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Bavaglio

Telejato A giugno lo switch off. E poi? Quelli che non strozza la mafia, li strangola il governo. E' il caso di Telejato, che con la leggina anti-piccole tv di Berlusconi è condannata a chiudere. E la mafia ringrazia di Salvo VItale

Forse ne sanno più all’estero che dalle nostre parti. Ne sono venute da ogni parte: televisioni francesi, svizzere, tedesche, svedesi, americane e persino argentine, tutte a cercare notizie di questa piccola emittente che sembra un’anomalia, in tutti i sensi, nel panorama dell’informazione in Italia. Il telegiornale più lungo del mondo, la tv più piccola del mondo, la tv più denunciata del mondo. Il telegiornale dura in media due ore ed è un contenitore di tutto quello che succede in un territorio che comprende un bacino d’ascolto di una decina di comuni e di circa 200.000 abitanti: un territorio “ad alta densità mafiosa”, considerato che si tratta di Corleone, Alcamo, Castellammare del Golfo, Cinisi, Montelepre ecc.

Vi si trovano le informazioni più disparate, dalla cronaca, aggiornata sino a poco prima di andare in onda, che spazia dall’incendio doloso al furto, all’omicidio, per passare alla politica, con estenuati interviste ad esponenti di tutte le appartenenze, alle operazioni delle forze dell’ordine, ai servizi culturali, alle iniziative religiose, alle lunghe esternazioni di Pino Maniaci che assume sempre più il tono di una “vox clamans in deserto”, cioè di un predicatore che bacchetta tutti e dispensa buoni consigli, con un’aria da saggio santone che mal gli si addice. Sulla lunghezza del telegiornale c’è qualche spiegazione: coloro che chiedono di avere trasmessa la pubblicità, vogliono che sia inserita nel corso del notiziario, e siccome, data la sua caratteristica di “televisione comunitaria”, l’emittente non può trasmettere oltre tre minuti di pubblicità l’ora, ecco il protrarsi di certe strategie studiate per allungare i tempi. Sulle denunce, dopo la duecentesima si è perso il conto: si dovrebbero sfiorare le trecento, delle quali buona parte attribuibili alla Distilleria Bertolino: nei confronti di quella che è stata definita, da più soggetti, “la grande inquinatrice”, “dispensatrice di veleni” “seminatrice di morte”, Telejato ha condotto una campagna quasi quotidianamente, per denunciarne i danni provocati all’ambiente e alla salute delle persone. Altre denunce sono dovute a privati, per lo più politici o dipendenti comunali, dei quali sono state denunciate alcune

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marachelle al confine tra il personale e il pubblico. Perciò Telejato ha dovuto ricorrere alla “copertura” di direttori responsabili del telegiornale, iscritti all’albo dei giornalisti, come Francesco Alotta, Francesco Forgione, Riccardo Orioles. Gli studi sono composti da tre stanze, quella operativa, addetta al montaggio, al riversaggio e all’impostazione del palinsesto, quella in cui si trasmette e si fanno le registrazioni dal vivo e quella in cui qualcuno della redazione si ritira per scrivere gli articoli. Le attrezzature sono in gran parte obsolete e costantemente guaste o soggette a riparazioni, ove si eccettuano alcuni computer regalati da Arcoiris, in grado di fare, dice Pino, “cose mirabolanti”. Telefono qualche volta tagliato... La fotocopiatrice è ormai inagibile, il fax non sempre funziona, il telefono qualche volta è tagliato per mancato pagamento delle bollette, ed idem dicasi della luce, alla quale si compensa qualche volta con un gruppo elettrogeno, o attaccando il filo al contatore dell’inquilino del piano di sotto. E tuttavia, a partire dalle 13, quando si ritira Letizia, la figlia di Pino, con la sua borsa di lavoro dove è conservata una buona telecamera e le cassette con il materiale girato, il telegiornale comincia a prender forma, si predispongono i titoli, si cercano le immagini da associare alle


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interviste, si esplorano i vari siti d’informazione per individuare qualche notizia dell’ultimo momento, si ritagliano gli articoli di giornale da rielaborare e registrare. La temperatura, soprattutto quella di Pino Maniaci, va salendo sino all’ebollizione, grida, imprecazioni, rimproveri, carte in aria, scatti nervosi e poi, alle 14,20 via con la sigla e si compie il miracolo: il telegiornale va in onda mentre Pino saltella andando dalla sedia di speaker al computer centrale, utilizzando tutti gli spazi liberi tra una notizia e l’altra, anche per fumare, o “allungando il brodo” dei commenti, se c’è da aspettare la messa in onda di un servizio non ancora pronto. C’è una ricerca quasi spasmodica di tutte le notizie e immagini che interessano i mafiosi, ormai universalmente noti come pdm (pezzi di merda), con dettagliate descrizioni di arresti, confisca di beni, vicende processuali, omicidi, estorsioni, bravate varie. Dieci anni di storia cancellati Tutto questo, tra non molto minaccia di finire. Dieci anni di storia, che hanno certamente lasciato un segno, diventeranno un ricordo e lasceranno il vuoto. Nella finanziaria del 2011 sono state abolite, senza che nessuno se ne accorgesse, le televisioni comunitarie. Le loro frequenze sono state messe in vendita ed acquistate dalle ditte di telefonia mobile portando nelle casse dello stato circa quattro miliardi.

“Switch off”, spegnere, staccare la spina: abbiamo imparato anche questo: il 30 giugno sarà staccata la spina a tutte le emittenti private locali: sopravviveranno solo quelle che avranno partecipato a un bando di gara esibendo i loro requisiti, essenzialmente fondati sui requisiti economici e sul numero del personale: potranno essere costituite anche reti di televisioni. Un regalo di Berlusconi alle sue reti Chi vince una frequenza avrà a disposizione con cinque bande su cui poter trasmettere, o da potere eventualmente affittare. Attenzione: da tutto questo dovrebbero essere escluse le reti Mediaset, la RAI, Telecom e forse La 7 e SKY: è quello che è stato definito, non chiedete perché, il “beauty contest”. Il governo Berlusconi ha quindi fatto alle sue reti il grosso regalo di continuare a trasmettere senza pagare allo stato quanto dovuto per l’utilizzo dell’etere. E in più ha progettato una manovra con cui chiudere la bocca a tutta la piccola informazione locale, per lasciare posto solo all’informazione governativa controllata secondo precise direttive. E’ triste il silenzio totale che ha coperto questa manovra. Le forze d’opposizione hanno scoperto tutto questo solo dopo che Telejato ha sollevato il problema su scala nazionale, chiedendo interventi a modifica di una legge capestro: e così ha cominciato a muoversi anche qualche fir-

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ma del giornalismo e qualche esponente politico: Beppe Lumia ha fatto un’interpellanza in Senato, Salvino Caputo ne ha fatto una alla Regione Siciliana. Si aspettavano notizie dal Consiglio dei Ministri del 19-01, ma tutta la vicenda è stata rinviata di 90 giorni, scatenando l’ira di Mediaset, che sperava di vedere approvato subito il beauty contest e che ha gridato, chissà perché,all’illegalità. Il PD ha valutato positivamente il rinvio, promettendo di fare inserire, all’interno della legge che regola la futura distribuzione delle frequenze locali, una norma che preveda la sopravvivenza delle emittenti comunitarie,come Telejato, pari a un terzo delle altre emittenti. “Siamo tutti Telejato” La sensazione, stando anche alle ultime minacce del solito Berlusca, è che fra tre mesi il governo Monti, travolto dalle contraddizioni della sua eterogenea maggioranza, non esisterà più, che assisteremo al ritorno di Ringo e del beauty contest, magari in un contesto di bunga bunga. Allo stato attuale Telejato non ha più una frequenza. La costituzione del comitato “Siamo tutti Telejato” sta cercando, attraverso una raccolta di firme e di fondi, di tenere alta l’attenzione sul problema, ma è chiaro che, in questo vertiginoso gioco d’interessi, gli spazi di sopravvivenza, in assenza di una forte mobilitazione, sono sempre più ristretti. E la mafia ringrazia.


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Giornalisti

Pino, Giovanni, Antonio: tre storie esemplari di Riccardo Orioles

Prima dell'internet ma soprattutto dopo, in Italia s'è formata tutta un'area di giornalisti professionisti (di solito, ma non necessariamente, iscritti anche all'albo ufficiale) che costituiscono ormai buona parte delle fonti d'informazione sugli argomenti “difficili”. Più liberi e più aggressivi delle grandi testate, hanno ormai consolidato un'esperienza di cui è difficile fare a meno. Siti, giornali local, piccole televisioni, libri: private a immaginare questo paese senza questo reticolato d'informazione di questo tipo. Sul versante della lotta alle mafie, in particolare, si può dire che i colleghi dipendenti dalle testate “ufficiali” sono ormai (con tutto il rispetto per i singoli) una minoranza rispetto ai nostri. E spesso, quando vogliono trattare un argomento che la proprietà non ama, si rivolgono ai blog o ad altri contenitori “non ufficiali”. Questa rete alternativa Una volta, negli anni '50 e '60, questa rete alternativa esisteva pure, e si aggregava attorno alle (poche) testate e alle molte realtà locali dell'opposizione (specialmente comunista), che allora era vivace e “alternativa”. Spampinato e Di Mauro del “L'Ora” ne sono un esempio, da ma un certo punto in poi in coincidenza con la seconda generazione del movimento antimafia - la ten-

denza fu quelal di farsi direttamente propri giornali: Giuseppe Fava ne è l'esempio maggiore. Non casualmente: in Sicilia, la regione più di frontiera in questo campo, contò en otto giornalisti uccisi, ma solo un editore (la situazione non è cambiata) sostanzialmente monopolista su tutta l'informazione. La terza generazione, di giornalisti “non ufficiali” (ma, ripetiamo, non meno attendibili degli altri ed anzi, liberi da tutele, un po' di più) coincise con l'avvento dell'internet, e più in generale di un diverso approccio alle tecnologie. Bypassare il sistema I giornalisti capirono che un'emittente libera, un sistema di fotocomposizione, e più avanti tutto l'enorme continente nuovo della Rete, consentivano di bypassare più facilmente il sistema mediatico dei monopoli, inventandosi media nuovi e portando il giornalismo libero su di essi. In questo senso, i precursori sono Peppino Impastato e, anche qui, Giuseppe Fava. E siamo nei giorni nostri, quelli che stiamo vivendo. Il giornalista libero quasi sempre è un precario, è piuttosto evoluto con le tecnologie, è buon cronista di strada, attento ai particolari, ha una visione del background lucida e non occasionale. E' il giornalista tipico,

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oramai; essendo, i colleghi più “fortunati” (o meno: dipende dai punti di vista) dotati di busta-paga regolare una specie ormai evidentemente in via d'estinzione. Non è lontano il momento in cui il giornalismo “normale” (depurato dalle sue varianti di infotainment, sostanzialmente parassitarie) sarà esattamente questo. Giovane, precario e bravo Giovanni Tizian, Pino Maniaci e Antonio Mazzeo – i colleghi di cui ci occupiamo in questa nota: ma ce ne sono molti altri come loro – sono un esempio tipico di tutto questo. Tizian è giovane, è sostanzialmente precario, collabora con testate “importanti” ma il suo impegno prioritario è in un soggetto di base (sociale e mediatico, molto articolato) come DaSud. Maniaci, il più anziano dei tre, è un cronista classico che però, anziché sulla carta stampata, si basa - come Impastato sull'emittenza locale. Mazzeo è uno specialista di argomenti specifici (territorio, antimafia, tematiche della pace) in cui ha raggiunto una certa autorevolezza e lavora essenzialmente sul web, con puntate sugli instant-book. Per tutti e tre, vuoi per la crescita delle rispettive tecnologie vuoi per il parallelo impoverimento della concorrenza ufficiale, le prospettive professionali


www.isiciliani.it Giovanni Tizian, Pino Maniaci, Antonio Mazzeo

sono ottime. Nessuno dei tre gode di stipendio regolare, e anzi la condizione esistenziale di ciascuno di loro, sotto questo profilo, non è facile. Ma crescono sempre di più come opinion makers, e in America gran parte dell'informazione di massa è fatta ormai da gente come loro. Toccato dalle sue inchieste Sia Maniaci che Mazzeo, e ora anche Tizian, sono oggetto di attacco senza remore da parte del Sistema. Maniaci è stato minacciato più volte, e ora lo è anche Tizian. Mazzeo, pochi giorni fa, è stato oggetto di un'iniziativa - per quanto mi risulta - senza precedenti, e cioè di una vera e propria iniziativa politica (sotto forma di interrogazione parlamentare) contro di lui, operata da un uomo politico - il senatore Nania - che si è sentito toccato dalle sue inchieste. Sopravvivere come giornalista Adesso, la situazione è la seguente: Tizian è sotto scorta e - a parte gli amici di daSud e dei gruppi collegati, fra cui il nostro - rischia fra qualche mese di restare solo. Essendo stato minacciato in Emilia, e cioè in una regione civile (ma dovrebbe far riflettere il fatto che le minacce mafiose ormai arrivino anche lì) ha potuto contare sulla pronta mobilitazione di una serie di soggetti civili (Libera, Fnsi, Ossigeno ecc.) che là sono forti, e

si sono mossi presto e bene. Ma dopo? E soprattutto, riuscirà a sopravvivere come giornalista (e cioè possibilmente non precario) senza dover diventare un personaggio mediatico o un tuttologo, sostanzialmente ininfluente? Maniaci fra pochi mesi non avrà più una televisione, grazie a una calibratissima leggina, si direbbe tagliata su sua misura, che gli toglie le frequenze alle tv minori. Una legge fatta, ovviamente, da Berlusconi; ma che il nuovo governo finora s'è guardato bene dall'abolire. Per Mazzeo, infine, le prospettive sono forse le più oscure. In una zona (quella di Barcellona in Sicilia, su cui anche in questo numero abbiamo inchieste sue e di Luciano Mirone) dominatissima dalla mafia, istituzionalmente gestita su basi massoniche, con pochissimi soggetti di società civile fra cui l'Associazione Rita Atria, aggredita da Nania contemporaneamente a lui – in un posto del genere, che probabilità ha Mazzeo di poter continuare a esercitare i suoi doveri di giornalista-cittadino? Domande rivolte a chi? Tutte queste domande sono ovviamente rivolte - come si suol dire - alle Istituzioni, specie a quelle più nuove e più brillanti quindi di perbenismo, oppure ai Colleghi Importanti , quelli cui ahimè si rivolgono i perseguitati più ingenui. Ma

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sono rivolte soprattutto a me stesso, a te che leggi, a tutti noi che facciamo e leggiamo questo giornale libero, e gli altri giornali e siti come questo. Ad aiutare i giornalisti veri (Giovanni, Pino, Antonio e tutti gli altri) sarà solo la Rete. La rete nel senso di internet, che ormai dappertutto è il mezzo dove la gente arriva e di cui si fida, la rete nel senso di collegamento fra tutti noi – Antonio, Giovanni, Pino, Gian Carlo, Nando, Michela, Morgana, Norma... - che abbiamo interesse nella libertà di sapere e che ci divertiamo, pure, in questo bellissimo e umano, gioco. E' debole chi minaccia E' debole chi - secondo lui - imbavaglia e minaccia, e siamo fortissimi noi tutti che rappresentiamo l'avvenire e che siamo capaci di descrivere il mondo, di raccontare la vita di noi esseri umani. Rozzo mafioso o potente politico, ci fa solo sorridere di compatimento e di pietà. Organizziamoci, allora, portiamo la professionalità di ciascuno in un meccanismo comune, quello che stiamo costruendo, senza grandi parole, in questi mesi. Loro sono il medioevo fanatico, noi siamo Gutenberg e Martin Lutero. Loro minacciano e ringhiano, noi sorridendo insieme costruiamo.


FOTO DI MARIA CRISTINA DI CANIO

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Altrisud

Egitto (e non solo)

Per chi suona Piazza Tahir E’ stata una rivoluzione tradita quella egiziana? Oppure, al contrario, nel corso dell’ultimo anno, da quando, il 25 gennaio del 2011, iniziarono quelle manifestazioni che portarono, l’11 febbraio, alle dimissioni di Mubarak, il paese ha realmente cambiato pagina e si appresta a vivere una nuova stagione? Oggi, ad un anno di distanza, Piazza Tahrir si è nuovamente riempita di centinaia di migliaia di manifestanti, forse milioni, ritornati su quest’anello d’asfalto sul lato meridionale di un grande spiazzo chiuso a nord dalla mole neoclassica del museo archeologico al cui fianco sorge il rudere carbonizzato di quella che fu la sede del PND, il Partito Nazionale Democratico di Mubarak. Perché sono tornati? Per celebrare l’anniversario o per trarre nuova forza per riprendere l’opposizione ai militari? I ruderi della sede di Mubarak I manifestanti erano divisi e, nell’euforia del momento, nei festeggiamenti, è stata messa la sordina alle differenze. Dalla caduta di Mubarak, infatti, da quando il potere è stato preso in mano dai militari costituiti in Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF), il centro della piazza è stato occupato dalle tende degli indignati egiziani ben collegati, grazie a facebook e twitter (da seguire #tahrir) al resto del mondo. Non hanno smesso, in questi mesi, di denunciare la gattopardesca continuità tra i militari e il regime di Mubarak, del quale hanno preso il posto varando una nuova e provvisoria costituzione nella quale, di fatto, i poteri prima attribuiti al Presidente, finivano in mano dello SCAF. Ci sono stati scontri (ultimi quelli di novembre) e vittime, dimissioni di governi ma il potere

supremo, per ora, è rimasto nelle mani dei militari. Rivoluzione tradita, quindi? I ragazzi accampati a Piazza Tahrir pensano di sì. Eppure alcune cose sono cambiate, in Egitto, anche se in maniera del tutto inattesa dagli indignati. I militari, quando presero il potere, promisero elezioni legislative entro l’autunno 2011 e presidenziali entro giugno 2012. Le elezioni per il Parlamento si sono tenute (nei prossimi giorni inizieranno quelle per la Camera alta) e hanno visto una buona affluenza di elettori. Ma i risultati sono stati una sorpresa, perché si pensava ad un testa a testa tra i fratelli Musulmani e il blocco dei partiti liberali (i più filo occidentali). E’ successo invece che i Fratelli musulmani hanno guadagnato oltre il 47% dei seggi e il secondo partito, con quasi il 25%, è stato quello salafita, una formazione islamica ancora più radicale. I filo occidentali sono stati sonoramente sconfitti, e i ragazzi di piazza Tahrir , i più radicali tra i liberali, hanno portato in parlamento meno di dieci rappresentanti. Tutto ciò ha improvvisamente mutato la Fratellanza, da spauracchio delle cancellerie occidentali, in male minore con la quale si può e deve trattare. E i Fratelli, d’altro canto, sostengono che sì, in effetti la sharia sarà introdotta in Egitto, ma saranno molto tolleranti e hanno accolto con molto entusiasmo l’invito di Sheshouda III, il Papa dei cristiani copti, a presenziare alla Messa di Natale. I salafiti si sono rifiutati. E i copti oltranzisti si sono arrabbiati (per l’invito rivolto dal Papa agli islamici). E poi c’era da tranquillizzare investitori e turisti stranieri che, spaventati dal clamore delle rivolte, hanno fatto crollare del 30% le entrate turistiche in valuta pregiata. Per la Fratellanza, che in questi mesi ha

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disertato piazza Tahrir in attesa di vincere alle urne, questo 25 gennaio 2012 è stato fondamentalmente una celebrazione. Sappiamo quindi che il Parlamento sarà dominato dagli islamisti ma, in un Paese nel quale vige ancora una costituzione che, di fatto , è quella precedente, ritagliata sulla figura di un Presidente autoritario al quale delega un’immensità di funzioni, il potere legislativo conta poco. n attesa di una nuova Costituzione, che sarà elaborata nei prossimi mesi, la vera partita saranno le presidenziali Chi vincerà? Oggi l’opinione più diffusa è che la spunterà Amr Moussa, un politico di lungo corso, ex ambasciatore all’ONU, ex ministro sotto Mubarak e attuale presidente della Lega Araba. E’ anziano, è del 1936 (l’età di Berlusconi, peraltro, un’età che in un paese giovane come l’Egitto pare vegliarda e patriarcale) e questa è la migliore garanzia che, almeno, non sarà lui l’iniziatore della 34esima dinastia faraonica. Un presidente di transizione, insomma, per garantire un po’ di stabilità, in attesa di riaprire il vero braccio di ferro, quello tra la Fratellanza e i militari. Il vero braccio di ferro In questa futura contrapposizione i veri esclusi rischiano di essere proprio loro, i ragazzi di Piazza Tahrir, gli indignati accampati su quel cerchio di terra circondato dall’anello d’asfalto, quelli che per tutto questo tempo hanno creduto di incarnare la vera opposizione allo SCAF chiedendone l’allontanamento. Eppure la maggioranza del popolo egiziano non sembra condividere questa necessità, è convinta che tra sei mesi i militari se ne andranno. E allora, perché agitarsi? Perché “rovinare quel bel giardino d’erba che c’era lì in mezzo alla rotonda?”.


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Altrisud

“Ogni uomo è un pezzo del continente. Se anche solo una zolla venisse spazzata via, l'Europa ne sarebbe diminuita. Non chiedere per chi suona la campana: essa suona per te”

PIAZZA TAHRIR: PALAZZO DEL PND BRUCIATO (A SINISTRA) E NUOVO CANTIERE IN COSTRUZIONE

di Jack Daniel Lasciata Piazza Tahrir, però, pare proprio che l’urgenza del passaggio dei poteri prima delle elezioni in estate non sia considerata questione di vita o di morte. Non sembra essere la principale preoccupazione di Ahmed (nome di fantasia) che, all’ingresso del mercato di Khan el Khalili, svolge con coscienza la sua professione di compattatore umano. Come i vecchi pigiatori di vino, a piedi nudi dentro un cassonetto di immondizie, Ahmed compatta. Il compattatore umano Pesta e ripesta, per fare in modo che in quel cassonetto entri un po’ di quella sporcizia che qui è ovunque: nelle scarpate ai lati delle strade, nei canali d’irrigazione sui quali si affacciano abitazioni. Su quei cumuli giocano bambini e aironi. Ogni tanto, quando i cumuli raggiungono un volume eccessivo, gli si dà fuoco. I fumi entrano nelle casee ma “tanto la vita qui in Egitto non è lunga come da voi”. D’altro canto, il sistema fognario è carente (eufemismo) e si va avanti a forza di fosse, e non esiste un solo deposito di rifiuti pericolosi in tutto l’Egitto. A questo si aggiunge l’inquinamento provocato dalle macchine, una nube grigia che staziona sul Cairo, alimentata da catorci vecchi di 50 anni (archeologia, altro che Tutankhamon: Fiat 1300 e 1500, miriadi di 131 e 132, 127 a gogò; una, in vendita, recava con orgoglio il cartello “Model 1980, call xxxx”; era quasi nuova). E poi motorette cinesi, cloni di vecchie giapponesi, piccole ed economiche, che si diffondono a macchia d’olio, rimpiazzando i somarelli, sino a qualche anno fa il “mezzo” di locomozione più diffuso. Quanti i PM10, quelli che affliggono le nostre metropoli? E chi lo sa? Ci sono forse stazioni di rilevamento? E allora, perché preoccuparsi? Del resto, con una rete

di trasporti carente, l’assicurazione obbligatoria inesistente e la benzina (di pessima qualità) a circa 16 centesimi di Euro al litro, l’unica è riciclare vecchi catorci e ingorgare il traffico. 16 centesimi (cambio odierno): se si guarda questa tabella en.wikipedia.org/wiki/Gasoline_prices pur non aggiornata, ci si rende conto che il prezzo della benzina in Egitto è pari a quello di paesi che navigano nel petrolio, come Kuwait e Arabia. Ma l’Egitto naviga nel petrolio? No, purtroppo, ha raggiunto il picco. Dopo il picco, un baratro Il petrolio non finirà dall’oggi al domani, i giacimenti non si esauriscono all’improvviso. Piuttosto accadrà che un certo giorno si comincerà a produrre un po’ meno dell’anno precedente, perché magari i giacimenti migliori e scoperti prima si sono esauriti e quelli nuovi sono un po’ meno produttivi. Quando arriverà il picco, cioè l’anno di massima produzione, per il nostro pianeta? C’è chi dice presto, prestissimo: pochissimi anni; altri sostengono che abbiamo ancora una ventina d’anni. In Egitto, il picco è stato raggiunto nel 1993. Da allora produce sempre meno petrolio e dal 2010 i consumi superano la produzione. Questo perché da un lato ne producono meno e dall’altro ne consumano di più, a causa dei catorci di cui sopra, delle moto cinesi e del prezzo della benzina allineato al Kuwait. Ma come mai il prezzo della benzina è così basso in Egitto? Semplice, è un prezzo politico: il governo egiziano spende in sussidi alla benzina più di quanto stanzia per il bilancio annuale della pubblica istruzione. In queste settimane la Nigeria, che produce petrolio in gran quantità - a differenza dell’Egitto - ha aumentato il prezzo della benzina da (al cambio attua-

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le) circa 30 centesimi a circa 70. E’ scoppiato il finimondo: scioperi generali, proteste, minacce ai distributori di benzina, tensioni. E partivano da un prezzo doppio di quello egiziano. Che succederà in Egitto quando il prossimo governo (chiunque sia il presidente) prenderà in mano la situazione? D’altro canto, con trasporti carenti e nuove città che sorgono come funghi in mezzo al deserto, come ci si sposta? Nuove città, nuovi abitanti: questo porta ad un’altra domanda: quanti sono gli egiziani? Nessuno lo sa con certezza, ma dovrebbero essere più di 80 milioni e meno di 90: diciamo 85, non ci sbaglieremo di molto. Erano meno di 30 milioni nel 1960 e crescono al 2% all’anno. Ogni nove mesi circa c’è un milione di egiziani in più. Ma l’Egitto è grande! un milione di Kmq, 3 volte e passa l’Italia. Falso, perché, come tutti sappiamo, gran parte è deserto e la superficie utile è circa il 6/7%. 70.000 Kmq circa: 3 volte la Sicilia. Dopo il picco, un baratro In tre Sicilie, quindi, ci sta la popolazione della Germania, che aumenta al ritmo di una Palermo ogni quattro mesi. E tutti questi devono spostarsi, consumano rifiuti, mangiano e bevono. Bevono? Questo ci porta al problema dei problemi: l’acqua. E ci porta anche ad una delle attuali piaghe d’Egitto, quella della terra tramutata in sale. Da Erodoto in qua sappiamo che l’Egitto è figlio di quel Nilo che tutt’ora fornisce acqua al 90% dei terreni agricoli. Purtroppo, però, irrigare i campi con acqua di fiume in terre aride porta problemi, perché l’acqua che scende dai monti corre lungo rocce dalle quali strappa piccole quantità di sali minerali che poi (come sappiamo) si depositano nelle nostre lavatrici. Donde l’anticalcare.


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Altrisud

I campi irrigati, quindi, decennio dopo decennio, cominciano ad accumulare questi sali che, alla lunga, rendono sterile la terra. Se ne resero conto già i Sumeri, e se la Mesopotamia è incoltivabile è per questo: il sale accumulato migliaia di anni fa rende il terreno inutilizzabile oggi. Nei nostri climi il problema si pone poco perché la pioggia (poco o nulla salata) lava il sale e lo porta in mare dove è di casa. In Egitto, per millenni, si è ottenuto lo stesso effetto grazie alle piene che allagavano i campi e trascinavano via il sale accumulato. Negli anni’60, però, si decise di costruire la diga di Assuan per irreggimentare le piene e, da allora, l’acqua del Nilo scorre sempre dentro un letto prefissato. Parentesi: questo discorso parte dal tacito presupposto che l’acqua del Nilo appartenga all’Egitto. In realtà la questione fu stabilita nel lontanissimo 1959 quando lo sfruttamento del fiume fu diviso col Sudan, con l’Egitto che faceva la parte del leone. Gli altri paesi attraversati dal Nilo furono ignorati anche perché, all’epoca, non avevano ruolo politico. Recentemente 4 paesi bagnati dal Nilo prima che entri in Sudan (Etiopia, Burundi, Tanzania e Uganda) hanno proposto un nuovo trattato che dia anche a loro il diritto di utilizzare l’acqua del fiume, magari costruendo qualche diga. Per tutta risposta l’Egitto ha allertato le proprie Forze Armate e il trattato del 1959 non è ancora stato modificato. Qui un tempo era deserto Da quando fu costruita la diga, in mancanza di piene, il suolo comincia ad accumulare sali. Quanti? Si parla di un terzo del suolo ormai afflitto dal problema ma, come se non bastasse, il sale arriva anche dal mare. Il Delta, che produce il 65% dei

beni agricoli, è poco elevato. Con la fine delle piene il suolo si è ricompattato e con il livello dei mari che tende ad aumentare per il riscaldamento globale, sono sempre più numerose le infiltrazioni sotterranee di acque salate. E quindi? Idea: le falde sotto il deserto. Falde acquifere in esaurimento Sotto le dune del Sahara, infatti, si nascondono caverne piene d’acqua fossile, residuo di quando, migliaia di anni fa, era verde e ci vivevano gli ippopotami. Allora l'acqua dalla superficie colò in caverne sotterranee, lontane dall’evaporazione e lì è rimasta sino ad ora. E quindi, l’Alexandria desert road, l’autostrada Cairo-Alessandria, dall’essere asfalto nel deserto è diventata, negli ultimi 20 anni, una strada che passa tra fattorie e resort alimentati con acqua fossile. Quanti anni o decenni durerà con questo sfruttamento non si sa, ma sappiamo che, una volta esaurite le falde, bisognerà aspettare la prossima glaciazione per ricostituirle. Altro sfruttamento di risorsa non rinnovabile. La fine dell'autosufficienza In conclusione: l’Egitto sino a circa il 1970 era autosufficiente in termini di produzione di beni primari. Oggi, vuoi per la costruzione di nuovi quartieri o città su terre coltivabili, vuoi per la minore fertilità del suolo, vuoi – soprattutto – per l’aumento di bocche da sfamare, importa circa la metà di beni primari. Il pane è fortemente sussidiato, e quando Mubarak, nel 2008, tentò di ridurre gli aiuti e di aumentarne il prezzo, scoppiarono rivolte sanguinose, il preannuncio di quello che è successo nel 2011. Pane sussidiato, quindi, benzina sussidiata, e

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quindi deficit dello stato e debito in crescita. Un serpente che si morde la coda: se lo Stato destina immani risorse ai sussidi ne avrà meno per le fogne, gli ospedali, le scuole. Film già visto, compreso il finale: iniziati colloqui con il FMI. E’ passato un anno dalla rivolta. Ma perché la ribellione contro un regime corrotto e dittatoriale come quello di Mubarak è scoppiata l’anno scorso e non 10 anni fa? Tra le tante ragioni c’è che è ora che i nodi vengono al pettine. E’ ora che l’Egitto comincia ad importare petrolio, è ora che la produzione alimentare non basta più ed è in questi ultimi anni, da quando si è iniziato a parlare di riduzione dei sussidi, che si è cominciato a sospettare che le promesse di benessere futuro non sarebbero state mantenute. Mubarak è stato il padrone dell’Egitto, e la naturale reazione è stata quella di scaricare tutte le colpe contro una persona (che pure, di colpe, ne ha, eccome!) sperando che, una volta rimossa, tutto si sistemi per incanto. Invece i problemi rimarranno: perché chiunque sia il nuovo Presidente, non si troverà nuovo petrolio in quantità e non si risolverà il problema della carenza di pane e acqua. Per non parlare dell’incremento demografico. I prossimi governanti, i primi del XXI secolo, si troveranno a gestire la pesante eredità del XX secolo, un’eredità di risorse esaurite e di ambiente sfruttato al di là di ogni compatibilità. L'Egitto siamo tutti noi Solo che, a ben vedere, questi sono i problemi di tutti. Le particolarità dell’Egitto hanno fatto sì che i problemi del XXI secolo (acqua, risorse esaurite, sovrappopolazione, abuso dell’ambiente) siano esplosi lungo il Nilo prima che altrove, ma questi stessi problemi, nei paesi meno fragili ecologicamente, si presenteranno nei prossimi anni. Con quali conseguenze politiche? A Piazza Tahrir, e in tutto il mondo che da un anno punta gli occhi su quell’anello di asfalto, si è discusso di questo? No. Il problema (sacrosanto, peraltro) è stato il passaggio dei poteri. La questione, per noi, è sapere quanto la Fratellanza sarà moderata e quanto potrà convivere con Israele. Ma sono problemi del XX secolo, ancora; di quelli del XXI secolo, come il recente fallimento di Durban dimostra, non siamo ancora in grado di occuparci, né in Egitto né altrove.


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Tunisi/ Testimonianze

”E vorrebbero anche sfuggire alla fame” di Marta Belllingred Napoli Monitor

Il tanto agognato giorno dell'anniversario della rivoluzione tunisina, il 14 gennaio, che un anno fa guardavo su al-Jazeera con le lacrime agli occhi, per me è stato abbastanza triste. Il colore dell'Islam è il verde. Ma le bandiere degli islamisti sono nere, prendono il posto di chi un anno fa ha fatto la rivoluzione, e sono numerosi rispetto agli altri gruppi nell'Avenue. A Tunisi l'Avenue Bourghiba è in festa, ma come un luogo dispersivo con tanta gente, quasi un sabato di shopping in cui non si può camminare. La rivoluzione deve ancora venire, è il cammino lento verso la democrazia, che nessuno, al di là delle elezioni di ottobre, vede chiaramente. L'unico punto di calore festoso l'ho trovato per un attimo alla Bourse deTravail alla celebrazione del partito comunista. Come se il punto più emozionante e di unità fosse la questione palestinese, quando una delle sue splendide cantanti, Rim al-Banna, è venuta a omaggiare la rivoluzione tunisina.

Perché oltre che al dolore vorrebbero sfuggire anche alla fame. Un po’ stanchi un po’ esasperati di fronte alle promesse dei vari governi succedutisi in un anno. L'avvocatessa Lamia Farhani, presidentessa dell'associazione delle famiglie dei martiri e dei feriti, pensa che ci siano tanti punti oscuri, non solo le attese degli indennizzi. Sono le vittime invisibili, senza stampelle, senza nessuna foto che le ricordi. Sono le donne violentate dai poliziotti nei giorni della rivoluzione, che fanno ancora fatica a denunciare. Si vergognano, a raccontare. Eppure c'è chi sa, chi ha visto e ascoltato. E nessuna piazza ha le orecchie per farlo. Le vittime invisibili Ma nell'anno della rivoluzione tunisina non si poteva restare sordi ad altre voci. Così i dispersi tunisini, in mare o in paesi europei, si sono fatti sentire e vedere abbastanza affinché venisse creato un nuo-

Il giorno dopo, alla Kasbah Il giorno dopo, alla Kasbah, di fronte al Palazzo del Governo, nella capitale, ci sono le famiglie dei martiri e dei feriti della rivoluzione di Regueb, nel governatorato di Sidi Buzid. Sono pochi, come forse pochi sono a interessarsi alla loro causa nel nuovo governo.Protestano in sit-in permanente per chiedere un'accelerazione dei tempi per l'indennizzo alle famiglie delle vittime e dei feriti della rivoluzione. Ma pensano anche ad altro: chiedono che siano creati finalmente nella loro regione dei programmi di sviluppo.

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vo organo statale: un Segretariato di Stato all'Immigrazione e per i tunisini all'estero. Finora quel 10% di popolazione tunisina residente all'estero, più di un milione di persone, ha visto solo strategie poche chiare e senza coordinazione. Il contributo economico, così come il sostegno durante la rivoluzione tramite il web, forse si vedranno riconosciuti in un nuovo organo statale che cerca di far cooperare i diversi dipartimenti ministeriali. I dispersi e i rifugiati HoucineJaziri, segretario del nuovo organo, presenta al quotidiano tunisino in lingua francese La Presse la nuova politica sull'immigrazione. Vengono fuori dei punti fondamentali: gli harraga dispersi e i rifugiati libici. "Il capo del governo dichiara -ha chiesto di accelerare le negoziazioni con le autorità italiane per trovare delle soluzioni idonee, sia per i dispersi che per le persone in stato di arresto nelle prigioni italiane"; così forse Jaziri inconsapevolmente ma propriamente chiama i Centri di Identificazione ed Espulsione in Italia. Ancora siamo lontani dal vedere i risultati, e quel che è peggio dal rivedere le persone. Prima che le famiglie possano sapere qualcosa dei loro figli dispersi, dovranno accontentarsi di un non trascurabile risultato: sono loro la società civile che si muove per le proprie cause, che si mobilita per essere ascoltata. Per chi giace negli abissi del mare e nelle ingiuste carceri questa parte di società civile non avrà mai prodotto "troppo rumore per nulla".


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accadrà ieri

......

REWIND

a cura di Francesco Feola

Eco-miliardi:

sono il 68,8%, e il sud, dove la percentuale si ferma al 34,6%.

Il 2 dicembre Legambiente presenta una manovra economica alternativa, che consentirebbe di recuperare 21,5 miliardi di euro nel rispetto dell’ambiente. Tra le misure proposte, una patrimoniale sulle auto di grande cilindrata, una tassa per le aziende che imbottigliano l’acqua minerale, la cancellazione di grandi opere come il ponte sullo Stretto di Messina e le nuove autostrade nella pianura padana, l’annullamento dei finanziamenti per le spese militari.

Arrivare

E PERCHE' NO?

Quel treno CHE VENIVA DAL SUD

Alle 20.15 dell’11 dicembre dalla Stazione Centrale di Milano parte per l’ultima volta il Trinacria, il treno 1927 diretto a Palermo. Lo accompagna la protesta di una parte degli 800 ex dipendenti della Wagon Lits, licenziati a causa della soppressione dei treni notturni.

Quarant'anni PER FUKUSHIMA Il 16 dicembre il primo ministro giapponese Noda annuncia che le temperature dei reattori 1, 2 e 3 della centrale di Fukushima hanno raggiunto una temperatura stabile inferiore a 100°. Si può quindi procedere allo smantellamento dei reattori, operazione che durerà circa 40 anni.

A INE MESE

Le indagini CHE NESSUNO VOLEVA

Il 20 dicembre viene interrogata dal pm di Palermo Francesco Del Bene Provvidenza Vitale, testimone chiave dell’omicidio di Peppino Impastato. La donna, che oggi ha 85 anni, nel 1978 faceva la casellante del passaggio a livello di Cinisi. Ma a quel tempo non fu possibile interrogarla perché i carabinieri dissero che era emigrata negli Stati Uniti. In realtà non si era mai mossa da Cinisi.

Il giorno dopo all’Istat è il turno di un’altra ricerca, riguardante il biennio 2009/10. Un italiano su quattro è a rischio di povertà o di esclusione sociale, e il pericolo aumenta soprattutto per i giovani tra i 18 e i 24 anni. Il 16% delle famiglie dichiara di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese, l’8,9% si è trovato in arretrato con il pagamento delle bollette, l’11,2% con l’affitto o il mutuo, l’11,5% non ha potuto riscaldare adeguatamente la propria casa. Dai dati emerge inoltre che il 12,9% delle famiglie abitanti meridionali è in una situazione di grave difficoltà economica, valore più che doppio rispetto al centro (5,6%) e più che triplo rispetto al nord (3,7%).

“Lavoratriciii! TIE'!”.

Il 28 dicembre il rapporto Istat su "La conciliazione tra lavoro e famiglia" mostra come in Italia la cura dei figli, soprattutto in tenerissima età, continua a essere un compito da donne: sono 702 mila le lavoratrici con figli minori di otto anni che hanno dovuto interrompere l'attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo, cioè il 37,5% del totale delle madri occupate. L'assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli riguarda, invece, solo una parte marginale di padri. E se le donne che utilizzano il congedo parentale sono il 50%, tra i padri la percentuale scende al 6,9%. Profonda la differenza tra il nord, dove le madri che lavorano

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Crisi?

NON PER PAPERONE Il 31 dicembre Wolfgang Dürheimer, presidente della Bentley, annuncia che la casa automobilistica ha chiuso l’anno con una crescita globale pari al 37%, con un totale di 7.003 vetture consegnate. Gli Usa si confermano il primo mercato, con 2.021 auto vendute, seguiti dalla Cina, al secondo posto con 1.839. In Italia il costo del modello base, la Continental 2 porte, è di 193.600 euro.


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FORWARD

. . . . accadde domani

Chi paga

“Siamo tutti

LE CAMPAGNE ELETTOTALI

EGIZIANI. ANCHE A ROMA”

Il 20 gennaio il movimento Occupy Wall Street lancia in tutte le città statunitensi l’iniziativa “Occupy The Courts Nationwide”. Lo scopo è ricordare la discussa sentenza del 2010 con cui la Corte Suprema ha tolto i vincoli ai finanziamenti elettorali da parte delle grandi compagnie. http://occupywallst.org/

Il 25 gennaio, nel I anniversario della rivoluzione egiziana, dalle 17.00 sit-in a Roma, (piazz.le Ostiense, metro B Piramide), per esprimere solidarietà ai manifestanti egiziani che, dopo aver cacciato Mubarak, vogliono liberarsi anche del regime militare. Gli organizzatori denunciano anche la connivenza delle potenze occidentali e i respingimenti dei profughi in fuga dalla guerra. Con la partecipazione di Deeb, rapper egiziano che con il suo hip hop ha accompagnato i giorni della rivolta. http://freepalestine.noblogs.org/post/201 2/01/18/25-gennaio-a-roma-un-anno-dirivolta-la-lotta-della-popolazione-egiziana-continua/

Ma in LIbia E' SUCCESSO QUALCOSA? Il 21 gennaio manifestazione a Torino (partenza alle 15 di fronte a Porta Nuova) per i diritti dei rifugiati provenienti dalla Libia. Dalla scorsa primavera, infatti, oltre 22mila persone in fuga dalla guerra aspettano che sia valutata la loro richiesta d’asilo. In molti rischiano di vederla respinta perché, pur trovandosi in Libia, provenivano da paesi non considerati instabili e quindi non inseriti nelle liste di protezione internazionale.

Le arance DELLA LIBERTA' Il 21 e il 22 gennaio le arance etiche di `Ingaggiami` saranno in piazza a Cosenza, Roma, Firenze, Pescara, Perugia, Milano. Due anni dopo la rivolta di Rosarno, la crisi dell`agricoltura peggiora e le condizioni dei braccianti non accennano

Un premio PER GIOVANI SENZA PAURA

a cambiare. La campagna “Ingaggiami contro il lavoro nero – riprendiamoci i campi per coltivare sviluppo e integrazione”, promuove, di intesa con i gruppi di acquisto solidale, le produzioni biologiche e l’impiego di manodopera immigrata regolarmente assunta. Tutto ciò grazie all’applicazione di un prezzo equo, che per le arance è di 0,80 € al kg, incluse IVA e spedizione. L’ordine minimo è di 90 cassette da 10 kg. Recapiti per gli ordini: ingaggiami.rosarno@gmail.com, Arturo 380 3865967. (http://www.terrelibere.org/due-giorniper-sostenere-l-agrumicultura-etica-della-piana-di-gioia-tauro)

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Il 30 gennaio si chiudono i termini per partecipare al Premio reportage del mensile Napoli Monitor. Il concorso è per due diverse forme di reportage: scritto e fotografico. La premiazione avverrà a Napoli nell’ambito di una settimana di incontri, proiezioni e dibattiti sul tema “Chi racconta la città”, che si svolgerà al Teatro Nuovo dal 15 al 19 febbraio del 2012. http://www.napolimonitor.it/


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Sicilia/ Il caso Barcellona

Le inchieste

Una capitale di Cosa Nostra Verrà sciolto per mafia il Comune di Barcellona? Il Ministero ha incaricato una commissione che riferirà fra poco. Qualcuno pensa che sarebbe ora... di Antonio Mazzeo Una fine annunciata. Quella di una classe politica inetta ed arrogante e di una borghesia mafiosa e paramassonica. I membri, affamati tutti degli stessi sporchi affari. Miracolosamente scampato al fango di un disastro anch’esso annunciato, trema il partito unico locale. Dopo le alluvioni autunnali, si profila un forte terremoto a primavera. Che potrebbe demolire l’ancien régime e ridare speranza, democrazia e voglia di partecipazione a migliaia di donne e uomini spogliati dei diritti di cittadinanza. A fine novembre 2011, la ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri e il prefetto di Messina Francesco Alecci hanno firmato un decreto che istituisce una commissione d’indagine che dovrà “esperire accertamenti mirati” nell’ambito dei settori della gestione amministrativa del Comune di Barcellona Pozzo di Gotto per “verificare l’eventuale esistenza di forme di condizionamento della criminalità organizzata”. Novanta giorni per riscrivere la storia

di una delle capitali dei poteri occulti e deviati, poi la corsa contro il tempo perché Roma decreti lo scioglimento per mafia e il commissariamento della grande palude del Longano. Prima che l’amministrazione Pdl dei cugini Domenico e Candeloro Nania concluda l’ennesimo mandato quinquennale. Centinaia di atti e delibere da esaminare, una delle quali, approvata il 16 novembre 2009 in Consiglio comunale, sotto indagine della Procura della Repubblica dopo un esposto delle associazioni “Rita Atria” di Milazzo e “Città Aperta” di Barcellona e un’interrogazione fiume del parlamentare Pd Giuseppe Lumia. Oggetto, il Piano particolareggiato di un megaparco commerciale di 18,4 ettari in contrada Siena. Un’area a vocazione agricola trasformata d’incanto in cittadella dorata ove insediare molteplici infrastrutture per la grande distribuzione, alberghi, ristoranti e locali di dubbio divertimento. Una devastante colata di cemento che non ha uguali nel panorama siciliano dove il territorio è depredato da super e ipermercati. Il progetto di Barcellona prevede costruzioni per 398.414,45 metri cubi, contro un volume esistente di appena 23.164,68, mentre il sistema di viabilità da 5.052 metri quadri si svilupperà a sei sezioni stradali per ulteriori 35.714 m². “Nella storia del parco commerciale di contrada Siena si sono verificate problematicità nell’ambito della procedura adottata dall’Amministrazione Comunale di Barcellona”, ammonisce il decreto ministeriale sui “presunti” condizionamenti criminali della vita politica nel Longano. Assai poco “presunti” in verità, dato che la società committente della redazione del piano commerciale è la Dibeca Sas,

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proprietaria di 5,97 ettari di terreni, già attenzionata dalla commissione prefettizia che nel 2006 aveva chiesto senza successo lo scioglimento del Comune. Motivo, il contratto di affitto sottoscritto con gli amministratori barcellonesi per un palazzo di Via Operai destinato a uffici pubblici. Un accordo che da più di dieci anni consente di rimpinguare le casse di una società notoriamente nella disponibilità dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, ritenuto un personaggio di vertice della famiglia mafiosa locale. “Il capo dei capi di Cosa nostra messinese”, lo ha definito il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, già a capo del feroce clan di Mazzarrà Sant’Andrea. E qualche mese fa, su ordine del Tribunale di Messina, i Cattafi hanno pure subito il sequestro di beni e conti bancari per un valore di sette milioni di euro. Un megaparco commerciale “Numerose anomalie hanno condizionato l’iter progettuale del Parco di contrada Siena”, denunciano le associazioni antimafia “Rita Atria” e “Città Aperta”. “L’approvazione è avvenuta in violazione delle norme vigenti in materia urbanistica ed è per questo che chiediamo l’annullamento del provvedimento. La Dibeca, con il totale assenso degli organi comunali, si è appropriata di un settore di attività che vuole essere espressione del potere di supremazia. Nel predisporre e redigere il piano del Parco commerciale, la società di Cattafi non ha inteso soltanto condizionare l’attività del Comune, ma si erge a forza egemonica, a dominus estraneo all'ente locale che fa


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Le inchieste

sentire il suo peso su tutti i suoi organi istituzionali e burocratici. È la negazione dell’esistenza stessa dello Stato di diritto”. Il condizionamento della pubblica amministrazione e le “pressioni esterne all’interesse generale”, sono provati, secondo gli estensori dell’esposto, da una serie di “atti, comportamenti ed elementi sintomatici che s’inseriscono all’interno di un pesante quadro politico rappresentato dall’approvazione del nuovo PRG di Barcellona, caratterizzata da gravi sospetti d’illegittimità”. “Supervalutazione dei terreni” L’affaire di contrada Siena ha già consentito una miracolosa rivalutazione dei terreni, stimati nel luglio 2007 in 28 euro al mq. e - diciannove mesi dopo - in 85 euro al mq.. “L’approvazione del Piano particolareggiato ha innescato un meccanismo di supervalutazione dei terreni di quasi il 300% del valore venale originariamente indicato, con tutto quanto ne consegue in termini di distorsione delle regole che presiedono ad una compravendita libera e legittima e ciò sia che si realizzi o meno il Parco commerciale”, commentano le associazioni antimafia. Conti alla mano, la Dibeca di Cattafi & C. si è trovata proprietaria di un patrimonio fondiario stimato in 5.074.500 euro, otto volte in più di quanto aveva versato per la sua acquisizione il 7 aprile 2005.

La società aveva rilevato i terreni dall’Opera San Giovanni Bosco dei Salesiani di Barcellona che, a sua volta, li aveva ricevuti in donazione testamentaria da uno stretto congiunto di Rosario Pio Cattafi. Costo dell’operazione 619.800 euro (394.800 per i terreni agricoli e 225.000 euro per i fabbricati ospitati) Il pagamento con assegni circolari a firma GDM - Grande Distribuzione Meridionale, la società per azioni di Campo Calabro (Reggio Calabria) che nella primavera del 2005, previa stipula con la Dibeca di un contratto di comodato d’uso e relativa promessa di acquisto dei terreni, aveva avviato l’iter per ottenere l’OK del Comune al megaparco commerciale. Ciononostante, la GDM poi deciderà di defilarsi dal progetto lasciando ai Cattafi l’onere e gli onori di concludere l’affare. Resta difficile da capire come mai i Salesiani si siano convinti ad alienare i terreni a prezzi di saldo di fine stagione. Nel 1979 i Cattafi avevano avviato un tormentato contenzioso legale invocando la “risoluzione delle disposizioni testamentarie” perché i religiosi non avrebbero destinato “a scopi sociali benefici” i terreni ottenuti dal progenitore, ma il Tribunale di Messina si era opposto il 6 dicembre 1989. La sentenza fu appellata, ma prima che fosse emesso il giudizio di secondo grado, i Salesiani decisero di capitolare. Uno dei tanti misteri che le indagini dovranno chiarire.

“Al centro del crocevia fra cosche e affari...” “Rosario Pio Cattafi è inserito a pieno titolo, in una posizione di preminenza rispetto a quello dei singoli affiliati, in alcune organizzazioni criminali di tipo mafioso, quali la famiglia di Benedetto Santapaola e la famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto”. Il 21 luglio del 2000, il Tribunale di Messina delineava il profilo criminale di quello che da lì a poco sarebbe divenuto l’ideatore-tessitore del grande affaire del parco commerciale del Longano. Una “persona socialmente pericolosa”, contro cui veniva decretata la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di Barcellona, per la durata di cinque anni. “Numerosi collaboratori di giustizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”, aggiungevano i giudici peloritani.

SCHEDA/ LA POLITICA A BARCELLONA ALLUVIONE, INFILTRAZIONI MAFIOSE, ELEZIONI Non dev'essere un bel momento per la politica che governa Barcellona. Prima l’alluvione del 22 novembre con tutti gli strascichi di polemica che comporta e, non ultima, l’accusa del movimento degli studenti che stigmatizza lo stornamento dei fondi provinciali per gli alluvionati per fare luminarie di Natale. Poi la nomina della commissione d’inchiesta da parte del Ministro degli Interni su eventuali infiltrazioni mafiose all’interno del palazzo comunale sulla vicenda del Parco Commerciale; vicenda, questa, aperta da un esposto di questa associazione, insieme all’ass. Citta Aperta, presentato al Prefetto e alla Procura della Repubblica il 4 gennaio del 2011. E infine le prossime amministrative, su cui i primi due avvenimenti pesano come un macigno. Non dev'essere un bel momento per la politica che governa Barcellona se invece di mettersi a disposizione della commissione d’inchiesta, sente il bisogno di organizzare una conferenza stampa per delegittimare la stessa commissione ed attaccare le associazioni antimafia e il giornalista Antonio Mazzeo rei, le prime, d'aver

sollevato il problema e il secondo di aver esercitato il diritto/dovere di informazione. E, in maniera bizzarra, lo fa affidando il timone al Senatore Nania, che formalmente non c’entra nulla ma che dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, di essere il vero “dominus” della politica Barcellonese. E non deve essere un bel momento nemmeno per la politica di opposizione, che non sente il bisogno di dire una parola su queste vicende, e in particolare sul parco commerciale. La sensazione in città è che tutti, destra e sinistra, si augurino che il comune non venga sciolto e si vada tranquillamente alle elezioni, perpetrando un sistema che non trova al suo interno le ragioni per il cambiamento. Lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose inevitabilmente rinvierebbe la data delle elezioni ed obbligherebbe tutti, dominanti e dominati, a riflettere se non sia il caso di cambiare musica e mettersi il sistema Nania alle spalle. Santa Mondello Associazione Rita Atria

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Le inchieste

Sei anni più tardi i membri della commissione prefettizia inviata per indagare sulle infiltrazioni mafiose al Comune, avrebbero descritto il Cattafi come “una delle figure più emblematiche mediante il quale la città di Barcellona diventa il crocevia, snodo nevralgico e luogo di convergenza ove si intersecano gli interessi della mafia catanese e palermitana, intrecciandosi con imponenti operazioni finanziarie e di illeciti traffici che portano fino alla lontana Milano”. Da giovanissimo aveva militato nelle file della destra eversiva “rendendosi protagonista nell’ambiente universitario messinese di alcuni pestaggi (unitamente al mistrettese Pietro Rampulla, l’esperto artificiere della strage di Capaci), risse aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi”. Organizzazioni paramilitari Sono gli anni in cui nell’Ateneo di Messina si strine l’inedita alleanza tra neofascisti, ‘ndrangheta, massoneria deviata e misteriose organizzazioni paramilitari: “l’Italia come Il Portogallo di Salazar, la Spagna di Franco e la Grecia dei colonnelli” è la parola d’ordine. Tra i protagonisti dei raid all'università e alla casa dello Studente spiccano alcuni militanti di Ordine Nuovo, “movimento culturale” che a Messina era ospitato nella sede del Msi-Dn. Vicereggente provinciale del Fuan, l’organizzazione universitaria del partito di Almirante, era al tempo Rosario Cattafi. “Questo personaggio ha origini ordinoviste”, spiegò nel 1995 l’allora Procuratore della Repubblica di Firenze Pierluigi Vigna ai membri della Commissione Parlamentare Antimafia

presieduta dall’onorevole Parenti. Ancora più netti i militari del G.I.C.O. della Guardia di finanza di Firenze. “Prima di far parte di Cosa Nostra, al tempo in cui frequentava l’Università di Messina, Cattafi era un terrorista”, scrissero un anno più tardi in una loro informativa su un presunto traffico di armi a livello internazionale. Lasciata Messina per la Lombardia, nella seconda metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato uno dei capi di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto miliardario. All’organizzazione fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle “famiglie” mafiose siciliane. Nei primi anni ’80, il barcellonese si sarebbe attivato in vista del trasferimento di una partita di cannoni Oerlikon a favore dell’emirato di Abu Dhabi. I documenti sulla transazione di materiale bellico furono scoperti nel corso di un’inchiesta della procura meneghina interessata a verificare se dietro un suo viaggio a Saint Raffael c’era l’obiettivo di “stipulare per conto della famiglia Santapaola un accordo con i Greco per la distribuzione internazionale di stupefacenti”. Le indagini consentirono di accertare che il Cattafi aveva avuto accesso a numerosi e cospicui conti correnti in Svizzera e che lo stesso aveva tenuto “non meglio chiariti” rapporti con presunti appartenenti ai servizi segreti. Nell’agosto del 1993 fu indicato in una nota della Squadra Mobile di Messina quale fornitore di materiale esplodente e

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di armi ai sicari della cosca barcellonese ed “uno dei maggiori esponenti del clan”. L’1 settembre dello stesso anno la sua abitazione fu perquisita su decreto emesso dalla Procura di Messina nell’ambito di un procedimento penale per traffico internazionale di armi e materiale bellico, associazione per delinquere, truffa e corruzione, nel quale egli risultava coindagato unitamente al re dei casinò delle Antille olandesi Saro Spadaro e al mediatore italo-peruviano Filippo Battaglia. Il procedimento fu avocato dalla Procura di Catania che rinviò a giudizio il solo Battaglia (poi assolto). Rosario Cattafi fu invece tratto in arresto il 9 ottobre 1993 in esecuzione di un ordine di cattura emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze, nell’ambito dell’operazione relativa all’autoparco della mafia di via Salomone a Milano. “L'accordo delle cinque monete” Dopo una pesante condanna in primo grado a 11 anni e 8 mesi per associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (4 anni furono scontati nel carcere di Opera), la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, Cattafi venne assolto perché in sede dibattimentale furono dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano documentato le sue frequentazioni dell’autoparco. In una delle intercettazioni, il 16 settembre 1992, Cattafi si vantava di avere avuto modo in qualche modo di assistere ad un importantissimo summit mafioso, tenutosi in una località, forse Erice, “durante la quale venne deliberato un patto chiamato accordo delle cinque monete”.


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“Sembra che non ci possono essere dubbi che il Cattafi voglia riferirsi a quanto raccontato a suo tempo anche a Franco Carlo Mariani e cioè di aver assistito a un convegno cui avevano partecipato gli esponenti di cinque mafie mondiali”, spiegano gli uomini del GICO. Del barcellonese si occupò poi la Procura di La Spezia nell’ambito dell’inchiesta sul faccendiere Pacini Battaglia e su un grosso traffico di armi delle società costruttrici Oto Melara, Breda ed Augusta con paesi sottoposti ad embargo. Sul suo conto i magistrati scrivevano “essere inserito a pieno titolo nel commercio illegale delle armi e degli armamenti”. Nel 1998 fu invece sottoposto ad indagini (anch’esse poi archiviate) da parte delle Procure di Caltanissetta e Palermo sui cosiddetti “mandanti occulti” della strategia stragista del '92-93. Nel procedimento (Sistemi Criminali), il nome di Cattafi comparve accanto ai boss mafiosi Salvatore Riina e Nitto Santapaola, al patron della P2 Licio Gelli, all’ordinovista Stefano Delle Chiaie e a Filippo Battaglia. Sugli indagati il sospetto di “avere, con condotte causali diverse ma convergenti, promosso, costituito, organizzato, diretto e/o partecipato ad un’associazione, promossa e costituita in Palermo anche da esponenti di vertice di Cosa Nostra, avente ad oggetto il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine costituzionale, allo scopo tra l’altro di determinare le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d’Italia”. Un rapporto della Dia (1994) aveva segnalato contatti telefonici fra le utenze utilizzate dal Cattafi “con soggetti riconducibili a Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie, fra fine ' 91 e inizi '92”.

A rafforzare l’immagine e il potere del presunto “capo dei capi” della mafia messinese, le amicizie con politici, parlamentari, giudici e imprenditori. È stato ancora lo SCICO di Firenze ad abbozzare la lista dei contatti “eccellenti”. “Sulla base degli elementi desumibili dalla documentazione sequestrata, Cattafi frequentava circoli e club sia a Milano che a Barcellona, potendo così incrementare il numero delle conoscenze utili... Risultava interessato in particolare all’attività del “Circolo Corda Fratres” di Barcellona, il cui rappresentante, Antonio Franco Cassata, risulta rappresentante anche della “Ouverture–Associazione Italia-Benelux” e del “Comitato Organizzativo Premio Letterario Nazionale Bartolo Cattafi”. “Congreghe massoniche coperte” “In merito all’attività di tali associazioni e circoli – aggiungevano gli inquirenti - apparirebbe opportuno maggiormente indagare essendo tali attività, sovente, mezzo di copertura a congreghe massoniche coperte, atteso anche che notizie informative indicano il Cattafi appartenere a tali consorterie”. Vengono pure segnalati gli stretti legami con l’on. Dino Madaudo (Psdi), al tempo sottosegretario al Ministero delle Finanze, successivamente sottosegretario alla Difesa (ministro on. Salvo Andò) con delega all’Arma dei Carabinieri. “Rapporti del Cattafi con amministratori pubblici sono evidenziati dai contatti telefonici peraltro frequenti con utenze intestate all’Assemblea Regionale Siciliana alla Presidenza della Regione Sicilia e Assessorato Industria. Persone lega-

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te al Cattafi sono Domenico Caliri, antiquario di Barcellona Pozzo di Gotto, l’attore Gianfranco Jannuzzo e l’avvocato Francesco Sciotto, all’epoca assessore all’Industria e appartenente allo stesso partito del Madaudo (…) Conoscenze e rapporti del Cattafi non si limitano a ciò ma spaziano da un viceprefetto (Giuseppe Rizzo al tempo viceprefetto di Messina) con scambi augurali attestanti fraterna amicizia, a non meglio definite conoscenze all’interno della Questura di Messina che gli avevano addirittura consentito di locare un immobile di sua proprietà in Barcellona al Ministero della Pubblica Sicurezza: difatti nell’immobile si era insediato il locale Commissariato di P.S.”. Nella sua informativa, il G.I.C.O. segnalava che tra le annotazioni sulle agende del Cattafi comparivano le voci “Franco Cassata”, “Dott. Franco Cassata A.–Procura”; “Corda Fratres–Circolo”. “La prima utenza corrisponde a quella dell’abitazione del dottor Antonio Franco Cassata; la seconda agli Uffici Giudiziari di Messina e la terza all’associazione culturale di cui il Cassata risulta rappresentante legale…”. Anch’egli barcellonese, Cassata è l’odierno Procuratore generale di Messina. Secondo Il Fatto Quotidiano del 21 settembre 2011, sarebbe finito sotto indagine a Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa. A dicembre, il Tribunale di Reggio ha ordinato il rinvio a giudizio del dottor Cassata per “diffamazione aggravata in concorso con ignoti” del professore Adolfo Parmaliana, morto suicida l’1 ottobre 2008 dopo aver inutilmente lottato, in solitudine, contro le tante illegalità della vita politico-amministrativa del Comune di Terme Vigliatore.


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Angela Manca racconta

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“Mio figlio ucciso dalla mafia. E non solo” Da otto anni lotta per ottenere verità e giustizia per la morte del figlio Attilio di Luciano Mirone Angela Manca chiede che si indaghi a trecentosessanta gradi su quello strano viaggio che Bernardo Provenzano– sotto il falso nome di Gaspare Troia – compì a Marsiglia fra la primavera e l’autunno del 2003 per operarsi di cancro alla prostata. Vuole che si sveli quella fitta rete di complicità che ha protetto il boss corleonese soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto,nel periodo in cui, travestito da frate, si nascondeva in un convento della zona. Perché lei, Angela Manca, assieme al marito Gino e all’altro figlio Gianluca, è convinta che la morte di Attilio sia legata proprio a quell’intervento alla prostata effettuato in gran segreto durante la latitanza di “Binnu” Provenzano: o attraverso un intervento per via laparoscopica che Attilio e pochi altri medici in Italia, a quel tempo, erano in grado di fare, o attraverso un’assistenza post operatoria che potrebbe essere avvenuta tra la Sicilia e il Lazio, auspice quella mafia di Barcellonache avrebbe indotto l’urologo a prestare la sua opera per quel signore con l’accento palermitano di cui Attilio avrebbe sconosciuto la vera identità. Da otto anniil Pubblico ministero di Viterbo, Renzo Petroselli, sostiene che Attilio Manca, trentaquattrenne urologo di fama,all’epoca in servizio all’ospedale

“Belcolle” di Viterbo, si sia suicidato con una micidiale overdose di eroina, alcol e tranquillanti. Ma non ha prove. Anzi no, ha due buchi e due siringhe da esibire. Per ben tre volte ha chiesto l’archiviazione del caso, puntualmente respinta dal Gip, che l’ultima volta – fatto alquanto singolare per un “suicidio” – si è preso un anno e mezzo per decidere. Segno che qualcosa non quadra neanche fra gli stessi magistrati laziali. Un “suicidio” singolare Nello scorso gennaio, finalmente, il Giudice per le indagini preliminari, Salvatore Fanti,ha stabilito che le investigazioni devono continuare, da ora in poi non più concentrate sulla parola suicidio, ma sulla parola overdose. Dunque,otto anni dopo, Attilio Manca non è più un suicida-drogato, ma un drogato e basta. Adesso però ci sono sei indagati. Che secondo i magistrati viterbesi, avrebbero fatto il semplice lavoro di un pusher. Cinque (fra cui Ugo Manca, cugino di Attilio)sono di Barcellona Pozzo di Gotto, una di Roma. Sarebbero stati loro a fornire l’eroina per l’overdose fatale. Peccato che non ci siano prove neanche sulla tossicodipendenza del giovane medico: dagli esami, dalla ricognizione cadaverica, dall’autopsia e dalle numerose testimonianze rilasciate da colleghi, infermieri, amici e parenti è emerso con chiarezza che Attilio non era un tossicodipendente né frequente né occasionale. E allora? Per capire le battaglie di questa madre che somiglia tanto ad altre madri eroiche della storia dell’antimafia, bisogna raccontare la scena della morte e le grossolane omissioniche ne sono seguite. Bisogna riportarsi alla mattina del 12 febbraio 2004, quando nell’appartamento

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di Viterbo viene trovato morto Attilio Manca. È adagiato sul piumone del letto matrimoniale, per terra c’è una larga chiazza di sangue, una parte del parquet è divelta. Il giovane urologo – che dorme abitualmente in pigiama – indossa soltanto una maglietta, per il resto è nudo. Non sono mai state ritrovate le mutande e i calzini (neanche nel box adibito alla raccolta degli indumenti sporchi). Appesi a qualche metro di distanza una giacca, una camicia e una cravatta. Su un tavolo – fatto assolutamente inusuale, secondo i familiari– sono riposti alcuni strumenti per fare le operazioni. In cucina vengono trovate due siringhe con il tappo riposto negli aghi. Ma la scena raccapricciante riguarda il corpo pieno di sangue. Il medico ha il setto nasale deviato, il volto tumefatto, le labbra gonfie e presenta due buchi al braccio sinistro. L'esame esterno Il dottore del 118 fa un esame esterno sul cadavere e scrive che il cadavere è pieno di lividi, soprattutto gli arti superiori ed inferiori, come se qualcosa (una corda? dei lacci?) avesse fatto pressione su essi. Prima contraddizione. Nel referto dell’autopsia, eseguito dalla dottoressa Ranaletta, moglie del prof. Rizzotto, primario del reparto di Urologia dell’ospedale di Viterbo, di ecchimosi non si parla. Contrariamente a quanto documentato perfino dalle foto, non si parla neanche di setto nasale deviato e di volto tumefatto. Seconda contraddizione. Attilio Manca era un mancino puro, eseguiva qualsiasi cosa con la mano sinistra. Perché quei due buchi sul braccio sinistro?


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Terza contraddizione. Quei buchi se è fatti lui? E quelle siringhele ha utilizzate lui? Perché gli investigatori scartano fin dalle prime ore la tesi dell’omicidio camuffato da suicidio? Perché non fanno rilevare le eventuali impronte digitali lasciate sulle siringhe, malgrado l’insistenza dell’avvocato Fabio Repici, legale dei Manca? Da otto anni quelle siringhe sono sigillate dentro una busta di cellophane e soltanto adesso il Gip ha disposto una perizia. Cinque impronte digitali Quinta contraddizione. Perché non si trovano le mutande e i calzini di Attilio? Sesta contraddizione. Nell’appartamento dell’urologo, la Polizia scientifica rileva cinque impronte digitali. Quattro “anonime” (dunque appartenenti a gente estranea alle amicizie di Attilio), ed una appartenente al cugino Ugo Manca. Quest’ultima viene trovata su una mattonella del bagno, in un posto dove, per via del vapore acqueo, secondo pareri di autorevoli esperti, le impronte si distruggono dopo qualche ora. La madre di Attilio giura di avere pulito con cura soprattutto il bagno poche settimane prima della morte del figlio, durante le vacanze di Natale. Ugo invece spiega che è stato in quell’abitazione oltre un mese prima – ospite del cugino –per un intervento di varicocele.Dopodiché, sostiene, non è più entrato nella casa di Attilio. Delle due l’una: o l’impronta è vecchia di oltre un mese o è recentissima. Settima contraddizione. Perché, dopo il ritrovamento del cadavere, Ugo si precipita a Viterbo? Perché si reca immediatamente dal Pubblico ministero Petroselli per chiedergli il dissequestro dell’appartamento? Lui dice che deve prendere gli

abiti con i quali bisogna vestire la salma. Chi l’ha incaricato? Nessuno, dicono i genitori di Attilio. Gianluca addirittura lo redarguisce con durezza dal prendere iniziative del genere. Nelle stesse ore, anche da Barcellona, qualcuno si affretta a chiedere il dissequestro dell’appartamento. A telefonare ad un alto magistrato di Roma è la madre di Ugo Manca. A che titolo? Chi l’ha incaricata? Anche in questo caso i genitori di Attilio smentiscono. Chi ha consigliatoalla donna il nome delmagistrato romano? Alla fine Gianluca evita il dissequestro dell’appartamento e compra gli abiti per rivestire la salma. Ottava contraddizione. La presenza a Viterbo, nei giorni che precedono la morte di Attilio, di un altro affiliato alla mafia barcellonese, Angelo Porcino.Secondo il pentito Carmelo Bisognano, Porcino è un boss di primo piano della cosca barcellonese. Perché è andato nella città laziale poco tempo prima della morte dell’urologo? Attilio Manca incontra Porcino? Non si sa neanche questo. Ufficialmente risulta che Porcino – titolare di una sala di video giochi – non possiede un telefono, né fisso né cellulare. Episodi incredibili Nona contraddizione. “Ci sono episodi incredibili”, dice la madre dell’urologo, “non tenuti assolutamente in considerazione: mentre Ugo Manca, nel periodo della morte di Attilio, si trova ufficialmente a Bologna, il suo cellulare risulta a Bagheria. Anche su questo gli inquirenti non hanno fornito spiegazioni”. Fin dalle prime ore, dunque, emergono delle situazioni particolarmente anomale, non proprio semplici coincidenze. “Una volta mi sono arrabbiata col Pubblico ministero. Gli ho gridato: ‘Ma lei si

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rende conto che sta insabbiando le indagini?’. Ha detto che mi avrebbe querelato, non l’ha fatto”. Ma per capire meglio questa storia, bisogna recarsi nel luogo dove la famiglia di Attilio Manca vive da sempre, Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, grosso crocevia del traffico di armi e di droga, punto di coagulo tra Cosa nostra, politica, massoneria e servizi segreti deviati. Politica e massoneria Angela Manca è una donna dolcissima. Vive col marito Gino in un palazzetto tardo ottocentesco ubicato nel cuore di questo paesone di cinquantamila abitanti, al centro di in triangolo urbano che comprende il circolo “Corda fratres”, il municipio e l’abitazione del boss Giuseppe Gullotti. La “Corda fratres” non è il classico circolo di paese dove si gioca a cartee ogni tanto si organizza una conferenza. È un sodalizio esclusivo che “serve” a un sacco di gente per fare carriera. E fin quinormale amministrazione, o quasi. La cosa diventa paradossale se all’interno dell’associazione ci trovi iscrittoun potente capomafia come Gullotti e un personaggio inquietante come Rosario Cattafi, accusato di essere il mandante esterno della strage di Capaci, poi prosciolto, assieme a Berlusconi e Dell’Utri, ma sottoposto a misure di sicurezza per cinque anni con l’obbligo di soggiorno a Barcellona. Due tipi che hanno diviso quelle stanze con l’ex ministro Domenico Nania, con il cuginoCandeloro Nania, sindaco di Barcellona; con il presidente della Provincia Giuseppe Buzzanca, e con il Procuratore generale di Messina Franco Cassata, vero animatore della “Corda”,


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da sempre residente a Barcellona, e attualmente sotto inchiesta presso la Procura di Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa e per avere scritto e diffuso un dossier anonimo pieno di veleni contro il professore universitario Adolfo Parmaliana, suicidatosi per disperazione dopo aver denunciato il verminaio che da anni infesta Barcellona. La casa del boss Gullotti Il municipio si affaccia sul torrente Longano, un corso d’acqua che i politici locali, alcuni anni fa, hanno pensato bene a coprire con una striscia d’asfalto. Nello scorso novembre il torrenteè esondato con conseguenze devastanti. Ma questo edificio è famoso, secondo una relazione della Commissione prefettizia, “per le collusioni fra alcuni assessori e consiglieri comunali del Pdl con Cosa nostra”. Eppure né il governo di centrodestra né quello di centrosinistra si sono permessi di sciogliere il Consiglio comunale e la Giunta, specie dopo che è stataapprovata all’unanimità la costruzione di un mega Parco commerciale proprio sui terreni di Saro Cattafi. Anche la casa del boss Gullotti è a pochi metri dall’appartamento dei Manca. Qui il capomafiaha ospitato Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano, qui assieme ai boss corleonesi ha disegnato la strategia eversiva più devastante del dopoguerra: la strage di Capaci eil delitto del giornalista Beppe Alfano. Si trovano proprio a due passi dalla casa dei Manca le “centrali” del potere barcellonese, non cose di poco conto, ma entità collegate fra loro in maniera spudoratamente chiara, con ramificazioni lontane. Come a dimostrare che in Sicilia bene e male coesistono nel giro di pochi

metri, di pochi centimetri addirittura. Il palazzetto ospita due rami della dinastia Manca: in un appartamento vive la famiglia di Gino, in un altro la famiglia del fratello Gaetano. Dal 2004 queste due famiglie, da sempre ai ferri corti, sono in guerra: da quando Ugo Manca, figlio di Gaetano,è implicato nella morte dell’urologo. Non è uno qualsiasi Ugo Manca: temperamento piuttosto violento, in gioventù è stato vicino ai gruppi di estrema destra, risulta organico alla cosca barcellonese. Condannato in primo grado al processo “Mare nostrum” per traffico di droga, è stato assolto in appello. Anche lui, dicono i bene informati, è amico di famiglia del Procuratore Cassata. “Il quale”, secondo l’avvocato Repici, “dopo l’assoluzione di Ugo in appello, per un banale vizio di forma non ha presentato neanche ricorso in Cassazione”. Da quando accusa è rimasta sola Angela Manca è seduta nels alotto di casa. Ha sessantasette anni ed è una docente di biologia in pensione, il marito, dieci anni più grande di lei,è un ex insegnante di lingue. Gianluca fa l’avvocato e di anni ne ha quaranta. Una famiglia della media borghesia siciliana che prima della morte di Attilio viveva una vita tranquilla, senza sapere cosa fosse la mafia. Dal 12 febbraio 2004 è cambiato tutto. È una donna dolce e perbene, lucida anche. Determinata ad andare fino in fondo. Anche se è pervasa da un doloreindicibile, pesa le parolee non va mai sopra le righe. Adesso lei, Gino e Gianluca vivono solo per ottenere verità e giustizia. Da quando accusa la mafia, la famiglia Manca è rimasta sola. Angela e Gianluca appaiono i più energici, Gino il più sensi-

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bile, ma quando c’è da organizzare qualcosa diventano una cosa sola. In certi ambienti li considerano dei pazzi, dei visionari, dei calunniatori. Loro vanno avanti lo stesso, anche perché nel frattempo attorno a loro si è creato un movimento spontaneo chechiede, anche mediante facebook,che non vengano chiuse le indagini sulla morte di Attilio. “Una cosa bellissima che ci fa sentire meno soli. Forse è stato grazie a queste pressioni che il Gip ha deciso di respingere l’ultima richiesta di archiviazione”. “Qualcuno vuole che scappiamo” Da alcuni mesi i genitori dell’urologo sono alle prese con l’ennesimo problema: un gas urticante e nocivo (secondo i carabinieri e i Vigili del fuoco), che qualcuno immette nella loro abitazione durante le ore notturne. “Evidentemente qualcuno vuole che scappiamo, ma si sbaglia: resteremo qui perché questa è la casa di Attilio”. Tanti i ricordi che si concentrano, tante le sensazioni, tante le emozioni. Per un po’ tocchiamo la corda dei sentimenti. Attilio che primeggia a scuola. Attilio che traduce senza vocabolario le versioni di latino e di greco. Attilio che a quindici anni è un campioncino di basket. Attilio che vuole fare informatica. Attilio che si iscrive in Medicina all’Università cattolica del Sacro cuore di Roma. Attilio che racconta le barzellette su Totti. Attilio che, concluso il tirocinio con il prof. Gerardo Ronzoni, un luminare nel campo dell’urologia, vuole trasferirsi a Messina. “Intorno al 2002 aveva saputo che c’era un posto. Aveva presentato la domanda. Bonariamente gli dissero: ‘E’ inutile, c’è il cugino di un senatore barcellonese, il posto è suo’. A quel punto optò per Viterbo”.


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Poi Angela mette insieme i fatti, li ordina eli elabora. “La morte di Attilio”, dice, “è avvenuta in una regione dove la mafia è sbarcata da alcuni anni e la massoneria comanda indisturbata grazie ai potenti collegamenti di cui dispone”. “All’inizio non ci fecero vedere neanche il cadavere. È meglio che lo ricordiate com’era, spiegarono garbatamente il prof. Rizzotto e mio nipote Ugo Manca. All’inizio ci dissero che era morto per un aneurisma. Quando ci parlarono di suicidio, capii che lo avevano ammazzato. Addirittura sostennero che il setto nasale era stato deviato dal telecomando poggiato sul letto, dopo che Attilio, stordito dall’overdose, c’era andato a finire con la faccia. Dalle foto, invece, si vede il telecomando sotto il braccio. E poi, come può un telecomando poggiato su un piumone, fracassare la faccia di un uomo?”. “Attilio non voleva neanche il vino a tavola durante la settimana: ‘Devo essere sobrio, quando vado in sala operatoria devo essere tranquillo. Come si poteva fare l’eroina e a quei livelli?”. “Un'autopsia troppo veloce” “Mi chiedo perché è stata chiamata la moglie del prof. Rizzotto a fare l’autopsia. Non era la persona adatta: conosceva bene Attilio,ci sono delle foto di una festa da ballo in cui addirittura ballano insieme. E poi era la moglie di un primario alle cui dipendenze lavorava mio figlio. Il prof. Rizzotto era stato interrogato come testimone, non era giusto che fosse proprio sua moglie a fare l’autopsia. Un’autopsia condotta in modo veloce, sommarioe approssimativo. I miei tre fratelli, che aspettavano l’esito dell’esame autoptico, possono testimoniare: il professor Rizzotto passeggiava dietro la

porta dove la moglie faceva l’autopsia, Ugo Manca pure. Dicevano di fare presto perché si dovevatrasferire la salma in Sicilia. Manoi non avevamo fatto alcuna pressione”. Perché insistete sulla pista che porta a Provenzano? “Una settimana dopo, mentre siamo al cimitero, si presenta un signore, Vittorio Coppolino, papà di LelioCoppolino, un intimo amico di Attilio. Ci ferma e ci dice: ‘Siete sicuri che vostro figlio non sia stato ammazzato perché ha visitato Bernardo Provenzano?’. Non avevo idea di chi fosse Provenzano, e pensai: ‘Ma questo che dice?’”. “L’ultimo Natale (quello del 2003, un mese prima della sua morte) Attilio lo aveva passato con Lelio.Sono convinta che in quel periodo Attilio avesse confidato alcuni segreti su Provenzano, comprese le complicità barcellonesi, a Lelio Coppolino e a qualche amico vicino a Ugo Manca”. “Il giornale col foglio mancante” “Dopo un anno incontro nuovamente il papà di Lelio: ‘Hai visto che avevo ragione?La Gazzetta del Sud parla dell’operazione di Provenzano’. Mi porta il giornale, ma stranamente manca la pagina che mi interessa. Gli telefono: ‘Vittorio, perché mi hai dato il giornale con un foglio mancante?’. E lui: ‘L’ho portato a Lelio, l’avrà strappata per accendere il fuoco’. Recupero il quotidiano e leggo: il pentito Francesco Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, dichiara: ‘Un urologo siciliano ha visitato Bernardo Provenzano nel suo rifugio’. Da quel momento mi si sono aperti scenari del tutto nuovi”. “Nei giorni che precedono la sua morte, Attilio è angustiato da qualcosa, specie dopo aver sentito al telefono gente di Barcellona.Lo affermano tutti i testimoni.

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Due giorni prima fa uno strano viaggio a Roma, probabilmente per incontrare qualcuno. Parla al telefono con un’infermiera: è strano, spaventato: ‘Attilio, ma che hai?’. ‘Un problema’. ‘Non ti preoccupare, domani è un altro giorno’. Nel pomeriggio ha un appuntamento con il prof. Ronzoni, il suo secondo padre, e non si presenta. La sera, a Viterbo, ha una cena di lavoro con una Casa farmaceutica e non si presenta neanche li”. Il mistero delle ore successive “Ma il mistero si infittisce nelle ore successive. Alle undici di sera chiamiamo ma non risponde. L’indomani mattina alle nove telefona, ma senza quell’affettuosità di sempre: ‘Mamma, mi dovete fare aggiustare la moto che è nella casa al mare di Terme Vigliatore’. ‘Attilio, siamo a febbraio’. “Me la dovete fare aggiustare’. Chiudo e mi giro verso mio marito: ‘Attilio sta diventando acido’. Da qualche giorno mi rispondeva così, come se volesse che io capissi le sue preoccupazioni. Dopo la sua morte, abbiamo portato la moto dal meccanico: era in ottimo stato. Attilio voleva mandare un messaggio, forse un riferimento alla località di Terme Vigliatore, dove Provenzano è stato nascosto per diverso tempo. Anche questa telefonata non esiste nei tabulati della Polizia. Nelle ore successive lo abbiamo chiamato più volte, il telefono suonava ma lui non rispondeva. Questo mi fa presumere che fosse in ostaggio. L’hanno portato in qualche posto? È andato a visitare Provenzano in qualche località segreta? Perché quegli strumenti di lavoro in camera da letto? Li ha adoperati o li doveva adoperare?”.


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Inter viste/ Antonino Di Matteo

“Il progetto di Gelli è ancora qui” La giustizia è ancora sotto assedio? Quali sono gli equilibri, oggi, fra i poteri ufficiali e i poteri “ufficiosi”? Lo chiediamo a uno dei più impegnati magistrati palermitani di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo antimafiaduemila.com

Cosa significa fare il proprio dovere di magistrato sotto il fuoco incrociato del potere politico? Ho sempre creduto che il magistrato debba rifarsi e ispirarsi unicamente ai principi della Costituzione sui quali abbiamo giurato: l’imparzialità e l’eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge. Negli ultimi anni in Italia abbiamo vissuto una organizzata e sistematica campagna di delegittimazione costante della magistratura e, in particolare, di quella parte della magistratura che si ostina a credere che la legge sia uguale per tutti. Lo scopo è abbastanza evidente: far rientrare la magistratura nei ranghi che vorrebbero assegnarle, e cioè di un ordine attento a non disturbare con le sue indagini e i suoi processi chi detiene il potere politico, economico, istituzionale.

Di fatto siamo di fronte ad un sistema politico pronto ad attaccare pesantemente un suo collega come Antonio Ingroia “reo” di essersi definito “un partigiano della Costituzione”. L’episodio citato è uno dei tanti in cui si è tentato per l’ennesima volta di additare Antonio Ingroia (come in passato altri magistrati) come fazioso e la sua azione finalizzata a uno scopo di parte. Sono convinto, invece, che l’affermazione del dottor Ingroia sia sacrosanta e che il collega l’avrebbe esternata ugualmente se si fosse trovato in un convegno organizzato da un’altra parte politica. Queste sono le stesse accuse infamanti che, più o meno in maniera diretta, hanno caratterizzato altri momenti della storia dell’attività della magistratura in Sicilia. E questo anche perché molti di coloro che oggi ricordano le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano all’epoca le stesse persone che li accusavano di perseguire scopi politici. Il parallelismo è realmente oggettivo e soprattutto attuale. Giovanni Falcone era sulla bocca e nelle parole di molti di questi “autorevoli” politici e opinionisti un “giudice comunista” che voleva sovvertire gli assetti di potere che facevano capo alla Democrazia Cristiana, in particolare in Sicilia. Si trattava, agli occhi di questi “autorevoli” personaggi, di un uomo il cui agire era pericoloso quanto, se non di più, dell’agire dei mafiosi. Di fatto una parte consistente della politica non ha mai sopportato che il controllo di legalità della magistratura si spingesse anche alla verifica della legittimità dell’esercizio del potere politico. Quanto è consolidata questa linea di

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continuità fra i progetti della P2 e la riforma della giustizia prospettata dal precedente governo? Non posso che limitarmi ad essere il più oggettivo possibile evidenziando alcune analogie profonde tra il progetto di rinascita democratica e alcune parti del progetto di riforma costituzionale della giustizia, che segnano una linea di continuità oggettiva tra i due: la separazione delle carriere tra PM e Giudici e, più in generale, per quanto riguarda la giustizia, una netta limitazione dei poteri del Csm, sia nelle forme dell’autogoverno della magistratura, sia sotto il profilo della possibilità, per esempio, di esprimere pareri in materia di progetti di riforme sulla giustizia. Il processo Cuffaro Che peso ha avuto il processo Cuffaro nel nostro Paese? Una volta tanto un potente al termine di un processo, lungo, articolato e in cui è stata data piena esplicazione delle sacrosante facoltà difensive, è stato condannato e incarcerato. Questo ha un significato: in Italia la giustizia funziona ancora e può essere efficace anche nei confronti dei potenti, i quali se vengono condannati scontano la loro pena, come un qualsiasi altro cittadino. E’ un segnale molto importante (soprattutto in terra di mafia) perché un altro dei pilastri sui quali la mafia ha fondato il proprio potere e consenso sociale è esattamente questo e cioè che mentre la mafia ha la forza di far rispettare le sue leggi e le sue regole, lo Stato non è capace di far rispettare le sue regole nei confronti di tutti, ma solo nei confronti di alcuni.


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“Assedio alla toga”, la drammatica testimonianza del giudice Di Matteo

Analizzando il fenomeno della mafia in quanto tale, quanto è presente nelle sue forme di mafia-militare, mafiaborghese e mafia-economica? Dalle indagini e dai processi più recenti è emerso che la mafia non solo c’è, ma è ancora molto forte e pericolosa. E’ indubbio che da un punto di vista della manovalanza rispetto alla potenza militare che poteva dispiegare vent’anni fa, Cosa Nostra è in una fase di difficoltà e di crisi. Molti capi militari sono all’ergastolo, molti picciotti, molti uomini d’onore sono stati arrestati, molte armi sono state sequestrate, molta liquidità e comunque molta ricchezza è stata sottoposta al sequestro o alla confisca. In questo momento ingenti capitali anche di origine mafiosa stanno penetrando il tessuto economico siciliano attraverso una commistione con capitali apparentemente leciti, molto spesso frutto di finanziamenti pubblici, anche europei, e molto spesso frutto di importanti finanziamenti bancari. Allora se questa è la fase in cui si trova Cosa Nostra credo che lo Stato dovrebbe avere la forza di adeguare la propria reazione. Dove Cosa Nostra trova la chiave In quale modo? Lo Stato deve rendersi conto, soprattutto nella sua articolazione politica e legislativa, che non si può combattere realmente ed efficacemente la mafia se non si combatte il dilagante fenomeno corruttivo. E questo perché è proprio attraverso la corruzione diffusa, attraverso i versamenti di ingenti somme ai politici, attra-

verso le corruttele grandi e piccole nella pubblica amministrazione, che Cosa Nostra trova la chiave d’accesso per penetrare quei mondi della pubblica amministrazione, della politica e dell’imprenditoria. Quali segnali giungono dall’interno di Cosa Nostra in merito ai rischi di una nuova azione militare contro lo Stato? Credo che ci siano segnali di difficoltà, soprattutto a livello di esponenti di spicco, di portare avanti una strategia “militare” di contrapposizione allo Stato, anche attraverso omicidi eccellenti o stragi. Quella categoria di uomini d’onore o collusi con la mafia che è sempre esistita (dai tempi dei “facinorosi della classe media” di Franchetti e Sonnino, a quelli del dottore Navarra, di Michele Greco, di Giuseppe Guttadauro, del dottor Cinà ecc.) è una categoria con la quale dobbiamo fare i conti ora e, temo, anche nel futuro se non ci attrezzeremo adeguatamente. A mio parere ci sono teste pensanti che sono sempre in grado, poi, di orientare le

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strategie imprevedibili di Cosa Nostra. Così come riportato nel libro, nel documento del 29 ottobre 1943 redatto dal capitano Scotten, ufficiale del servizio segreto britannico, vi erano tre ipotesi di linee direttrici dell’azione che il governo militare alleato avrebbe potuto intraprendere nei confronti di Cosa nostra. La storia racconta che venne scelto il secondo punto, quello della “tregua negoziata” con i capi mafia, che venne privilegiata dall’ufficiale come la soluzione migliore. Alla luce delle recenti inchieste sulla trattativa tra lo Stato e mafia che significato assume questo documento? Ha un significato storico ben preciso e importante. In periodi storici molto lontani nel tempo da parte di governi estranei alla cultura mafiosa radicata nel territorio siciliano si è realisticamente guardato a Cosa Nostra siciliana non come un fenomeno criminale come gli altri, da debellare con tutta la forza e l’impegno possibile, ma quasi come uno Stato parallelo con il quale trovare punti di mediazione e di “dialogo”.

Il “dialogo” con lo Stato parallelo Il sospetto è che ciò si sia verificato anche in epoca successiva con la storia dell’uccisione del bandito Giuliano e in altri momenti (stiamo verificando se anche con il protrarsi della latitanza di Provenzano possa essere avvenuto, o con la trattativa del ‘92/’93), quasi come se una “ragione di Stato” possa eventualmente giustificare un rapporto di “dialogo” di reciproca concessione con Cosa Nostra.


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Dopo l’omicidio Lima e la strage di Capaci Cosa Nostra aveva in progetto di eliminare i politici “che avevano tradito”. Era stata avviata (attraverso lo studio delle abitudini e dei movimenti della vittima) la fase preparatoria all’omicidio del ministro Calogero Mannino. Quel progetto però venne improvvisamente accantonato. Al suo posto venne designato Paolo Borsellino quale obiettivo prioritario. Come va interpretata questa “inversione di rotta”? La chiave per capire l’eventuale cointeressenza esterna a Cosa Nostra del mandato omicidiario nei confronti di Borsellino sta proprio nel capire le ragioni di questo improvviso cambio di rotta. Scoprire questo significherebbe, per i magistrati di Caltanissetta, di Palermo, più in generale per l’opinione pubblica e per il Paese, capire le vere ragioni e, eventualmente, gli altri mandanti della strage di via d’Amelio. E probabilmente non solo della strage di via d’Amelio, ma anche delle stragi del continente del 1993. L'inchiesta sulla trattativa Se dovesse essere confermato un depistaggio nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, messo in opera da apparati dello Stato, che ripercussione provocherebbe nell’inchiesta sulla trattativa? A me preme soltanto ricordare alcuni fatti e non commentare le indagini che stanno facendo colleghi di altre Procure e tanto meno poter parlare di ripercussioni nelle indagini sulla trattativa. Il coinvolgimento nella fase esecutiva

della strage di via D’Amelio del mandamento di Brancaccio, dei Graviano, degli uomini di più stretta fiducia dei Graviano (mi riferisco ad esempio a Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia, Cristoforo Cannella) erano stati già consacrati nei processi via D’Amelio ter e, in parte, anche in via D’Amelio bis. Paradossalmente alcuni di questi uomini, compresi i vari Tagliavia, Tinnirello e gli stessi fratelli Graviano, erano stati chiamati in causa anche da quel pentito oggi dichiarato inattendibile in tutto, che era Scarantino. Competerà quindi ai colleghi di Caltanissetta e di Catania capire perché su alcuni aspetti lo Scarantino abbia mentito. Quel mix di silenzi e disattenzioni Il dato di fatto è questo: il pentito oggi dichiarato giustamente inattendibile è comunque un pentito che, oltre a chiamare in causa alcuni soggetti che oggi vengono ritenuti estranei alle stragi, ha menzionato alcuni mafiosi del mandamento di Brancaccio oggi più che mai pienamente coinvolti e definitivamente condannati per le stragi. Di fatto Scarantino aveva citato anche quel Gaetano Scotto, ritenuto (sulla base di elementi anche raccolti in altri processi) un soggetto, un anello di collegamento tra Cosa Nostra militare e alcuni ambienti dei servizi. Come magistrato cosa teme di più che impedisca di arrivare alla verità sui mandanti esterni delle stragi? Temo la solita cortina di fumo, fatta in passato, che ha caratterizzato più volte

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momenti come questo, che è un mix micidiale di silenzi, disattenzioni, paure e reticenze più o meno diffuse, che purtroppo caratterizzano in parte anche esponenti delle istituzioni e della politica. Ma è anche la terra della ribellione Nel suo libro “Assedio alla toga” lei scrive che “Tutti noi siciliani siamo cresciuti con due affermazioni che risuonano costantemente nelle nostre orecchie. La prima, denota il nostro innato pessimismo: ‘Tanto non cambierà mai nulla’. La seconda affermazione è: ‘Ma chi te lo fa fare?’”. A fronte di ciò come si può invertire la tendenza per gettare le basi di una nuova società partendo dalla Sicilia? In Sicilia è stata sempre particolarmente forte la subcultura dello scetticismo e della rassegnazione, però è stata ed è la terra della ribellione, la terra dell’impegno antimafia, non solo e non tanto di magistrati, poliziotti e carabinieri, ma anche di giornalisti, di piccoli imprenditori, di gente comune che ha saputo e sa testimoniare il proprio coraggio antimafia con i fatti e con la vita quotidiana. Credo che le basi siano già state gettate. La Sicilia da questo punto di vista è veramente il teatro più stimolante, perché è come se mafia e antimafia, mentalità mafiosa e mentalità di ribellione alla mafia si confrontassero a livello più alto, trovassero in questa terra il teatro dello scontro più aspro a dispetto di una politica che troppe volte è stata disattenta a recepire veramente queste istanze di legalità che provengono dalla cittadinanza.


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Mafie al nord/ 2

Mafie al nord/ 1

Milano, Sicily

Un ibrido mortale La presenza delle organizzazioni mafiose nelle “aree non tradizionali” è ormai un fatto assodato. Le inchieste giudiziarie che certificano queste presenze inquietanti sono ormai decine, e grazie all’attività della magistratura è oggi possibile avere una mappatura precisa della presenza delle mafie nelle regioni del nord Italia. Se questo di cui parliamo è ormai un dato di fatto, diversa è la percezione che del pericolo mafioso hanno le popolazioni lombarde, piemontesi, venete o emiliane. Una retorica politica dannosa La differenza fra il livello del pericolo reale, e la percezione che dello stesso hanno le comunità locali, è frutto di un’attenta retorica politica e, in alcuni casi, istituzionale, che per anni ha predicato l’assenza del fenomeno mafioso nelle regioni oltre la linea Gotica, e se qualche arresto, di tanto in tanto è stato compiuto, questo ha rappresentato il frutto avvelenato della legge che, nel 1956, istituì il confino dei mafiosi al Nord. La storia di questo provvedimento fu inficiata, ab origine, dalla convinzione che la mafia fosse un prodotto del sottosviluppo delle regioni meridionali, e quindi incapace di radicarsi in contesti ad economia avanzata. Una legge che basò il suo valore euristico sulla riproposizioni di stereotipi culturalistici ed etnicistici. Solidarietà di contesto Da qualche anno importanti studi, in particolare quelli di Rocco Sciarrone che ha a lungo studiato le modalità di espansione e di radicamento delle mafie al di fuori dei loro luoghi d’origine, hanno invece dimostrato che da solo il confino obbligatorio non sarebbe stato capace di agevolare il radicamento di nessun tipo di criminalità organizzata. La capacità delle mafie di infiltrarsi nelle “aree non tradizionali” fu determinata da una certa solidarietà di contesto, che determinò le condizioni opportune affinché alcune prassi criminali diventassero di fama nazionale. La retorica politica a lungo si è con-

centrata sul pericolo del contagio, trascurando, invece, quelli che a noi appaiono come ben più importanti, ovvero i fenomeni di ibridazione, questi si decisivi nell’infiltrazione della criminalità organizzata delle regioni del nord. In sostanza la presenza di una certa domanda di criminalità endogena nei territori fino agli anni settanta del ’900 estranei a fenomeni di criminalità mafiosa, ha permesso a uomini d’onore e ai loro commerci di far si che la linea della palma si spostasse sempre più verso il nord Italia. Se poi proviamo ad andare nello specifico delle aree regionali abbiamo l’opportunità di capire come l’ibridazione ha assunto forme diverse, e rappresentazioni mutevoli. Livelli di power syndacate Se le recenti inchieste della procura milanese congiuntamente a quella reggina, hanno dimostrato come la ’Ndrangheta in Lombardia ha raggiunto livelli importanti di power syndacate, ovvero controllo del territorio e controllo commerciale del territorio, in altre circostanze questo livello d’ibridazione, per motivi contingenti, non è stato raggiunto, e l’infiltrazione ha sviluppato più il suo carattere di enterprise syndicate ovvero di controllo delle attività commerciali illecite. In alcuni casi l’infiltrazione è stata così importante da arrivare allo scioglimento di alcune giunte comunali, come il caso del comune di Bardonecchia, nel 1995. Evidentemente il problema è come minimo di carattere nazionale, ma le retoriche della politica continuano a perseverare in una logica di frantumazione dell’azione di lotta alle mafie. La responsabilità nella lotta alle mafie è evidentemente un priorità collettiva, ma a quanto pare non sembra assodato.

Gabriele Licciardi Centro studi Luccini

Il 2012 si è aperto a Milano "alla siciliana". Nel giro di pochi giorni due attentati hanno colpito due Consigli di zona e una sede Pd. Ma è da alcuni mesi che si ripetono atti di intimidazione in alcuni quartieri conosciuti per il loro degrado, o addiittura,per essere da molto tempo già sotto il tallone della criminalità mafiosa. Zone dove le stesse forze dell'ordine hanno difficoltà ad operare a fronte di un reticolo di vedette, posti di osservazioni, rioni dove impossibile circolare se non conosciuti dai clan. Il controllo capillare del territorio, che è verità storica per larghe aree dell'hinterland milanese (Buccinasco, Corsico, Trezzano) da parte di famiglie calabresi e siciliane, ora sembra diffondersi anche in Milano città. Non quindi solo quartieri di libero spaccio ,prostituzione ecc. Gli atti violenti di questi tempi ai consigli di zona possono avere un solo significato: la scesa in campo "politica" dei clan per affermare il proprio dominio. Prosperano le Mafie Spa Questa, almeno, è la prima valutazione della commissione di consulenza antimafia che ha già incontrato a tambur battente esponenti e cittadini delle zone colpite (con Nando Dalla Chiesa, Umberto Ambrosoli, Luca Beltrami Gadola, Giuliano Turone e Maurizio Grigo) voluta espressamente dal sindaco Pisapia in attesa che il consiglio comunale ne vari una sua. Quest'ultima non c'è ancora, a sette mesi dalle elezioni, per contrasti fra maggioranza e opposizione. Il Pdl punta ad una commissione con poteri limitati e ha remore a che il presidente sia un rappresentante Pd. Intanto a Milano le "Mafie Spa"prosperano come non mai. Estorsioni, appalti, prostituzione, giochi e scommesse (sia legali che illegali), in ultimo il florilegio di botteghe "Comproro" spuntate come funghi, uno strumento tutilissimo per il riciclaggio. L'azione di magistratura e forze dell'ordine ha molta buona volontà ma scarsità di mezzi, al limite del donchisciottesco.

Umberto Gay Lettera 43

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Trapani/ La storia di Ciaccio Montalto

Dove lo Stato è cosca dove la cosca è Stato Quanto tempo è passato da quando hanno ammazzato il giovane giudice che voleva fare giustizia persino qui? Eppure tutto è rimasto più o meno come prima di Rino Giacalone Valderice, provincia di Trapani, via Carollo, ore 7,15 del 25 gennaio 1983. La storia da raccontare comincia da questo luogo e da quell’ora. Poi, come come usando le manopole di un rvm per un filmato da montare, c’è da far muovere delle immagini indietro e avanti, per comporre con persone in movimento, gente che parla, interviste d’archivio, foto di palazzi, quella che è una parte consistente della storia criminale della provincia di Trapani. Via Carollo è una stradina, appena fuori Valderice, dove la mattina di 29 anni addietro una pattuglia dei carabinieri trovò ferma all’altezza del civico 2 un’auto, obliqua rispetto alla sede stradale: era una Golf, col lunotto infranto, anche il vetro del lato guida era in frantumi, era evidente che il vetro era esploso a causa di colpi di arma da fuoco; steso tra i due sedili anteriori, con la testa reclinata sul bracciolo del lato passeggero, c’era un corpo senza vita, un braccio disteso, a penzoloni, l’altro piegato a 90 gradi sul torace, su una giacca aperta, indossata sopra una camicia bianca sporca di sangue. Un morto

ammazzato, crivellato di colpi d’arma da fuoco sparati da diverse armi. Aveva 41 anni l’ucciso, ed era un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, il suo nome era Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Quando fu ammazzato era in procinto, pochi giorni ancora, di lasciare la Procura di Trapani per andare a quella di Firenze. Ecco, la storia è questa. Gli anni, metà del 1980, erano quelli in cui in giro a Trapani si andava sostenendo che la mafia non esisteva e invece Ciaccio Montalto era uno di quelli che ne aveva registrato la presenza in tanti faldoni d’indagine, a cominciare da quelli sull’inquinamento del golfo di Monte Cofano, tra Erice e Custonaci, una conca tra terra e mare ricca di bellezze naturali, fili d’inchiesta che portavano al riciclaggio del denaro dentro le imprese, società, le banche. La Gomorra di Cosa NostraS Lui da magistrato attento avvertì la «puzza» della mafia corleonese, colse la scalata a Trapani dei “viddani” di Riina, sentì il «tanfo» della morte lasciato per le strade e colse le infilitrazioni dentro gli uffici della giustizia, delle istituzioni, perché quella mafia era già riuscita a incunearsi dentro lo Stato per diventare poco tempo dopo essa stessa Stato. Trapani è la provincia dove lo Stato che ha comandato è quello di Cosa Nostra, dove per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia ci sono voluti decenni, dove anche i fidanzamenti e i matrimoni sono stati regolati dalle regole dell’onorata società, dove potrebbe anche non essere necessario leggere atti giudiziari, intercettazioni, relazioni della Commissione antimafia, saggi e articoli di stampa per farsi un’idea di che cosa si intende per mafia: basterebbe vedere il numero delle estorsioni denunciate per capire quante non lo saranno mai; basterebbe sapere delle decine, centinaia di milioni di euro che ogni anno arrivano dalla Comunità europea e poi andare negli uffici di collocamento, nelle agenzie

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interinali, nei luoghi dove si affolla quel umanità dolente e rassegnata e capire che qui, nella “Gomorra” di Cosa Nostra, tutto parla di mafia. Controllo del territorio totale Tutto è povertà che produce ricchezza che riproduce altra povertà. Qui da sempre Cosa Nostra ha saputo sintetizzare passato e futuro, tradizione e modernità, violenza ancestrale e bestiale imprenditoria, a Trapani e nella sua provincia questo accade da decenni, praticamente da sempre. Perché qui è nata l’associazione Cosa Nostra, qui ha costruito le sue vocazioni, da qui è partita per «colonizzare» gli States, qui si è sempre sentita al riparo, protetta, qui ha messo a punto militarmente, nelle mani dei Messina Denaro di Castelvetrano, capaci anche di intessere rapporti politici, l’attacco stragista di Milano, Firenze e Roma. È qui, dopo tanta violenza e morte, che è nata la nuova mafia: che contratta quando è ora di contrattare, che spara quando è ora di sparare, che vota bene quando è ora di votare bene, lo zoccolo duro di Cosa Nostra dove il controllo del territorio è totale, e il rapporto con le istituzioni e con la massoneria è tradizionale. Cosa Nostra da queste parti ottiene quello che vuole ormai senza sparare, fa affari con gli appalti e si siede nei salotti che contano. La mafia di Messina Denaro L’obiettivo della nuova mafia, quella di Matteo Messina Denaro, è stato raggiunto, ammazzando però dapprima giudici come Gian Giacomo Ciaccio Montalto, la mafia si è istituzionalizzata, si è data una veste legale, oggi la mafia investe e controlla quasi l’intero tessuto produttivo della provincia e questo è riuscito a fare grazie ai rapporti con la politica e con il mondo delle professioni, che in questi anni hanno sempre negato l’esistenza della mafia ed oggi, sulla spinta della cattura dei latitanti, tanti ci dicono che la


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mafia è battuta. Il pensiero che attraversa gli ultimi 30 anni è sempre lo stesso, «la mafia non c’è, non esiste». Dovranno passare anni dalla morte di Gian Giacomo Ciaccio Montalto per scoprire che già da quel 1983 a Trapani c’era un tavolino dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi, c’erano le stanze di un tempio massonico, quello della Iside 2, dove mafiosi, burocrati, politici e giudici si mettevano d’accordo, dove molti affari venivano regolati dalla corruzione e dove l’acquisto di voti sfruttando il bisogno della gente era la regola, mentre i mafiosi diventavano imprenditori per gestire importanti business, come quello dei rifiuti, o si occupavano di sanità e poi di appalti. La pistola dei catanesi Come oggi si continua a fare e negli sporchi affari che ancora oggi vengono scoperti c’è un filo che ripercorso a ritroso finisce con il raggiungere quegli anni, e i faldoni su cui Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva lavorato. Valderice, 25 gennaio 1983. Via Carollo. L’auto venne trovata dai carabinieri ferma davanti all’ingresso di casa del magistrato. Quella sera era stato a cena con degli amici, a Buseto Palizzolo, paese poco distante. Con seèaveva la borsa di lavoro e alcuni fascicoli. Non fece in tempo a scendere dalla vettura. Anzi i killer non lo fecero scendere e nemmeno riuscì a provare ad aprire lo sportello. I sicari armati di mitragliette lo fulminarono. Lo trovarono, scriverà il medico legale, riverso sui sedili anteriori della sua automobile, l’orologio della plancia dell’auto era fermo all’1,12 l’ora in cui i killer lo hanno freddato. Fuori dall’auto per terra vennero raccolti 10 bossoli calibro 30/luger, dall’altra parte otto bossoli stesso calibro e cinque 7,65 parabellum. Una pistola che sparò risultò provenire dalla mafia catanese, a conferma dell’alleanza tra le cosche trapanesi e quelle di Catania, alleanza emersa anche nel delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari

(agosto 1980) e sulla quale tanto insisteva dagli schermi di Rtc Mauro Rostagno anche lui finito ammazzato, cinque anni dopo Ciaccio Montalto. Rostagno li mise in ridicolo... Rostagno mise in ridicolo l’alibi della pattuglia di catanesi che fu fermata a ridosso del delitto del sindaco Lipari, tra gli altri ne faceva parte Nitto Santapaola: “Siamo venuti a Castelvetrano a comprare meloni da Mariano Agate (capo mafia di Mazara ndr)”. Solo che Agate vendeva, e vende, anche dal carcere, cemento, giammai meloni. Tutti finirono imputati, ma presto assolti nei gradi di appello. Tornando a Valderice e al delitto Ciaccio Montalto. I colpi mortali lo raggiunsero in rapidissima successione al torace e alla testa. Quella notte dovette esserci una incredibile tempesta di fuoco, da far tremare mura e finestre, ma nessuno sentì nulla nonostante la via Carollo sia una strada stretta. Niente è cambiato. La mafia fa chiasso ma nessuno la denuncia. E chi lo fa è indicato come un untore. Questo accade a Trapani 29 anni dopo l’assassinio del giudice Ciaccio Montalto. La centralità mafiosa di Trapani Deve esserci stato parecchio chiasso quella notte, ma non se ne accorse nessuno. Il cadavere fu scoperto sei ore dopo quando qualcuno si decise di avvertire i carabinieri. Chi era Ciaccio Montalto? Quarantenne sposato, lasciò la moglie e tre figlie di 12, 9 e 4 anni. Tre giorni prima del suo delitto a Palermo l’Anm si era riunita a congresso ed aveva chiesto al governo (ministro della Giustizia Clelio Darida) maggiore impegno nella lotta alla mafia. Erano stati uccisi Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Lenin Mancuso, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Dalla Chiesa e sua moglie, Boris Giuliano. Come sostituto procuratore Ciaccio Montalto a Trapani aveva svolto le indagi-

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ni sui clan dediti al traffico di eroina, al commercio di armi, alla sofisticazione di vini, alle frodi comunitarie e agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968. Per primo aveva intuito la centralità di Trapani nella mappa mafiosa. La sua inchiesta sul traffico delle armi verrà ripresa da Carlo Palermo, a sua volta vittima di un attentato (2 aprile 1985). Scampò al tritolo mafioso, che fece strazio invece di una donna, Barbara Rizzo, e dei suoi figlioletti di sei anni, i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta. “Quel segno significava morte” Ciaccio Montalto si ritrovò giovane ad essere la memoria storica della procura di Trapani dove lavorava dal 1971. Questa, più della vendetta per le indagini, è la ragione per cui la mafia ritenne necessario ucciderlo. Il magistrato aveva colpito gli interessi delle cosche applicando senza attendismi la legge sul sequestro dei beni "la Rognoni-La Torre" approvata nel settembre 1982 ed aveva individuato sin da allora il ruolo di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, e dei boss locali, dei Milazzo di Alcamo, del clan locale dei Minore, aveva portato davanti alla Corte di Assise alcuni esponenti di queste cosche. Poco prima di essere ucciso il magistrato aveva rivelato che durante il processo un imputato gli aveva fatto un segno che nel linguaggio mafioso significa condanna a morte. Aveva chiesto di essere trasferito, ma nel frattempo aveva proseguito senza sosta il suo impegno, sino alla sera che precedette la sua uccisione, trascorsa nei preparativi della requisitoria che avrebbe dovuto pronunciare l’indomani. Il processo a Caltanissetta sulla sua morte, molti anni dopo, registrò alla perfezione la realtà trapanese. La società di benpensanti, le collusioni con Cosa Nostra. Negli anni ’80 la provincia di Trapani era divenuta terreno per la scalata al potere dei corleonesi.


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L’apice fu nel novembre del 1982 quando venne fatto sparire durante una cena di boss nel palermitano, a Partanna Mondello, a casa di don Saro Riccobono, il capo dei capi della mafia latifondista trapanese, Totò Minore. Pochi giorni dopo quella cena di morte la pax voluta da Minore cominciò a frantumarsi. Cominciarono a morire gli avversari interni ed esterni delle cosche, coloro i quali per i corleonesi di Totò Riina erano dei nemici. E il giudice Ciaccio Montalto fu tra i primi a finire nel mirino, perché Cosa Nostra aveva più di una ragione per avere paura per quel magistrato. Gli esattori Salvo di Salemi «Ciaccinu arrivau a stazione» disse un giorno in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, «era arrivato alla stazione, al capolinea»: Agate aveva capito che Ciaccio Montalto aveva individuato una serie di canali dove dentro scorreva denaro, per questo fu ucciso. Aveva individuato una cosca di siciliani in Toscana, alcamesi, palermitani e massoni. Era a Firenze, nella città dove nel frattempo gli esattori Salvo di Salemi avevano trasferito le sedi delle loro società di riscossione, che stava andando a lavorare, per questo fu ucciso. All’ergastolo perché mandanti dell’omicidio del sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto sono stati condannati gli alleati di sempre di Cosa Nostra siciliana, Totò Riina e Mariano Agate. La mafia nel Palazzo Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», si imbattè nella mafia che cominciava a cambiare pelle, quella che oggi chiamiamo «sommersa» e allora si cominciava ad interessare di appalti (1550 banditi e assegnati nel solo biennio 83/85 a Trapani, quasi tutti finiti intercettati da Cosa Nostra). Era la mafia che cercava di arrivare dentro il Palazzo di Giustizia, oggi è la

stessa mafia che influenzando la società ha messo la sordina ad una serie di pronunce di colpevolezza, processi e condanne hanno incrinato le commistioni, ma non le hanno del tutto indebolite per colpa di una società silente e disponibile dove settori della politica continuano a frequentare i mafiosi. Vincenzo Consolo rimpiangeva... Chi più di tutti rimpiangeva di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, era lo scrittore Vincenzo Consolo. Da giornalista, raccolse una sera lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale "L’Ora " il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto. Consolo ricorda: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse". L'interrogazione di Sciascia Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera. Di quelle minacce condite con l’oblio che continua ad essere caratteristica di questa città che in tutti i modi cerca di far dimenticare il suo passato, cancellandolo con la negazione dei fatti, dove «normalizzare» resta la parola d’ordine. I magistrati di oggi rispondono che qui non sarà tutto mafia quando corrisponderanno le azioni

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concrete, gli atti trasparenti, quando si cancellerà l’area grigia, quando la si smetterà di confinare la legalità nel lavoro di magistrati, giudici, investigatori. Parlare di Ciaccio Montalto oggi. Usando le parole dell’ex procuratore di Bologna, Enrico De Nicola, «il ricordo è la traccia da seguire per il futuro». E poi ce lo ha detto il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto, «per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». “Il suo mito? Odisseo” Ciaccio Montalto non ha potuto concludere il suo lavoro, con quel perfezionismo che lo distingueva: non è riuscito a sconfiggere la mafia, perchè la mafia glielo ha impedito. «Odisseo era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Governo e parlamento permettendo, riconoscendo come eroe davvero chi lo merita e chi lo fu e non mafiosi e corrotti. La vedova del magistrato, signora Marisa La Torre, durante il travagliato iter processuale aveva anche clamorosante ritirato la parte civile dal processo. Nel 2001 fu chiamata dalla politica trapanese in un momento di grande difficoltà, con iniziative giudiziarie che scuotevano il Municipio, e finì con il diventare vice sindaco del dott. Nino Laudicina, che sarebbe stato presto arrestato per lo scandalo nella gestione degli asili nido comunali (assunzioni in cambio di convenzione). Poi la signora Ciaccio Montalto è uscita di scena. Due anni addietro è scomparsa. Ma nessuno ne ha saputo nulla, quella politica che si era ricordata di lei l’ha presto dimenticata. Voleva solo strumentalizzare il suo dolore contro la giustizia nel momento in cui la giustizia dava colpi decisi.


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Trapani/ Gli amici di Messina Denaro

Cannoli, milionari, prestanome, mafiosi. Tutti cosca e loggia Cannoli (a Trapani i migliori sono quelli di Dattilo, frazione agricola di Paceco), favoreggiatori di latitanti, case a disposizione vicino alla pasticceria (da qui il detto “casa dolce casa”), impossidenti (milionari), prestanome, avvocati-“fratelli muratori” (toghe, grembiulini e compassi), alberghi, residence e sabbia dorata (quella di San Vito Lo Capo), deputati (anche ex eventualmente), trebbiatori (un po’ anche “gazzusari” – tradotto, venditori di gazzose) che vogliono diventare produttori di documentari televisivi, senator”i” (qui c’è poco da spiegare), prestanome, rifiuti, discariche, ottimizzazione (nel senso di ambito territoriale ottimale, Ato), assunzioni, “pizzimbone” (nel senso di impresa specializzata nella raccolta dei rifiuti), consiglieri (nel senso di politici usi a raccomandare, segnalare e intascare), amici e parenti (nel senso degli assunti su raccomandazione), bar (luoghi di incontro), domenica (giornata preferita per gli incontri al bar), ingegneri, progetti, Borranea (contrada una volta ridente oggi impuzzolita da rifiuti e destinata a diventare ancora più puzzolente), “carolina” (non come “mucca” ma come nota strada del centro storico di Trapani), auto e cimici (spesso prezioso binomio per le indagini), industriale (nel senso di area), Matteo (nel senso di Matteo Messina Denaro, boss latitante). Una rete di collegamenti e rapporti che si scopre sapendo vedere ciò che

c’è dietro l’operazione “Panoramic” condotta a metà gennaio dalla Polizia e dalla Finanza a Trapani. Il fatto è quello che un pregiudicato, che nel 1997 patteggiò con la moglie condanne per avere ospitato dei boss latitanti, tale Michele Mazzara, 52 anni, è riuscito a creare un impero imprenditoriale da 30 milioni di euro, dichiarando appena 15 mila euro l’anno. Attorno a Mazzara la normalità di una città come Trapani. La fiera dei notabili C’è un progettista, ing, Salvatore Alestra che progetta palazzi per conto di Mazzara e però i cantieri sono di un altro imprenditore, c’è un ex deputato, tale Peppone Maurici, Forza Italia ieri, Sud di Miccichè, oggi, che accompagnava Mazzara e si complimentava per le sue costruzioni che erano sempre di un’altra impresa, ci sono Maurici e Alestra, questo nella veste di amministratore dell’Ato, che si occupano di rifiuti: Maurici come presidente del consorzio Asi dà spazio alla Pizzimbone nell’area del consorzio, dopo qualche resistenza

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poi rientrata, e poi vende all’Ato, di Alestra, il terreno dove fare la nuova discarica, a Borranea, dove ce ne è un’altra, Alestra che in virtù di amicizie consolidate parla un po’ con tutti, Mazzara, Maurici, e incontra i politici, D’Alì e Papania, Mazzara che cerca di incontrare D’Alì perché il suo desiderio è quello di vedere un suo nipote impegnato in una produzione televisiva, e per questa ragione, come se si trattasse di chissà quale affare fa i salti mortali e addirittura si precipita da Trapani all’aeroporto di Palermo per incontrare il parlamentare che però dice di non avere mai parlato con lui e di non conoscerlo, e in effetti l’incontro da un punto di vista investigativo non è provato. Doveva parlare di tv o di altro? Non si sa. La “normalità” di lor signori La normalità a Trapani è questa, chi esce dal carcere condannato fa carriera e stringe tante mani, chi esce dal carcere assolto, fa anche lui carriera perché vittima della giustizia, chi in carcere non ci entra perché è onesto viene messo all’angolo. Poi quando di mafia si finisce con il parlare di traverso, quando si parla di antimafia e professionisti dell’antimafia. Di quelli che Matteo ha indicato essere dei Torquemada. Lui che ha fatto stragi, messo bombe, sciolto persone nell’acido. E davanti a lui Torquemada impallidisce. Rino Giacalone


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Sicilia/ Il caso Ciro Caravà

Di giorno con la legge di notte coi mafiosi “Minchia, chi lo conosce e non sa niente...” commentavano ammirati i mafiosi. Un eroe del nostro tempo di Giacomo Di Girolamo e Francesco Appari www.marsala.it

riempiva i comizi di belle parole sulla difesa della legalità. Le tv locali accorrevano quando saliva sul palco. Lui stringeva forte il microfono e ci dava dentro. E i mafiosi se la spassavano: “Minchia, l'altra notte tutto che parlava alla televisione... Minchia, chi non lo conosce e non sa niente e lo sente parlare...”. Una volta, all’inaugurazione di una sezione dell’Avis in uno stabile confiscato al boss Nunzio Spezia, esagerò. La figlia del boss raccontò tutto al padre rinchiuso in carcere: “Papà, hanno fatto troppo schifo, quando è troppo è troppo”. Poi Caravà chiese scusa: “Ho dovuto farlo”. Le tangenti andavano e venivano

Strade strette, pochi viali, tutto circondato dagli uliveti della Nocellara. Campobello di Mazara ha la fisionomia classica del paesino della provincia siciliana. Diecimila anime. A Sud di tutto. E' la roccaforte di Matteo Messina Denaro. Prima ancora lo era del padre, don Ciccio, fidato referente dei corleonesi. Sempre di Campobello erano molti uomini al soldo del bandito Salvatore Giuliano. Nei piccoli paesi di provincia i clan si organizzano bene, stanno nella società civile, entrano a far parte delle istituzioni locali. Il 16 dicembre finisce in manette il sindaco, Ciro Caravà. L’accusa è pesante: organico al clan di Matteo Messina Denaro. Il primo cittadino campobellese avrebbe messo a disposizione la propria figura istituzionale per dare appalti ai mafiosi, pagare i viaggi ai parenti degli uomini di cosa nostra per andare a trovarli in carcere al Nord, più il solito scambio elettorale. Caravà è stato eletto con una coalizione di centrosinistra, con i voti del PD. I vertici provinciali dei democratici hanno liquidato la cosa dicendo che non era iscritto al partito. “Il sindaco antimafia arrestato per mafia”, annunciano i TG. Caravà infatti

Ma i familiari del boss morto nel 2009, queste uscite, al loro sindaco, gliele abbuonavano. La moglie di Spezia diceva un gran bene di Caravà che pagava i biglietti aerei per andare a trovare il coniuge al penitenziario del Nord Italia. “Vedi, in due anni di sindaco quanto abbiamo risparmiato? Dopo le elezioni mi ha detto: vossia fino a quando va e viene dallo zio Nunzio, biglietti non ne paga più”. Con gli Spezia c'è un vecchio legame. Al Comune le tangenti andavano e venivano. I mafiosi avevano preso possesso del palazzo, li si vedeva spesso girare tra le stanze, in consiglio comunale. Tutto regolare, magari troppo. Un ex funzionario della polizia, Giovanni Buracci, arrestato durante l’operazione avvisò tutti: “Ma siete pazzi? Qua ci commissariano il Comune. State lontani dal Comune. I soldi ce li portano a casa, le tangenti”. Un servizio a domicilio, proponeva. Caravà era uno di loro. C’era confidenza. Un giorno l’auto di Cataldo La Rosa, uno dei mafiosi arrestati, venne beccata in sosta vietata da una zelante vigilessa che lo multò. Ci sarebbero state le elezioni di lì a poco. La Rosa chiama Caravà: “70 euro mi ha fatto quella troia… Gli ho detto che la deve trasferire. Dice: Minchia, per una .. Eh allora – gli ho detto –

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tieniti a lei, ed io sono contro di te nella prossima campagna elettorale. Mettitelo in testa”. È soprattutto durante l’ultima campagna elettorale che Ciro Caravà ripeteva spesso quella litania bugiarda: “Sono il sindaco dell’antimafia, sono il sindaco della legalità”. Le condanne per furto di energia elettrica ed emissione di assegni a vuoto ? “Peccati di gioventù”. Senza contare le indagini per concussione chiuse pochi giorni prima del blitz. A luglio lo intervistammo nel suo studio, in municipio. C’erano targhe ovunque. Riconoscimenti, foto ricordo. Alle sue spalle, accanto alla foto del Presidente della Repubblica, quella dell’ex Questore di Trapani Giuseppe Gualtieri. Poi, una grande immagine dei giudici Falcone e Borsellino. Quella bella, con i due eroi sorridenti. Ci ripeteva che era continuamente attaccato dai mafiosi: “Si possono trovare ovunque, anche nelle istituzioni”. Si definiva un sindaco in prima linea: “Abbiamo condotto una battaglia contro la mafia e contro il malaffare che non ha precedenti”. “Sono un sindaco in prima linea” Ciro, come lo chiamavano i mafiosi, era stato appena rieletto sindaco, dopo una campagna elettorale al vetriolo. Con le proposte bizzarre, dal salvataggio delle case abusive al casinò. Può un sindaco costruire un casinò? “Che c'è di strano?”. Dopo cinque anni di sindacatura in cui era successo di tutto, a cominciare dal suo nome scritto nella relazione della DIA, era stato denunciato per voto di scambio ed estorsione. Lui negò ogni cosa: “Ho querelato i poliziotti per le fandonie che hanno scritto. Anche se fosse stato il Presidente Napolitano, lo porterei in tribunale”. Poi le operazioni antimafia Golem I e II che fanno terra bruciata attorno a Messina Denaro e sconquassano la città.


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SCHEDA LA CRONISTORIA 1992 - Il Comune di Campobello di Mazara viene sciolto per mafia. Ciro Caravà era consigliere comunale, viene indicato in rapporti con i boss Nunzio Spezia e Antonino Messina. 1998 – La Corte d’Appello di Palermo condanna Caravà ad un anno e tre mesi di reclusione per furto di energia elettrica (pena sospesa). 2006 – Ciro Caravà viene eletto per la prima volta sindaco di Campobello con una coalizione di centrosinistra battendo al ballottaggio Daniele Mangiaracina. 2007 – Nella relazione semestrale della DIA si legge che Caravà “è stato denunciato per estorsione e voto di scambio”. 2008 – In Comune arrivano gli ispettori prefettizi per verificare possibili infiltrazioni mafiose. Per poco non si arriva allo scioglimento. 2008 - Ciro Caravà si candida alle elezioni regionali con la lista di Anna Finocchiaro. Non viene eletto per un soffio. 2009 – Operazione Golem. 13 arresti tra Campobello e Castelvetrano per fare terra bruciata attorno a Matteo Messina Denaro. 2010 – Operazione Golem II. 18 arresti tra fiancheggiatori del latitante. 2011 – Ciro Caravà viene rieletto sindaco di Campobello di Mazara al ballottaggio. 2011 – 16 dicembre: operazione Campus Belli. Finiscono in cella 11 esponenti della famiglia mafiosa di Campobello ritenuti vicini a Matteo Messina Denaro. Tra loro anche il sindaco di Campobello.

Per saperne di più L'intervista di luglio a Caravà: http://www.youtube.com/watch? v=PsbUNNAzgCQ Visita a Campobello il giorno dopo: http://www.youtube.com/watch? v=je_FCU9gORQ

Nel 2008 arrivano i commissari e una mano santa salva il Comune dallo scioglimento. E Caravà fa in tempo a continuare la sua prima sindacatura ed iniziarne una nuova. Sempre nel segno della sua “antimafia”. E Messina Denaro? “Spero che lo prendano presto”. E’ qui vicino? “Non credo. Abbiamo dotato la città di videosorveglianza…”. Caravà fa partecipare il Comune ai processi contro Cosa Nostra. Quello sull’operazione Golem II, proprio contro il superlatitante. Ci tenta, senza riuscirci, al processo sull’omicidio di Mauro Rostagno. Anche Rosario Spatola era di Campobello. Pentito di Cosa Nostra con Paolo Borsellino, avrebbe dovuto testimoniare al processo sull’assassinio del giornalista e sociologo, ma all’ultimo si viene a sapere che è morto nel 2008. Il giorno dopo il blitz che ha portato in cella il sindaco la gente non sapeva cosa dire. “C’era da aspettarselo”, dicono alcuni. Molti non parlano. Altri dicono addirittura il prezziario dei voti: 150, 200 euro. Campobello vive come un deja vu. Già dieci anni fa sciolto per mafia Già nel 1992, infatti, il Comune era stato sciolto per mafia. E la relazione dell’allora Ministro dell’Interno, Nicola Mancino, sembra scritta in questi giorni. “Il consiglio comunale - vi si legge - presenta fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata che condizionano la libera determinazione degli amministratori e compromettono l'imparzialità degli organi elettivi” Il decreto è dell'11 luglio, otto giorni prima della strage di Via D’Amelio. Gli inquirenti, nel paese del Belice, evidenziarono “la sussistenza di collegamenti tra alcuni componenti dell'amministrazione comunale e gli ambienti della criminalità organizzata”. In più risulta incredibile come per vent’anni lo stato abbia dimenticato Campo-

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bello. Soprattutto se in quel decreto di scioglimento del ’92 spunta il nome di Ciro Caravà che risulta “in rapporti di amicizia e di affari con noti pregiudicati ed esponenti mafiosi quali Nunzio Spezia e Antonino Messina”. Dopo vent’anni, sembra non essere cambiato nulla nelle istituzioni campobellesi. C’è il “grave fenomeno dell'abusivismo edilizio che, grazie alla complice inerzia degli organi comunali, ha devastato l'intera zona costiera di Tre Fontane” come scrisse Mancino. Caravà in piena campagna elettorale sventolò una fantomatica legge che avrebbe salvato 800 case abusive. Solo un politico s'è dimesso E, soprattutto, ci sono i commissari mandati dal prefetto. Il Comune è vicino allo scioglimento. Dopo l’arresto di Caravà si sono dimessi cinque consiglieri di opposizione. Credevano che il loro gesto avrebbe portato alle dimissioni a catena di tutti gli altri. Invece? Niente. I cinque che sono subentrati hanno accettato volentieri la carica e cambiato partito tingendosi dell’arancione di Grande Sud di Toni Scilla. Altri due si sono dimessi di recente. E dell’entourage di Caravà? Nessuno parla, nessuno di scomoda. Ha rinunciato alla sua carica solo il vice sindaco, Francesca Passanante. Nulla a che fare con la vicenda che sta scuotendo la città. Semplicemente per via della legge appena entrata in vigore che decreta, in questo caso, l’incompatibilità col fratello consigliere. Il Comune di Campobello, oggi, non ha un sindaco. Non ha un vice sindaco. Non ha una testa. È ingovernabile. I consiglieri tentennano a lasciare la poltrona. Alcuni dicono che ci sono affari in sospeso. In tutte queste offuscazioni, incertezze, vuoti di potere, chi arriva prima vince. E nei piccoli paesi, come Campobello, a sud di tutto, quasi dimenticato, Cosa Nostra può essere molto svelta.


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Sardegna

Sindaco contro omertà fra solitudine e bombe Non si tratta della rivolta di Pratobello, ma ser virebbe lo stesso spirito. Gente unita, che lotta per qualcosa e contro qualcos'altro. Allora era Orgosolo, oggi è Burgos di Antonio Mura www.liberainformazione.org

Allora era lo Stato che voleva imporre con la forza le sue “ragioni”, oggi sono prepotenti meno importanti e senza alcuna ragione. Eppure quella battaglia, la battaglia contro la militarizzazione fu vinta. Si trattava allora di difendere la destinazione d'uso di beni pubblici come le terre da pascolo, oggi è in ballo la vita democratica delle nostre comunità. Era un bene pubblico allora, Pratobello. Tutti si sono schierati in modo univoco e inequivocabile. È un bene pubblico la tutela della democrazia, ma in troppo pochi si sono schierati. Quarantatrè anni fa la battaglia di tutti fu vinta: servirebbe molto meno per ottenere lo stesso risultato e vivere meglio oggi. Allora tutti si sentirono toccati.

Oggi questo non accade, nonostante le informazioni e i mezzi a disposizione siano di gran lunga superiori. Che aspettiamo? La vita democratica è minata dal problema degli attentati, che in Sardegna sta assumendo frequenze sempre più allarmanti, specie negli ultimi 6 anni. Atti intimidatori contro e tra privati, ma anche, e soprattutto contro amministratori pubblici locali, da parte di soggetti che mettono prima di tutto i propri interessi davanti a quelli collettivi e cercano a tutti i costi di avere la meglio. I mezzi utilizzati vanno dalle fucilate contro i portoni delle case, agli atti vandalici contro le vittime o contro i beni pubblici, passando per gli ordigni esplosivi. Come quello che nel 2004 ha portato via il signor Bonifacio Tilocca, padre dell'allora sindaco di Burgos, un paesino della provincia di Sassari di circa mille abitanti, Pino Tilocca. Entrato in carica dopo aver vinto le elezioni del 2000, Pino Tilocca durante il suo mandato aveva cercato di porre ordine al sistema della gestione dei beni pubblici. Un azzardo forse, per coloro i quali ne avrebbero fatto uso a loro piacimento. Così il sindaco è finito sotto tiro, inizialmente con degli atti vandalici contro le sue proprietà. Proprio il padre aveva iniziato una sorta di indagine personale per cercare di individuarne i responsabili, finendo col divenire perciò, come il figlio, un possibile bersaglio per quelle stesse persone che ce l'avevano con Pino. Da possibile a reale bersaglio lo è divenuto una sera del febbraio di quell'anno. Pino Tilocca, nonostante lo choc, è rimasto in carica per tutta la durata del mandato. Poi, accompagnato da troppo silenzio da parte dei suoi concittadini e non solo, ha deciso di non candidarsi più e di abbandonare Burgos.

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Ora è tornato a fare a tempo pieno il suo mestiere, l'insegnante elementare. Riparte dai giovani, da quelli che hanno dei sogni e delle speranze. E dalle parole dell'ex primo cittadino. Che connotati assumono gli attentati agli amministratori in Sardegna? Sono di tipo mafioso o in stile mafioso? Non sono di tipo mafioso sicuramente. Sono una recrudescenza della criminalità sarda. Certamente invece nelle modalità di espressione presentano alcuni tratti riconducibili a uno stile di quel tipo: l'utilizzo di esplosivo ad esempio appartiene a una criminalità ben definita, come pure gli scopi che questo tipo di atti intimidatori si prefiggono. Causare terrore, apprensione a chi si vuole colpire ha qualche cosa di mafioso. C'è presenza mafiosa in Sardegna? Questo no di certo. O meglio, la criminalità sarda non ha avuto quel tipo di evoluzione. La criminalità sarda è, come le altre realtà criminali, legata all'ambiente sociale ed economico. Dunque è il derivato peggiore dell'ambiente che storicamente contraddistingue l'isola, ossia il mondo agropastorale. Questo tipo di criminalità è presente dunque soprattutto nelle aree più interne: è il risultato di una reazione negativa al mondo esterno, è la riproposizione del Codice Barbaricino in chiave moderna che però non risponde più alle logiche sociali su cui si fondava. Non solo è fuori dal contesto attuale, ma pure gli obiettivi non sono più quelli del passato, perché mentre prima il Codice era tutelava anche il bene della collettività, adesso è adoperato per perseguire interessi ed egoismi privati. Certi comportamenti inoltre non solo vengono posti in essere per regolare questioni tra privati (e già questo è discutibile visto che gli strumenti di tutela dei


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propri diritti lo stato li mette a disposizione), ma per commettere dei veri e propri soprusi verso la parte avversa o per rivendicare dei "diritti" verso la pubblica amministrazione. Diritti che tali non sono, ma che alcuni ritengono addirittura esistenti e pure acquisiti. Io stesso nella mia esperienza di sindaco mi sono dovuto imbattere in quest'ultimo tipo di faccende e sono stato colpito proprio perché cercavo di difendere il pubblico interesse, quello per cui ero stato eletto. Ben diverso è il discorso concernente la possibilità o meno che ci siano delle infiltrazioni o dei tentativi di infiltrazione di organizzazioni criminali esterne all'isola, le quali sono provate da diverse operazioni delle forze dell'ordine. Ci sono dei segnali che indicano come organizzazioni criminali nazionali ed internazionali, in cerca di sfoghi per il riciclaggio dei loro capitali, derivanti da proventi illeciti, stiano provando a riversare su alcuni settori che si prospettano redditizi anche da noi. Un esempio su tutti è il comparto turistico e la connessa speculazione edilizia costiera. A proposito dell'Operazione Tuono allora cosa si potrebbe dire? Anche in quel caso io non parlerei di un'associazione criminale sarda mafiosa. Piuttosto la configurerei come la massima espressione che la criminalità sarda (pastorale) abbia mai potuto raggiungere: un'organizzazione, quella bariese, che aveva raggiunto un certo livello, soprattutto perché aveva ormai una pianta stabile e degli obiettivi precisi anche di lungo periodo. E pur avendo avuto un buon controllo del territorio (ma tutte le associazioni malavitose ce l'hanno), avesse armi a disposizione e abbia posto in essere alcuni omicidi, compiuto molte azioni intimidatorie e commesso altri delitti,

non poteva essere tuttavia definita un'entità mafiosa. Essa infatti, pur provandoci, non è riuscita ad avere degli agganci politici che le permettessero di fare il salto. Inoltre anche i legami interni all'organizzazione ogliastrina si basavano più sullo scambio di favori che sulla gerarchia di un'organizzazione mafiosa vera e propria: criminalità tipica sarda insomma. Su una cosa però non ho dubbi: che l'aver comunque comminato il 416 bis sia stato giusto. E' una sorta di atto preventivo che permetterà in fututro di riconoscere "l'impronta" dei sodalizi criminali in anticipo e bloccarli sul nascere, siano sardi o d'importazione. Veniamo sulla questione che la riguarda da più vicino, Burgos... Va bene, ma premetto che Burgos non fa più parte della mia vita ormai. Niente mi lega a quella comunità ormai, solo qualche affetto, le parentele e poco altro. Ecco, purtroppo a Burgos non è successo quel che mi aspettavo, come sindaco eletto dai cittadini di quel luogo: ovvero una reazione netta riguardo a ciò che ho subito, una presa di distanza dai colpevoli, quattro o cinque persone, che si sono macchiati dei vari delitti contro la mia persona e i miei familiari, l'uccisione di mio padre su tutti ovviamente. Ma il comportamento assunto dai burghesi è stato abbastanza omertoso e visto come una questione privata tra me e questi personaggi: dal loro punto di vista era una questione che non li riguardava, benché la vittima fosse il sindaco che li rappresentava. Io non mi sono dimesso comunque, ho portato avanti il mio incarico fino alla scadenza. Non potevano essere quelle poche persone a far sì che ritirassi il mio impegno. Qualche altro mio collega invece, e penso al sindaco di Ottana, di fronte ai familiari in pericolo ha prefe-

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rito rassegnare le dimissioni. Purtroppo non se l'è sentita di andare avanti e il suo atto è da comprendere: forse anche io, se avessi saputo quel che sarebbe successo a mio padre avrei lasciato l'incarico. Ma anche lì un simile gesto non dovrebbe partire dal sindaco: sono i cittadini che devono dire se vogliono o no che una determinata persona continui o meno a rappresentarli, spingendo perché quella resti al suo posto e a chi la offende venga trasmesso un messaggio chiaro, quanto forte. Qual è la situazione oggi nel paese? Possiamo dire che Burgos al momento sta vivendo un periodo di normalizzazione, se così si può dire. Sicuramente i fatti di che mi hanno coinvolto sono stati l'apice della violenza latente all'interno della comunità e forse anche dell'intera regione. Dopo anni che il municipio subiva l'alternarsi di Commissari prefettizi questa che è in carica rappresenta la terza amministrazione consecutiva compresa la mia e penso che completerà anch'essa il mandato. Questo rappresenta sicuramente un fatto positivo. Quel che mi rattrista invece è l'atteggiamento della popolazione verso un certo tipo di mentalità che ho descritto poco fa, tant'è vero che gli autori dei delitti di cui sopra sono a piede libero e penso che lo resteranno, visto che anche le indagini sono a un punto morto. Rifarebbe l'amministratore? Direi di no. Mi occupo di formazione nella mia vita e francamente mi entusiasma di più fare il preside che il sindaco. Per il resto rifarei tutto allo stesso modo, anche perché ero e resto convinto di aver agito nel giusto e nell'interesse collettivo. Ripeto: senza sapere quel che mi sarebbe successo, avrei fatto tutto uguale o mi sarei dimesso prima.


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Lombardia

L'antimafia parte anche da Cermenate Cermenate, paese di 9.000 abitanti a pochi chilometri da Como e Cantù, nel cuore della Brianza lombarda. Da qui, in particolare da una villetta confiscata in via Di Vittorio 10, è partito un progetto di “responsabilità sociale” contro le mafie. Si chiama “Progetto San Francesco” di Tommaso Marelli www.stampoantimafioso.it

Il progetto coinvolge l’amministrazione di Cermenate, guidata dal sindaco Mauro Roncoroni, i sindacati Cisl, Filca (costruzioni e affini) ,Fiba (bancari e assicurativi) e Siulp (Polizia di Stato), fino a Banca Etica e all’associazione Jus Vitae. L’obiettivo è di realizzare nella casa confiscata alla ‘ndrangheta nel 2007 il primo centro europeo per l’alta formazione contro le mafie, dedicato a Giorgio Ambrosoli.

La presenza mafiosa a Cermenate e nei paesi limitrofi non è una novità: uno dei primi 16 “locali” scoperti in Lombardia, quello del clan ‘ndranghetista Mazzaferro, era proprio a Cermenate, e nello stesso paese a inizio anni Novanta furono arrestati alcuni componenti del clan camorrista dei Borzacchiello. Operazione Notte di San Vito Nel giugno del 1994, con l’operazione “I fiori della notte di san Vito” che portò in carcere 370 persone per reati collegati alla ‘ndrangheta, venne arrestato anche Giuseppe Costa, di Cermenate, oltre a centinaia di affiliati nel comasco. Nel dicembre 1994, dopo una nuova operazione antimafia, il Corriere della sera scriveva: “Ormai a Cermenate la criminalità organizzata è arrivata ai massimi livelli, per questo la gente applaude per strada i carabinieri”. Ma anche oggi questi territori non si possono ritenere liberati dalla presenza mafiosa: dopo l’operazione “Infinito” del luglio 2010, il pentito Antonino Belnome ha confessato di essere stato tra gli esecutori dell’omicidio di Antonio Tedesco, avvenuto il 27 aprile 2009 nel maneggio “La masseria” di Bregnano, comune confinante con Cermenate. Dopo la consegna, avvenuta il 7 maggio 2011, della villetta confiscata, nel novembre scorso è partita la raccolta fondi per la sistemazione dell’immobile. Il progetto prevede la realizzazione nel piano interrato di una sala riunioni con

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circa 80 posti a sedere, al piano terra una mostra permanente sulla legalità e al primo piano un archivio di documentazione. «L’iniziativa di riutilizzo del bene confiscato – spiega il sindaco di Cermenate Mauro Roncoroni – non è stata calata dall’alto, ma condivisa e progettata con una serie di incontri che hanno coinvolto le associazioni del paese e i residenti di via di Vittorio. Quello che noi stiamo provando a fare è un’esperienza amministrativa e cittadina di contrasto della criminalità organizzata, utilizzando l’opportunità del bene confiscato per intraprendere un’operazione di promozione culturale e di giustizia, per sviluppare degli anticorpi contro le mafie». Regolamentati gli appalti L’idea di combattere l’illegalità ha portato l’amministrazione e il consiglio comunale di Cermenate a scegliere alcune linee di attuazione per limitare l’infiltrazione criminale negli appalti pubblici. Sono state abolite le gare d’appalto con il principio del massimo ribasso, mantenendo come criterio di valutazione quello dell’offerta vantaggiosa, che tiene conto anche di fattori come la qualità dei materiali utilizzati e i rapporti con le maestranze. Gli uffici comunali sono stati invitati a rispettare in maniera estremamente rigorosa la tracciabilità dei pagamenti. «Queste scelte non rappresentano nulla di straordinario, sono ciò che dovremmo


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fare tutti. Personalmente – dice Roncoroni – ho sempre percepito il fenomeno come qualcosa di lontano, ma oggi ho capito l’importanza di sapere che oggi ho capito l’importanza di sapere che da parte delle amministrazioni c’è un livello di guardia più alto». Alessandro De Lisi, responsabile del “Progetto San Francesco”, spiega il significato di questo programma di partecipazione sociale: «L’obiettivo è quello di promuovere la cultura della legalità partendo dalle esperienze del territorio ed elaborando alcuni strumenti, tra cui quelli amministrativi, per prevenire il reato e accelerare il processo di partecipazione civica nel territorio. Da bene confiscato a bene comune La ristrutturazione della casa di Cermenate è figlia del consenso popolare, con un vero passaggio del bene confiscato a bene comune. Il Comune si riserva per tre giorni a settimana l’utilizzo gra-

tuito dello stabile, mettendolo a disposizione delle associazioni». Per coinvolgere i cittadini e le realtà locali in questo progetto, da qualche mese sono partite anche iniziative volte a conoscere la realtà mafiosa e condividere gli strumenti e le scelte attuabili per combatterla. «Lo scopo del programma di promozione civica, comunale e territoriale della cultura della giustizia – racconta De Lisi – è quello di impedire il radicamento della “mafiosità”, di quei comportamenti che favoriscono il consenso sociale delle organizzazioni mafiose». A Cermenate lo scorso 20 ottobre Michele Prestipino e il giornalista Mario Portanova hanno inaugurato i “Dialoghi di formazione popolare” sul tema dei beni comuni, continuati il 12 dicembre con la giornalista Marta Chiavari, autrice del libro “La quinta mafia”. Nel parco comunale di Cermenate, dal giugno 2011, sono stati installati dei pannelli che

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compongono un percorso antimafia, con i volti e le frasi di Paolo Borsellino, don Pino Puglisi, Piersanti Mattarella, Giorgio Ambrosoli, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone. Il riscatto può partire da qui La speranza dei promotori del progetto San Francesco è quella di riuscire a coinvolgere tutto il territorio comasco in questo percorso di contrasto culturale e amministrativo ad ogni tipo di organizzazione mafiosa, partendo dalla consapevolezza e dal coinvolgimento dei singoli cittadini, dei lavoratori e delle associazioni. Forse proprio da Cermenate potrebbe partire un movimento di riscatto civico e sociale contro la mafia, che nel 2012 rimane ancora un problema largamente sottovalutato e poco considerato in tutte quelle zone della Lombardia che per troppo tempo non hanno reagito alla colonizzazione criminale.


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Testimoni/ Ignazio Cutrò

Storia di uno che non s'è arreso «Non mi sento un eroe, ho fatto 28 denunce contro estortori e mafiosi, ho subito trenta intimidazioni e danni per 300 mila euro, ma oggi posso guardare negli occhi mio figlio. Solo, vorrei che lo Stato ci lasciasse meno soli». di Vincenzo Mulè

Questa è la storia di Ignazio Cutrò. Da pochi giorni, dopo tante sofferenze e umiliazioni, può dire con fierezza di aver vinto la sua battaglia. Ma ora che la situazione sembra volgere al meglio, è impossibile non ripercorrere la sua storia, fatta di errori macroscopici da parte dello Stato, di intimidazioni, di appelli inascoltati e di gesti eclatanti. Cutrò circa dieci anni fa ha denunciato e fatto arrestare i propri estorsori mafiosi. Tra questi, un vecchio compagno di scuola. La vicenda si sviluppa a Bivona, nell’entroterra agrigentino, in piena terra di Cosa Nostra.

Grazie anche alle dichiarazioni dell'imprenditore agrigentino, il 15 luglio del 2008 scattò l'operazione antimafia della Dda ''Face off'', che consentì di arrestare sette persone e di smantellare la cosca mafiosa della cosiddetta ''Bassa Quisquina''. Un clan che si sarebbe occupato, in particolare, delle estorsioni. Un errore della burocrazia Cutrò racconta la sua vita ''blindata'' dopo la decisione di ribellarsi al racket: «Una parte dello Stato è sempre stata con me, ed è costituita dagli angeli della scorta che mi proteggono tutti i giorni». Ignazio Cutrò è l’unico testimone di giustizia in Italia che ha scelto di rimanere nel posto dove ha subìto minacce, ritorsioni e attentati. Ma la sua storia ha assunto i contorni dell’incredibile quando è subentrato lo Stato. L’ultimo episodio è avvenuto poco prima di Natale, quando la “Serit Sicilia”, agente della riscossione per la provincia di Agrigento, gli ha recapitato una “Comunicazione Preventiva di Ipoteca” per un importo di 85.562,56 euro, relative a cartelle che dovevano essere bloccate dalla sospensiva prefettizia. Questo perché, per un errore della macchina burocratica, lo Stato non ha sospeso i debiti dell'imprenditore-coraggio e non gli ha rilasciato i documenti necessari per il riavvio dell'azienda. Una situazione paradossale, che vedeva Ignazio Cutrò, impossibilitato a lavorare e, oltretutto, a dover pagare entro lo

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scorso 16 gennaio una cifra impossibile. Pena: l'iscrizione di ipoteca sui beni immobili. È proprio la tempistica del rilascio della sospensiva il nodo intorno al quale si sviluppa la vicenda di questo coraggioso imprenditore. Dopo aver ottenuto, come prevede la legge per le vittime del racket, la temporanea sospensione prefettizia con la quale sono stati congelati i debiti contratti con le banche, impegni contratti per rimediare ai danni causati dagli attentati, l’Inps ha notificato di non riconoscere questa sospensiva così non rilasciando i documenti indispensabili per riavviare l’azienda. Sciopero della fame e della sete A novembre Di Pietro ha rivolto all’allora ministro dell’Interno Maroni un’interrogazione a risposta scritta, nella quale si segnalava il caso. Unica risposta, il silenzio. Proprio il 16 gennaio, data della scadenza della cartella esattoriale, l’uomo ha iniziato uno sciopero della fame e della sete. Che fortunatamente è durato un solo giorno. L’imprenditore e la sua famiglia sono stati ricevuti dal presidente della Regione Lombardo, che: «In ogni caso – ha dichiarato - qualsiasi intoppo burocratico verrà superato e se non dovesse essere possibile ottenere la sospensione di questi tributil'amministrazione regionale potrà intervenire direttamente con dei fondi dedicati per garantire la continuità operativa dell'impresa».


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SCHEDA TESTIMONI DI GIUSTIZIA Sono poco più di 70 in tutta Italia, ma per lo Stato è come se non esistessero. A volte sopportati, a volte dimenticati del tutto: sono i testimoni di giustizia. Cittadini italiani che hanno scelto di combattere la criminalità senza esserne mai stati organici, al contrario dei collaboratori al quale è stato equiparato fino al 2001, quando una legge dello Stato ne ha riconosciuto lo status, prevedendo misure di tutela e assistenza. Si tratta di cittadini che hanno visto cambiare in maniera radicale la loro vita in seguito alla loro scelta. Che è fondamentalmente una scelta di onestà e giustizia. Via dalla propria città, divieto di avere ogni tipo di contatto con parenti e amici, nuove identità e esistenze blindate. E perennemente sotto controllo. Lea Garofalo era una di questi. E ha pagato con la vita la sua scelta. Pino Masciari è forse il testimone di giustizia più famoso. Un uomo che di fronte alle mancanze di uno Stato che non gli permetteva di vivere, ha scelto di uscire allo scoperto. Ora gira l’Italia e racconta la sua storia a scuole e organizzazioni. L’ultima volta che lo Stato si è occupato dei collaboratori di giustizia è stato nel 2008, quando la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare rilascio una relazione sui tesiìmoni di giustizia. Un documento molto critico sia per quello che riguardava le procedure con le quali si assicurava la loro segretezza, sia per il pressochè abbandono che i testimoni di giustizia pativano in seguito ad un risarcimento economico, quasi sempre di ammontare irrisorio a fronte delle spese e difficoltà da affrontare.

Ma Cutrò non ha dimenticato le polemiche anche più recenti che lo hanno coinvolto: «Non cerco privilegi, non voglio benefici, ma rivolgo un appello alle istituzioni per far sì che vengano rispettate le procedure per consentirmi di avere il Durc e tornare a lavorare ha detto l'imprenditore. Ringrazio il Viminale per essere intervenuto sulla mia vicenda». Una nota del Viminale Il riferimento è a una nota diffusa in serata dal Viminale nella quale si precisava che «Ignazio Cutrò beneficia di tutte le misure previste dalla legge sui testimoni di giustizia. Il predetto - aggiungeva la nota - ha ricevuto consistenti elargizioni dal Commissario antiracket e antiusura, quale vittima di estorsione, e fruisce di adeguato dispositivo di scorta». Nella nota si sottolineava anche che «la direzione dell'Inps di Agrigento ha fornito ampia disponibilità al rilascio della documentazione, necessaria per consentirgli di proseguire l'attività imprenditoriale.

ulteriori possibili interventi, oltre a quelli già disposti dall'amministrazione». La prima volta che si parlò della vicenda di Cutrò fu quando la scorta che accompagnava la figlia dell’imprenditore venne bloccata dalla protesta del corpo insegnante all’ingresso del liceo che la ragazza frequentava. Poco dopo, il gesto più clamoroso: Ignazio si incatenò davanti al Viminale per cercare il sostegno dello Stato. Ma non bastò. E così Ignazio mise in vendita su Ebay i propri organi. Gli organi in vendita su eBay «Sono disperato – raccontò - E lo Stato dopo tanti appelli mi ha lasciato da solo». Parole ormai lontane. «Ora voglio ricominciare e tornare a fare il mio lavoro». Ignazio, ora, ha un nuovo obiettivo: «Voglio creare un’associazione che tuteli tutti i testimoni di giustizia». Per non ripetere più gli errori del passato.

Bloccata davanti al liceo Quanto alla problematica inerente le cartelle esattoriali, di recente segnalata dall'interessato - concludeva il Viminale la Commissione centrale per i programmi di protezione precisa di avere disposto l'audizione dell'interessato per la prossima riunione, al fine di individuare

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Per saperne di più https://www.facebook.com/groups/3161 96125073553/?notif_t=group_activity www.senato.it/service/PDF/PDFServer/ BGT/473717.pdf


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Sicilia/ Acireale e dintorni

L'amianto contro il mare Pozzillo, vicino Acireale, è un tipico concentrato siciliano. Ha il mare. Ha l'amianto. Ha poveri. Ha ricchissimi. Ha politici loschi. Ha più sportelli bancari, in proporzione, della Lombardia

A Pozzillo, frazione ai piedi di Acireale, pare non interessi a molti. A girare per le strade con la telecamera non parla quasi nessuno, fuggendo le domande come fossero pietrate. S’è interessato il parroco, che a parte la tonaca parrebbe un adolescente: all’alba dell’anno passato ha diffuso un manifesto che parlava di “sorella morte col volto di amianto”, con tanto di signora nera dal volto scheletrico, armata di falce, accanto al testo. Niente. È rimasto tutto com’è. “Rischio amianto elevato”

di Sebastiano Ambra

C’era un manifesto per le vie della città. Abusivo ogni tanto, ogni tanto timbrato. Parlava di boxe, un incontro nella piazza del borgo. Era il 16 luglio e due settimane dopo sarebbe stata festeggiata Santa Margherita, coi marinai a distribuire pesce spada. La bestia è rimasta lì, alle spalle di pugili, preti, marinai, mogli, figli e nipoti. Tutti assieme, a respirare l’aria carica di sale di uno degli angoli di Sicilia più suggestivi, famoso soprattutto per l’acqua che fino al tramonto dello scorso millennio veniva imbottigliata nello stabilimento che ora mescola a quell’aria salata le fibre di amianto liberate ad ogni soffio di vento dall’immenso tetto in eternit.

Magari qualche telecamera in più, tggì locali, persino la Rai regionale, ma nulla di più. A salire le scale della sua canonica monta l’ansia nel sentire la sua voce descrivere la distesa di fibrocemento ondulato che ogni mattina si trova sotto gli occhi. “Il rischio amianto è elevato, non è cosa da niente”, dice il direttore dell’Istituto di Ricerca Medica e Ambientale, Giovanni Tringali, che a Pozzillo c’è stato e ha coscienza del danno. Ha parlato pure davanti alla telecamera, per provare a entrare nelle case della gente, dei pescatori e degli amministratori, ma niente. Dietro le sue parole ci sta un dato terribile, che racconta che la media dei malati di mesotelioma pleurico (la forma di cancro derivata dall’amianto) da quelle parti è doppia rispetto a quella regionale: il Registro Tumori di Ragusa è impietoso,

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ma l’incontro di boxe s’è tenuto lo stesso dinnanzi all’ingresso monumentale dello stabilimento che abbeverò pure Ferdinando I di Bulgaria. E anche la festa di Santa Margherita. E la sagra del pesce spada. E la festa continua L’allarme era stato lanciato prima di quelle feste estive, con tanto di avvertimento: “La bella stagione è dannosa per i luoghi contaminati; la brezza, il vento spingono le fibre anche a grandi distanze”, ammoniva Tringali. Eppure nulla. Neanche le immagini interne allo stabilimento, dove sarebbe vietato entrare, hanno reso giustizia al timore. Neanche la scoperta dei pezzi di tetto nascosti nei cassonetti, a loro volta nascosti nello stabilimento. La storiaccia di Sidoti Neanche la storiaccia di Luigi Sidoti, l’imprenditore catanese, ex consigliere comunale Msi e deputato nazionale, appena condannato dal Tribunale a due anni e mezzo di reclusione per malversazione: l’aveva comprata, la “Pozzillo”, ma con sette milioni di euro di finanziamenti regionali Por che avrebbe dovuto utilizzare, invece, per realizzare due alberghi in via Cristoforo Colombo. Lì a Pozzillo è calma piatta. Sarà che la pena all’ex missino l’hanno sospesa, povero settantacinquenne. Così Pozzillo sta lì a respirare il suo amianto, e nessuno interviene. Come per i rifiuti.


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L’intera città di Acireale, con Pozzillo e le altre frazioni, fa registrare un record negativo alla voce “produzione”: secondo i parametri ISPRA in Sicilia la media di quelli urbani è pari a 521 kg per abitante, ma ad Acireale si arriva a 650. A osservare bene le carte la città litiga con la differenziata, arrivando a toccare il 5% e contribuendo a far piazzare l’Ato di riferimento, “Aciambiente”, all’ultimo posto della provincia, uno degli ultimi nazionali. Come fa, però, a produrre tutta questa immondizia? Oltre 10.000 tonnellate in più di rifiuti urbani, quando con un gigantesco numero di operai per la raccolta potrebbe arrivare tranquillamente a toccare le cifre di differenziata della leggendaria Capannori: la “Dusty”, ditta a cui la raccolta è affidata, ha diviso le sue ramazze a ben 128 operatori che, secondo stime diffuse su tutto il territorio nazionale, dovrebbero bastare a tenere linda una città con più del doppio degli abitanti di Acireale.

Se però la telecamera prova ad andare alla “Dusty”, a prendere un appuntamento per chiedere come mai con questi numeri si lavori così male (l’Ato multa continuamente la ditta per inadempienze), o, ad esempio, come mai nel luglio scorso risultavano ben 50 assenti in un giorno solo, o a chiedere conto delle voci che dicono che il lettore di impronte digitali, che aveva sostituito il lettore di badge per le presenze, è stato distrutto più volte, fino al ritorno al vecchio lettore di badge, beh alla “Dusty” spariscono tutti, nessuno risponde. Più banche che in Lombardia Come nessuno, fra banche e negozi, risponde a un quesito strano: come fa una centro abitato di 53.000 anime che dichiara un totale di 420 milioni di euro di Irpef ad avere 31 sportelli per il deposito del denaro? Solo la città più ricca d’Italia, Basiglio (Mi), può competere con Acireale come numero di sportelli bancari procapite,

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ma, a differenza degli acesi, gli abitanti di Basiglio dichiarano a testa un reddito quasi 4 volte maggiore: 24.600 euro a fronte di 7.943. Che ci stanno a fare tutti quegli sportelli ad Acireale? Come tirano avanti?, viene da chiedere. La telecamera di “Agendaerre”, il neonato format di provincia lanciato lo scorso anno, ha circolato per la città per realizzare 22 inchieste che hanno restituito l’immagine della perfetta provincia italiana meridionale: una vecchia ricchezza che sta finendo in polvere, come il Codice carolingio conservato in un cassetto di un archivio storico relegato negli uffici di una scuola di provincia abbandonata per il terremoto del 2002. Sta lì, fra le crepe, ai margini di un finto sistema antincendio, sotto lo sguardo di un usciere sordomuto con la stufa tra le gambe, le erbacce che cingono l’edificio, i ragazzini che tirano le pietre ai portoni in vetro a cui amministratori lungimiranti hanno applicato le sbarre. Non si sa mai.


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Ragusa

Aggiungi un posto all'Ato... Parentopoli all'Ato Ambiente di Ragusa: diciannove Cocopro eccellenti. E adesso, i “fortunati” vogliono un contratto di Francesco Ragusa www.ilclandestino.info

Nubi nere sull'Ato Ambiente di Ragusa: che succede dopo le dimissioni di Severino Santiapichi? L'illustre magistrato, impegnato anche nel processo Moro, era stato chiamato alla guida dell'ambito territoriale ibleo, reduce da anni di cattiva gestione. A ruota sono seguite le dimissioni di Giovanni Lucifora, componente del collegio di liquidazione della stessa Ato in quota centrosinistra. Dimissioni, in entrambi i casi, che hanno destato più di qualche dubbio e che hanno puntato nuovamente i riflettori su una possibile connotazione dell'Ato: quella di carrozzone elettorale. Già nel 2010 gli allora vertici della società (il presidente Giovanni Vindigni, il vice Franco Muccio, il componente del Cda Concetta Vindigni, il direttore Fabio Ferreri) erano finiti al centro di un'inda-

gine della Guardia di Finanza di Ragusa, su delega della procura iblea, per irregolarità riguardanti diciannove assunzioni compiute nel 2009 in violazione delle norme. Il bando di assunzione era stato affisso solamente sulla bacheca della società, senza avere adeguata pubblicità. A comparare i curricula ricevuti c'era una società catanese, la Mediacom, che non sarebbe in possesso di autorizzazione del Ministero del Lavoro per effettuare selezioni di questo tipo. Il tutto in violazione dell'articolo 61 della legge regionale numero 6 del 14 Maggio 2009 che, tra le altre cose, prevede il divieto di nuove assunzioni per gli Ato rifiuti. Parenti, mogli, amici, faccendieri... Tutto ciò ha portato all'assegnazione di contratti Cocopro biennali per quindici persone, a cui se ne sono aggiunti altri quattro già approvati in precedenza nel 2007. Chi sono questi diciannove fortunati? “Figli della casta”, direbbe qualcuno: vi è un misto di parenti, mogli, amici, faccendieri di politici del territorio ibleo. La cosa, nonostante le indagini, è durata praticamente per l'intera durata del contratto, e adesso i fortunati vincitori delle procedure di assunzione hanno deciso di rivolgersi ai sindacati per vedere rinnovato il proprio incarico addirittura a tempo indeterminato. Forse questa è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso portando

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Santiapichi e Lucifora verso la firma delle dimissioni. Una situazione diventata poco sostenibile che il presidente e il liquidatore dell'Ato, considerate le assai probabili pressioni politiche, hanno deciso di mollare. Al timone dell'ambito territoriale rimane, attaccatissimo alla poltrona nonostante le richieste di dimissioni provenienti dal Pd del capoluogo ibleo, il ragusano Migliorisi (secondo liquidatore della gestione Santiapichi, area Pdl). Nominato presidente Migliorisi viene nominato presidente della società e viene affiancato dal vittoriese Salvatore Garofalo (area Sel, suo vice) e dall'altro ragusano Giancarlo Cugnata (area Pdl, nuovo liquidatore). L'affare Ato, però, non si ferma qui: i deputati regionali del Pd Roberto Ammatuna e Pippo Di Giacomo hanno predisposto la presentazione di un'interrogazione a Giosuè Marino, assessore regionale dell'Energia e dei Servizi di Pubblica Utilità, chiedendo lumi sulle modalità attraverso cui si sia proceduto a formalizzare quei contratti nonostante il divieto di assunzioni per gli Ato e, comunque, in palese violazione delle procedure per l'individuazione delle unità lavorative. I due rappresentanti ragusani all'Ars chiedono di mettere la parola fine alla questione domandando all'assessorato “quali misure intenda adottare perchè simili violazioni vengano perseguite e condannate dagli organismi competenti”.


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Periferie/ Librino

Il teatro che morì sette volte Catania. Angela è una ragazza del vecchio borgo di Librino. L'agrumeto, le colline, i vigneti... E il Teatro Moncada di Luciano Bruno www.ucuntu.org

Angela è nata nel 1960 nel vecchio borgo di Librino, la sua famiglia aveva un terreno di arance nella zona che oggi si chiama da una parte viale Moncada e dall’altra viale San Teodoro. Era una bambina abbastanza sveglia per la sua tenera età, con i capelli lunghi e biondi, gli occhi castani molto profondi, di corporatura snella ma molto forte. Andava spesso ad aiutare il padre nel terreno di famiglia; con la pompa irrigava il campo, zappava, seminava ed insieme al padre faceva la raccolta e la vendita al mercato. Quando Angela finiva di aiutare il padre, faceva delle lunghe passeggiate per le strade del vecchio quartiere, dove vi erano dei vigneti “immensi” ai suoi occhi, gli agrumeti e le colline. Una collina dove saliva spesso era situata nella parte che oggi è viale San Teodoro. Salendo in cima restava sbalordita dalla bellezza della natura e del suo profumo. Ma, putroppo, la bellezza della natura non sempre va d’accordo con gli interessi politici, economici e speculativi di chi

progetta e di chi costruisce. La vita quotidiana di Angela e della sua famiglia stava per essere stravolta da qualcosa di più grande. Nel 1976 venne redatto dalla “S.T.A. Progetti” un piano di zona per Librino, dal famoso piano di Kenzo Tange. Proprio dove suo padre aveva l’agrumeto, doveva passare il lotto “BII ventinove”, quello dove sarebbe stato costruito il futuro teatro Moncada. Il padre della ragazza, per quello che poteva, fece resistenza ma alla fine il terreno gli venne espropriato per bene comune. Non riuscendo più a “campare”, a vivere e a lavorare, il padre decise di emigrare in Germania dove trovò lavoro come operaio in una fabbrica di Monaco. “Inaugurato sette volte” “Ricordo ancora oggi quella giornata di primavera del 1980; fuori c’era il sole, andai a fare l’ultima passeggiata in quello che era il mio mondo; mentre percorrevo le trazzere mille domande mi frullavano in testa. Cosa mi aspettava in una città che io non consideravo mia, cosa avrebbe comportato la trasformazione del mio mondo per Librino?” “Se un giorno fossi tornata avrei trovato quello che lasciavo? Purtroppo a queste domande solo il tempo poteva rispondere.Subito dopo la mia ultima passeggiata siamo andati a prendere il treno per Monaco”. L’appalto per la costruzione dei lotti B II ventinove, l’attuale teatro Moncada, fu vinto dal cav. Finocchiaro, in concessione, veniva affidato al costruttore che lo consegnava a lavori e collaudi ultimati. L’impresa affidò la progettazione agli architetti Giacomo Leone e Giuseppe Samonà. Il costo della struttura è stato di cinque miliardi delle vecchie lire,

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inaugurato circa sette volte, in particolar modo da due sindaci, uno di sinistra e l’altro di destra, ma mai consegnato alla città; nel frattempo è stato vandalizzato. Ma perché è stato vandalizzato? Un' ipotesi è che vi siano ancora interessi di alcuni politici e costruttori, e che facciano vandalizzare il posto per poi riaprire le gare d’appalto, quindi richiesta di fondi pubblici e ricostruzione per un giro di soldi immenso. Di fatto, tra il 2003e il 2005 la giunta Scapagnini ha acceso due mutui con le banche per l’importo di 4,5 milioni di euro per lavori all’interno della struttura. Nell’estate del 2006 Angela torna da Monaco,non è più la ragazzina di una volta; ha 46 anni e due bambini a cui vuole fare vedere il posto dove è nata. Ma di quello che aveva lasciato non trova nulla, niente agrumeti, vigneti, colline né il profumo e la bellezza della natura; solo palazzoni grigi con l’odore sordo del cemento. Oggi a Librino ci sono gli enormi palazzoni; Angela per i viali vede il via vai di macchine della gente che compra crac, eroina, cocaina fumo. Chi dà lavoro lì è la Mafia. Da quell’ estate del 2006 sono passati cinque anni e da allora lei non è più tornata a Librino, forse perché anche lei come la maggior parte dei Librinesi onesti si è arresa al fatto che lo Stato lì è assente. SCHEDA/ LIBRINO Librino (Libbrìnu in siciliano) è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata al famoso architetto giapponese Kenzo Tange. Attualmente conta circa 80.000 abitanti (librinesi o lebrinesi)


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Periferie/ Da Catania alla Palestina

La politica vista dai poveri: At-tuwani Il giorno dopo il nostro arrivo a Gerusalemme partiamo per At-tuwani, villaggio di qualche centinaio di abitanti a sud di Hebron, nella zona C della Cisgiordania sotto il diretto controllo delle forze d'occupazione israeliane, ai confini del Negev... di Dario Vicari I Cordai

“Sono risolutamente nel campo dei perdenti” Mahmoud Darwish, poeta palestinese

Ci serviamo dei furgoni vecchi e rumorosi su cui possono salire i palestinesi e percorriamo le strade – da noi le chiameremmo trazzere – tra posti di blocco volanti, discariche a cielo aperto e stazioni di transito dei furgoni immerse nel nulla: l’indicazione di coloro che ci guidano è quella di avere pazienza, il viaggio sarà lungo. At-tuwani dista da Gerusalemme neanche 60 km se prendessimo l’autostrada, riservata agli israeliani, che costeggia il muro: tempo di percorrenza neanche un’ora. E, invece, ad ogni fermata cambiamo furgone: Bettlemme, Hebron, Yatta, finalmente At-tuwani dove giungiamo nel primo pomeriggio.

Scendiamo nello spiazzale antistante un piccolo Pronto Soccorso donato dai tedeschi, chiuso: in un primo momento non vedo il villaggio, ma soltanto una distesa di terra arsa dal sole, pietre, qualche albero con poche foglie, un asino bianco e delle capre. Inizio a notare le variazioni di marrone e grigio: sono ai piedi del villaggio che si inerpica su una bassa collina alla cui sommità hanno costruito la scuola. La maggior parte degli abitanti di At-tuwani vive in grotte, in case che hanno anche cinque secoli di storia, e in tende: soltanto due case hanno il bagno e hanno il divieto tassativo di costruire, persino un bagno. Gli occhi incuriositi dei bambini Risaliamo la bianca strada e ci ritroviamo sotto il tiro degli occhi incuriositi dei bambini del campo estivo. Gli occhi, i gesti, le parole di colui che ci viene incontro a darci il benvenuto sono tranquilli, ospitali; il sorriso lo riconosco, è quello sornione di noi Siciliani: Hafez, leader del comitato popolare di resistenza non violenta di At-tuwani nei giorni della mia permanenza al villaggio lo considerai un mio coetaneo: aveva 27 anni, io 44! Quattro figli a cui pensare, senza lavoro, uno sforzo quotidiano di sopravvivenza, una sigaretta dietro l’altra, in prima linea in ogni occasione in cui hanno da difendere il loro diritti, la loro nuda vita. Un sorriso cordiale e distratto, venato di tristezze e frustrazioni. La sera siamo invitati a bere il te nella casa più grande del villaggio: ci sistemiamo in un’ampia stanza con tappeti e cuscini a terra, illuminata con lampade a petrolio – avevano subito il distacco dalle linee elettriche che li costringeva a utiliz-

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zare un generatore soltanto per il tempo di lavarsi e mangiare la sera. Anche le donne e i bambini partecipano all’incontro: soltanto gli uomini possono parlare, le donne possono ridere… Se fosse stato un vertice diplomatico sarebbe stato fallimentare, dato lo scarso numero di parole scambiate. Tanti sguardi e sorrisi, il te da bere e il tabacco da loro coltivato – maleodorante e spacca polmoni – da fumare. Mi ero preparato un bel discorso in inglese che, secondo la mia immaginazione, avrebbe dovuto fare seguito al loro lungo racconto di soprusi e violenze subiti – sottrazione di terra e di acqua, distruzione di pozzi e cisterne, uccisione di bestiame e avvelenamento dei campi, abbattimento di alberi di ulivo, attacchi notturni e intimidazione dei bambini che vanno a scuola – e alla loro richiesta di solidarietà. Niente di tutto questo: ci chiedono di noi, da dove veniamo – al mio pronunciare la parola “Sicilia” annuiscono e i gesti e i commenti mi rimandano che ci siamo riconosciuti –, se ci è piaciuta la loro “capitale”, Gerusalemme, e ci augurano un buon soggiorno. L'illegale insediamento dei coloni Dormiamo a casa di Hafez che, lungo la discesa – attorno a noi un buio e un silenzio irreali, per i nostri parametri occidentali – ci indica in lontananza “la nostra collina lussureggiante”. La vedrò il giorno dopo, una piccola e dolce collina che, con il suo verde scuro, stona con il fumé del villaggio: era un bene comune degli abitanti di At-tuwani e di quelli dei villaggi limitrofi. I coloni israeliani hanno pensato bene di stabilirvi un insediamento illegale e di recintarla per impedire ai palestinesi di potersi anche soltanto avvicinare.


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Ad At-tuwani l’unico luogo di ritrovo è la scuola, che all’occasione si trasforma in sala conferenze e il cortile in campo di calcio: è lì che custodiscono e costruiscono il loro futuro, sotto gli occhi vigili e i modi professionali di maestre che con il loro foulard in testa sembravano avere più di 15 anni. La vita lavorativa nella comunità è scandita dai ritmi delle stagioni – pastorizia e agricoltura – e dal lavoro in nero in Israele da parte degli uomini che, in una società patriarcale, sono gli unici che possono spostarsi. La cooperativa delle donne Le donne si sono riunite in cooperativa e fabbricano manufatti tessili che poi rivendono nei mercati limitrofi, vedendosi sempre più accettare il ruolo di protagoniste della vita politica e sociale del villaggio a fianco degli uomini. Le ultime battaglie che hanno vinto, con l’aiuto di ONG internazionali e israeliane, sono state il riallaccio alla linea elettrica e l’accantonamento del progetto di costruzione di un muro che gli avrebbe impedito di collegarsi con l’unica strada che porta a Yatta, la città più vicina. Battaglie vinta attuando una resistenza non violenta, l’unica alternativa contro la migrazione, l’espulsione, la deportazione - o la morte. La legge che vige a At-tuwani, come in tutta la Cisgiordania, è quella che gli israeliani considerano, a secondo delle circostanze, più conveniente per loro: legge in vigore all’epoca dell’Impero Ottomano, legge in vigore durante il Mandato britannico, legge israeliana. Sono stati disattesi tutti gli accordi, le risoluzioni, le promesse: la situazione per i palestinesi peggiora in ogni angolo di quello che “non sarà mai” lo Stato della Palestina. La questione palestinese scolorisce a

slogan da usare senza più lo sforzo di intravedere tra le parole dei corpi accartocciati, delle voci soffocate, degli alberi bruciati: una popolazione cui hanno violentemente sottratto il passato e il futuro, costringendola a vivere solo nel presente. Essi hanno smesso di attendere la venuta di qualcosa o qualcuno che possa modificare la situazione: ormai puzza di ipocrisia lo slogan “Due popoli due stati” per una questione demografica e territoriale irrisolvibile, fermo restando l’attuale contesto politico mediorientale. E l’idea di un unico stato aconfessionale in cui tutti i cittadini sono uguali è una storia da libro Cuore. E, tuttavia, queste donne e questi uomini resistono! Il pericolo per chi esiste nello spazio politico della periferia è che “in vicinanza del limite” la conciliazione tra il permanere di una emergenza quotidiana che si iscrive sulla propria carne e l’anestetico della propaganda di un’attesa di un evento riparatore/risolutore mostra la sua violenza: l’abitare tra l’immaginario colmo di speranza e la realtà colma di penuria si configura nel segno della rassegnazione, dell’immobilismo, della paura. Segnati dall'emergenza quotidiana La prospettiva sociale è quella del compromesso, del ricatto, della rinuncia ai diritti, delle regalie, dei favori, o della fuga – fisica o patologica. È questo il filo nero che collega le periferie del mondo con i nostri quartieri e le nostre periferie. Attraversando via Plebiscito, nello storico quartiere di San Cristoforo a Catania, mi immergo tra bassi abitati inumiditi dalla pioggia, case ed edifici chiusi e semidiroccati, annuso l’aria del quartiere reso periferia dal degrado sociale e osservo volti che attendono che qualcosa cambi

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per volontà altrui, che qualcuno dia qualcosa di quello che gli spetterebbe in quanto cittadini. Sugli scalini posti a fianco del Gapa, mi siedo e mi chiedo che cosa rende diversi volti pur simili, come quelli di At-tuwani e quelli di San Cristoforo. Il volto di Hafez, abitante di At-tuwani, e il volto di Giuseppe abitante a San Cristoforo hanno qualcosa in comune: tesi, preoccupati, controllati, determinati, fieri, stanchi, attraversati da una miriade di microinquietudini. Eppure continuo a percepire una qualche differenza. Come si somigliano mafia e guerra Certo, il contesto politico è completamente differente: lì c’è una guerra di occupazione a bassa intensità che dura ormai da più di quarant’anni; qui da noi, no. C’è “soltanto” una mafia e una borghesia affaristica, clientelare, inetta, compromessa con i poteri mafiosi, che tiene sotto ricatto migliaia di donne e uomini con la falsa promessa che qualcosa cambierà. Intreccio i ricordi dei volti osservati ad At-tuwani con la vista di quelli di San Cristoforo e sento che la differenza non sta nei singoli volti, ma nel loro insieme. Nella lontana Palestina hanno messo in comune la fatica, il loro sguardo è rivolto in un'unica direzione, avendo già alle spalle il bivio di una possibile alternativa alla lotta di resistenza non violenta e avendo in spalla, ognuno di loro, il fardello della responsabilità per sé e per gli altri. Le spalle sono doloranti, l’urlo in gola è feroce, l’eloquio gentile e premuroso. A San Cristoforo gli sguardi sembrano spaesati davanti al bivio, come se ognuno avesse un orizzonte tutto suo da osservare: chiusi nel loro guscio con l’illusione che sia guscio d’ostrica!


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Periferie/ Straniera a Roma

“Sono venuta per lavorare. Odissea di Khadijia Una donna senegalese viene a casa tua così, perché t'è venuto il capriccio di farti fare le treccine ai capelli. Lei fa questo lavoro, per vivere. E fra una treccina e l'altra comincia a raccontare... di Michela Mancini Khadija è partita dal Senegal tre anni fa. Destinazione: Italia. «Perché in Italia mi fanno lavorare». Non dimostra la sua età, Khadija . Ha cinquantadue anni di stanchezza, ma nessun timore Un sorriso sincero, duro come la terra, che se ne sta lì, su quel viso grande, come una bandiera che sventola su un’isola deserta. «Sono venuta qui in Italia perché devo pagare l’università a mia figlia. Ne ho una sola, adesso ha vent’anni». Khadija è orgogliosa. «E’ brava lei. Studia e prende voti buoni. Sono qui solo per lei». Ci tiene a ribadirlo. Khadija e sua figlia non si vedono dal giorno della partenza. «I soldi non sono molti, gli aerei costano tanto. Meglio tenere da parte i risparmi per l’università». Una pausa interrompe il suo racconto. Il sorriso si tradisce. Khadija è sola. «Io e mio marito non stiamo più insieme. Ci siamo separati tanti anni fa». Mi viene da chiederle se soffre ancora, se le manca. Infondo ci si ama ovunque nello stesso modo. Pochi istanti dopo i suoi occhi si abbassano: certe cicatrici resistono all’usura del tempo. Ma le ferite di cui vale la pena raccontare sono altre. Più recenti. Dal Senegal Khadija arriva a Verona. «Ci sono stata per un anno e mezzo. Non ero da sola. Mi stava aspettando un amico del mio colore».

La interrompo, dobbiamo trovare una posizione migliore, così sto scomoda. Mi siedo per terra, in mezzo alle sue gambe. Il racconto ricomincia, sembra una favola. E io una bambina che l'ascolta a gambe incrociate. «Io non voglio scappare. Non voglio nascondermi da nessuno. Sono venuta per lavorare». Khadija non ha il permesso di soggiorno. «Quando sono arrivata in Italia, dovevo trovare il modo di trovare il permesso di soggiorno. L’amico del mio colore dice che mi vuole aiutare. Mi porta da un italiano che ha un bar a Verona. Questo mi dice che mi può dare i documenti che mi servono». Khadija posa il pettine sul tavolo. «In cambio mi chiede 2500 euro. Ne vuole 1500 subito, gli altri glieli posso dare dopo che mi da i “fogli”». Ricomincia a pettinarmi piano, con dolcezza. «Io non so dove prenderli tutti quei soldi. Gli chiedo di aspettare qualche giorno. Vado da una mia amica che mi presta 500 euro, altri 1000 li faccio lavorando. Ho venduto delle borse. Quelle con le firme». Annuisco. Ho capito di che parla. Mi rimette la testa ferma. «Non ti devi muovere, bella mia». Si, ho capito. Ma sono già due ore che sto ferma. Khadija sa essere severa, il suo rigore mi coglie di sorpresa. «Da quando consegno quei soldi passano due settimane, ma l’italiano non mi da proprio nessuna carta. A me quei fogli mi servivano perché dovevo venire

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qui in Calabria». D’estate le coste si riempiono di donne africane che fanno treccine. Sulle spiagge o sul lungo mare, sono tantissime. E’ un business che offre guadagno sicuro. In Europa è diventata una moda: per intrecciare tutti i capelli le donne come Khadija possono chiedere anche duecento euro. Quelle delle trecce è un’arte che si impara da bambine, Khadija mi spiega che in Africa lo fanno per non sentire troppo caldo in testa. Dalla necessità alla tradizione il passo è breve. Un’arte antica e faticosa: per legare in trecce tutti i capelli si possono impiegare anche otto ore. Otto ore in piedi. Khadija i suoi piedi li nasconde sotto un vestito lungo e colorato, ma io che ci sono quasi seduta sopra, li vedo. Sono gonfi, tanto da far impressione. “Ma questa ricevuta è vera?” Ad Khadija i documenti non glieli volevano dare. Ma lei non sente ragioni. «Sono tornata al bar, dall’italiano, per riprendermi i soldi che gli avevo dato. Lui mi dice di aspettare che queste pratiche sono lunghe». Deve avere pazienza, questa è l’unica cosa che gli dice. «Io gli ho chiesto di avere almeno una ricevuta dei soldi consegnati. Lui mi ha dato un foglio». Non riesce a spiegarmi che cosa c’era scritto, ed io pensando di fare una domanda assurda le chiedo se per caso se l’è conservato, così almeno gli posso dare un’occhiata. Khadija mi sposta, si alza e tira fuori dalla borsa un foglio. In realtà sono tanti brandelli di carta mezzi strappati, tenuti insieme dallo scoth. Sopra c’è l’intestazione del ministero dell’Interno, con numeri e codici. «Ma questa ricevuta è vera?» chiede la Khadija all’italiano.


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«Certo certo – risponde il proprietario del bar - se la Polizia ti ferma fagli vedere questa. Quando stai a Verona devi dire che lavori al bar, mentre quando sei in Calabria puoi dire che sei in vacanza». Khadija gli crede e parte. Arriva sulla costa ionica che la stagione estiva è appena iniziata. Trova una stanza in una palazzina decrepita vicino Catanzaro. La divide con altri cinque senegalesi. Lavora tanto, fa trecce fino alle quattro di notte e va a dormire con i piedi gonfi. Intanto metti i soldi da parte. Dopo una settimana decide di telefonare “all’italiano” per sapere se la pratica è chiusa. Nessuna risposta. Continua a provare: niente, il telefono squilla a vuoto. «Allora decido di parlare con un avvocato». Lei lo chiama così. Questo signore le consiglia di fare una denuncia. Lei non conosce bene le nostre leggi, ma non è stupida. «Come posso fare la denuncia? Se vado in Questura quelli mi arrestano e mi rispediscono a casa. Io

non ho i documenti». Penso che mi sto facendo fare le trecce da una donna che se si sentisse male non potrebbe neanche andare in ospedale, perché senza permesso rischierebbe di essere mandata in un Centro di identificazione ed espulsione. Alla fine dell’estate Khadija ritorna a Verona. Chiama “l’amico del suo colore” che la rassicura: «Stai tranquilla i documenti stanno per arrivare». Capisce di essere stata imbrogliata. «I soldi se li sono divisi lui e l’italiano» mi dice Khadija . A quel punto decide di andare a casa del senegalese. «Io rivoglio i miei

soldi». Gli urla al telefono. «Quando sono arrivata a casa mi sono accorta che non c’era né luce né gas». Dopo poco il senegalese va via, con la scusa di andare a recuperare i soldi. «Sono rimasta lì ad aspettarlo per un giorno intero. Facevo luce con delle candele. Senza mangiare.Senza bere». Finché Khadija non decide di andare via, portandosi le chiavi di casa. Le vorrebbe usare come riscatto. «Finché non mi dai i miei soldi io mi tengo le tue chiavi» gli dice al telefono.

SCHEDA SENEGALESI IN ITALIA

SCHEDA DETENZIONE SENZA REATO

L'immigrazione senegalese verso l'Italia inizia durante gli anni '80 ed è legata a due tipi di fattori: quelli relativi al contesto senegalese, fra cui la crisi del settore agricolo, l'esodo rurale e la riduzione dei flussi in Africa occidentale, e quelli legati alla situazione europea, come il blocco del flusso verso la Francia, a metà anni ’90. Così molti giovani senegalesi scelsero l’Italia come alternativa per entrare in Europa. I primi immigrati provenivano dalle regioni centro-occidentali del Senegal ed erano di origine rurale, appartenenti al gruppo etnico dei wolof e alla confraternita dei murid. A partire dagli anni '90 la migrazione si diversifica: le aree di espatrio si estendono a tutto il Senegal, sia rurali che urbane, e vengono coinvolti diversi gruppi etnici. Negli anni 2000 si assiste ad una nuova ondata di migranti, di provenienza urbana, con livelli di istruzione medio-alti, più individualisti e con maggiore mobilità in funzione delle politiche migratorie dei Paesi ospitanti e del mercato del lavoro. Quel che distingue l’immigrazione senegalese è il costante sguardo verso il paese d’origine, unico luogo dove immaginare il futuro. L’ obiettivo principale è di portare qualcosa in patria, non di ricostruire una vita in un paese straniero.

I Cie, centri di identificazione ed espulsione - prima denominati centri di permanenza temporanea - sono stati istituiti dalla legge Turco-Napolitano per ospitare gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera" nel caso in cui il provvedimento non sia eseguibile subito. In pratica nei Cie ci finiscono uomini e donne stranieri colpevoli di non avere (o di avere più) il permesso di soggiorno. Il limite massimo della detenzione è stato aumentato a 18 mesi da un decreto di Berlusconi. I Cie avrebbero la funzione di consentire accertamenti sull'identità di persone trattenute in vista di una possibile espulsione, ma di fatto sono dei luoghi di reclusione. Essi rappresentano infatti una novità nell’ordinamento italiano, che non aveva mai previsto la detenzione di individui se non a seguito della violazioni di norme penali. Solo da pochissimo tempo, grazie ad una direttiva del nuovo ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, i cronisti possono accedere ai Cie per documentare le condizioni di vita. Lo scorso aprileil ministro Roberto Maroni lo scorso aprile vietò con una circolare l’ingresso nei centri ai giornalisti (e in parte anche alle Ong), “per non intralciare le attività”.

Prima di ripartire, Khadija si gioca l’ultima carta. Va all’ufficio immigrazione di Verona dove a riceverla c’è un impiegato senegalese. «Gli raccontato la mia storia. E lui mi ha risposto: “Dammi 500 euro, così avviamo la pratica di denuncia”». Lei glieli dà. L’impiegato promette che sarà richiamata appena possibile. Khadija ritorna in Calabria. «Lì la Polizia non è cattiva», racconta. «Non ci sono quelli della Lega. Noi abbiamo paura di quelli, non ci vogliono qui». Treccia dopo treccia. Filo dopo filo. Capelli come un arazzo. Il disegno è finito. Khadija rimette le sue cose nella borsa. Sono passati sei mesi da quando è andata all’ufficio di immigrazione. Non è stata richiamata. Delle due pratiche aperte – permesso di soggiorno e denuncia della truffa – nessuno le ha più fatto sapere niente. Prima di andarsene Khadija mi chiede : «Ti piacciono i capelli? Sei contenta? ». Si, sono contenta. «Assomigli a mia figlia». Le sorrido. Forse per assomigliarsi non serve avere lo stesso colore della pelle.

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“Facevo luce con le candele”


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Periferie/ Borgate romane

Ggente de Torpigna: er cinese, l'indiano, er catanese... “Sul tram, solo immigrati che come me hanno finito di lavorare”. “Tante etnie che convivono”. “Non come la Roma che mi aspettavo”. “In centro vedo più indifferenza”. Forse sta qui in borgata, la vera capitale di Lorenzo Misuraca

Da via di Tor Pignattara a via del Babbuino, in pieno centro, ci sono tre quarti d'ora di strada tra bus e tram da cambiare al volo. Valentina fa questo percorso ogni giorno per andare a lavorare nella pizzeria dove passa sei sere a settimana. E' quasi come prendere l'aereo tra la Roma che esiste nell'immaginazione dei turisti, retaggio commerciale della dolce vita e dell'impero che fu, e un'imprecisata città del Mediorente. Valentina ha 28 anni e viene da Cittanova, paese di collina a ridosso della piana di Gioia Tauro, in Calabria. “A Roma mi sono trasferita giusto un anno fa. Ero venuta per una vacanza e ho deciso improvvisamente di trasferirmi, avevo voglia di cambiare aria”.

L'annuncio che trova la porta in via dell'Acqua Bullicante, l'asse che unisce la via Prenestina alla Casilina, arterie perennemente intasate dal pendolarismo romano, e prosegue in direzione della Tuscolana cambiando nome in Via di Tor pignattara. Attorno a questi due chilometri di strada si sviluppa il quartiere di Torpignattara, la zona romana, insieme a piazza Vittorio, dove convivono più etnie. Bengalesi, indiani, cinesi, magrebini, sudamericani, e qualche italiano. “Quando sono arrivata il primo giorno in questa zona - racconta Valentina l'impressione era negativa. Mi sembrava molto periferica e buia, diversa dalla Roma che m'immaginavo. Ma ho cambiato subito idea. È piena di colori, mi piace passeggiare per Torpignattara, è facile scambiare due chiacchiere con l'edicolante bengalese o al ristorante cinese. Al centro di Roma vedo più indifferenza. L'altro giorno un negozio chiuso si stava allagando e non sono riuscita a trovare il numero del proprietario per avvertilo, nessuno dei vicini ne sapeva nulla”. E' ancora iscritta all'università di Cosenza, vorrebbe laurearsi in cooperazione internazionale, ma il lavoro in pizzeria le toglie tempo e forza per studare. “A mezzanotte quando torno a casa, mi guardo intorno e sul tram ci sono solo immigrati che come me hanno finito di lavorare, dei turisti nessuna traccia. In un certo senso, vivere a Torpignattara mi fa sentire più straniera a Roma, come loro, che italiana”. E' faticoso viaggiare verso il centro tutti i giorni per fare chiusura in pizzeria. A Cittanova – ammette - probabilmente avrebbe campato lo stesso con un lavoro da 600 euro al mese e alloggio da mamma e papà. Ma poi sorride e aggiunge “Se devo farmi sfruttare, preferi-

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sco farlo a Roma che a casa mia”. A tornare giù, per ora, non ci pensa. Martina ha 26 anni e viene da Carovigno, in provincia di Brindisi, è venuta a Roma col sogno di fare l'attrice. Alla fine s'è iscritta a scienze della comunicazione. Nel frattempo ha scoperto la passione per la fotografia, e i primi fotoreportage li ha fatti proprio a Torpignattara. “Mi sono trasferita qua perché mi incuriosiva il quartiere, mi piacciono molto i miscugli culturali, e qui mi trovo al centro di molte etnie che convivono. C'è il fruttivendolo egiziano, il kebabaro turco, la barista cinese. Quando passo davanti alla scuola Pisacane e vedo le mamme indiane che si scambiano i consigli con quelle italiane sui compiti dei figli, mi sento felice”. La scuola multietnica del quartiere E proprio la Pisacane, spesso citata nei telegiornali come scuola multietnica per eccellenza, dove i i bambini italiani sono meno dei figli dei migranti, era forse l'unico parte di questa zona di Roma conosciuto nel resto d'Italia, prima del duplice omicidio del 4 gennaio. Zhou Zeng, commerciante cinese di 31 anni e Joy, la figlia di sei mesi che teneva in braccio, sono stati freddati durante una rapina, sulla cui dinamica sono rimasti molti punti oscuri. Si è raccontato di Torpignattara come di un quartiere violento. Il Corriere della Sera si è affrettato a pubblicare una cartina di Roma dove questa zona risultava tra le più pericolose della città, insieme a Prati, quartiere di avvocati e liberi professionisti, dove a luglio il gioelliere Flavio Simmi è stato ucciso in un agguato in perfetto stile mafioso.


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“Di solito - dice Martina - questo è un quartiere tranquillo. In tre anni non ho mai avuto alcun tipo di problema”. In realtà l'accostamento di Torpignattara a un'immagine di delinquenza e microcriminalità ha a che vedere col suo passato. Cristina è una dei tanti militanti argentini di sinistra che negli anni '70 scapparono dal paese in mano alla dittatura di Videla. Da 30 anni, vive al Pigneto, il quartiere confinante, e fa parte del circolo di Rifondazione comunista di Torpignattara. Durante la fiaccolata in ricordo di Zhou Zeng e Joy, distribuiva un volantino: "Torpignattara non deve ritornare ad essere il Bronx di Roma". "Ho assistito a una discussione molto vivace dentro il circolo, tra i compagni più anziani e i quarantenni. I più giovani sono contenti del quartiere, di come è diventato multietnico. Si ricordano negli anni '70 e 80 quando la zona era in mano alle bande, ti scontravi coi prepotenti e se eri un ragazzino di strada dovevi scegliere con chi stare", dice Cristina. "I più anziani – aggiunge -invece dicono che si stava meglio quando c'era la banda della

Marranella, (derivata alla banda della Magliana e attiva nei primi anni '90 in rapine, traffico di droga, usura e riciclaggio. ndr) che operava in altri quartieri e aveva facce conosciute qui. Ora gli anziani non si sentono sicuri con gli immigrati per strada, a volte ci sono ubriachi in giro. Sono realtà che non conoscono e che li mettono a disagio". “Il Comune ci ha abbandonati” In realtà, l'ondata di migranti provenienti dai sud del mondo appartiene già a una fase passata. Da qualche sono gli italiani gli ultimi arrivati, soprattutto studenti del sud e giovani coppie. Un dato impossibile da capire senza affrontare il rapporto di "Torpigna", come la chiamano i suoi abitanti, e il vicino Pigneto. Sebastiano, 34enne catanese, lavora in postproduzione cinematografica, e vive da queste parti da almeno cinque anni: "Prima stavo al Pigneto, poi il quartiere è diventato uno dei centri della vita notturna romana, si è riempito di locali ed è diventato un casino. In molti si sono tra-

sferiti o sono arrivati a Torpignattara perché è vicina al Pigneto, ma i prezzi sono più bassi". Il Pigneto, dal quartiere suburbano di baracche e casette basse raccontato da Pasolini in Accattone, si è trasformato in un distretto del divertimento assediato da artisti e radical chic. Gli studenti e i giovani lavoratori che nel frattempo hanno messo su famiglia si sono spostati su via dell'Acqua Bullicante o Via della Marranella, mischiandosi con i tanti migranti pakistani ed egiziani, con cui contribuiscono ad una delle densità abitative più alte d'Europa: oltre 16mila abitanti per chilometro quadrato. "Da Catania sono andato via perché per il tipo di lavoro che faccio non c'erano prospettive - spiega Sebastiano - e a Torpignattara sto bene, con tutti questi migranti arrivati in cerca di qualcosa come me, che mi fanno sentire meno straniero. Però i problemi sono tanti. Le strade sono sporche, c'è il bellissimo acquedotto romano alessandrino lasciato a se stesso. Il Comune l'ha abbandonato, questo quartiere".

SCHEDA/ CRONACA QUOTIDIANA “ACCOLTELLATI 3 LAVORATORI BENGALESI A TORPIGNATTARA” ROMA. Questa mattina alle ore quattro, tre cittadini bengalesi, di nome Arob Ali di 24 anni, Robiul Molla di 24 anni e Mojibor Rahman di 38 anni, sono stati aggrediti nella zona di Torpignattara da tre malviventi. Il fatto è avvenuto mentre Mojibor, che lavora al mercato di Piazza Vittorio Emanuele, uscito alle 4 dalla sua abitazione, situata in via Gabrio Serbelloni, per recarsi al lavoro è stato fermato da tre delinquenti, che lo hanno preso con forza e malmenato fino a rompergli il naso per derubarlo del portafoglio. Mentre Mojibor chiedeva aiuto strillando, sono usciti dalla casa i due cognati dell’uomo, Arob e Robiul, che hanno cercato di fermare i delinquenti, ma sono stati aggrediti a loro volta e feriti con un coltello. Adesso si trovano in condizioni molto gravi all’ospedale di San Giovanni.

I carabinieri, invece di rincorrere gli aggressori lì vicino, sono entrati nell’abitazione dei feriti e hanno perquisito parenti e inquilini. A distanza di 15 giorni dalla tragica morte di Zhou e Joy episodi del genere continuano ancora a verificarsi nella zona Torpignattara, che da quanto dicono i giornali è perennemente sorvegliata dalle forze dell’ordine. Noi della comunità degli immigrati residenti nel quartiere denunciamo la mancanza di sicurezza e di protezione da parte delle forze dell’ordine. Le strade sono piene di delinquenti, teppisti e criminali. Siamo sempre noi gli immigrati ad essere aggrediti e impauriti dai delinquenti. Il Comitato Immigrati in Italia convoca un raduno di protesta domenica 22 gennaio alle 16 in via Serbelloni 78 Comitato Immigrati

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Catania

Un teatro dei cittadini Un antico teatro occupato, nel centro della città. Attori, artisti, il prete del quartiere, si muovono nel vecchio edificio. Qualcuno ha speranze ambiziose

A promuovere l'occupazione è la federazione siciliana delle arti e della musica L'Arsenale che, come si legge nel suo manifesto, ha «lo scopo di far emergere professionalità e di collegarle in un network, in cui siano condivise ed esaltate». Adesso, al centro di tutto, c'è un palcoscenico occupato in uno stabile rimesso a nuovo. Un palcoscenico occupato

di Salvo Catalano www.ctzen.it

Un teatro dei cittadini. Gli artisti e lavoratori dello spettacolo che hanno occupato lo scorso 16 dicembre il teatro Coppola di via Vecchio bastione 9, nel cuore del quartiere Civita di Catania, hanno questo per obiettivo: restituire uno spazio per l'arte ai catanesi. E non uno spazio qualunque, il primo teatro comunale del capoluogo etneo, quello che è stato messo in piedi nel 1821, prima che il teatro massimo Vincenzo Bellini fosse ultimato. Quello distrutto dai bombardamenti americani nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Quello che è stato ricostruito, che è diventato un magazzino e che, tra burocrazie e disattenzioni, è stato lasciato per anni al degrado.

C'è un pavimento, sul muro ci sono diversi strati di stucco e il soffitto è stato coperto di ombrelli rovesciati, rossi e gialli. Il giorno che l'hanno aperto, il teatro Coppola aveva l'aspetto di un capannone lasciato a metà. A trasformarlo in quello che è adesso, decine di giovanissimi. Alessia Elettra Campana ha 21 anni e a Catania non c'è nemmeno nata. È di Rimini, lei. Per motivi personali un giorno s'è ritrovata in Sicilia e ha deciso di restarci, di iniziarci l'università. «Faccio l'accademia delle Belle arti, mi occupo di incisioni – racconta – Ma non so ancora cosa voglio fare da grande». È presto per pensarci, «però se lo sapessi risolverei un sacco di problemi». Con una mascherina sul viso passa un pennello sul muro. «In quale altro posto mi capiterebbe di imparare a passare lo stucco su una parete», ride. In mezzo ai volontari non ha un ruolo preciso, «sono una tappabuchi, quando c'è qualcosa da fare io mi offro». Secondo lei «ogni posto ha bisogno di

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uno spazio per l'arte, alcune città, però, hanno bisogno di un intervento più incisivo». Rompere un catenaccio ed entrare in un bene pubblico abbandonato, per esempio. Al fianco di Alessia c'è una ragazza coi capelli molto ricci. Ha la carnagione chiara, un accento indecifrabile. Lei, invece, è proprio catanese. Si chiama Giorgia Coco, ha 31 anni, si è laureata in Lettere a novembre e fa l'attrice professionista. Per i suoi studi è volata a Milano e lì è rimasta per diversi anni, «lavorando un po' nel capoluogo lombardo e un po' a Modena», spiega. «Il lavoro intellettuale è molto interessante – sostiene – ma recuperare gli spazi lavorando manualmente è altrettanto importante». Del resto, «il teatro e la musica sono operazioni culturali, ma lo è anche fare un lavoro normale, operativo». Lei, dal canto suo, ha in mente uno spettacolo. «Spero sarà pronto per maggio – dice Giorgia – Sarebbe bellissimo poterlo recitare proprio al teatro Coppola». Tanto lavoro manuale Da Palermo arriva Antonio D'Antoni, 40 anni, che è un professionista del mondo dello spettacolo da 15 anni. «Professionista nel senso che mi guadagno da vivere così», precisa. Sono un musicista con faccia tosta – ironizza Antonio – cioè faccio un po' di cabaret e lavoro anche come attore a teatro». E nel tempo libero mette le mattonelle nei bagni dei teatri che i suoi colleghi catanesi occupano.


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«In fondo, basta solo mettersi in gioco con quello che ciascuno sa fare, e anche con quello che non sa fare», conclude. Marco Sciotto è un attore catanese che studia Filosofia a Roma ma recita ai piedi dell'Etna. «Faccio la spola, un po' su e un po' giù, tentando di lavorare anche nella capitale». “Studio filosofia e faccio l'attore” Fa parte della compagnia etnea Gesticolando, «che ha progettato l'occupazione assieme all'Arsenale». Per il momento, quella di Marco per il teatro è una

passione, «ma sogno di trasformarla un giorno in un lavoro che mi permetta di vivere, anche se la vedo dura». L'Italia non è un paese per attori, non è più un paese per artisti. La pensano così un po' tutti, i catanesi più degli altri. Sebastiano D'Amico, 35 anni, tecnico del suono, non è da meno. «Questa città sembra non meritare nulla», afferma con una punta d'amarezza. «Catania, se vuoi lavorare nella cultura, ti taglia le gambe – argomenta Sebastiano – Forse a qualcuno conviene che rimaniamo persone becere». E mettersi in proprio è complicato:

«Bisogna avere tanti soldi e non è un settore semplice, è un rischio e non sempre si vince». “A qualcuno l'ignoranza conviene...” Lui ci ha provato, ha messo su un piccolo studio di registrazione. Ed è l'unica cosa che lo trattiene sotto il vulcano: «Penso ogni giorno ad andare via, ma non mi va di fuggire e lasciare quello che sto costruendo».

SCHEDA TEATRO COPPOLA/ LA STORIA Nella storia del teatro Coppola, la burocrazia e le incomprensioni l'hanno fatta da padrone. Pare che gli attuali occupanti siano entrati in uno stabile per il quale i progetti erano in lavorazione. «Era il 2010 – raccontano dal Comune di Catania – quando l'assessore Marella Ferrera è stata invitata a ricordarsi del teatro Coppola da un gruppo di giovani creativi». Gli artisti in questione sarebbero gli stessi che oggi sono promotori dell'occupazione. Ma Cesare Basile, dell'Arsenale, smentisce: «È stata lei a parlarci di questo posto, ma nella primavera del 2011». In ogni caso, il progetto preliminare per il teatro risale al dicembre 2010, mentre l'inserimento nel piano triennale per un finanziamento da 1milione e 200mila euro è del settembre 2011. Fondi europei, fuori bilancio, che la Regione dovrà decidere se stanziare. Per completare la ristrutturazione di un immobile per il quale, nel 2005, erano stati già stanziati 224.702 euro. «La ditta è fallita ed ha ricevuto un pagamento di circa 170mila euro, importo equivalente ai lavori svolti», spiega il geometra Carmelo Coniglione, allora responsabile del procedimento. Dopo il fallimento della Climega Sud srl, cooperativa appaltatrice, nessun altro ha voluto prendere in mano la struttura.

Intanto era stato ultimato il teatro Sangiorgi: «L'interesse per il Coppola era venuto meno», sostiene l'architetto Aurelio Cantone, anni fa responsabile dei lavori al Coppola, che era stato destinato al Vincenzo Bellini come sala prove per l'orchestra. Ma se il Sangiorgi era pronto, che senso aveva un altro teatro in città? Dopo l'occupazione, l'interesse sul Coppola è tornato in fretta. E in tutta corsa è stato ultimato il progetto da passare al vaglio dei Beni culturali per l'approvazione. «Paradossalmente – dicono al Comune – i progettisti hanno potuto ultimare il loro lavoro solo quando gli occupanti hanno forzato il cancello, prima non si trovavano le chiavi d'ingresso». Tra Comune e artisti spunta un terzo pretendente: padre Ignazio Mirabella, il prete della parrocchia di San Gaetano, poco distante dall'oggetto del contendere. «Sono andato a fare dei sopralluoghi già nel 2010, con Antonio Scalia (ex assessore al Tempo libero del Comune di Catania, ndr) e il sindaco Raffaele Stancanelli era perfettamente a conoscenza delle mie richieste», sostiene il curato. La chiesa della zona è inagibile, e il teatro sarebbe «una manna dal cielo per i bambini e gli anziani», continua Mirabella. E il nodo da sciogliere si complica.

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Catania/ Trasporti

L'avventura di uno studente “Eh, sì. C'è solo il 432 per il Policlinico. E non è che per Scienze ce ne siano molti di più”. Siete mai saliti su un bus catanese? di Giulio Pitroso www.generazionezero.org

“Ce ne sono di due autobus che portano alla Cittadella… Anzi, io ne conosco tre, ma il terzo non mi porta fino a dove devo arrivare io, anche se passa da via Etnea” racconta una diciannovenne di Professioni Sanitarie. Occhi scuri, abissali, e riccioli biondi sulle spalle. Sotto il trucco della matita, le occhiaie raccontano una vita dai ritmi serrati. “Mi alzo alle sette ogni mattina e prendo o il 432 o il 449, raramente il 702… Non torno a casa prima delle cinque, poi dipende dalle giornate” dice lei, mentre si porta le dita ossute sotto gli occhi profondi. “Gli autobus - ora lo vedi - son sempre troppo pieni. Una volta non sono potuta salire sul primo, sul secondo neppure... Menomale che ho trovato l’altro, ma sono arrivata in ritardo al tirocinio”. Un solo bus per il Policlinico

E’ un mattino chiaro a Catania. Sono le otto e mezzo. In via Etnea gli studenti scrutano l’orizzonte con gli occhi stropicciati, aspettando che arrivi un autobus. Vecchio e malconcio, forse; anche un catorcio, purché funzioni. La maggior parte di loro deve salire su, arrivare alla Cittadella Universitaria, dove hanno sede cinque delle dodici facoltà dell’Ateneo, quelle di stampo scientifico. Tra laboratori e lezioni uno di questi studenti può rimanere fuori fino sera

Gli studenti di Medicina e Chirurgia sono tenuti a stare quotidianamente o periodicamente in ospedale, nei tempi e nei modi stabiliti dal loro corso di laurea. Il Policlinico è una delle loro mete: è raggiungibile dal centro solo con il 432, che, quindi, si riempie fino a scoppiare. Lo aspettano con impazienza, guardando ogni tanto la pelle nera della strada. C’è un sottile strato d’ansia sui loro sguardi. Lui, il bus, arriva e tutti si preparano. E’ un bisonte arancione, pieno di gente. Riusciamo a salire a malapena. Siamo uno incollato all’altro e, ogni volta che sale qualcuno, lo spazio diminuisce. Non tutti timbrano il biglietto. A qualcuno riesce fisicamente impossibile. Stiamo stretti. Troppo stretti. A tre quarti del tragitto sale su un signore calvo con gli occhiali da sole. La

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ragazza me lo indica e mi dice a bassa voce che è un tipo sospetto, una specie di maniaco. Sono parecchie le storie di maniaci sull’autobus, dice lei. Alcuni si appoggiano sulle ragazze, altri tastano. Ma è tutto molto vago, è difficile capire chi, come, cosa, quando e perché in un contesto del genere, dove tutti sono ammassati come bestiame. Cento persone (in piedi) In alto a destra, sulla porta d’ingresso, c’è un cartello argenteo, vecchio e corroso dal tempo. Dice, con molta arroganza, che la capacità del bus è di 100 persone. Un signore, vecchio e corroso dal tempo anche lui, mi spinge con una certa forza ad ogni curva; non ci vorrebbe nulla a trovarci tutti per terra, ci basiamo su un’implicita forma di solidarietà, per la quale se io non cedo e non cede colui sul quale mi appoggio, nessuno cadrà. Vecchio e corroso è anche il motore ansimante del nostro bisonte arancione, che ci fa muovere a passo d’uomo sulla ripida salita di via Santa Sofia. Non sono né vecchi né corrosi gli studenti, che vengono vomitati giù davanti a uno degli ingressi della Cittadella Universitaria e al Policlinico. Il bisonte asmatico prosegue, semivuoto. Raggiunge punti periferici, i casermoni grigi, le scritte oscene, “sbirro di medda”; raggiunge punti alti, dai quali guardare l’Etna, chiara e innevata nell’aria tersa, dai quali guardare la vastità del mare. E poi arriva in stazione, punto d’origine e fine del viaggio. L’autista, chiuso nella sua uniforme, tiene a bada i nervi, quando gli chiedo quale altra linea mi porterebbe alla Cittadella.


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“449” sbuffa lui, senza dire nient’altro, prima di sparire tra le mura arancio dei fianchi di due autobus. Il 449 è fermo, ma sta per partire. Si porta addosso una rom con un passeggino; dentro il passegino c’è un bambino piccolo con gli occi grandi e scuri. E' giovane, questa donna, sotto il fazzletto colorato che tiene in testa. Sbucca una banana al contrario, toglie le parti che non andrebbero bene per suo figlio e, con un cucchiaio, ne prende dei pezzetti minuscoli. Lo imbocca; poi, con la stessa tecnica con la quale si sbuccia una mela, ma usando il cucchiaio come coltello; intcca il frutto e ne cava altro cibo per il piccolo. L’autobus rumoreggia e i freni fischiao. Fischiano così forte, che non si sente nulla. Il motore brontola tutto il tempo, a volte ha l’asma. Ad un tratto, il bambino sembra soffocare, la madre gli fa sputare quello che gli è andato di traverso ed entambi si ritrovano sporchi. I passeggeri si guardano fra loro. Una donna bassina, imbacuccata in una sciara viola, prende dei fazzoletti e li porge alla nomade. Nessuno dice nulla. D’altonde, con il rumore che fa il bus, non si capirebbe nulla lo stesso. La signora ha l’aria di chi è o è stata madre. Lei sa. Il gesto è compiuto. Tutto ritorna come prima La gente sale, l’autobus si riempie. Il bambino si agita. Il rumoraccio dei freni SCHEDA CATANIA/ BUS E STUDENTI: LE CIFRE 12 facoltà 5 facoltà alla Cittadella Universitaria 53532 studenti complessivi (dato Miur) 49 linee complessive (dato sito AMT) 2 linee fra stazione e Cittadella

lo ha spaventato, forse, insieme alla conusione. La madre si china sui suoi occhi, sfrega il naso contro quello del figlio e lui ride. Un altro rom, salito da poco, dice qualcosa alla ragazza; lei si prepara a scendere. Muove la carrozzina con diffcoltà, passa attraverso il muro umano dei passeggeri. E alla fine sparisce. Dieci minuti dopo, un rumore assorante scoppia sul fianco destro, è uno stantuffo isterico. Si sparge nell’aria un odore nauseabondo. Il bus si svuota di nuovo. La strada ci scorre sotto i piedi. Ad ogni buca e ad ogni dosso, tutto viba, noi risaltiamo quasi su noi stessi. “Ma chi è, scuppiammu?” C’è un bambino, un bambino che semra divertito dalla cosa. Per lui è un gioco. Intanto, il cattivo odore non cessa. Lui ride. Forse è meglio così. Per il nosto pachiderma arancio il viaggio sta per finire. Una fumata bianca esce da una zona vicina alla ruota. Ci fermiamo. “Ma chi è, scoppiammu?” fa un vecchio malandrino con il basco verde. Tutti si lamentno. Restiamo tutti a terra, come dei naufraghi, a due passi dalle rocce vulcaniche Ci poteva andare peggio, non è scoppiato niente. Abbiamo la fortuna di salire su un altro bus. Questo ci riporterà in centro, forse. Nel rumore frastornante e continuo, è faile entrare in una specie di stato di trans, meditativo. Uno pensa, ecco. Pensa al perché delle cose. Nel frattempo vede un vecchio macilento che viene chiuso tra le ante meccaniche della porta d’uscita. Nel frattempo vede persone che si parlano a fatica; del resto, questo è un mezzo di trasporto, non un circolo di conversazione. Nel frattempo sale una

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ragazza, che si vuole laureare perché non vede l’ora “di andarsene da questo Paese di merda”. Uno pensa, ecco. Fin quando non deve saltare giù dal bisonte e aspettarne un altro. Alla fermata del 443 c’è una signora segnata dal tempo con la figlia, giovane nella mente, ma vecchia nel corpo. La donna-bambina si muove in continuazioe: forse per lei questo è un momento divrtente. Noi consumiamo l’ansia dell’attea. Gli studenti fuorisede tengono i trolley ben fermi, si domandano quando arriverà. Questo bus ne porta tanti di loro alla stazione. Passa? Sì, passa. “Se passa” fa qualcuno. C’è un signore che non ha capito come arrivare al tribunale e sta sulle stampelle. Ha la coppola di lana mal sistemata su una capoccia grande come un melone; nel suo accento nisseno cerca di capire cosa fare, perché lui “Catana la sa sopra e sotto, ma con la macchin”. Adesso la macchina non può prenderla, dice, perché “è complicato girare Catania con la macchina”. Sarà anche coplicato guidarla, se si è azzoppati. Facva il giardiniere, una volta. Adesso, beh,adesso, non c’è molto da fare. La signora segnata dal tempo si alza e vede in lontananza qualcosa. Tutti si muovono per vedere. No, s’è sbagliata. Il nisseno dice che non ha capito molto, che vuole che gli si spieghi il percorso della linea. La signora si rialza, dice che ha visto qualcosa. S’è sbagliata di nuovo. Ansia. “Ma arriva?” fa l’ex giardiniere. Speriamo. Ma sì dai, arriva. Ogni venti minuti ne dovrebbe passare uno. “E’ che fa un giro lungo” fa la signora. “A scola, mamma!” fa lafiglia, indicando quella che sembra una scolaresca. E ride, mentre noi aspettiamo.


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Emigranti

Una birra a Dublino Siciliani così "Qui siamo persone, valiamo un contrattodi lavoro serio". Fabio s'è laureato a Catania, in informatica. Ma ora lavora qui. “Tornerai in Sicilia?”. “Tu che ne dici?” di Giorgio Ruta www.ilclandestino.info C’è Fabio, capelli lunghi e bruni, e un posto in una grande azienda informatica. E' cresciuto a Pozzallo, cittadina marinara nel ragusano, anche se ormai la carta d’identità lo dà per residente a Dublino. C’è Silvia, palermitana, sorriso sincero, con un posto alla Google. Un sogno. Ma lungo O’ Connell strett, tra i fast food che vendono panini lerci, non si c'è l’odore di pane e panelle. Lo stesso cielo lo vede Paola, che viene da Modica, anche lei ragusana, laureata con il massimo dei voti alla Bocconi e ora un presente ed un futuro in Irlanda. E poi c’è Dario, calabrese che non rimpiange la propria terra, studente erasmus a Dublino con in tasca una triennale in Scienze politiche a Siena. Il suo sguardo la sera tornando a casa non si posa più sul lungomare di Reggio ma sfiora Grafton Strett, dove una marea di gente invade i negozi nella bolgia dello shopping. Anche Marco viene dalla Calabria e al momento vive in un freddo ma accogliente ostello. E' partito con uno zainetto È partito, con uno zaino in spalla, alla ricerca di un lavoro che gli desse un futuro: “dalle mie parti lavoro ma non posso progettarmi neanche il giorno dopo. Voglio prendere aria e per questo sono qua”. Fabio, Marco, Silvia, Paola, Dario sono i nuovi migranti italiani. Non ci sono più valige di cartone, cabine telefoniche e

gettoni. Sono gli emigranti del 2000: zaino in spalla, facebook e skype per comunicare. La generazione duemila, o forse la generazione zero. Fabio, 26 anni, lo incontriamo quando finisce di lavorare. Appuntamento al Trinity college e poi di corsa in un vecchio Pub. Gli sgabelli sono in legno e nelle pareti sono appese vecchie foto in bianco e nero. In un angolo del locale un vecchio musicista, con i baffi all’insù che sembran toccare il cielo, suona Galway girl, una vecchia ballata irlandese che scatena una danza, sciolta dai fumi dell’alcol. Fabio sorride davanti a una pinta di birra scura comincia a raccontare la sua avventura. “Io appena mi sono laureato a Catania, in informatica, ho pensato di iscrivermi a Como, in un corso che mi piaceva molto. Serviva l’inglese e allora ho deciso di passare un po’ di tempo a Dublino per migliorare la lingua”. Fabio non è più tornato e mentre il vecchio intona A whiter shade a pale dei Procol Harum confessa: “Ho tentato, così quasi per gioco, e ho mandato il mio curriculum ad alcune aziende. Una di queste mi ha chiamato, io non ci credevo, e mi ha detto di fare un colloquio”. Il colloquio era un po’ strano. Dall’altra parte della scrivania non c’era nessuno in carne ed ossa ma uno schermo con un tale a Los Angeles. Per Fabio è la svolta. Ora si occupa di sistemi antivirus ed è contento del suo lavoro. “E' impensabile che in

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Italia possa accadere la stessa cosa e soprattutto qui ti trattano con dignità. In Italia tu sei il suddito e l’altro è il tuo padrone. È una questione di mentalità – riflette Fabio -, io quando ho cominciato a lavorare ero un po’ servile, come siamo abituati a fare noi, ma poi ho capito che qui è diverso. Qui siamo persone e valiamo un contratto a tempo indeterminato”. Ma l’odore del paese non esce dalla mente di Fabio. Un rapporto quasi carnale quello che lo lega alla sua terra, come ogni buon siciliano. “A me manca tantissimo la Sicilia e a volte mi sento quasi in colpa per averla lasciata. Ma io voglio tornare e poter costruire qualcosa laggiù con il bagaglio professionale che mi sto facendo lavorando a Dublino”. Quand'era in Sicilia, Fabio... Intanto la pinta è già mezza vuota e nell’aria c’è un vecchio brano di Bob Dylan, e Fabio comincia a parlare del suo grande hobby. Appena esce “ro travagghiu” – come dice lui in maniera poco british – va a suonare con gli amici. Hanno messo su una band con la voglia di inondare le strade piene di artisti di Dublino con i propri suoni: un po’ mediterranei, un po’ irlandesi. Quand'ra in Sicilia, Fabio era il frontman di una band molto nota nel suo ambiente: gli Skaramanzia. Giù e su dai palchi di mezza Italia e un cd all’attivo. Cantavano la voglia di cambiare, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Al momento ci siamo fermati per ovvie ragioni ma io spero che primo poi ripartiremo”. Sono tante le speranze sotto il cielo d’Irlanda. Ci sono i sogni di Fabio come quelli di Silvia o Dario. C’è il cantante che suona una ballata ai migranti e un’Italia che si allontana.


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E 'appe na andat ov i a,e gi a'c imanc a. Viene da rimpiangere l'ondata di indignazione che c'era ai tempi del signor B. Perfino la violenza gratuita e cretina di "Er Pelliccia" era più generatrice di questo grigio e conformistico appiattirsi sul nuovo uomo della provvidenza, accettando per fede cieca l'assenza di qualunque alternativa. Ieri ci strappavamo le vesti quando B. mentiva alla polizia dicendo che il suo oggetto del desiderio era parente di un capo di stato, oggi stiamo tutti zitti e ci beviamo le menzogne molto più pericolose ed eversive dei sobri e rispettabili alfieri della finanza. Un esempio concreto? Roberto Sommella di "Milano Finanza", che dal salotto televisivo di Santoro ha potuto dire impunemente senza scatenare una pioggia di pomodori e uova marce che "il debito si taglia vendendo degli asset", perché dire "vendendo il patrimonio pubblico" sarebbe stato troppo maleducato. In pratica per tappare i buchi fatti dai ricchi dovremmo vendere le risorse di tutti, e fare quattrini con la Fontana di Trevi come faceva Totò, con la differenza che stavolta la vendita/truffa sarebbe legale in quanto certificata dallo stato, dai banchieri e dalle eminenze grigie della casta tecnicofinanziaria. Io però vorrei sentire anche qualcuno che pensa di dover mettere le mani in tasca ai più ricchi prima di svendere il patrimonio pubblico, magari a banche di nazioni straniere che vorrebbero conquistarci senza nemmeno perdere tempo con la guerra e altre tecniche primitive del secolo scorso. Vorrei che qualcuno si alzasse durante una di queste lezioncine televisive dei finanzieri per fare una pernacchia e dire che "le ricette neoliberiste sono una cagata pazzesca", come faceva Fantozzi alla millesima proiezione della "Corazzata Potemkin". Vorrei qualcuno

che ci spieghi gli effetti devastanti sulle economie di intere nazioni che hanno avuto le privatizzazioni camuffate da liberalizzazioni, una cura in supposte che stanno per prescriverci a dispetto di qualunque risultato referendario. Vorrei sentire qualcuno scatenarsi contro il vero tabù da demolire, che non è quello sull'articolo 18 ma il tabù della tassazione sui patrimoni e i forzieri di chi si è mangiato il paese. Vorrei che l'allievo di James Tobin di nome Mario, chiamato a dirigere l'Italia come un esecutore testamentario pagato dai parenti più ricchi del defunto, ci spieghi cosa impedisce di tassare le transazioni finanziarie, come già fanno in Inghilterra con una "imposta di bollo" del 5 per mille su ogni operazione del grande "Casinò della finanza", sempre più slegato dall'economia reale. Vorrei capire cosa impedisce di tassare le rendite finanziarie dei "paperoni d'italia" (quel "capital gain" tassato al 12,5%) tanto quanto la tazzina di caffè che beve al bar il disoccupato (attualmente tassata al 21%) e cosa impedisce di chiederci se l'economia era più o meno solida quando l'aliquota Irpef per i più ricchi del paese

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era del 72%, prima che qualcuno l'abbattesse al 43% con la scusa che la pressione fiscale scoraggia gli investimenti e quindi la possibilità di creare posti di lavoro. Peccato che i soldi risparmiati dai paperoni con questi tagli alle tasse non siano stati investiti nell'economia reale ma siano stati destinati alle speculazioni finanziarie, che sono potenzialmente più redditizie e più rapide. Ma di questo i "tecnici" preferiscono non parlare, meglio predicare il vangelo neoliberista anche se i suoi adepti poi razzolano male, e spostano sui giochi di borsa i soldi che tolgono al lavoro e alla produzione. Se io che non ho fatto la Bocconi preferendo le scuole tecniche sono arrivato a capire che i giornalisti di Milano Finanza dicono fesserie semplicemente leggendo tre o quattro libri, qual è il livello di ignoranza a cui hanno portato il popolo italiano per lanciare impunemente queste balle spaziali in diretta televisiva, e senza che nessuno si metta a ridere? Ai posteri l'ardua sentenza. Carlo Gubitosa carlo@gubi.it


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Ps i c os iC or t i na DiMar c oVi c ar i "I gay sono malati" ha detto lo psichiatra Bruno. Stringendo forte la mano di Vespa. Malinconico puntualizza sulle sue vacanze: "Ci sarebbe da pagare il Frigobar". Il sindaco di Cortina vuole i danni dallo Stato. Su un conto cifrato a Lugano.

Psicosi Cortina: Il Giornale: "Controlli a Roma". Ma risalgono all’editto di Diocleziano. I rifiuti di Napoli salpano via nave per l’Olanda. I Camorristi al porto: "Non è un addio. E’ un arrivederci". "Il sistema bancario non è a rischio" ha assicurato Monti "Continuate a portare lingotti a Lugano". La Lega non ascolta il discorso di fine anno di Napolitano. Su Italia 1 c’è Shrek. Amicizie pericolose per il Trota: oggi è stato visto mentre parlava da solo. Rincari: La benzina sale a 1,722 euro a flut. Calcio in crisi: tante le partite rimaste invendute. "Fukushima ora è sotto controllo" hanno dichiarato oggi i Pokemon.

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C api r el ' onor e Scrive Hobbes nel Leviatiano: “Obbedire è onorare, perché nessuno ubbidisce a chi si ritiene non abbia alcun potere per aiutarci o nuocerci. Di conseguenza disobbedire è disonorare.” Nel XVII secolo, il filosofo inglese colse pienamente la dimensione dinamica dell'onore, come esso si colloca nella relazione tra soggetti. L'onore ha a che fare con il potere e la tenuta delle strutture di potere; metterlo in discussione vuol dire disobbedire, scuotere dalle fondamenta quelle stesse strutture. Cosa c'entra questo breve passo tratto da uno dei testi fondamentali del pensiero politico con gli “uomini d'onore” di Cosa nostra, camorra, 'ndrangheta? C'entra moltissimo, perché rivela il loro modo di intendere il potere e di preservarlo. E ci aiuta a capire che l'onore non è solo un prodotto dell'arretratezza culturale, del familismo amorale, del tribalismo clanico meridionale. No, esso è essenziale alla creazione di una struttura organizzativa fondata sulla lealtà e sul controllo totalitario dei suoi affiliati. La mafia non è semplicemente la somma di comportamenti malavitosi, è un'organizzazione con le sue leggi. Vuole gestire un nuovo ordine, il suo, anche quando si avventura nei meccanismi della finanza e dell'economia globali. L'onore, qualcosa che ci sembra arcaico, è l'architrave di tutto questo, è l'antidoto alla disgregazione. I mafiosi temono l'anarchia più della morte. Non è quindi

solo per un vecchio retaggio culturale che l'onore è tanto importante tra gli “uomini d'onore”. Per contro, il collaboratore di giustizia, “l'infame”, è colui che disonora. E la sua testimonianza (come insegnano tutte le inchieste di mafia) è tanto pericolosa proprio perché mette in discussione quella struttura di potere. Perché – tornando a Hobbes – disonorando, disobbedisce. E disobbedendo, oltre che “sputtanando”, delegittima i suoi capi. Ciò vale anche nell'epoca delle “mafie liquide”. Anzi, proprio nel momento in cui si pongono come imperi transnazionali, le mafie più potenti hanno sempre più bisogno di onore per garantire la sopravvivenza dell'organizzazione. Alessandro Leogrande

Ne l l ' I t al i ade l2 01 2 Su un vecchio libro polveroso degli anni 70 leggo di un sistema fiscale definito "progressivo". Vuol dire che chi guadagna di più, paga tasse più alte. A quei tempi uno che guadagnava 42 milioni di lire pagava quasi 5 milioni di imposte, meno del 12%; un ricco con un reddito di 1,2 miliardi, ne dava al fisco il 42%; un ricchissimo da 6 miliardi, ne

dava più della metà, quasi il 59% . A quei tempi dovevano essere pazzi, o molto ignoranti. I nostri professori ci dicono tutti i giorni che le tasse troppo alte non aiutano l'economia e sono sono contro la libertà. Per fortuna oggi è tutto diverso. Nell'Italia del 2012 uno che guadagna 22 mila euro (le lire non ci sono mica più) paga suppergiù 4200 euro, cioè il 19,2%; chi ne guadagna 620 mila, paga 260mila euri, il 42%; chi arriva a 3,1 milioni, ne sborsa allo stato 1,326, cioè il 42,7%. Una bella differenza. E' il progresso che ha preso il posto della progressività. Lo stato, ai tempi del mio libro polveroso, da quei tre cittadini ricavava quasi 4 miliardi di lire. Con le regole di oggi, quindi col progresso, quei tre avrebbero pagato molto meno: poco più di 3 miliardi. E lo stato? Con un miliardo in meno, forse avrebbe chiesto denaro in prestito, magari a quel cittadino ricchissimo che ha pagato il 42,7% invece del 59%. Certo, versare degli interessi ai cittadini più ricchi, per avere denaro fin lì prelevato sottoforma di imposte, più che progresso pare una grande sciocchezza... Sul mio libro è scritto che fino all'82 in Italia si pagava il 72% di imposte sugli scaglioni di reddito più alti, oggi siamo al 43%. Non sarà che questa sciocchezza è un pezzo di storia del debito pubblico italiano? Ricciotti Ricciotti

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Wikipedia post mortem carlo gubitosa - mauro biani Se puoi leggere questo fumetto, devi ringraziare Giambattista Scidà, che fino all’ultimo ha sostenuto la rinascita di questo giornale per raccogliere la passione di impegno civile lasciata in eredita’ alle nuove generazioni da "I Siciliani" di Pippo Fava.

Per Scidà non ci saranno commemorazioni collettive o movimenti di piazza in suo nome. E’ il destino degli onesti che muoiono di morte naturale. Avremo poca memoria, ma buona. Per capire che direzione, che senso dare al nostro impegno guardando chi ci ha preceduto non c’è bisogno di grossi riti celebrativi, ma basterà il ricordo di Riccardo Orioles:

"per vent’anni Scidà fu fra i pochissimi che combatterono, non una volta ogni tanto ma ogni giorno, e non con mezze parole ma apertamente, il sistema di potere catanese". “Dai Cavalieri a Ciancio, dall’impresa e politica collusa alle infiltrazioni d’affari in tutti i palazzi: compreso quello di Giustizia.”


“Lui, Fava e D’Urso furono gli eroi incorruttibili di questa guerra. Giuseppe Fava lo ammazzarono nell’84. Scidà e D’Urso ne ripresero, coi suoi ragazzi, la lotta. Giuseppe D’Urso morì, di malattia misteriosa, nel ’96. Scidà dispersi i ragazzi di Fava, chiusi per la seconda volta i Siciliani - rimase solo. Dunque, dovette fare per tre”. Dal 20 novembre dobbiamo fare a meno di lui, e stavolta la sua eredità sarà spezzettata in migliaia di pezzetti, affidati a tutte le persone di buona volontà che non si rassegnano all’ingiustizia.

Il tempo della delega ai leader lascia il passo alla stagione dell’impegno individuale: ognuno di noi è chiamato a difendere quel poco di memoria che ci resta, per capire cos’è bianco e cosa nero, dov’è la giustizia e dove l’errore, chi cerca l’onestà e chi l’infamia. E allora cominciamo subito a difenderci da "Pequod76" la ’ nonimo utente di Wikipedia che sul suo profilo si definisce estimatore di personaggi come il fascista Roberto Fiore e che ha gettato fango su Giambattista Scidà a poche ore dalla sua scomparsa. Un fango di vecchia data, relativo ad accuse lanciate nel 1987 dal pentito Filippo Lo Puzzo, cadute nel vuoto perchè giudicato inattendibile perfino quando accusava se stesso. Ma il nostro "Pequod76" ci tiene a parlare dei "vizi privati di Scida’", e ritiene degne di menzione enciclopedica le dichiarazioni di Lo Puzzo su presunte molestie compiute dal magistrato ai danni di un carcerato della sezione minorenni, fatti che non hanno trovato alcun riscontro al di fuori delle parole del pentito.

Per alcuni, questo è sufficiente a gettare l’ombra di un sospetto. Per noi è sufficiente a capire che c’è gente scomoda anche da morta, e che la vigliaccheria dei fascisti e dei nemici della ’ ntimafia è in agguato anche negli angoli piu’ insospettabili della rete.


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S C A F F A L E

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CATANIA

Assaggi di Islam Il Gran Magal Magal è un termine wolof che significa rendere omaggio, commemorare e consiste in atti di gratitudine resi ad Allah. Ecco come la confraternita islamica sufi del muridismo senegalese lo celebra tra i vicoli di San Cristoforo, nella vecchia Catania di Santo Mangiameli e Sandra Quagliata I Sicilianigiovani – pag.75


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Fedeli in abiti tradizionali riuniti in preghiera sul mosaico di tappeti all’interno dei locali dell’ex mattatoio in via Zurria

Nel giorno del Magal circa tre milioni di fedeli, provenienti da ogni luogo, si riuniscono come a Touba, anche in altre città del mondo, in un momento di devozione spirituale collettiva.

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A fianco: tra le mani il Tasbeeh con i 99 nomi più uno di Allah. La ripetizione del suo Nome aiuta nella pratica sufi a dimenticare tutto ciò che non è Dio. In basso: bevanda a base di te offerta dopo il pranzo collettivo.

Nella comunità murid esistono diversi Magal ma il più importante è quello del 18 del mese lunare di Safar, il Gran Magal di Touba che commemora il viaggio reale e spirituale di Cheikh Ahmadou Bamba

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Per i senegalesi celebrare il Gran Magal nelle città in cui vivono è non soltanto un modo per sentirsi in contatto con la propria comunità religiosa, ma anche la possibilità di un ritorno in patria, un pensiero libero da condizionamenti e tutto senegalese

Il lavoro delle donne impegnate nel preparare uno dei piatti tipici della cucina senegalese a base di carne di agnello, verdure, riso e spezie.

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Un vortice di nomi, suoni, sorrisi e odori. Sentiamo vibrare i khassaĂŻd, le salmodie scritte da Cheikh Ahmadou Bamba in onore e riconoscenza di Allah

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Società

Quando Milano educa alla mafia Canzoni e film che inneggiano alla mafia nelle biblioteche rionali e all’Università Statale di Dario Parazzoli www.stampoantimafioso.it Si poteva pensare che certe cose succedessero solo in Germania, paese ancora con la testa fra le nuvole convinto della sua verginità mafiosa. Dove a promuovere la cultura italiana in un liceo di Schwerte, nel Nord Reno Westfalia, per mesi è stato il figlio di Bernardo Provenzano. Dove all’università di Bochum per parlare di ‘ndrangheta furono invitati Antonio Pelle e Francesco Sbano. Due relatori così discussi che l’opposizione socialdemocratica al Parlamento Regionale fece la seguente interpellanza: “Non ci sono esperti di mafia nel Nord Reno Vestfalia oppure come altro si spiega il fatto che un ristoratore di Duisburg, originario di San Luca e più volte citato nel rapporto della polizia federale tedesca (BKA), e un ambiguo produttore di musica della mafia, tengano lezione agli studenti dell’università di Bochum sulla natura e le caratteristiche della mafia?” Succede poi che, cercando un libro sul catalogo delle biblioteche rionali a Milano, non in Germania, ci si imbatta nel famoso cd “La Musica della Mafia” di Francesco Sbano. Primo volume di una trilogia di sedicenti canzoni popolari che inneggiano alla ‘Ndrangheta. Trilogia che contiene anche la canzone “Ammazzaru lu Generali” canzone che esalta l’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il cui figlio, Nando dalla

Chiesa, docente di Sociologia della Criminalità Organizzata, è stato recentemente nominato Presidente del Comitato Antimafia a Milano. Stesse canzoni che sono state allegate anche nel libro “Malacarne” a insaputa di celebri personaggi dell’Antimafia che hanno prestato gratuitamente dei testi da inserire in quello che credevano solo un’opera fotografica. Inutile dire che la parte musicale del libro era a cura di Francesco Sbano. Tra gli aggirati anche lo studioso Antonio Nicaso, il magistrato Nicola Gratteri, Rita Borsellino e Roberto Saviano che mercoledì 18 gennaio ha ricevuto proprio a Milano la cittadinanza onoraria. Offensivo per la Calabria Certo, non si può imputare al governo di una città appena insediato delle responsabilità sulla presenza di materiale di apologia alla mafia nelle biblioteche comunali; si spera però che si provveda alla sua rimozione e ad una maggiore attenzione nei criteri di acquisto o di accettazione, o anche semplicemente nella catalogazione del materiale, perché usare come categoria di classificazione “musica popolare – Calabria” per le musiche della mafia è semplicemente offensivo. Rientrano nel discorso anche le università pubbliche, come la Statale di Milano, la cui biblioteca del dipartimento

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di studi sociali e politici ospita il documentario “Uomini d’Onore” sempre di Francesco Sbano. Un film in cui la ‘ndrangheta viene descritta in modo romantico, stile Robin Hood, unica soluzione e alternativa contro lo Stato malvagio e assente. Dove sedicenti ‘ndranghetisti vengono intervistati su dei cavalli, incappucciati, come se fossero rivoluzionari sud-americani. C’è da chiedersi se l’educazione o la cultura pubblica, perchè non si tratta di librerie o videoteche private che entro i limiti di legge vendono quello che gli pare, debbano avere a Milano sul tema della criminalità organizzata anche Francesco Sbano come interprete. “Ho la fiducia di boss mafiosi” Una persona che racconta di avere la fiducia di boss mafiosi tanto d’aver accompagnato nella Locride un gruppo di giornalisti stranieri, una gita turistica spacciata per inchiesta, dove gli inviati hanno potuto fare foto e interviste ai boss della ‘ndrangheta canterini. Giornalisti che poi sono tornati in patria a raccontare che la ‘ndrangheta è uno stile di vita o che l’Antimafia in Italia è un circo ambulante. E' ora di iniziare ad alzare anche le difese culturali verso il fenomeno della criminalità organizzata che, senza tacito consenso e omertà, avrebbe vita breve.. Non si tratta di censurare cultura, è che proprio questa non è cultura bensì propaganda. Dove la musica popolare della Calabria viene strumentalizzata e collegata alla ‘ndrangheta, quando in realtà i valori della cultura e della musica calabrese sono ben altri. Il fenomeno testimonia l’assoluta impreparazione della società milanese.


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Economia/ L'Italia di “UniSai”

La lunga metamorfosi di Coop e Unipol C'erano una volta le istituzioni economiche (cooperative, assicurazioni, ecc.) dei lavoratori, come si diceva un tempo. Erano un pezzo di storia. Adesso salvano Ligresti di Paolo Fior

L’istituto decide a suo piacimento delle sorti dei grandi gruppi italiani come fossero semplici pedine da muovere su una scacchiera. Gruppi che sono spesso suoi debitori e ancora più spesso suoi azionisti. Del resto le due cose vanno solitamente di pari passo nel capitalismo incestuoso all’italiana che la stessa Mediobanca ha contribuito a creare a partire dal dopoguerra: un groviglio, o meglio una melassa di rapporti, relazioni, cointeressenze dove il conflitto d’interessi non solo c’è, ma è anche ritenuto virtuoso perché contribuisce a rinsaldare gli equilibri e a far crescere gli affari. Ligresti deve 1 miliardo a Mediobanca

Siamo così assuefatti che non ci facciamo nemmeno più caso, ma l’operazione di salvataggio del gruppo Ligresti riflette come uno specchio l’anormalità del nostro Paese. Un’anormalità che ha molto a che fare con la concentrazione del potere economico-finanziario (e dunque oggi anche politico) in un’unica mano, quella di Mediobanca.

Così per risolvere la crisi del gruppo Ligresti (che è debitore di Mediobanca per oltre 1 miliardo di euro e che ne è anche uno dei soci forti con poco più del 4%) gli uomini dell’istituto fondato da Enrico Cuccia hanno chiamato Unipol, il gruppo assicurativo che fa capo alle Coop “rosse” (che è debitore di Mediobanca per oltre 400 milioni di euro). Unipol si fonderà con Premafin (la holding dei Ligresti), con Fondiaria Sai e con Milano Assicurazioni, divenendo così il secondo gruppo assicurativo italiano e il primo gruppo nel ramo danni. Un'operazione di “sistema”, l'hanno definita molti benevoli commentatori; una rapina ai danni dei piccoli azionisti, hanno tuonato i (pochi) critici. Che l'operazione serva innanzitutto a garantire alle banche creditrici dei Ligresti (Mediobanca e e il suo primo azioni-

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sta Unicredit) i propri crediti non c'è dubbio alcuno, così come non c'è dubbio che l'operazione sia strutturata ancora una volta per scaricare i costi sui piccoli azionisti e sulla collettività, visto che dall'integrazione tra i due gruppi assicurativi scaturiranno ancora una volta migliaia di esuberi. Ma non è tanto questo il punto. La questione principale è che Mediobanca ha deciso di creare il secondo polo assicurativo italiano mettendo assieme due suoi debitori ed essendo al contempo azionista di controllo delle Generali, la prima compagnia italiana. In un qualsiasi Paese occidentale una cosa del genere non sarebbe neanche concepibile. Da noi invece non solo lo è (tant'è che l'operazione è già stata annunciata), ma viene addirittura applaudita come un'operazione di “sistema” e – si accettano fin d'ora scommesse – verrà ratificata dal nostro Antitrust dopo una rapida istruttoria che imporrà al nascente gruppo assicurativo Unipol-Fonsai alcune cessioni più o meno importanti. Dove finirà la concorrenza? Non verrà invece messo in discussione il ruolo di indirizzo, la capacità di influenza che Mediobanca esercita sui suoi azionisti, sui suoi debitori, sull'industria assicurativa e, più in generale, sulla finanza e l'economia italiana. Dopo un'operazione del genere, chi può ragionevolmente credere che Unipol-Fonsai farà davvero concorrenza o darà in qualche modo fastidio a


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Salvatore Ligresti

Generali? Vale la pena sottolineare che, in seguito alla fusione, Unipol diventerà un importante azionista di Mediobanca (oltre ad essere suo debitore) ereditando peraltro diversi pacchetti azionari strategici per gli equilibri del capitalismo italiano: il 5.4% di RCS Mediagroup (l'editore del Corriere della Sera), il 4,4% di Pirelli & C., la holding di Marco Tronchetti Provera, il 3% di Gemina e tanti altri pacchetti azionari in società quotate e non. Da allora sono passati anni luce Sembrano passati anni luce dall'estate dei “furbetti del quartierino”, delle scalate Rcs e Bnl, dell'”abbiamo una banca”.

Se Mediobanca oggi sdogana Unipol (e con essa la finanza “rossa” che nel 2005 aveva dato l'assalto al salotto buono) significa che qualcosa è davvero cambiato e che i “parvenue” non daranno in alcun modo fastidio al manovratore. Anzi. E sbaglia chi pensa che questa sia solo una questione economico-finanziaria: è una partita di potere e, come tale, la contropartita è (o sarà) soprattutto politica. Con il salvataggio del gruppo Ligresti si compie la lunga metamorfosi del gruppo Unipol-Coop ed anche probabilmente quella del suo partito di riferimento, il Pd, convinto sostenitore del governo Monti e delle sue liberalizzazioni. Quali

effetti politici avrà l'invischiamento di Unipol nella ragnatela di Mediobanca lo vedremo presto. E ora aumenteranno le assicurazioni Quanto agli effetti economici, possiamo dire senza timore di smentita che la formazione di un così potente cartello al vertice dell'industria assicurativa imprimerà una volta in più una spinta al rialzo dei premi, soprattutto nel settore della RcAuto (che è obbligatoria), premi che – secondo i dati Isvap - negli ultimi due anni sono cresciuti in media del 26,9% anche per chi non ha mai fatto un incidente in vita sua.

ALTRE ECONOMIE GLI ORTI URBANI La crisi picchia sempre più duro e pochi giorni fa il neopresidente della Bce, Mario Draghi, ha lanciato l'allarme sul progressivo peggioramento della situazione. Salvo colpi di scena dell'ultimo minuto, da un punto di vista economico febbraio si preannuncia come un mese ben più gelido di gennaio. Così, mentre riscopriamo le virtù della zuppa di cipolle nel far quadrare il bilancio familiare, potremmo anche pensare di fare un passo ulteriore. Quella che fino a un paio di anni fa era soprattutto una moda – coltivare ortaggi sul balcone o in appezzamenti di terra strappati al degrado urbano - a Milano sta diventando una delle possibili risposte collettive alla crisi. Il primo giardino comunitario è stato realizzato nel 2009 al Parco Trotter da volontari e abitanti del quartiere di Via Padova. Oggi se ne conta ogni mese uno nuovo. Sono esperienze e progetti di coesione sociale a costo zero, che migliorano la vivibilità della città e permettono di produrre in proprio una parte del cibo che si consuma. Da Detroit arriva un grande esempio: negli ultimi sei anni l'università del Michigan assieme a cittadini, associazioni e organizzazioni come The Greening of Detroit e Detroit Agricolture

ha dato vita al Garden Resource Program, il programma che ha via via trasformato l'aspetto della città e la sua economia: dal 2004 al 2009 si è arrivati da 80 a 875 tra orti e giardini coltivati ed è nato un marchio - “Grown in Detroit” - che identifica le produzioni agricole cittadine di eccellenza. Nato come progetto per mitigare la sofferenza di una città che ha visto più che dimezzare la popolazione (da quasi 2 milioni a circa 900mila abitanti) a causa del declino industriale, si è presto trasformato in un volano della crescita. Oggi Detroit attira investimenti milionari nell'agricoltura urbana, sta creando posti di lavoro, ha fortemente ridotto degrado e criminalità urbana e si è posta l'obiettivo di coprire con le coltivazioni urbane il 75% del fabbisogno cittadino di verdura e il 40% del fabbisogno di frutta. E se funzionasse anche da noi? Per saperne di più: http://greeningofdetroit.com http://detroitagriculture.net www.umich.edu

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MONETA ELETTRONICA

On the road col bitcoin xxxxxx xxxxx A qualcuno è venuta l'idea di fare il classico coast-to-coast negli States senza un dollaro in tasca, solo con moneta elettronica. Proviamo ad accompagnarlo? di Fabio Vita

Ancora sulla strada. Non sarà la Old Historical Route 66, ma è sempre una traversata costa a costa. In queste strade così rettilinee per chi viene dall'Europa, dove si può indifferentemente superare a destra o a sinistra: ma i limiti sono ferrei, non come in Germania, con autostrade senza limiti di velocità o la lotteria delle multe come in Italia. Costa a costa si diceva, questa volta senza soldi nè cibo nè carburante, usiamo solo i bitcoin - una moneta elettronica calcolata come le sue transazioni con la potenza di tanti computer connessi in rete - per tutte le spese del viaggio il BitcoinRoadTrip.

Accompagnamo Plato, ideatore e protagonista di questo viaggio, una persona comune, ma convinta che basti poco a cambiare profondamente le cose; lui si definisce un po' enfaticamente su Twitter “un sovversivo che combatte le ingiustizie a San Francisco”. In viaggio dal Connecticut a Los Angeles, passando da New York, Washington, Petersburg, Durham, Charlotte, Atlanta, Austin, Denver... l'America di Philip Dick, di Kerouac, di Burroughs. In cerca di carburante, di compagni di discussione, e di divani lungo le città del viaggio, abbiamo incontrato gente entusiasta e incuriosita; abbiamo incontrato gente entusiasta e incuriosita; negli Stati Uniti il denaro assurge a qualcosa di sacro, qui la povertà è un infamia. Il denaro in ogni sua forma - le banche, l'oro - fa brillare gli occhi. Qui da noi nello Utah... Ma quando si paventa o si spera che il sistema cambi o crolli, anche qui, come i russi di cui parla Dostoevskij, davanti all'incendio la gente s'immobilizza profondamente affascinata. Alcune frasi confuse, raccolte a caso, per lo più fra nerd, ma anche fra gente comune: “Qui da noi nello Utah il governatore vuole monete d'oro”. “Bitcoin? Anche qui ho paura dei monopoli. Ci sono quelli, come i cambiavalute e i gruppi per “minare” la moneta, che riescono ad accumulare ricchezze faraoniche rispetto alle briciole degli altri.

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“I 1600 miliardi di dollari dati da Bush alle banche” “Ecco perché quello che chiamano crisi gli è esploso in faccia: le banche saranno fallite per la finanza tossica, ma anche nel prendersela con la propria gente; pignorare talmente tanti immobili da far crollare il valore della casa... Non poteva essere rieletto questo è stato il suo colpo di coda” “In Usa le multinazionali non pagano tasse. Vedi le tasse a forfait di Amazon in California. O Romney, il milionario mormone candidato alla presidenza, che da favorito è stato acciaccato dal rivelare nei dibattiti di pagare il 12% di tasse”. “Tenteranno di rendere illegale anche il bitcoin”. “Semmai c'è Tor, il sistema per rendere anonimi gli utenti, quello sviluppato dalla Us Navy. O i Virtual Private Network, che usano un intermediario impegnato a non rivelare i dati degli utenti. Pensa al Pirate Party svedese”. “Vedi come ne parlano i giornali, del bitcoin, ne hanno una paura fottuta”. “I giornali economici l'hanno preso sul serio”. “L'interesse sembra si sia scatenato per lo scenario tendenzialmente deflattivo del bitcoin” “Il Nobel per l'economia Krugman, da buon neo-keynesiano, ha messo in luce che se la ricchezza prevista del bitcoin è sempre crescente non verrà utilizzato per commerciare ma per conservarlo... lo scenario deflazionistico dell'oro, contrapposto allo stampar moneta”.


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“C'è il vecchio Ron Paul a parlare di bitcoin” “Che gli Occupy Wall Street facciano perdere la rielezione a Obama come gli Indignados in Spagna con Zapatero mi sembra strano”. “Difficilmente sarà visto diverso da Wall Street dagli elettori contadini. E poi, mentre lui dice di voler smussare il Patrioct Act il suo partito vuole approvare il Sopa e il Pipa (antipirateria e controllo degli utenti - ndr) ”. “Hanno chiuso Megaupload” “I federali hanno chiuso Megaupload (il tredicesimo sito più trafficato al mondo, con servizio di file sharing e anche streaming, à la Youtube) lo stesso giorno in cui i promotori di Sopa e Pipa annunciano un passo indietro, visto che i candidati repubblicani erano preoccupati e Obama minacciava il veto". Sulla strada per Bose, ci fermiamo in una stazione di servizio già vista nei romanzi. Una ragazza grassa e molle. Flemmatica e sudata porge la tazza facendola scorrere sul tavolo. Venderanno più birre che colazioni? No, più facilmente avrà lavo-

rato dietro un altro bancone, di birra invece che di torte e caffè. - Salve, siamo qui per l'offerta Groupon; vorremmo pagare in bitcoin - Bene, allora avete il tre per cento di sconto, siete qui per la peperonata di cozze? Così diceva l'insegna viola lampeggiante: Torte da Eddy. Plato era seduto a un tavolo da dieci minuti, assonnato ma attivo, intento ad armeggiare col materiale elettronico di routine, un netbook e un Android come modem... - 'Giorno, Plato - Una voce di ragazza lo fece sussultare. La cameriera di Eddy, piccola e con gli occhi neri - State già sognando a occhi aperti così presto? “Dato per morto dopo la bolla” Il bitcoin, dato già per morto dopo la bolla estiva (3-4 dollari a maggio, quasi 30 dollari in estate, di nuovo 3 a ottobre) ha chiuso l'anno a 7 dollari, 1400 percento più dell'anno prima, quando si partiva da briciole di cent. Il valore dell'oro sul dollaro intanto è passato nel 2011 da 1300 a 1600 dollari l'oncia. E mentre rivediamo il percorso su

LINK Il percorso del viaggio su Google maps: Bitcoin/ dollaro +1473% : Wikimedia:

http://www.economicsjunkie.com/bitcoin-usd-finishes-2011-up-1473-percent/

http://en.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Wikipedia_Signpost/2012-01-09/News_and_notes

Virtual Private Network: Tor:

http://tinyurl.com/3qnt5u2

http://it.wikipedia.org/wiki/Virtual_Private_Network http://it.wikipedia.org/wiki/Tor_%28software_di_anonimato%29

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Google Maps, pianificando un viaggio non virtuale, ecco che qualcuno lo sta facendo davvero, il giro del mondo in bitcoin. E magari in questo momento, in qualche drugstore del Colorado, sta parlando di noi, dell'Italia. E forse qualcuno dice: “In Italia...” “Anche in Italia è così, la sinistra invece di far politiche di disavanzo a favore di scuole, ospedali, servizi pubblici, regala persino acqua e monopoli naturali ai privati e mette piccole pezze al bilancio. La destra...". Il vociare si moltiplica, non si fanno impressionare dai politici italiani in sè, ma dal fatto che non si dimettano quando c'è un “scandalo”, un somethingate: questo ai loro occhi dimostra che l'Italia non ha burocrati adeguati. E gli scudi fiscali che premiano i ladri (tassando al 5, o in realtà all'1 per cento, ciò che andrebbe interamente recuperato se illegale, o tassato al 40 come in Usa o Germania) secondo loro vuol dire semplicemente che l'attività produttiva in Italia è ormai intesa come un hobby sostanzialmente estraneo all'economia reale..

Saperne di più La moneta elettronica/ Tutto sul bitcoin


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Giornali strani

Quando Il Male incontra I Siciliani giovani «Eravamo orfani di un giornale di satira diretto da chi la fa. E siamo tornati per raccontare questa Italia, senza censure». Parola di Vauro e Vincino di Norma Ferrara

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“Stanno per arrivare”, dice Maya del “Male”. Siamo nella stanza, un po’ buia, nascosta fra i palazzi del centro storico di Roma e provvisoria sede del mensile di satira, politica e attualità, rifondato trent’anni dopo il primo numero da Vincenzo “Vincino” Gallo, Vauro Senesi e Lillo Venezia. Quando arrivano, Vauro e Vincino, l’atmosfera si fa subito scanzonata. E così i “Siciliani giovani” incontrano “Il Male”. Un doppio ritorno e una conoscenza che passa attraverso alcune coincidenze. “Oh, sia chiaro eh” - Vincino dixit noi non vogliamo rifare il vecchio Male?! “No, no, sia chiaro, nemmeno noi “I Siciliani”, rispondiamo”. E allora perché siete tornati, com’è nata l’idea di far nascere il mensile? «L’idea non è mai morta – fa Vauro - l’abbiamo sempre coltivata è stata una lunga gravidanza. E mi sembra che il pupo goda di ottima salute!». «Eravamo orfani di un giornale di satira da tanto tempo, diretto dagli autori – commenta Vincino. E l’abbiamo fatto. Per raccontare questa Italia, con il disegno, senza limiti di nessun genere o censure preventive». A sentirli parlare non sembra di vivere nel paese in i giornalisti occupano le redazioni che stanno per chiudere (Occupy Li-

berazione) e Soru vuol scaricare L’Unità. Vincino, fumettista siciliano, incalza: «C’è sempre stato lo spazio per una rivista di satira in Italia, poi è chiaro che quello spazio bisogna saperlo gestire. Noi ci conquistiamo la nostra vita ogni settimana in edicola, ma: non vogliamo dipendere da nessuno. Nemmeno dai lettori!». Come, nemmeno dai lettori? «No – prosegue Vauro - questo non è un giornale ruffiano, nemmeno con loro. Sappiamo che pubblichiamo cose che ad alcuni possono suscitare fastidio (negli ultimi due numeri, effettivamente ...) ma la missione della satira è questa: raccontare il Paese con un linguaggio non convenzionale, non conformista. Stiamo vivendo un periodo fortemente appiattito. C'è un Salvatore della Patria e non va disturbato: insomma, non parlate al conducente. La politica si è nascosta dietro questo governo di tecnici, che tecnici non sono perché fanno scelte politiche, come ogni altro governo». “La politica si è nascosta” Il semplice fatto di avere un presidente del Consiglio che non tocca tette e culi ci fa stare tranquilli. «Ma in cambio tocca le pensioni! - fa Vauro». La satira guarda prima al potere, spiegano. E dopo al resto. Sono i giorni della tragedia della Concordia. «Siamo stati declassati di nuovo fa Vincino - lo sai?». No, rispondo. «Eh, dopo le tre B, abbiamo le tre C, Costa Concordia Crociere». Questa la fai per il prossimo numero, rilancia Vauro. «Si, si la faccio e va bene, la faccio». Bene, abbiamo un’anteprima. Ma parlare del naufragio così? «In molti diranno che è di cattivo gusto ma noi dobbiamo avere il coraggio del cattivo gusto. Tanto più se il cattivo gusto è di chi i morti li fa e non di chi li racconta». Schettino? «No, vedi. Il punto è che in questi giorni hanno dato tutti addosso al comandante; prima avevamo quel Berlusconi, oggi Schettino con cui prendercela. Ora la colpa è tutta sua. Ma la verità è che il 95% dei dirigenti di questo Paese ha le caratte-

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ristiche che sono state attribuite in queste ore al comandante della Concordia». E di questo non ne parliamo quasi mai. O meglio se n’è parlato poco ma negli ultimi vent’anni ma qualcosa sta cambiando. Il web è un flusso continuo di inchieste, informazioni, scoop e citizen journalism. Sono in edicola nuovi giornali come il “Fatto”, siete tornati voi. Siamo tornati, nel nostro piccolo, noi “Siciliani giovani”. Che succede nel giornalismo? “Ma se racconti le cose...” «C’è un bisogno di informazione, anche di satira, che comincia a rappresentare anche se stesso. Se viene riscoperto il gusto di raccontare, ne vedremo delle belle – sorride Vauro». «E’ vero c’è la crisi dell’editoria – continua Vincino – ma se tu racconti le cose, se fai inchieste, se vai a fondo, il lettore ti segue e le cose possono cambiare. Vedi il caso Malinconico: quelle intercettazioni erano nelle mani dei giornalisti da due anni ma c'è voluto u n giornale senza fondi pubblici per pubblicarle e far dimettere colui che era a capo dei fondi all’editoria». Vincino e Vauro hanno raccontato anche di mafia e di guerre, che poi (dice Vauro) “sono la stessa cosa” e sono stati militanti di Lotta continua. Mettiamo il naso nel passato: è andata com’è andata, va bene... ma cosa manca oggi degli anni di Lc? Vincino: «Fare politica per passione». «Concordo - chiosa Vauro – allora eravamo appassionati. Credo oggi manchi anche un po’ la fantasia. In quegli anni riuscivamo a immaginare una società diversa e cercavamo di costruirla. Oggi la politica è una riunione di condominio, gestita da un pessimo amministratore. Non c’è nessun sforzo di pensare che possa esistere una società diversa da quella che c’è. Quando invece è possibile». Fantasia e passione. Suona un po’ come l’augurio del “Male” ai “Siciliani giovani”. Noi ce lo prendiamo, non si sa mai.


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Ironie della storia

E il Male conquista la Dc di Calogero “Lillo” Venezia

Il suo ritorno era auspicato dai più, mentre i meno sono rimasti paralizzati dalla potenza di fuoco dell'esercito de Il Male. Il Male di Vauro e Vincino, ma anche di Perini, Jacopo Fo, Pasquini, Liberatore, Scozzari, Jiga Melik, Cinzia Leone et del sottoscritto, con la benedizione Urbi et Orbi del Papa, ha intrapreso una lunga, si spera, strada impervia con salite e discese che dovranno essere affrontate con determinazione e scioltezza. E non dimentichiamoci di Angese e di Andrea Pazienza, superbi protagonisti della prima edizione nel secolo scorso, dal 1978 al 1982. Lo spirito maligno e cattivo ma nello stesso tempo buono è lo stesso: graffiare, sputtanare, prendere in giro, stracciare le vesti, fare educazione sessuale, invitare in particolare modo ad usare i preservativi (lo diciamo noi, visto che la Rai aborrisce il termine, e lo stesso fanno le scuole), ma anche prendere sul serio la quotidianità della vita scarna e miserrima di tutti noi. La veste grafica è cambiata, il formato è più agile, 52 pagine a colori con tante storie fumettate e vignette. Poche le inchieste scritte. Una edizione diversa, al passo con i tempi, con i problemi di questo secolo. Diciamocelo, siamo degli sfigati in Italia. Non si può corrompere, non si può essere corrotti, non si può evadere, dichiarare il falso, soprattutto nel bilancio,non si può essere bugiardi. Noi vogliamo essere tutto il contrario. Nella prima edizione del settimanale, abbiamo colpito duro la DC, il PCI, il PSI, insomma un pò tutti i partiti, i loro rappresentanti, i potenti a loro legati. Abbiamo stigmatizzato duramente le Brigate Rosse, quelle Nere, abbiamo fatto i delatori spiattellando a tutto il mondo la cartina del supercarcere di Piacenza, ad esempio, o piuttosto l'identità del capo

delle BR, mostrando le foto dell'arresto avvenuto mentre pranzava - Ugo Tognazzi (grande)-; abbiamo sbeffeggiato i giornali con le false testate dei principali quotidiani italiani; abbiamo inaugurato il busto di Andreotti Giulio sul colle del Gianicolo, alla presenza di Roberto Benigni e di un centinaio di poliziotti in assetto vacanziero, guidati dal commissario Popò. Io stesso ho editato un falso del giornale La Sicilia, all'interno de Il Male, annunciando a toto mondo che Gheddafi si era comprato Catania per una cifra difficilmente scrivibile e da dire, mettendo a capo un visir di sua fiducia e cmq conosciutissimo a Catania per intrattenere rapporti con la Libia. Era l'anno 1982, editato in tempo prima della chiusura. Questi alcuni cioccolatini che Il Male ha dispensato nella prima edizione. Nell'edizione di questo secolo... Nella edizione di questo secolo, anno di grazia 2011, mese di Lucia, ottobre, dopo alcuni esperimenti, ovvero numeri zero, esce il numero tanto desiderato della nuova era. Nel frattempo sulla rete 4 digitale della Rai, ogni martedì va in onda il Cabaret de Il Male di Vauro e Vincino, un quarto d'ora esilirante che racchiude in sintesi il numero in edicola e altro ancora. I bersagli: quelli della prima edizione, riveduti, corretti e adattati però al Porcellum. Non c'è più la DC, e questo ci dispiace, non c'è più il PCI, a me personalmente dispiace, non c'è più il PSI e francamnete non se ne sente la mancanza, non esistono più i partiti satelliti, ma in cambio abbiamo il Berlusca, il Bersani, il dito medio Bossi, la Lega rozza e cafona, la Santa/chè, la tap model Giorgia Meloni detta la desparecida di Garbatella-, i giornali di famiglia, quelli dei parenti, il muso

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a topo di Gasparri ed altro. Un bel e grande lavoro ci aspetta. Già alcuni obiettivi li abbiamo raggiunti: abbiamo defenestrato Berlusconi, dopo appena un mese dalla nostra uscita. Di conseguenza abbiamo sfrattato la Santa/chè, che pare abbia lasciato il brutto Sallusti per via che se la faceva con la Meloni, dal ministero dello Sviluppo Economico (ed anche dal ristorante vicino al ministero in cui vado a mangiare), la Meloni, che in verità è simpatica per via della sua parlata romanesca, la Gelmini dall'intelligenza lungimirante come il tunnel dei neutrini, la Carfagna, di cui però ci mancano già i suoi grandi e spiritati occhi, la Brambilla ed i suoi tours turistici, Frattini, che mi hanno detto, ora è a capo della sezione Cretini del PDL e così via. Il resto senza mancia, perchè sono pure tirchi. L'altro obiettivo raggiunto, l'occupazione, senza se e senza ma, dello storico Palazzo della Dc in piazza del Gesù. Senza colpo ferire abbiamo raggiunto il primo piano ed abbiamo piantato la bandiera nel palazzo di chi era nostro nemico. Che emozione entrare in quelle stanze dove si sono aggirati i grand commis democristiani. Si sentono ancora i passi di De Gasperi, se non di Andreotti o di Fanfani, Piccoli e Gava, Zaccagnini. Che emozione, mi ritornano in mente i cortei che passavano da Piazza del Gesù, e noi, all'unisono, come nelle parate militari, giravamo la testa a sinistra, alzavamo il pugno in aria, e si gridavano slogans, insulti. cenni ad ombrello o segni con due dita, corna, o quant'altro di verbale e figurato ci si poteva inventare e dire. Finalmente la DC è IL Male. Ciò lo crediamo di buono auspicio per conquistare il mondo, editorialmente parlando. Un augurio che faccio anche a Siciliani Giovani.


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Musica

Patologia di una decadenza: da Tatum ad Allevi Di solito i giornali “impegnati”, quelli seri, non hanno una rubrica musicale, e se talvolta accennano all’argomento ne limitano l’interesse a quella di estrazione classica... di Antonello Oliva

Ultimamente bisogna dire che anche il jazz qua e là trova spazio tra le righe, magari per parlare di Bollani, Rava, Jarrett o Miles Davis, un po’ meno di Art Tatum, Ben Webster o Wayne Shorter. Perché succede questo è forse un po’ complesso spiegarlo in poche parole, ma diciamo che fattori come l’ignoranza e il condizionamento culturale giocano ruoli tutt’altro che secondari. Ignoranza è una parola forte e il tono potrebbe anche apparire sprezzante, ma se si pensa che Nina Simone è stata conosciuta in Italia grazie a uno spot pubblicitario di Chanel… A proposito di pubblicità, piccolo inciso, anche Giovanni Allevi, niente a che vedere con Nina Simone, ma definito dai media “la reincarnazione di Mozart”, ha beneficiato di uguale destino, e venduto milioni di dischi a destra e sinistra grazie a una seducente pubblicità televisiva. E sempre a proposito di Allevi e delle altre cose cui si accennava prima, mai sentito nulla di un certo Wim Mertens? Chiusa parentesi. Perché nei giornali “seri” non si parla di musica o al più solo di quella classica? Il flauto di Ulm, il più

antico strumento musicale finora rinvenuto, risale a 35.000 anni fa. Prima di allora, chissà quanto prima, probabilmente ci si limitava a strumenti percussivi o alla riproduzione con la voce dei suoni della natura. 35.000 anni fa, presumibilmente, i nostri antenati producevano una varietà di attività mentali di quantità inferiore a quelle prodotte adesso, ed è opportuno supporre, per lo più asservite a funzioni basilari. Cibarsi, difendersi, procreare, e così via. Tra queste però c’era già la musica, che forse non serviva per mantenersi in vita, ma per crescere. Perché abbiamo inventato la musica? Rimane un mistero perché la nostra natura abbia fatto ricorso alla musica, ma questo è, e a prescindere dalla distinzione tra colta e popolare. La musica, come il cibo, anche se non così legata alle capacità di sopravvivenza, è evidentemente un bisogno della razza umana, e come il cibo, non deve solo rispondere a requisiti quantitativi, ma anche qualitativi. Non sappiamo neppure perché si faccia

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ricorso alle metafore, ma ne conosciamo l’importanza. E la musica cos’è se non metafora o iperbole? Realtà virtuale. Naturalmente non bisogna dimenticare che si tratta di un linguaggio, e come tale soggetto a capacità di interpretazione, ma questo non rappresenta un limite, e sta nell’ordine naturale delle cose. Il punto allora potrebbe essere: a distanza di 35.000 anni nell’uomo è venuto meno il bisogno di musica? Ma la risposta appare talmente ovvia che evidentemente la domanda da porsi è un’altra: di che musica abbiamo bisogno? Naturalmente non è ipotizzabile una soluzione unica, ma va individuata singolarmente, come il fabbisogno energetico, culturale, etc… di ognuno di noi. E allora forse è a questo punto che cominciamo ad avvicinarci al vero problema. Chi gestisce la fornitura musicale? In base a cosa opera le scelte? E queste scelte sono funzionali al nostro bisogno di crescita? Le risposte stavolta sono facili: chi gestisce sono società, imprenditori, manager, le scelte sono operate in base alla risposta economica, e quindi non hanno alcuna corrispondenza con i


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nostri bisogni, gli stessi che ci hanno spinti molti anni fa a costruire il primo flauto. Non è una novità perché tutto ormai funziona così, ma sarebbe quantomeno auspicabile prenderne atto, averne coscienza, in modo da capire almeno perché ad esempio Fabio Fazio conceda ampio spazio nel suo talk show televisivo trasmesso in prima serata da Rai 3 all’ultimo disco di Tiziano Ferro, definendolo “interessante”, e quasi nessuno sa invece dell’esistenza di un CD che si intitola Alavò, la Sicilia nei canti della naca (pubblicato anni fa dall’ottima etichetta palermitana Teatro del Sole). La musica è anche intrattenimento, e anche in questa forma le va riconosciuta dignità, ma se viene limitata a questa sola funzione, da qualche parte in noi si manifesta un decadimento, una mancata crescita, un impoverimento delle aspettative, e altrove, ben lontano da noi, la solita grassa corsa al profitto che tutto muove e tutto spiega. Compreso forse il motivo per cui anche nei giornali “seri” non si parla di musica.

SCHEDA

Joachim Kühn Free Ibiza Out Note Records OTN 012 Genere: Jazz

Terminologia non vuota questa, ma che perde di interesse quando a essere toccate sono altre corde, quelle più profonde e nascoste di cui non conosciamo esattamente il nome. In questi casi diventa Un disco di solo piano jazz, nonostante la difficile parlare di un disco in quei termini, bellezza intrinseca dell’argomento, non e non idonea la sapienza critica. In altre sempre riesce a far scattare all’ascolto parole diremo allora che Joachim Kühn in quel senso di coinvolgimento tale da quest’opera è riuscito a toccare vertici di spingere oltre un pur notevole apprezza- interiorità impressionanti, facendoli mento. Spesso i pregi di cui ci si gratifica emergere in totale e indifesa libertà. E ne è sono la raffinatezza del tocco, la fantasia, venuto fuori un ritratto crudo, complesso, la particolare interpretazione del pianista, commovente, e di rara bellezza e ricchezza la perizia tecnica, l’ispirazione. musicale.

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Scienze

L'eredità scientifica e tecnologica di Archimede Una centrale solare Enel intitolata al grande siracusano, a Priolo. Che c'entra uno scienziato di duemila anni fa con le tecnologie di ora? (E perché l'Enel è così scorbutica con chi le scrive?) di Diego Gutkowski

Il 14 luglio 2010 l’ENEL annunciava l’inaugurazione a Priolo della centrale solare termodinamica “Archimede”, prima al mondo a usare la tecnologia dei sali fusi integrata con un impianto a ciclo combinato (http://www.enel.it/it-IT/media_investor/comunicati/release.aspx?iddoc=1634857). Alla cerimonia, insieme all’AD e Direttore Generale ENEL Fulvio Conti, erano presenti, tra gli altri, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare Stefania Prestigiacomo, il Presidente della Provincia di Siracusa Nicola Bono, il Sindaco di Priolo Gargallo Antonello Rizza. Le funzioni esercitate dalla persona summenzionate si riferiscono al 14 luglio 2010. Secondo il comunicato dell’ENEL : - la centrale Archimede è la prima al mondo ad usare i sali fusi come fluido termovettore ed anche la prima al mondo a

integrare un ciclo combinato a gas e un impianto solare termodinamico per la produzione di energia elettrica. - “Archimede” è in grado di raccogliere e conservare per molte ore l’energia termica del sole per poterla usare per generare energia elettrica anche di notte o quando il cielo è coperto. In questo modo viene superato il limite tipico di questa fonte rinnovabile: il fatto di poterla usare solo quando la natura la rende disponibile. Il solare termodinamico è una tecnologia che utilizza una serie serie di specchi parabolici per concentrare i raggi del sole su tubazioni percorse da un fluido. Questo, raccolto in appositi serbatoi, può essere utilizzato per alimentare un generatore di vapore. - Il vapore ad alta temperatura e pressione muove le turbine dell’adiacente centrale a ciclo combinato e produce energia elettrica quando serve, risparmiando combustibile fossile. - La speciale tecnologia utilizzata nell’impianto di Priolo è stata sviluppata dall’Enea. - I sali fluidi utilizzati sono composti da una miscela di nitrati di sodio e potassio che hanno la proprietà di accumulare il calore per tempi prolungati. - La capacità dell’impianto solare centrale è di circa 5 MW di energia elettrica, con un risparmio all’anno di 2.100 tonnellate equivalenti di petrolio, riducendo le emissioni di anidride carbonica per circa 3.250 tonnellate. - L’impianto solare termodinamico è costituito da un campo composto da circa 30.000 metri quadrati di specchi (collettori parabolici) che concentrano la luce del sole su 5.400 metri di tubazioni percorse dal fluido. L’energia termica raccolta produrrà vapore ad alta pressione che, convo-

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gliato nelle turbine della centrale, consentirà la produzione riducendo il consumo di combustibile fossile e migliorando, di conseguenza, le prestazioni ambientali dell’attuale impianto a ciclo combinato. - I collettori solari (specchi parabolici e tubi ricevitori), assieme ad un generatore di vapore e due serbatoi per l’accumulo termico, uno freddo e uno caldo, formano la parte solare dell’impianto. - In presenza del sole, il fluido termico prelevato dal serbatoio freddo viene fatto circolare attraverso la rete dei collettori parabolici, viene riscaldato a una temperatura di 550 gradi e immesso nel serbatoio caldo. L’energia termica viene così accumulata. Da qui viene prelevata per produrre vapore ad alta pressione e temperatura, che viene inviato alla vicina centrale ENEL, a ciclo combinato dove contribuisce alla generazione elettrica. - In questo modo la centrale può produrre energia elettrica in ogni momento della giornata e in qualsiasi condizione meteorologica fino all’esaurimento dell’energia immagazzinata. - L’impianto è chiamato “Archimede” per gli enormi specchi parabolici in fila per “catturare” i raggi del sole, che ricordano gli “specchi ustori” di Archimede con i quali lo scienziato avrebbe incendiato le navi romane che assediavano Siracusa durante la guerra punica del 212 a.C. Ma l'Enel non risponde Il comunicato dell’ENEL recava come allegato un file in formato PDF che conteneva per le relazioni con i media l’indirizzo e-mail ufficiostampa@enel.com al quale il 7 gennaio 2012 ho inviato la seguente e-mail:


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“Spettabile ENEL, l’11/12/2011 è uscito il numero 0 del mensile I Siciliani Giovani (http://www.isiciliani.it) . Il direttore del mensile mi ha chiesto, ed io ho accettato, di curare una rubrica di Scienza e Tecnologia. Il mio primo servizio è stato pubblicato a pag. 84 del numero 0. Per il prossimo numero vorrei preparare un servizio sull’eredità scientifica e tecnologica di Archimede. In questo servizio vorrei tra l’altro parlare della centrale solare Archimede di Priolo. Per realizzare questo scopo Vi sarei grato se poteste fornirmi informazioni successive al Vostro comunicato stampa del 14 luglio 2010 dal titolo ENEL A PRIOLO INAUGURA LA CENTRALE “ARCHIMEDE” (http://www.enel.itIT/mediainvestor/comunicati/release.aspx ?iddoc=1634857). In particolare, se Vi è possibile, gradirei informazioni su ciò che ha insegnato l’esperienza compiuta nei circa 17 mesi trascorsi dalla emissione del comunicato citato. Inoltre, se potete, Vi prego di farmi avere materiale grafico, quali disegni, grafici, foto e simili, consentendomi di poterli utilizzare a mio giudizio nel servizio, citando ovviamente la fonte e doverosamente ringraziando chi mi ha fornito il materiale. Confidando nella Vostra comprensione, Vi ringrazio e Vi invio distinti saluti, Diego Gutkowski” Fino ad oggi, 18 gennaio, non ho ricevuto alcuna risposta e non sono in condizioni di fornire ai lettori informazioni sul funzionamento della centrale “Archimede” relative al periodo successivo al 14 luglio 2010, giorno dell’inaugurazione. Pur con questo limite l’importanza della notizia è evidente, se non altro come testimonianza di un impegno per la ricerca di fonti energetiche alternative, rinnovabili e non inquinanti. Gli specchi in fila Vediamo ora perché la centrale “Archimede” è legata all’eredità scientifica e tecnologica di Archimede (Siracusa 287 a.C.- Siracusa 212 a.C.). Una prima indicazione si può trovare nel comunicato dell’ENEL riportato sopra, là dove sta scritto: “L’impianto è chiamato Archimede per

gli enormi specchi parabolici in fila per “catturare” i raggi del sole, che ricordano gli “specchi ustori” di Archimede con i quali lo scienziato avrebbe incendiato le navi romane che assediavano Siracusa durante la guerra punica del 212 a.C.”. Ma Archimede incendiò le navi? L’uso del modo condizionale dove è detto che lo scienziato avrebbe incendiato le navi romane è opportuno, infatti oggi la maggior parte degli studiosi ritiene che questo evento non sia storicamente provato, perché le testimonianze storiche più antiche che ci sono pervenute non ne fanno menzione ed inoltre perché sembra improbabile che Archimede disponesse degli strumenti necessari per costruire specchi ustori di dimensioni tali da poter incendiare a distanza le navi. Pure Apuleio, vissuto nel secondo secolo d.C. e oggi noto principalmente per aver scritto “ L’asino d’oro “, scrive di un’opera di Archimede, oggi perduta, intitolata “ Καταοπτριkά ” (in Italiano Catottrica) nella quale, tra l’altro, si trattavano la riflessione su specchi curvi e gli specchi ustori (si veda ad es. su Wikipedia la voce Archimede ). L’esistenza della Catottrica di Archimede è attestata anche da altri Autori antichi e oggi è ritenuta certa. Ritengo perciò molto probabile che Archimede abbia studiato gli specchi ustori e conformemente al suo “bernoccolo” di fisico sperimentale oltre che teorico, ne abbia realizzati, anche se non di dimensioni tali da potere incendiare le navi romane. Peraltro, insieme con persone che ne sapevano molto più di me, come per es. Giambattista Vico, ritengo che anche le fantasie, quando non nascono col solo proposito di ingannare, debbono avere in misura non nulla un contenuto di verità. Per spiegare la funzione che hanno gli specchi parabolici menzionati nel comunicato dell’ENEL darò fra poche righe una definizione di “arco di parabola” e quindi descriverò una sua proprietà. La parabola è una curva piana, cioè giacente in un piano, che fa parte di una famiglia di curve piane che si chiamano “sezioni coniche”. I principali risultati relativi alle sezioni

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coniche nel paradigma della matematica degli antichi greci sono dovuti ad Archimede e ad Apollonio di Perga ( Perga 260 a.C.- Murtina 190 a. C.). Fin dai tempi prossimi a questi due matematici alcuni Autori greci hanno scritto che certi risultati sulle sezioni coniche esposti da Apollonio (senza dire che sono farina del suo sacco) sono stati dimostrati per la prima volta da Archimede, ma non voglio addentrarmi in queste questioni che sono state oggetto di controversie. Per dare la definizione di arco parabola mi riferisco alla Figura 1.

In Fig.1 è disegnato un cono con vertice in P segato (in Geometria si usa dire “secato”) dal rettangolo ABCD . Il rettangolo è tale ed è posto in modo da soddisfare le condizioni che vengono dette appresso. Si può dimostrare che una tale scelta è possibile. Il segmento AD è una corda del cerchio che è base del cono. Sia M il punto medio di AD. ST è il segmento perpendicolare ad AD, passante per M, giacente nel cerchio base del cono e che incontra la superficie del cono nei punti S e T. MV è il segmento perpendicolare ad AD, giacente nel rettangolo ABCD, V sta sulla generatrice PT del cono, l’angolo TMV è congruente all’angolo MSP, in altre parole questi due angoli hanno la stessa misura, quindi la generatrice SP è parallela al segmento MV, è facile vedere che questa condizione si può soddisfare ruotando il rettangolo ABCD attorno ad


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AD come l’anta di uno sportello incernierato in A e in D fino a raggiungere la posizione giusta, ovviamente ho chiamato V il punto comune a PT e al rettangolo quando quest’ultimo è nella posizione giusta. La curva disegnata in Fig.1 , sulla quale stanno i punti A, V e D è, per definizione, un arco di parabola. Si possono dare altre definizioni equivalenti a quella data. Ho usato termini quali “segmento” e “rettangolo” e non termini quali “retta” e “piano” che, nella accezione moderna hanno un significato diverso da quello che avevano per gli antichi greci, perché retta e piano non stanno interamente dentro un supporto concreto, quale un foglio di carta, una lavagna, etc. Gli antichi matematici greci... Gli antichi matematici greci ritenevano che enti matematici, in particolare geometrici, che non si potevano rappresentare su un supporto reale (non solo pensato, ma anche esperito mediante i sensi) non hanno diritto di cittadinanza in una scienza come la matematica. Oggi il paradigma della matematica è diverso e permette di parlare di enti quali la retta, il piano, l’insieme dei numeri naturali etc. Gli antichi matematici greci tuttavia attenuavano la loro limitazione assumendo che, dato comunque un supporto, per es. un foglio, se ne poteva trovare un altro che lo conteneva e, dato comunque un segmento s questo si poteva prolungare da uno o da entrambi gli estremi in un segmento contenente propriamente s, e così via. Dato un qualsiasi foglio di carta, una parabola, così come una retta, non si può disegnare tutta in quel foglio, per questo, mettendomi nel paradigma di Archimede, ho definito l’ arco di parabola e non la parabola.

La Fig.2 mostra un disegno dell’arco di parabola su un supporto piano (foglio di carta, schermo del monitor etc.). I punti A, D, M e V sono quelli che, con lo stesso nome, compaiono in Fig.1. Sul segmento MV è segnato un punto F che non compare in Fig.1, esso si chiama fuoco e gode di particolari proprietà. La proprietà che qui interessa è la seguente: se l’arco di parabola dalla parte verso cui volge la concavità (in Fig. 2 quella inferiore) è riflettente come uno specchio, allora tutti i raggi luminosi che passano per i punti del segmento AD muovendosi verso l’arco di parabola parallelamente al segmento MV e si riflettono sull’arco di parabola secondo le leggi della riflessione (già note ad Euclide prima della nascita di Archimede), dànno luogo a raggi riflessi passanti per F. In Fig.2 sono disegnati tre raggi luminosi che hanno le proprietà dette, come raggi incidenti essi passano rispettivamente per i punti G, H e I del segmento AD; si vede nel disegno che i tre corrispondenti raggi riflessi passano per F. Si consideri ora la figura geometrica che si ottiene per traslazione dell’arco di parabola in direzione perpendicolare al rettangolo ABCD. Questa figura, se si rispettano certe proporzioni tra le lunghezze di alcuni suoi segmenti caratteristici, può somigliare ad una di quelle tegole che si mettono spioventi come coppo. In modo impreciso, ma comodo nel presente contesto, chiamo paraboloide questa figura. La traslazione di F corrispondente alla traslazione dell’arco di parabola genera un segmento. Se posizioniamo un piccolo tubo cilindrico in cui scorre un fluido in modo che il suo asse coincida con questo segmento e anneriamo la superficie esterna del tubo in modo che assorba buona parte dell’energia luminosa che vi incide e disponiamo il paraboloide in modo che i raggi solari incidenti siano approssimativamente paralleli al segmento MV e col verso da M a V, allora l’energia luminosa incidente sul paraboloide sarà in buona parte assorbita dal tubo e ceduta al fluido.

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Ed ecco perché “Archimede” Credo che chi mi avrà seguito comprenderà perché sia stato molto opportuno chiamare “Archimede” la centrale solare di Priolo e si renderà conto che una parte dell’eredità scientifica e tecnologica di Archimede è, anche ai nostri giorni, a servizio dell’umanità. Questa parte è importante, ma direi anche piccola rispetto al complesso dell’eredità. Per spiegarlo anche sommariamente mi servirebbero almeno tante battute quante quelle che ho impiegato fin qui, ma non posso completare il discorso perché ho già ecceduto. Mi limito ad aggiungere un paio di cose. Nel mese di dicembre del 2011 è stato aperto a Siracusa in Piazza Archimede 11 un museo dedicato ad Archimede, che è stato chiamato “Arkimedeion”. Cito, condividendolo dopo tre attente visite all’Arkimedeion, un passo della presentazione contenuto in un volumetto che si può comprare al museo. L’Arkimedeion è un museo scientifico e tecnologico dedicato al grande matematico e fisico greco vissuto a Siracusa tra il 287 e il 212 avanti Cristo. Archimede fu realmente un vero genio, uno dei massimi scienziati dell’antichità classica ed è importante che la sua città natale gli dedichi un museo. I vari argomenti scientifici affrontati da Archimede, e anche le invenzioni a lui attribuite dalle leggende che hanno circondato la sua grande immagine nei secoli successivi – ad esempio i famosi specchi ustori che avrebbero incendiato le navi romane che assediavano Siracusa – sono illustrati attraverso 24 originali exhibits interattivi capaci di catturare l’interesse dei visitatori grandi e piccini. Ogni exhibit è accompagnato da supporti multimediali che consentono al visitatore una comprensione delle grandi scoperte matematiche … e fisiche. Il museo è aperto ogni giorno dalla 9,30 alle 19,30; si può entrare fino alle 19,00. Il 2013 sarà il duemilatrecentesimo anno dalla nascita di Archimede. Sarebbe giusto che i siciliani e le siciliane, in particolar modo i siracusani e le siracusane, pensino a commemorare degnamente in questa ricorrenza il loro grande conterraneo.


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Storia

Il muro e il silenzio hanno ucciso la democrazia Quello di Berlino non c'è più. Ma ne restano altri... di Elio Camilleri Il muro di Berlino era confine tra due mondi che ci hanno detto essere tanto diversi uno dall’altro: quello occidentale, luogo di tutte le libertà e della felicità e quello orientale, luogo della dittatura comunista e della disperazione. Noi siamo finiti nel mondo bello delle libertà, di tutte le libertà tranne una: quella di scegliere davvero in tutta libertà i nostri governanti. In verità, qui in Sicilia, c’è stata una volta, l’unica, in cui i nostri padri o nonni sono andati a votare liberi e allora vinse il Blocco del popolo, cioè le sinistre unite. Era il 20 aprile 1947 e si eleggeva l’Assemblea Regionale Siciliana, ma gli esiti del voto furono vanificati da un blocco di forze reazionarie, clericali, massoniche, mafiose, americane e spazzati via brutalmente appena dieci giorni dopo con la strage di Portella delle Ginestre. Non era possibile che un pezzo d’Italia, che la Sicilia, lì in mezzo al Mediterraneo, porta dell’Italia e dell’Europa con l’Africa ed il Medio Oriente fosse governata dai socialisti e dai comunisti perché l’Italia, collocata al di qua del muro, non poteva non essere anticomunista. Negli anni immediatamente successivi si consumò una sistematica persecuzione ed eliminazione di contadini, di sindacalisti, di militanti socialisti e comunisti impegnati nell’attuazione della riforma agraria contro il padronato mafioso dei

gabelloti e dei latifondisti, protetti, questi ultimi, dal nostro siciliano democristiano Mario Scelba, assurto financo alla carica di Ministro dell’Interno e di Capo del Governo. La mafia agraria fu la feroce protagonista della devastante repressione del proletariato contadino nell’ormai moribondo latifondo della Sicilia occidentale e si accingeva ad occupare e a saccheggiare piccoli e grandi centri e a trasformarsi, essa stessa, in borghesia urbana parassitaria. Si associò al potere amministrativo in una rete clientelare, intimamente corrotta e divenne sempre più potente e prepotente nei luoghi del potere e sul territorio. E di tutto ciò non si volle mai parlare perché, si diceva, che la mafia non esisteva, che era un’invenzione dei comunisti atei. E la mafia, invece, nel silenzio osceno e colpevole di tutti i potenti, si rafforzava e penetrava nei gangli della Regione e poi dello Stato. Solo nel 1962 si riuscì, avendo vinto le resistenze democristiane, ad istituire una Commissione d’inchiesta sulla mafia. La Commissione lavorò e produsse, con Cattanei Presidente, un’enorme quantità di dati, significativi, certo, dell’esistenza della mafia. Ma i contenuti della Relazione Cattanei rimasero nei cassetti del Parlamento: non un dibattito parlamentare, non un’inchiesta attraverso i mass media. L’opinione pubblica rimase senza sapere nulla del pericolo che le istituzioni pubbliche e la stessa democrazia già stavano correndo e la mafia, così, rimase, nell’immaginario collettivo, un fenomeno di criminalità comune. Le “mattanze” mafiose si interpretavano con sufficienza: “si ammazzano tra di loro” e non si voleva capire che le centinaia di morti ammazzati erano dovuti all’impressionante, incredibile volume di capitali ricavati dal traffico internazionale della droga da gestire attraverso le atti-

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vità di riciclaggio e d’investimento negli appalti pubblici. L’osceno e colpevole silenzio sulla mafia e sul suo assalto allo Stato fu la causa della solitudine in cui si ritrovarono Costa e Chinnici, La Torre e dalla Chiesa, omicidi eccellenti di coraggiosi e solitari servitori dello Stato che della mafia avevano scoperto la grande pericolosità. E i nodi cominciarono a venire al pettine: Buscetta ed i “pentiti”, il maxi processo e la risposta mafiosa dei corleonesi a Capaci e in via d’Amelio. Il muro di Berlino era caduto da tre anni ed anche la “prima Repubblica”, travolta da Tangentopoli. Adesso la paura del comunismo non c’era più, perché il comunismo era crollato in Russia e nei suoi stati satelliti. Il fatto è che i comunisti in Italia si erano ridotti a ben poca cosa ed avevano anche tolto la parola “comunista” dal loro biglietto da visita. Lo Stato, o quanto meno certi pezzi dello Stato, avviò con Cosa Nostra, o quanto meno con la componente “trattativista”, una sorta di patto, una trattativa appunto, della quale il “papello” fu il documento ufficiale. Mi sono venuti i brividi, leggendo “La convergenza” di Nando dalla Chiesa, nello scoprire che quanto legiferato nel corso di tutti gli anni novanta altro non era se non quanto richiesto da Cosa Nostra e riportato nel “papello”. Di tutto ciò, della trattativa, cioè, tra lo Stato e la mafia non ne abbiamo saputo nulla per quasi vent’anni e ciò non è da riferire a motivi di strategici di politica internazionale; adesso il pericolo comunista on esiste più, ma la mafia è diventata lo stesso un ingrediente ormai strutturale del sistema, del potere, delle istituzioni dello Stato. Adesso il muro, quello di Berlino, non c’è più, ma ce n’è un altro ancora lì, ben saldo ed incrollabile: il muro del silenzio.


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Politica/ Napoli

Rifiuti: pagliuzze e travi I giornalisti a Napoli sembrano tutti presi dalla ricerca di un clamoroso Watergate che probabilmente non scopriranno mai di Riccardo Rosa Napoli Monitor Sono tutti indaffarati a fare le pulci all’amministrazione comunale per cercare di scoprire se l’immondizia mandata in Olanda costerà settanta o centotrenta euro a tonnellata. Per capire se il manager che guidava l’azienda della nettezza urbana, Raphael Rossi, sia stato cacciato perché ha litigato col sindaco o col vicesindaco. Per gridare a gran voce al popolo anti-casta che il capogabinetto del comune guadagna uno stipendio molto alto (peraltro secondo legge). Ma dove sono i giornalisti che si occupano dei problemi reali della città, e delle vere insufficienze di chi la governa? Chi è, oggi, che prova a capire quali sono i progetti dell’amministrazione sulla zona ovest, e a chi si intende regalare a “prezzo di costo” l'immenso e redditizio territorio che comprende lo zoo, l’Edenlandia, il cinodromo? A capire quali siano le evoluzioni della riqualificazione di Bagnoli, e come intende la giunta spendere i soldi che si ritroverà in cassa per aver portato avanti la favola della coppa America? Chi è in grado di parlare dei disoccupati, della casa, di Napoli est, dell’inceneritore di Giugliano o di Capua? La partenza della Nordsten, la nave olandese caricata di rifiuti destinati all’inceneritore di Rotterdam, è un esempio di questo atteggiamento.

Arrivata in pompa magna, la nave era stata accolta con entusiasmo da giornalisti e fotografi e dalle autorità, nelle persone del sindaco de Magistris, del suo vice, nonché assessore all’ambiente Sodano, e in più da militari della marina e della guardia di finanza, carabinieri e addetti vari. Alla partenza, però, la Nordsten ha portato con sé non poche polemiche. La nave infatti è ripartita con un carico di immondizia molto inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto caricare: duemila tonnellate circa, rispetto alle quattromila per cui era stata preparata. Un viaggio a vuoto, secondo gli oppositori del sindaco: perché un’amministrazione che si dice fermamente contraria alla “termovalorizzazione” dell’immondizia non trova nulla di meglio che inviarla a bruciare in Olanda? Perché proprio oggi che l’inceneritore di Acerra funziona ben per la prima volta con tre linee su tre, e brucia la stessa frazione di rifiuti (quella secca) che viene caricata sulla Nordsten? E perché la nave è partita mezza vuota? A palazzo San Giacomo dicono che quello con gli olandesi è un contratto che paga per il totale dell’operazione, indipendentemente dal carico delle singole navi e del numero di viaggi. Un viaggio a vuoto? Mentre la polemica va avanti a colpi di comunicati stampa e articoli infuocati, pochi sono i giornalisti che si preoccupano di analizzare le relazioni tra il piano rifiuti regionale - approvato in un consiglio praticamente deserto - e la rivoluzione ambientale del nuovo sindaco di Napoli. Il piano, infatti, punta in maniera decisa sugli inceneritori, nemico pubblico numero uno di de Magistris e del suo vice Sodano (comunista e ambientalista, famoso per le sue battaglie contro la gestione rifiuti dell’accoppiata BassolinoIervolino). Poco, inoltre, c’è nel piano su differenziata e compostaggio, e come se non bastasse, dal momento che come si è visto in passato, costruire un inceneritore non

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è una passeggiata, i tempi per far tutto ciò sono piuttosto lunghi, almeno il 2015. Ma come potrà la giunta, tecnicamente, opporsi a un piano che, come fanno notare gli ambientalisti, «torna indietro di quindici anni»? Si riuscirà, a botte di cavilli legali, a evadere gli obblighi del piano (a cominciare dall’inceneritore di Napoli est) e a rendere la città un’isola felice che ricicla, come il sindaco ha promesso fin dalla sua candidatura nel mese di aprile, mentre il resto della regione brucia immondizia a più non posso? La percentuale di raccolta Tutto questo, in ogni caso, non sembra il problema principale per politici e stampa, mentre assai più appassionante appare il dibattito sulla percentuale di raccolta differenziata porta a porta raggiunto (un 25% salutato entusiasticamente dalla giunta: lusinghiero se si considera che sei mesi fa eravamo al 16%, deprimente se si ricorda che il sindaco aveva promesso un 70% entro di dicembre). Il punto, al di là dei singoli battibecchi, è un altro. Per chi non si era lasciato trasportare dall’entusiasmo arancio-primaverile, tutte le insufficienze della giunta si presentano come prevedibili falle di un cammino presentato più rivoluzionario e più facilmente percorribile di quanto non fosse in realtà. La folta schiera di chi invece si era lanciato con ritrovato ottimismo “civico” in questa avventura, risulta oggi divisa tra i delusi, che attaccano senza esitazione i loro ex idoli, e chi invece insiste con rovente determinazione nel sostenerli, qualsiasi strada essi percorrano. La stessa divisione nella stampa. Se è giustificato, però, che supporter e oppositori politici basino le proprie analisi su una radicalità partigiana, è scoraggiante constatare come anche i giornalisti ritengano doveroso schierarsi da una parte o dall’altra della barricata, concentrandosi sulla miriade di “pagliuzze” delle polemiche di giornata, e continuando a ignorare le “travi” delle condizioni strutturali della città.


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Politica/ Palermo

“Stiamo lavorando per un'altra Primavera” I Cantieri Culturali della Zisa di Palermo non si toccano, ovvero: partire dai Cantieri per cambiare Palermo di Giovanni Abbagnato A riprova del carattere carsico che tradizionalmente caratterizza la protesta sociale nella città di Palermo, da mesi si è attivato un interessante movimento plurale costituito da associazioni, gruppi spontanei, istituzioni culturali e cittadini. Tali soggetti risultano accomunati da un’idea abbastanza condivisa circa la nozione di difesa dei beni comuni che si è concretizzata nella volontà di dire basta ad un’intollerabile “situazione- simbolo” della decadenza della città di Palermo al tempo di Cammarata Sindaco. Una decadenza progressiva del capoluogo siciliano che, insieme alla evanescenza amministrativa, è stato il tratto dominante dell’immagine e della sostanza del degrado di una città che non ha risparmiato nemmeno I Cantieri Culturali della Zisa, da anni del tutto abbandonati alla distruzione. Qui (prima) si producea cultura I Cantieri sono uno dei più vasti e suggestivi spazi di archeologia industriale in Italia, un tempo votati a luogo di elaborazione e produzione culturale e di fruizione aperta a istanze sociali dei cittadini, nel contesto del quartiere di appartenenza e, più in generale, della città. Ma questa ex fabbrica dei celebri mobili Ducrot, disegnati dai Basile e da altri celebri architetti, è stata anche uno dei simboli di una stagione di eccezionale mobilitazione politica, sociale e antimafiosa che, andata ben oltre i confini re-

gionali e nazionali, è passata alla storia recente del nostro Paese come la “Primavera di Palermo”. Una “Primavera” sociale e amministrativa che in una realtà assai complessa come quella palermitana non poteva non presentare limiti ed anche qualche contraddizione, ma che ha comunque cambiato in positivo la città suscitando un interesse nazionale ed internazionale, anche sul piano artistico – culturale. Un notevole rilievo che ha portato i Cantieri su livelli di assoluta eccellenza, ma anche diffusione di pratiche innovative. Settanta cittadini impegnati Quello che si è verificato adesso, in modo imprevedibile dopo anni di mancata reazione ad una situazione intollerabile, è stata una risposta corale concretizzatasi in una mobilitazione straordinaria di una parte significativa della società palermitana, in risposta alla sollecitazione di un gruppo numeroso di soggetti, circa 70, che, prima che richiedere, ha preteso e realizzato l’apertura dei Cantieri Culturali della Zisa. Il 6, 7 e 8 gennaio scorso sono stati tre giorni di dibattiti, assemblee, proiezioni cinematografiche, laboratori teatrali, concerti, spazi per l'infanzia, installazioni artistiche e tanto altro che hanno riempito di senso e di profilo politico una protesta che voleva diventare una proposta ancora più evoluta sul piano della partecipazione diffusa, anche oltre la pur importantestagione di nascita dei Cantieri. Una proposta non certo rivolta ad un'Amministrazione Comunale, imbelle e irresponsabile, che, dopo anni di abbandono totale e a fine mandato, ha pensato di emettere un bando per l'assegnazione dei Cantieri a privati. Una diffida al Sindaco La reazione non si è fatta attendere e un gruppo numeroso di cittadini ha dato mandato a dei Legali di recapitare al Sindaco una diffida amministrativa per un atto che, al di là dell'evidente ambiguità politica della scelta, presenta evidenti

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profili di illegittimità. Sono già in preparazione altre iniziative legali, ma il movimento, pur non sottovalutando gli aspetti giuridici della vicenda, vuole andare oltre la doverosa resistenza e, infatti, ha immaginato la “tre giorni” con una prospettiva politica e d'intervento sociale così sintetizzata nel documento finale: "La riflessione sull'abbandono degli spazi pubblici ( e con essi sull'abbandono della città) è stata l'occasione per ripensare la possibilità della riapertura di uno spazio politico, di discussione e iniziative condivise, su questioni che ci riguardano in prima persona ma che uniscono in modo inestricabile il locale con il globale". Il valore del bene comune Ma forse l'aspetto più significativo emerso dalla “tre giorni”è la volontà di riaffermare il valore irrinunciabile del bene comune attraverso la sperimentazione di una gestione alternativa di spazi e strutture che sia riproducibile oltre i Cantieri nei tanti luoghi sottratti alla fruizione pubblica attraverso usi impropri o abbandoni talvolta funzionali ad attività di malaffare. Con questa finalità il “popolo” dei Cantieri si è diviso in diversi gruppi di progettazione partecipata il cui lavoro, insieme alla definizione di un programma di attività socio-culturali con il quale riportare presto la città dentro la fabbrica, proseguiranno l'innesco virtuoso della “tre giorni”. E' questo il segno tangibile della volontà di non delegare a nessuno la salvaguardia del bene comune, superando logiche di mero profitto o di padrinati politici attraverso la creazione di un modello alternativo di gestione democratica e partecipata. D'altra parte lo ha insegnato la Primavera di Palermo: la protesta senza il progetto non produce reale cambiamento e, forse, partendo dai Cantieri Culturali della Zisa si può riprovare a cambiare Palermo e, com’è giusto che sia, anche oltre positive esperienze del passato.


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FOTO DI ALESSANDRO GAGLIARDO

FOTO DI GRAZIA BUCCA

Sicilia

Il giorno dei forconi Ero là dai primi giorni, ma questo non è un articolo. Solo i primissimi appunti, veloci e piuttosto confusi, più per me stesso che per il giornale. Loro erano più confusi di me (alcuni avevano le idee fin troppo chiare: ma non stavano là), a guardarli in faccia; ma “il sazio non crede mai al digiuno”, mi dicevano. E questa è la morale di tutto di Alessandro Gagliardo I Sicilianigiovani – pag. 96


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ALESSANDRO GAGLIARDO

Da un paio di giorni sono dentro i blocchi, registro audio e scatto fotografie. Le “persone politiche” hanno demonizzato e ghettizzato la manifestazione, il rischio è che personaggi biechi prendano il controllo. La notte senza guida di nessuno c’è quello che può uscire il coltello e tagliere le ruote o il pastore che in solidarietà porta il formaggio. “Eppure è un campo aperto” I partiti locali si distaccano snobbando, non portano presenza di partito e rinunciano anche alla sola discussione. Eppure è un campo aperto. Ci sono 23enni elettricisti, o idraulici, o carpentieri, braccianti e trasportatori che si sono fermati, altri che non lavoravano da qualche mese. Le rivendicazioni sono le più comuni,

non c’è niente di organico. È popolo, nella sua espressione chiusa e gretta in molte occasioni, ma sono, e lo ripetono, con le spalle al muro. Ho sentito più volte questo detto: “Il sazio non crede mai al digiuno”. Comunicare non è facile, né sentire un ragionamento. Eppure stanno aggiungendosi, panettieri, piccoli commercianti. Oggi gli studenti si sono avvicinati timidamente e cercavano di capire. Faranno forse una manifestazione. Ho chiesto perché non ci fossero le mogli, e la risposta era quella di qua-

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rant’anni fa: se lui porta la sua, io porto la mia. Forconi e confederazioni non hanno nulla sotto controllo. Il sindacato non ha messo parola, non c’è un volantino nè un servizio d’ordine. I carabinieri mi dicono che hanno l’ordine di lasciar fare, due per presidio e la macchina del capitano che si muove per controllare intervenendo confusamente e amichevolmente per questa o quella questione. “Parlano di un “pre-Grecia” Carabinieri e manifestanti a stretto contatto parlano di un “pre-Grecia”. Ci sono notizie che debba partire la Calabria. Di mafia non si parla. O meglio, la mafia è la politica. Chi dice che c’era vent’anni fa e ora non c’è più, chi sostiene che i suicidi sono i nuovi morti


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ALESSANDRO GAGLIARDO

ammazzati dalla mafia politica. Oggi un ragazzo al microfono ha gridato: “siamo contro il governo e contro la mafia” e poi repentino e sottovoce: “forse contro la mafia no”. “A tratti solidarietà” Sui rumeni c’è una spaccatura. Chi dice che rubano il lavoro, chi sostiene che è naturale che debbano lavorare ma stanno in condizioni disumane. Comprensione e fastidio contestualmente. A tratti solidarietà. Basta chiedere però cosa dicono dei loro principali, o dei padroni, ed esce che firmano tutti buste paghe maggiorate, no ferie, no malattie, no nulla. Giornate allungate e stessa paga. Con una domanda il nemico torna quello reale, e lo straniero quasi si avvicina. Ma nessuno pone loro una sola questione. Chi potrebbe li chiama villa-

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ni e mafiosi. Villani lo sono tutti, i mafiosi iniziano a prendersi lo spazio vuoto. Gli studenti hanno tentato una mobilitazione, ma non hanno capito bene e c’hanno rinunciato, almeno per oggi. Poi si sono avvicinati. C’è un difficoltà comunicativa palese. La lingua è il dialetto locale e loro arrivano con rayban e giubbe belle, e non vedono i loro padri, soltanto quelli di alcuni compagni di classe. Questo li rassicura. Ma non capiscono. “Gli studenti non capiscono” Ho consigliato loro di farsi sentire comunque anche se in autonomia. Tifo evidentemente per la rivolta. Ma allo stesso tempo l’assenza totale di teste mi preoccupa. I Richichi, i Morsello, i Crupi e i Ferro, non sono rassicuranti.


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ALESSANDRO GAGLIARDO

Popolani e populisti parlano a gran voce, ma sono seriamente preoccupati. E li si vede in tv. Anche perché sanno che le risposte non arriveranno. Al presidio qualcuno si avvicina e inizia ad insinuare che ci va il loro partito e il loro rappresentante. 3000 mila voti e “facciamo volare” chi diciamo noi. Un attimo prima si diceva “no politica”, poi si applaude, poi si dice ancora no. Nessuno ha idea di una via d’uscita e chi si accosta non conosce neanche quella d’entrata. Un borghese un po' tonto propone Padre Enzo alla guida di una lista, quello accanto gli dice che è scemo, che padre Enzo non è la con loro e che non sa nulla dei loro problemi. Tutti lamentano la mancanza della televisione. Dicono che il caso Concordia si trascina per fargli ombra. Sarà vero, non lo sarà… Ma qua c’è qualcosa che qualcuno non sta sapendo leggere.

***

Le foto di Alessandro Gagliardo sono state scattate ai blocchi in provincia di Catania. Quelle di Grazia Bucca (pagina seguente) a Palermo

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Oggi c'è stata una rissa al panificio. Un ragazzo entra, salta la fila e chiede quattro chili di pane, L'uomo sulla cinquantina chiede: scusa, ma qua tutti ne prendiamo un chilo perché non ce n'è abbastanza e tu quattro? Parte un battibecco. Questo stronzo chiama i suoi amici di quartiere. Insultano e seguono il signore. La politica ancora assente. Il ceto medio allarmato si interroga se fare o meno la spesa per riempire il bunker. Mia madre mi chiama per dirmi di stare attento. Seguo e vi aggiorno.


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GRAZIA BUCCA

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L'analisi

Dietro quei forconi di Salvo Vitale Qualche anno fa il governo Berlusconi-Bossi fece acquistare, con i soldi destinati al Sud, centomila forme di parmigiano invendute. Ai pastori sardi che protestavano per il pecorino mandò invece i poliziotti in assetto antisommossa con l'ordine di manganellare senza pietà. “Il Comitato interministeriale di programmazione - secondo Pino Aprile - delle quote da sbloccare ne destinava 199 al nord e una al sud. Con Monti le quote sono state 40, di cui 39 al nord e una al sud”. Adesso i contadini siciliani chiedono incentivi alla produzione, alla distribuzione e alla commercializzazione dei prodotti agricoli. Non per un romantico “ritorno alla terra”, ma per una necessità dovuta al costante abbandono delle campagne, che fa aumentare la richiesta e i prezzi. Ma da anni i vari governi preferiscono puntare sui centri commerciali e sui lavori del terziario, a scapito della produzione di materie prime. Intanto sono saliti alle stelle, con quelli dei carburanti, i prezzi dei concimi chimici e dei mezzi agricoli. Per non parlare della catena di distribuzione, la cosiddetta “filiera”, che nei vari passaggi genera aumenti fra il 100 e il 200%. E’ qui che la mafia esercita con disinvoltura il suo ruolo parassita. In Sicilia c'è poi l'atavico problema delle acque irrigue, le cui reti sono fatiscenti e la cui gestione, prima nelle mani della mafia, adesso della Regione, è stata abbandonata per mancanza di investimenti, nonostante la pletora di funzionari addetti. “La protesta qui in Sicilia - leggiamo su un blog - è nata per chiedere sgravi per determinati settori, ma di ora in ora si aggiungono sempre nuove persone sempre nuove categorie, la gente se ne frega

dei colori dei partiti (mezzi di mantenimento per parassiti), qui c'è gente che si è resa conto che non può più vivere in questo sistema, gente caduta nella trappola del sistema bancario del "poi pagherai" che ha indebitato il 90% della popolazione". Dopo il silenzio dei primi giorni, i media hanno deciso di criminalizzare la protesta o metterle un “cappello” politico. Per parlare di violenza sono stati sottolineati episodi minori, a Lentini o a Gela, per gettare discredito su tutti quanti. C’è chi ha tentato di dare all’agitazione una paternità di destra, partendo da possibili connessioni con Forza Nuova, che col segretario Roberto Fiore ha dato “pieno sostegno, sperando che sia con loro che possa partire la rivolta popolare”; dall’altro lato hanno partecipato ai presidi movimenti della sinistra antagonista siciliana come “Anomalia” o quelli dell’”Ex-carcere”. Le radici sono più lontane... Infine, i soliti mestatori che parlano di protesta contro la politica economica del governo Monti. Ma le radici del movimento sono ben più lontane e investono la politica del passato governo, che ha ignorato totalmente il Sud. “Non c’è molta differenza - commenta qualcuno su Post - è un vasto sottobosco di persone molto diverse che però finiscono solo per essere inutile rumore di fondo, e il mondo va avanti un po’ strumentalizzandoli un po’ ignorandoli”. E’ stato anche fatto notare che “a capo del Movimento dei Forconi c’è Mariano Ferro, ex Mpa e molto vicino a Lombardo". Ivan Lo Bello, di Confindustria Sicilia, ha denunciato la presenza di infiltrazioni mafiose tra i manifestanti, senza tuttavia precisare ulteriori dettagli.

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E’ presto per dare una valutazione di questa lotta. Si incrociano categorie sociali diverse e situazioni che scavalcano le tradizionali logiche di appartenenza politica. I partiti rimangono a guardare, mentre una parte del PD e i sindacati si sono schierati contro. Gli autotrasportatori costituiscono la “forza d’urto” decisiva, in un paese basato su traffico gommato, con ferrovie sono assenti o lentissime. Fra loro c’è da distinguere tra "padroncini" e autisti delle grandi ditte. In entrambi i casi, c'è il forte sospetto di interessi che possono includere anche settori dell’economia mafiosa. Ciò non toglie che i costi del trasporto verso il sud, gravati da aumenti di carburanti e pedaggi, penalizzano un’economia già crollante. Più motivata pare la richiesta di un cambio di politica nei confronti dell’agricoltura e della pesca, in una terra dove si estendono i terreni incolti e i pescherecci di Mazara sono abbandonati dai figli degli armatori. Metà dei giovani siciliani sono disoccupati; sono emigrati in 700mila, negli ultimi dieci anni. Dalla Regione, che strombazza autonomia, c’è poco da sperare. Il parassitismo politico è l’altra faccia del parassitismo mafioso che, con la richiesta del pizzo, impedisce l’afflusso di nuovi capitali e nuovi investimenti. Infine: ma per fare smuovere il governo, sia nazionale che regionale, era proprio necessario mettere in subbuglio una regione, facendo cadere il peso della protesta su cittadini e consumatori, quando invece la controparte contro cui scioperare sta ben più in alto? “Ci abbiamo provato già da parecchio tempo - è la scontata risposta - e ci hanno sempre ignorato".


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RomaUn reportage ANNO ZERO

“Una città senz’anima, che ha perso il treno per diventare davvero capitale. Cupa, egoista, provinciale, sporca di una sporcizia immateriale. Una sporcizia morale. Questa la città che ci riconsegna la peggiore amministrazione comunale che si è insediata al Campidoglio dopo quella che si credeva insuperabile del sindaco Giubilo negli anni 80” di Pietro Orsatti I Sicilianigiovani – pag. 102


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Una città senz’anima, che ha perso il treno per diventare davvero capitale. Cupa, egoista, provinciale, sporca di una sporcizia immateriale. Una sporcizia morale. Questa la città che ci riconsegna la peggiore amministrazione comunale che si è insediata al Campidoglio dopo quella che si credeva insuperabile del sindaco Giubilo negli anni 80. Roma è questo. Oggi. Non era così tre anni fa. E non è solo a causa della crisi, che colpisce duro e non solo la capitale. È colpa di chi si è preso il Campidoglio giocando fin dalla campagna elettorale, in modo incosciente, la carta della paura per gli immigrati. Tutti violenti, parassiti, ladri, stupratori. Nel 2008 Roma era la capitale europea più sicura. Oggi è quello che ci racconta la cronaca. Il 105. Una torre di Babele su quattro ruote che dalla stazione Termini ti porta fino a Torbellamonaca. Lungo la Casilina, attraversando piazza Vittorio, costeggiando il Pigneto, incrociando Torpignattara. Cingalesi, indiani, somali, tunisini, senegalesi, italiani, cinesi, peruviani. Un coro di mille lingue impastate in un dizionario nuovo di culture. Il 105 è la metafora di questa città che, cambiata dalla storia e dall’avanzare di un epoca nuova, si censura, si nega. Attraverso l’esclusione, la rimozione della realtà e alla fine la violenza. “Romano, romanista e italiano” “Sono romano, romanista e italiano”, proclama l’adolescente, il ‘pischello’ con i genitori somali. “So’ nato qua. E l’amici mia so’tutti der quartiere”. Torpignattara. Che ora sembra sotto assedio, ma che fino a poche settimane fa era esempio di integrazione “fai da te”. Che funzionava. Nascosta, negata, rimossa da un’amministrazione comunale che invece di investire su un welfare popolare ha creato tutte le condizioni perché prendesse il sopravvento il degrado, la paura e il sangue. Il sangue che per due giorni è rimasto su quel marciapiede. Il sangue di un padre e di una figlia di sei mesi. Ammazzati per una rapina finita “no schifo”. Dicono che fossero “du pischelli” italiani. Altri parlano di due dell’est. Alla fine la polizia,

grazie a una telecamera, li avrebbe identificati: due marocchini. Ma rimane la scena del crimine a rendere chiaro come sia stato possibile che questa tragedia succedesse. La strada era buia. Ci aveva pensato “er sindaco” a lasciarla così. Da quasi un mese era al buio e nonostante le chiamate di centinaia di cittadini romani non era arrivato nessuno. Come non era arrivato nessuno da mesi per i tombini sfondati, per le buche piene “de zoccole lunghe tanto” (i ratti che popolano ogni luogo degradato). “Ma devi vedè come so’ arrivati subito a mette a posto li lampioni e le buche ‘sti pezzi de merda – ti racconta un ragazzone di Torpignattara doc, che il padre ha pure conosciuto Pasolini -. C’era er sangue fresco ancora pe’ strada ma nun te poi immaginà che prescia che c’aveveno de rimette tutto a posto per le telecamere e li fotografi. Erano mesi che protestaveno tutti, ma qui mica è Roma. Noi potemo pure morì per li cazzi loro. Questa è Torpignatta. Per ‘sti infami nun valemo ‘n cazzo”. Torni indietro verso il centro e ti ritrovi una delle sale bingo più grandi di Roma dove c’è gente che si brucia i pochi soldi che ha alle slot machine inseguendo un sogno da Las Vegas. Ogni tanto ci scappa

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una rissa. Vola qualche coltellata, che a Roma da qualche anno sono tornate di moda “le lame”. E le lame le trovi ovunque, non solo allo stadio, ma per strada. E si usano senza pensarci tanto. Qui dove si spinge la coca, dove lo strozzino si piglia le pensioni sociali, dove si organizzano i raid contro i romeni che sono il nemico numero uno “pe’ chi se vo’ fa li cazzi sua”. E da un anno a questa parte a Roma, e non solo a Roma, c’è chi ha ritirato fuori “er ferro”. La pistola. Ma non per fare una rapina finita male come a Torpignattara. No, a Roma si spara e si uccide, una trentina di morti nel 2011, per il controllo del territorio. Perché a Roma è in corso una vera e propria guerra di mafia, anzi di mafie. Ci sono tutte a Roma. Quelle tradizionali, campane, calabresi e siciliane e pure la “quinta”, tutta romana. Forse figlia dell’eredità della banda della Magliana (e qualche superstite di questa c’è finito, infatti, nella guerra in corso, insieme a qualche ex estremista nero), forse una roba nuova ma che comunque una sua capacità militare, evidente, l’ha messa in atto. Non solo sparando. Non solo con i morti e i feriti e i gambizzati per “lezione”. Ma anche con gli attentati alle aziende che lavorano ai cantieri di “Roma Capitale” (quanti sono i mezzi che si sono rotti o hanno preso fuoco nessuno lo sa) e gli esercizi commerciali che prendono fuoco non certo per autocombustione. E sono tanti. Ed è tornata l'eroina Racket, appalti. Tradizione delle mafie. E poi droga. Non solo il “fumo” e la coca che ormai sono mercati stabili e sicuri. Oggi, dopo una lenta penetrazione in provincia, è tornata l’eroina. E con la ricomparsa dell’eroina è scoppiata la guerra per il controllo del territorio. E l’amministrazione comunale che fa? Nega, si defila, per mesi. Aiutata finora da un governo che pur di non toccare il bacino elettorale del presidente della Regione Renata Polverini ha fatto di tutto per non sciogliere il consiglio comunale di Fondi, nonostante le centinaia di pagine di relazione del locale prefetto.


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Che è stato punito con fulminante trasferimento dal ministro leghista Roberto Maroni. Fondi. La porta di Roma. Dove le mafie si spartiscono gli affari, e lo sanno anche i sassi, fin dagli anni 70. Poi in strada si ammazza una bambina di sei mesi e suo padre e il sindaco Gianni Alemanno dichiara candidamente che “ci sono troppe pistole in giro”. Ma guarda te che strano. E prima? Quando solo 24 ore prima del doppio omicidio si gambizzava un ex NAR poi Forza Nuova e Casa Pound, implicato nello scandalo parentopoli dell’Atac, sospeso dal servizio per dichiarazioni razziste e reintegrato in silenzio? Prima niente. Episodi. La violenza è diventata linguaggio in questa città. Con ragazzini che si ammazzano per una lite in un centro commerciale. Con episodi continui contro immigrati e senza tetto che quasi mai vengono denunciati. Con lo spaccio, l’usura, le estorsioni, il degrado, i gruppi neofascisti in gran fermento e riorganizzazione, le sparatorie in pieno giorno e in ogni parte della città anche nei quartieri “bene” della borghesia. E con la crisi economica che sta per dare il suo colpo finale. Creando sacche incontrollabili non di disagio sociale. Ma di disperazione.

Tutto l'odio di Roma Ambulanze davanti ai centri commerciali, risse tra bande di ragazzini e romeni. Immagini da una Roma imbarbarita, incupita, coatta e feroce. E a S.Egidio c’è la fila per un pasto caldo: anziani, studenti, badanti disoccupate Piramidi, obelischi. Plastica e cartapesta. Quando i luoghi di socialità come le piazze dei quartieri diventano una sorta di corollario di cattiva amministrazione (sporcizia, buche, perdite d’acqua, arredi urbani che da anni non hanno manutenzione, scarsa illuminazione e ancora meno “presenza” di servizi) compaiono i nuovi “non luoghi” di interazione sociale. I centri commerciali. Dove l’immaginario televisivo si riversa in oggetti di consumo altrettanto illusori. Tiri su una roba strana a forma di trapezio, la riempi di arredi da b-movie storico anni 60, aggiungi il cantiere della SkyTower (grattacielo di appartamenti di lusso in una ultraperiferia degradata in gran parte discarica abusiva) e hai Euroma2. Ci si riversano i pischelli senza identità di Spinaceto, Decima, Laurentino, Vitinia e Acilia. E le famiglie a fare la spesa. Alle 6 di pomeriggio nei corridoi non si cam-

mina quasi ma i negozi sono vuoti. E chi ha i soldi per comprare scarpe da 200 euro? Felpe da 150? Mutande da 40? Ma ci si va a guardare le vetrine e vedere gli amici. E ci si siede a prendere le patatine al fast food al terzo piano. E si gira. Avanti e indietro. Urtando la folla. Alle sei e mezza arrivano le tre ambulanze di rito che raccattano i pischelli di un quartiere che “se so’ pijiati” con quello di un altro. Una rissa che avviene una sera sì e una no. Per una ragazza, per uno sguardo, per una sigaretta. per nulla. Ma è così che si passa il tempo, si cresce, ci si fa uomini. E donne. Bambine o poco più vestite come le eroine tamarre dell’ultimo reality che si picchiano più e peggio dei ragazzi. Anche loro per nulla. In un altro centro commerciale ancora più periferico, alla nuova Fiera di Roma, c’è scappato il morto un paio di mesi fa. Ma è stato un incidente, dicono, una disgrazia. “So tutti bravi fiji”. Sì, di una Roma imbarbarita, incupita, coatta e feroce. Odio. Verso chi non fa parte del gruppo e del proprio assurdo territorio. E odio per il diverso. I pischelli dei quartieri odiano tutti gli stranieri indistintamente. Ma quando hanno a che fare con i romeni perdono del tutto la testa. Perché i romeni non ci stanno.

MEMORIA DIMME CHE NOME HA 'STA CITTA' Dimme come se fa. Ricordame che faccia ch’aveva sto quartiere quanno da ragazzini ce se giocavamo anime e ginocchia pe’ fasse vedè granni. E granni nun eravamo. Dimme che posto è questo, oggi, che se ne annamo via de prescia senza guardasse attorno, pe’ nun vedè sto schifo, sta solitudine, sto niente che ce taja er sorriso come na lama. Dimme dove se so cacciati li sogni nostri, quelli che se raccontavamo ‘n piazza prima d’annasse a schierà davanti alle guardie. Che eravamo tanti e la paura diventava de meno quanno se facevamo stretti. Compagni, e lo eravamo pe’ davvero. Mica era ‘no scherzo. D’inverno, come è ora, insieme come non lo semo oggi. Dimme, amico mio, che te sei strappato pelle e sorriso quanno se la so presa sta città quelli che c’hanno ancora addosso er sangue de Walter e Valerio. Sputtanata, sta città, da du’ zozzi che c’hanno piantato un centro commerciale sulla campagna dove se scappava a vive lontani dall’occhi der monno. Dimme che fine hanno fatto le donne der quartiere che quanno ‘scivano de casa te facevano sognà na vita migliore. Dimme che fine ha fatto Mara co’ quell’occhi che te tojeveno er fiato e Vincenzo, l’omo, suo. E Brozio e Francesca, e poi Giampiero co’ quella testa de ricci e Rappa che se perdeva pe’ strada tutte le vorte che, de notte, se ne tornava a casa. Dimme, fratè, che c’entra sta morte pe’ la strada che pensavamo d’avesse lasciato alle spalle. Dimme andò so finite le famije nostre, li nostri sogni e le risate de quanno s’eravamo ripresi

'sta città. Prima er giorno. Poi la notte. Era nostra. Che senso c’ha sta monnezza co’ l’amici nostri barricati in casa pe’ la paura di chi te sta chienenno aiuto. Dimme perché mo’ se semo persi l’amore pe’ l’incroci, pe’ il vino bianco ammischiato co’ la gazzosa e il bianco che se fa tutt’uno cor nero. Poracci tutti, a dasse ‘na mano pe’ campà. Ora ognuno pe’ cazzi sua a ringhiasse addosso come cani. Dimme ndò sta l’amore pe’ le cose fatte ‘nsieme e do’ è finito er sinnaco nostro che scenneva ne li quartieri in manica de camicia. Nun me basta che ch’abbiano dato er nome de na strada. Nun me po’ bastá. Petroselli ora ce se metterebbe de punta a capì come arisolverla sta storia qua. Che nun ce se capisce da ndò è partita e ndò vo’ annà a parà. Dimme che nome ha sta città. Io nun lo so più. *** Mi ritrovo a scrivere nella lingua del quartiere dove sono cresciuto. Oggi. Dopo aver finito di scrivere un reportage sulla mia città affrontato come se si trattasse di un luogo sconosciuto. Ma sconosciuto non è. Una settimana e passa di nausea. Nel vedere come è stata ridotta questa città da anni di sottovalutazione degli effetti che poteva avere il non apice come si stessero trasformando composizione, cultura, bisogni. E “finita” dalla peggiore amministrazione che io ricordi dopo quella disastrosa di Giubilo negli anni ’80. Mi ritrovo a scrivere, nella lingua del quartiere, per ritrovare almeno nella memoria una traccia di quello che eravamo riusciti a conquistarci. Roma. P.O.

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Bevono, girano in gruppi più numerosi degli altri, si caricano e reagiscono. Con altrettanta rabbia e violenza dei nostrani ragazzotti strafatti di coca e pasticche. E accumulano odio anche loro. Tartassati dalla crisi, dall’esclusione, dal lavoro che quando c’è fa schifo e rasenta la schiavitù, perseguitati dalle forze dell’ordine, criminalizzati per qualsiasi cosa accada. Odiano, pischelli italiani e romeni. E l’odio esplode in veloce e istantanea violenza. E te lo porti dietro, l’odio. Anche quando trovi accoglienza. Come alla mensa della Comunità di S. Egidio a via Dandolo a Trastevere, ti rendi conto che i “pischelli” stranieri sono delle bombe pronte ad esplodere alla minima scossa. Ce ne vuole di lavoro a fargli vedere che ci sono altre vie possibili oltre all’odio. E qui alla comunità quel lavoro lo sanno fare, e bene. Perché qui l’accoglienza è uno scambio fra persone. E chiarezza. Senza pietismi e offerta di illusioni. Funziona? A volte sì, altre no. Ma ne vale sempre la pena. Perché basta che uno di questi ragazzi spaventati si decida a calare le difese e cambia tutto. Hai un risultato. E forse una vita salvata.

Dal barbone al disoccupato Si pensa che alla comunità si rivolgano solo senza tetto, anziani, rom. Non è così. C’è di tutto. Dal barbone al disoccupato, allo studente fuori sede che non riesce a arrivare ad avere i soldi per mangiare fino all’uomo separato che si trova senza casa. Ci trovi l’ubriaco e quello che aspettando il suo turno legge gli appunti di fisica. Ci trovi la coppia senza casa e senza vestiti di ricambio che ottengono una doccia e un cambio di biancheria insieme a un pasto caldo. Ci trovi il vecchietto che filosofeggia su una sua teoria teologica che si porta dietro da anni insieme alle sue decine di buste di stracci e la donna romena di 50 anni che si ritrova, da un giorno all’altro, senza lavoro e casa dopo che la donna anziana da cui faceva la badante è morta. Ci trovi questo pezzo di città che giorno dopo giorno diventa sempre più grande.

tarla e la donna si allontana, piegata, verso casa. “Che è successo?”, chiedo all’uomo della sicurezza, che non ha ancora trent’anni e una faccia da far spavento. “L’abbiamo sorpresa a rubare del latte e dei biscotti”. Denunciata? “Oddio no! Sono anni che la vedo venire qui a fare la spesa, poveretta. Quella ha retto finché c’era la pensione del marito, poi lui è morto e…”. E non ce la fa a continuare. Ho visto che le dava qualcosa prima che se ne andasse. “Dieci euro – quasi urla -, quello che avevo in tasca. Ma come si fa a non fare nulla per chi sta ridotto così. Come si fa?”. Si fa. In una città che ha perso l’anima.

L'impiccato della Boccea

“Sono ogni giorno di più. Stranieri. E anche italiani. Classe media che la crisi e il welfare svuotato hanno reso miserabili”. E scopri che il volontario con il quale hai appena parlato è fra quelli trascinati giù dalla crisi. “Dopo un anno di fatture non pagate, debiti, lavori saltati, crisi in famiglia mi sono rivolto a persone di una comunità. Senza casa e senza soldi. Mi hanno indirizzato e inserito per avere un lettino in un container dell’ emergenza freddo. Spero che si sblocchi qualcosa prima di aprile e chiudano i container. Altrimenti sono in strada”. E poi lascia il servizio ai tavoli perché deve sbrigarsi per andare al suo container. Si rientra alle 8 di sera e alle 8 di mattina si è fuori. Queste le regole. Saluta gli altri volontari e corre alla fermata del bus. Sorpresa a rubare latte e biscotti C’è una luna piena fredda che illumina un marciapiede. E un’anziana, cappotto borghese liso e carrellino della spesa, che piange. A consolarla un vigilantes di un supermercato lì a due passi. Le passa qualcosa, nella penombra, prima di salu-

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Un impiccato in un casale sulla Boccea. Uno dei presunti assassini di Torpignattara. Una brutta storia andata a finire "uno schifo" e che continua a proiettare un'immagine di Roma nauseabonda e feroce. Che corrisponde purtroppo a quello che è diventata questa città. Mentre il furgone della "mortuaria" lascia il posto agli specialisti del Ris, a poca distanza un bar di periferia, a 50 metri dalla rampa di accesso al Grande raccordo anulare dove finisce la città e inizia un quartiere che sembra un paese, Casalotti. Un bar che oggi è chiuso. Riposo settimanale, e c'è da stare buoni, qui, per un giorno a settimana. Si, perché questo "baraccio" è uno dei punti di ritrovo notturni di pischelli e giovinotti belli della periferia fra Cassia e Aurelia. Lo avete mai visto un bar di periferia con un buttafuori all'ingresso? Uno di quelli che ti guardano torvi mentre ti prendi un caffè e una bomba al cioccolato "calla calla"? No? Alle porte di Casalotti c'è. Un posto aperto fino a tardi dove andare a fare il pieno, di alcol e ragazze, prima di uscire a "fa du zompi". Dentro musica, folla di bella gente tamarra, bibbitoni colorati e tequila boom boom, fuori un paio di spacciatori nordafricani evidenti come il sole in una mattina d'agosto e litigi, spinte, ogni tanto pure di peggio. E il buttafuori all'ingresso a filtrare quelli più strafatti.


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La polizia. Passa, rallenta. Se ne va. Si ferma solo se c'è scappato qualcosa peggio di "du pizze". Funziona così. E nessuno sa spiegare perché. È tutto così evidente, alla luce del sole. Ma si vede che si preferisce reprimere e intervenire quando le cose sono finite "uno schifo" invece che capire. Anche l'evidenza. Quel bar al Gasometro L'evidenza che impedisce di agire in altri bar come quello a due passi dal Gasometro all'Ostiense, zona di locali e di coltello rinomata dove c'é scappato il morto davanti tre anni fa e tutti se lo sarebbero scordati se un'altra storia andata "uno schifo" non fosse succeda a neanche 50 metri da quell'ingresso insanguinato. Una povera edicolante rapinata “de cortello” in pieno giorno e morta di crepacuore. Qui, dove la vecchia zona industriale di Ostiense si trasforma nella zona della movida dei locali, il ferito, e il morto, ci

scappa spesso. Funziona così. Lo sai e ci vai a tuo rischio e pericolo. E il pericolo fa parte della serata come la tequila scadente, la coca tagliata al 90% e le pasticche fatte in casa da qualche chimico dilettante. Bello, no? E le forze dell'ordine? Passano, rallentano, e poi vanno via. Ogni tanto acchiappano qualche pesce piccolo, un nordafricano con le palline di stagnola e coca a 20 euro nel pacchetto di sigarette. Ma i pesci grossi che ingrassano? Ci sono eccome. Ti devi spostare di qualche centinaio di metri per vederli. Anche questi evidenti che ti verrebbe da domandarti come sia possibile che nessuno intervenga. Usura? Pizzo? Tutt'e due? Un altro bar, verso la Piramide. Che davanti all'ora di chiusura è uno spettacolo per gli affezionati delle macchine di lusso. Giovedì scorso alle 20 si contavano sette Mercedes, due Bmw e un Porche. I suv li teniamo fuori dal conto. Ti siedi a prendere un campari e vedi giri di contanti e assegni che sembra di essere in una banca. "Aooo, ma quello ha pagato?". Il tipo del Porsche si tocca il cavallo dei calzoni. "None, m'ha mollato n'assegno postdatato". Rutto di ordinanza. Risata. "Tanto 'ndo scappa. Famo a fidasse". Urlato. Evidente. Usura? Pizzo? Tutti e due? Chi lo sa.

Qui si passa, si rallenta e poi si va via. Alla luce del sole. A due passi da una fermata dell'autobus che a quell'ora è piena di gente che torna a casa dopo una giornata di lavoro. Qui non ci sono pesci piccoli da piazzare in qualche cella sovraffollata in attesa di un processo per direttissima e di un decreto, per gli stranieri che sono la stragrande maggioranza dei fermati, di espulsione. E allora ci torni a quel casale sulla Boccea dove è stato trovato impiccato uno di quelli, pare, che ha fatto un casino a Torpignattara. E te le fai domande, aspettando che domattina ci sia la conferenza stampa sul delitto di gennaio che va dimenticato in fretta. Te le fai con Aziz che taglia la carne del Kebab e ti riempie un panino e ti racconta che le rapine dei nordafricani a commercianti cinesi sono centinaia ogni anno in tutta la città. Perché i cinesi girano con un sacco di contanti e poi non denunciano. "E' la loro specialità". E a nessuno importa nulla. "Si fanno fuori fra loro". I trenta morti della guera di mafia Come a nessuno importa nulla di quei trenta morti nel 2011 per ha guerra di mafia in corso a Roma ma che nessun esponente del governo della città denuncia o almeno raccontata. "Si ammazzano fra loro".

SCHEDA UNA STORIA CHE PUZZA E proprio vero, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: così fu col povero Peppino Impastato, coi 28 pakistani di Napoli... Al Pigneto, a piazza Vittorio, alla Maranella, in quasi tutta Roma, lo dicono tutti: il 4 dicembre nei confronti dei cinesi non c'è stata una rapina ma qualcos'altro. Nel lontano 2001-2002 i negozi cinesi erano bersagliati da furti con scasso. Nei loro negozi si organizzarono, e attesero in venti per negozio armati di bastoni. Ricordo che si attribuiva la responsabilità agli albanesi. Così cessarono i furti. Invece i Marocchini ,“vero terrore dei cinesi”, si sono sempre limitati ad aprirgli le macchine e a rubargli i portafogli. A rotazione, con regolarità, vengono arrestati, dato che sono famosi nei quartieri sia ai cinesi che alle forze dell’ordine. La rapina del 4 dicembre, coi morti, è fuori da tutti gli schemi: un ladro che butta via tutti quegli euro dopo una rapina?

E anche il posto dove è stato rinvenuto il cadavere suicida del presunto rapinatore è a dir poco equivoco: a Boccea, vicino Forte Braschi, dove si gioca alla guerra. Un posto poco familiare ai cinesi (se fosse stata una vendetta) e anche ai marocchini, per giocarvi a nascondino mentre li stanno cercando in tutta Italia. Il governo Berlusconi, prima di dimettersi, ha firmato svariati trattati con diversi stati: scambi culturali, tecnologici, doganali. Uno però parla di "collaborazione militare", ed è stato firmato col governo marocchino (strano, visto che il Marocco è francofono). Contro chi bisognerebbe "collaborare", è ancora tutto da capire. Speriamo di non tornare ai tempi in cui c’era la bilateralità militare coi libici, che intanto giocavano al Far West a Roma. Rudy Colongo I "Blu", associazione di immigrati a Roma

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Aziz, amico mio, mettici la salsa piccante. E non ci pensare. Questa è la sicurezza da spot pubblicitari che tanto piace all’addetto stampa del Sindaco. Stai attenta questa sera quando esci stanotte dopo la chiusura. Non ti fermare. E quando arrivi a casa barricati dentro a doppia mandata. E alla fine torni in centro con un taxi, che è arrivato con il tassametro che già segna 14 euro. L’autista parla al telefonino con un collega, alterato. Aria di mobilitazione fra i tassisti in tutta Italia, ma a Roma di più.

Perché a Roma i tassisti in massa hanno votato Alemanno credendo a una serie di promesse e di garanzie che l’ex giovanotto emergente della destra a cavallo fra Msi e “altro” alla fine degli anni ’70 e gli inizi dei mirabolanti ’80 si è ben guardato dal mantenere. “Se ne becco uno che ce va a lavorà je spacco la faccia co’ le mani mia”. Guida veloce, continuando a parlare all’auricolare, cappello di lana, giaccone di pelle. E sul cruscotto, in bella mostra, una copia de L’Unità. “Te lo raccomanno a quello” “Te lo raccomanno a quello. Co’ tutti li voti che s’è acchiappato lo vojio proprio vedè venì a parlà co’ noi, mo’”. Finita la telefonata si parla. “Ho sentito che diceva che ha votato Alemanno. Ma che c’entra quello - e indico il giornale del Pd - con quel voto?”. Ride, il tassista.

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“E che c’entra la politica. Quello aveva promesso che bloccava le licenze nuove, e nun l’ha fatto. Aveva garantito il ritocco delle tariffe, e nun l’ha fatto. Se semo fatti tutti incantà e l’avemo votato. La pagnotta e la politica so’ du cose che nun vanno d’accordo”. E alla fine ha votato Alemanno E il giornale? “Mi padre era comunista, e pure io lo so’. Mi padre aveva conosciuto pure Petroselli che nelle borgate ce li metteva li piedi. Diceva sempre che era na brava persona, uno che manteneva le promesse”. E alla fine ha votato Alemanno. “Eccerto. Ma nun ce so’ annato ar Campidoglio a festeggià co’ li fascisti”. Te la raccomanno la coerenza. www.rassegna.it orsattipietro.wordpress.com


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GIORNALISTI

C'era una volta a Catania La vecchia redazione dei Siciliani di Fabio D'Urso Ho sempre un ricordo, quando penso alla vecchia redazione dei Siciliani, quella di corso delle Province a Catania. L'immagine della stanza della redazione, poco dopo il piccolo ingresso quadrato, quasi sempre pieno di giornali e di sacchi di carta da buttare. Claudio, che se ne sta, solo, e che sorride velocemente mentre noi gli chiediamo un consiglio, la settimana in cui tocca a lui coordinare la cronaca locale. Davanti a lui (e alla sua scrivania condivisa con Miki), c'è la scrivania di Antonio, alla sua destra quella di Rosario. Mentre la scrivania di Elena stava a sinistra della seconda porta della stessa stanza, e quella di Graziella proprio davanti a questa porta. La porta a sinistra, il tavolo... La scrivanie restanti erano due o tre ed erano poste a chiudere una "U" in cui la punta a sinistra di Elena era fiancheggiata dal tavolo di Sebastiano (con i fumetti e il suo giornale di Giarre tra le sue cose) e quella di Gianfranco, di Rosalba, di Ester e dei siciliani giovani per intenderci. Tutti a parlare sempre con tutti. E lui sempre silenzioso, sereno, accorto, concentrato nelle cose e nelle sue foto. La foto di Claudio per appunto. Quella di un uomo, di poco meno di trent'anni (Riccardo ne aveva trentasette allora) alto, timido, con le braccia lunghe e spigolose. Che prendeva la pausa dai suoi silenzi per sfottere Riccardo che andava seminando il tabacco della sua pipa in tutta la stanza. La foto di Claudio insieme a

Miki, a segnare quei due inverni di rivoluzione contro la mafia che aveva ucciso suo padre. La foto di Claudio, per appunto, nelle riunioni di redazione, dove eravamo tenuti a discutere, tutti terribilmente alla pari. Perché alla pari ci aveva messi la rivoluzione molecolare della morte di suo padre. La forma di questo ricordo, poi resta stranamente immutata negli anni, uno sguardo che pare che sta guardando l'angolo destro davanti a te, che lo stai osservando. E poi, le sue parole, che uscivano talvolta rassicuranti, o non curanti dell'impatto di un giudizio, quasi sempre impietoso, freddo, dolorante. Chiuso nella parte finale di una sua frase. Ma mai ostile. Pensando alla resistenza Non potete capire ai miei occhi cosa fossero loro. Claudio, con la sua amarezza e Miki,che tu non puoi scordatelo con i suoi occhi davanti a un primissimo computer alla fine di una chiusura del settimanale- E poi a casa di Riccardo a Cibali, durante una riunione dopo una cena di pane e patate e una bottiglia di birra. Anche lì, a parlarsi tra i silenzi, tra le mezze parole, tra il detto e non per mettermi a riparo dalle notizie. E tu li vedevi, tutti e tre, come dei soldati, che stavano velocemente pensando al giorno successivo, alla resistenza contro la mafia. A ricordare bene, sono due le volte lui mi ha parlato frontalmente. La prima, un cinque gennaio del 1990, in cui mi dice di non lasciare più solo Riccardo, di riandarlo a trovare a Roma dopo alcuni anni (molti, purtroppo) di silenzi, dopo la prima chiusura dei Siciliani. E la seconda in una piazza di Catania, qualche anno dopo, dove mi chiede di andare avanti e lottare. Questo a pensarci bene, riempie enormemente tutti i vuoti delle sue parole, anche degli anni successivi. Anzi li rende

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effettivamente pieni di significati trovati. Un altro ricordo, che soltanto adesso, a pensarci bene, associo è quello di Gianfranco che coordina il primo numero dei Siciliani del novantatrè. Serio, attento, silenzioso, nervoso più di me. L'avevo ritrovato, dopo parecchi anni, e io me lo ricordavo spassoso, veloce nel parlarti, mentre passava da spiegarti Petrarca alla cronaca degli ospedali. Adesso, si era ritrovato tutto il peso della storia del nostro giornale, su di sè. E quella notte di chiusura E lui, che in tutti quegli anni, aveva continuato la lotta ai cavalieri della città, passando da Avvenimenti, adesso era spaventato di scrivere e riscrivere i pezzi non tanto per Riccardo, ma per Claudio, che voleva sapere di continuo quanto stavamo facendo. Che un'ora dopo l'altra gli telefonava durante tutte le notti di chiusura nella vecchia sede di Piazza Ogninella. “Lo sai, Fabio, quanto Claudio ci tiene alla forma finale". Le parole di Faillaci - "Vuoi ricomiciare a parlare come mangi?"- , mentre sta soffocando un foglio e una penna e sta scrivendo il pezzo sul suo computer portatile sull'Auro e sulla violenza a Lorenzo. E sul potere di Ciancio. E poi quella notte di chiusura, da lontano, quando Claudio era arrivato in sede, mi viene sempre in mente questo rumore di porta seguito da passi frettolosi delle guardie del corpo di Claudio. Sono quei passi e rumori che lo hanno accompagnavano gli anni successivi nella redazione di Viale Regina Margherita, quando veniva e se andava sempre scortato, sempre silenzioso, sempre attento a guardare all'angolo avanti a sé.


www.isiciliani.it PALAZZOLO ACREIDE

IL FILO

Il mio paese di Giuseppe Fava Io conosco ogni angolo, ogni pietra di questo luogo, le scalinate segrete che si infilano tra le case e sbucano sull'alto del monte, i minuscoli cortili, le antiche strade settecentesche, le fontane... Questa è la Piazza della Matrice, chiusa tra due piccole colline: da una parte la Chiesa Madre con la grande facciata e dall'altra la basilica di S. Paolo, tutta gremita di archi, colonne, e coronata in cima dalle statue degli apostoli. Tutt'intorno, il fianco della montagna si apre dolcemente come una conchiglia: strade, terrazze, case, tetti, balconi, orti, scalinate, alberi, scendono in declivio fino a questa grande piazza deserta. I ricordi: il silenzio dei brevi pomeriggi d'inverno, le partite a calcio... Ecco questo è il corso del paese, la strada più amabile che io conosca. Fiancheggiata da piccoli palazzi dell'800, esca scende dapprima in lievissimo declivio formando un'ampia curva e poi ricomincia a salire, sempre più ripida in rettifilo fin quasi alla cima della montagna. Le facciate dei palazzi sono verdi, azzurre e rosse, ma di quei colori antichi ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Nascere in un piccolo paese, volergli bene, proiettare nel grande mondo tutte le piccole cose che abbiamo imparato ed amato lì...

che la luce, il vento, la pioggia e il muschio hanno modulato per centinaia di anni e perciò si sono fatti tenui come un'ombra. Balconi ed architravi sono di pietra bianca e scolpita, ma anche sculture, ormai, levigate dal tempo, hanno assunto altre forme, più misteriose e sfuggenti. Sui grandi marciapiedi si aprono i negozi, i bar, i circoli. Ogni sera, un'ora dopo il crepuscolo, la strada si anima improvvisamente di migliaia di persone che passeggiano quietamente come un rito, le ragazze più belle sottobraccio, i tavoli dei bar affollati di studenti... Talvolta poi andavamo a mangiare salsiccia e ulive in una delle bettole sotto la cupola di San Michele. Di là incomincia il quartiere più affascinante e segreto: interminabili scalinate che salgono, scompaiono sul fianco della collina, tra piccole case antiche, palazzi sgretolati, la vecchia torre dell'orologio in equilibrio sulla cima, i vicoli invisibili... Tutte le finestre hanno le tendine: i vasi di fiori sono disposti ovunque, sull'uscio delle case, sui davanzali, persino sulle tegole, le strade sono magicamente linde. Se incontrate qualcuno, sia uomo o donna, vi saluterà sempre, gentilmente per primo... Dove ora c'è quella tabaccheria sulla piazza c'era il circolo universitario. Questa era anche una delle piazze del veglione. I due veglioni di S. Paolo e S. Sebastiano. Bisogna dire che ogni cosa si facesse in questo paese doveva essere fatta due

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volte e spesso l'una contro l'altra, come ci fossero nel paese due anime: l'una raccolta attorno alla vecchia chiesa di S. Paolo nel cuore della vallata, il quartiere più antico e decaduto, dove vivevano soprattutto le famiglie baronali e i contadini: l'altro sulla cima del monte, raccolto attorno alla chiesa di S. Sebastiano, nel quartiere nuovo dove c'era adunata la borghesia degli impiegati, negozianti, professionisti, dov'erano il corso, il bar, il municipio e il teatro. Si combatteva per ogni cosa. Per esempio, il patrono era S. Paolo, nero, calvo, terribile, la spada balenante che aveva tagliato cento e una testa di cristiani, e lassù proclamarono un altro patrono, S. Sebastiano naturalmente, candido, bellissimo, intellettuale, legato ad un albero e trafitto da frecce d'argento, signore dei laureati, degli artigiani e degli studenti... Nel microcosmo siciliano Per cento anni infatti questa lotta rappresentò, nel microcosmo di questo paese siciliano, l'eco della evoluzione, e quindi di tutte le contrapposizioni della società italiana: l'antico e il nuovo, i nobili e gli artigiani, i borghesi contro i contadini finché l'accanimento cominciò ad acquietarsi, i baroni scomparvero, i figli dei contadini divennero medici ed avvocati, la violenza si trasformò in ironia e una sera di luglio del 1943 una tempesta di bombe anglo-americane fece egalitariamente strage sopra e sotto. Negli anni miserabili e affascinanti del secondo dopoguerra, dalle macerie, dai lutti, dalla fame germinò la gioia pazza di sentirsi vivi... La passeggiata è finita. E' quasi tramonto, il cielo è alto, rosso e luminoso ma il paese sembra dolcemente calare dentro l'ombra della montagna, bianco e grigio, con i colori della nostalgia, le grandi chiese, i palazzi antichi, le case pulite dei poveri. Cortese, dolce, amabile, gentile paese mio.


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Nando dalla Chiesa, Gian Carlo Caselli, Giulio Cavalli, Giovanni Abbagnato, Luca Salici, Salvo Vitale, Jack Daniel, Marta Bellingrer, Francesco Feola, Antonio Mazzeo, Luciano Mirone, Lorenzo Baldo, Giorgio Bongiovanni, Gabriele Licciardi, Umberto Gay, Rino Giacalone, Francesco Appari, Giacomo Di Girolamo, Antonio Mura, Tommaso Marelli, Vincenzo Mulè, Sebastiano Ambra, Francesco Ragusa, Luciano Bruno, Dario Vicari, Michela Mancini, Lorenzo Misuraca, Salvo Catalano, Giulio Pitroso, Giorgio Ruta, Carlo Gubitosa, Mauro Biani, Gianni Allegra, Flaviano Armentaro, Giuliano Cangiano, Darix, Frago, Carlo Gubitosa, Lele&Fante, Alessandro Leogrande, Marco Pinna, PV, Ricciotti Ricciotti, Marco Scalia, Marco Vicari, SantoMangiameli, Sandra Quagliata, Dario Parazzoli, Paolo Fior, Laura Cortina, Fabio Vita, Norma Ferrara, Lillo Venezia, Antonello Oliva, Diego Gutkowski, Elio Camilleri, Riccardo Rosa, Alessandro Gagliardo, Grazia Bucca, Salvo Vitale, Pietro Orsatti, Rudy Colongo, Fabio D'Urso

Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Coordinamenti: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it e Massimiliano Nicosia mnicosia@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles

riccardo@isiciliani.it

Progetto grafico di Luca Salici (da un'idea di C.Fava e R.Orioles)

redazione@isiciliani.it I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / d.responsabile riccardo orioles

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FOTO DI GRAZIA BUCCA

L'immagine

Palermo, Zen

“Conca d'Oro” è un enorme centro commerciale, di prossi-

Quale era la loro richiesta? Gli occupanti, per lo più con

ma apertura, che si trova nel quartiere Zen di Palermo, all'e-

una famiglia sulle spalle, chiedevano un posto di lavoro al-

strema periferia nord della città. Un volta completato impie-

l'interno del centro. Stando alle loro affermazioni era stato

gherà circa 600 persone, ospiterà 120 negozi, 7 ristoranti ed

promesso per i disoccupati del quartiere all'atto della costru-

avrà un parcheggio da 3000 posti auto. La struttura, voluta

zione del centro. Qualche passante manifestava la propria

da Maurizio Zamparini, presidente del Palermo Calcio, sorge

solidarietà. E contemporaneamente le proprie perplessità

su quella che un tempo era un'area verde, di 300mila metri

sull'apertura del Centro, che determinerà la chiusura dei pic-

quadri, precedentemente appartenente a delle Opere Pie.

coli negozi del quartiere.

Giovedi 19 gennaio un gruppo di disoccupati è riuscito a

In serata gli occupanti, dopo aver avuto la possibilità di

penetrare nel cantiere e a raggiungere il tetto, montare una

parlare con un responsabile della struttura, hanno lasciato il

tenda da campeggio e srotolare degli striscioni di protesta,

tetto e nei prossimi giorni (forse) avranno la possibilità di

annunciando che non sarebbero scesi dal tetto finché non

consegnare il loro curriculum e forse ottenere un colloquio.

avessero trovato qualcuno disposto ad ascoltarli.

I Sicilianigiovani – pag. 111

Grazia Bucca


Nel 1984 gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. E ora?

Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravvivere senza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori. Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra. I Sicilianigiovani – pag. 112


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