Agricoltura e alimentazione in emilia romagna

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Pubblicazione edita da: EDIZIONI ARTESTAMPA tel. 059 243449 – fax 059 214615 edizioni@edizioniartestampa.com www.edizioniartestampa.com

© 2015 Testi e immagini

Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna Soprintendenza per i beni librari e documentari Via Galliera, 21 – 40121 Bologna www.ibc.regione.emilia-romagna.it

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Tutti i diritti sono riservati. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in alcuna forma e con qualunque mezzo, senza il permesso dell’editore.

Coordinamento editoriale Carlo Bonacini Progetto grafico e redazione Margherita Bai Cromie e restauro immagini Dimitri Moretti Copertina Greta Malavasi ISBN 978-88-6462-320-7


I S T I T U T O P E R I B E N I A R T I S T I C I C U LT U R A L I E N AT U R A L I D E L L A R E G I O N E E M I L I A - R O M A G N A

Agricoltura e Alimentazione in Emilia Romagna Antologia di antichi testi a cura di

Zita Zanardi


Gruppo di lavoro Brunella Argelli, Giuseppina Benassati,Valeria Buscaroli, Paola Bussei, Alberto Calciolari, Silvia Ferrari, Anna Chiara Marchignoli, Zita Zanardi (Soprintendenza per i beni librari e documentari dell’IBACN)

VALORI E IDEE PER NUTRIRE LA TERRA

L’Emilia-Romagna a Expo Milano 2015

Isabella Fabbri (Comunicazione, promozione e attività editoriale IBACN) Valeria Cicala, Carlo Tovoli (Ufficio stampa IBACN) Vittorio Ferorelli (Rivista «IBC»)

Si ringraziano per la collaborazione

Autori dell’apparato iconografico

Archivio del Centro Etnografico del Comune, Ferrara (Roberto Roda); Archivio fotografico SBAP-RA (Paola Pilandri); Archivio generale arcivescovile, Bologna (Simone Marchesani); Archivio storico del Comune, Carpi (Lucia Armentano); Archivio storico del Comune, Modena (Franca Baldelli); Archivio storico del Comune, Santarcangelo di Romagna (Lisetta Bernardi, Isabella Manduchi); Biblioteca civica d’arte Poletti, Modena (Maria Elisa Della Casa); Biblioteca Comunale, Imola (Silvia Mirri); Biblioteca comunale Ariostea, Ferrara (Mirna Bonazza); Biblioteca comunale Artusi, Forlimpopoli (Antonio Tolo); Biblioteca comunale Classense, Ravenna (Floriana Amicucci, Claudia Giuliani); Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Bologna (Claudio Azzaroni, Patrizia Busi, Catia Magnani, Anna Manfron, Manuela Marchi, Laura Tita Farinella, Rita Zoppellari), Biblioteca comunale Gambalunga, Rimini (Paola Delbianco); Biblioteca comunale Majani, Budrio (Angela Amato); Biblioteca comunale Manfrediana, Faenza (Daniela Simonini, Fabiano Zambelli); Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia (Roberto Marcuccio); Biblioteca comunale Pasolini, Longiano (Nina Liverani); Biblioteca comunale Passerini Landi, Piacenza (Massimo Baucia, Pietro Poggi); Biblioteca comunale Saffi, Forlì (Antonella Imolesi, Ambra Raggi); Biblioteca comunale Venturini, Massa Lombarda (Elisa Ancarani); Biblioteca d’Arte e Storia S. Giorgio in Poggiale, Bologna (Daniela Schiavina); Biblioteca degli Istituti ortopedici Rizzoli, Bologna (Patrizia Tomba, Anna Viganò); Biblioteca del Centro Amilcar Cabral, Bologna (Elena Tripodi); Biblioteca dell’Accademia di scienze, lettere e arti, Modena (Micaela Giglio); Biblioteca dell’Accademia delle scienze, Ferrara (Giuliana Avanzi); Biblioteca dell’Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia (Katia Mazzoni); Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo, Modena (Sandra Zetti); Biblioteca Universitaria, Bologna (Biancastella Antonino, Rita De Tata, Patrizia Moscatelli); Biblioteca Estense-Universitaria, Modena (Annalisa Battini); Biblioteca interdipartimentale di Agraria. Biblioteca di Agraria “Gabriele Goidanich”, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (Marina Zuccoli); Biblioteca Malatestiana, Cesena (Paola Errani); Biblioteca provinciale dei Frati minori Cappuccini, Bologna (Elisabetta Zucchini); Biblioteca provinciale dei Frati minori Cappuccini, Reggio Emilia (Antonia De Marco); Biblioteca provinciale dei Frati minori dell’Emilia, Bologna (Elisabetta Stevanin) British Library, Londra (Stephen Parkin)

AdActa Srl (le riproduzioni delle incisioni di Giuseppe Maria Mitelli della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna per l’IBACN); Lucia Armentano (per l’Archivio storico del Comune di Carpi); Franca Baldelli (per l’Archivio storico del Comune di Modena); Massimo Baucia, Pietro Poggi (per la Biblioteca comunale Passerini Landi di Piacenza); Maria Grazia Bollini e Patrizia Busi (per la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna le riproduzioni delle p. 151, 227, 246, 277, 315, 316); Mattia Calderoni (per la Biblioteca comunale Manfrediana, Faenza); Maria Elisa Della Casa (per la Biblioteca civica d’arte Poletti, Modena); Ivano Giovannini (per la Biblioteca Malatestiana, Cesena); Mauro Giunchi (le riproduzioni delle p. 89, 97, 100); Katia Mazzoni (per la Biblioteca dell’Arcispedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia); Gabriele Pezzi (per la Biblioteca comunale Classense, Ravenna); Ambra Raggi (per la Biblioteca comunale Saffi, Forlì); Roberto Roda (per l’Archivio del Centro Etnografico del Comune, Ferrara); Andrea Scardova (per l’IBACN la riproduzione di p. 83); Daniela Schiavina (per la Biblioteca d’Arte e Storia S. Giorgio in Poggiale, Bologna); Eros Vincenti (per la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna la riproduzione a p. 322) Tutte le riproduzioni non comprese nelle precedenti indicazioni sono state eseguite da Paola Bussei (Soprintendenza per i beni librari e documentari dell’IBACN) Le riproduzioni degli esemplari posseduti dalle Biblioteche Estense-Univeritaria di Modena (Prot. 835, Cl. 28.13.07/12.2 del 10.3.2015), Palatina di Parma (Prot. N. 511, Class. 28.34.08.02.65.12 del 18/2/2015) e Universitaria di Bologna (Prot. n. 177 Pos.VI/ 9 del 29.1.2015) sono state pubblicate su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. La riproduzione dell’affresco della Basilica di S. Apollinare in Classe è stata fornita e pubblicata su gentile concessione della Soprintendenza belle arti e paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini.


Biblioteche citate

Redattori delle schede

L’elenco comprende solo gli istituti di cui sono stati esaminati e riprodotti gli esemplari. Quelli semplicemente citati nelle schede sono inclusi nell’indice dei nomi di luogo.

AC ACM GB MB PB PE RC ZZ

Bologna, AGA – Bologna, Archivio Generale Arcivescovile Bologna, AS Casa Majani – Bologna, Archivio storico Casa Majani Bologna, BA Goidanich – Biblioteca interdipartimentale di Agraria. Biblioteca di Agraria “Gabriele Goidanich”, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Bologna, BAS S. Giorgio in P. – Bologna, Biblioteca d’Arte e Storia S. Giorgio in Poggiale Bologna, BC Archiginnasio – Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio Bologna, BCasa Carducci – Bologna, Biblioteca di Casa Carducci Bologna, BMR – Biblioteca del Museo civico del Risorgimento Bologna, BSP Fameja Bulgneisa – Bologna, Biblioteca del Sodalizio Petroniano la Fameja Bulgneisa Bologna, BST studio teologico – Bologna, Biblioteca provinciale dei Frati minori dell’Emilia. Sezione Biblioteca dello Studio teologico S.Antonio Bologna, BUB – Biblioteca Universitaria di Bologna Bologna, IOR – Bologna, Biblioteche scientifiche degli Istituti ortopedici Rizzoli Bologna, MIBM – Bologna, Museo internazionale e Biblioteca della musica Budrio BC Majani – Budrio, Biblioteca comunale Augusto Majani Carpi, ASC – Carpi, Archivio storico del Comune Cesena, BMalatestiana – Cesena, Biblioteca Malatestiana Cesenatico, BCasa Moretti – Cesenatico, Biblioteca di Casa Moretti Faenza, ASF – Faenza, Archivio di Stato Faenza, BC Manfrediana – Faenza, Biblioteca comunale Manfrediana Ferrara, ACEC – Ferrara, Archivio del Centro etnografico del Comune di Ferrara Ferrara, BAccademia Scienze – Ferrara, Biblioteca Lionello Poletti dell’Accademia delle scienze Ferrara, BC Ariostea – Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea Ferrara, CS S. Simone e Giuda = Ferrara, Biblioteca del Centro Studi S. Simone e Giuda Forlì, BC Saffi – Forlì, Biblioteca comunale Aurelio Saffi Forlimpopoli, BC Artusi – Forlimpopoli, Biblioteca comunale Artusi Imola, BIM – Imola, Biblioteca comunale Longiano, BC Pasolini – Longiano, Biblioteca storica Lelio Pasolini Massa Lombarda, BC Venturini – Massa Lombarda, Biblioteca comunale Carlo Venturini Massa Lombarda CP Panighi – Massa Lombarda, Collezione privata Alessio Panighi Mirandola, ACE Al Barnardon – Mirandola, Archivio della Casa editrice Al Barnardon Mirandola, BC Garin – Mirandola, Biblioteca comunale Eugenio Garin Modena, ASC – Modena, Archivio storico del Comune Modena, ASM – Modena, Archivio di Stato di Modena Modena, BAccademia SLA – Modena, Biblioteca dell’Accademia di scienze, lettere e arti Modena, BCA Poletti – Modena, Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti Modena, BEU – Modena, Biblioteca Estense Universitaria Modena, BF S. Carlo – Modena, Biblioteca della Fondazione Collegio S. Carlo Parma, Academia Barilla – Parma, Biblioteca gastronomica Academia Barilla Parma, BA Bizzozero – Parma, Biblioteca di agricoltura Antonio Bizzozero Parma, BPalatina – Parma, Biblioteca Palatina Piacenza, BC Passerini Landi – Piacenza, Biblioteca comunale Passerini Landi Ravenna, BC Classense – Ravenna, Biblioteca comunale Classense Reggio Emilia, Arcispedale – Reggio Emilia, Biblioteca medica Pietro Giuseppe Corradini dell’Arcispedale S. Maria Nuova Reggio Emilia, BCappuccini – Reggio Emilia, Biblioteca provinciale dei frati minori Cappuccini Reggio Emilia, BPanizzi – Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi Rimini, BC Gambalunga – Rimini, Biblioteca civica Gambalunga Rimini, CP – Rimini, Collezione privata Santarcangelo di Romagna, ASC – Santarcangelo di Romagna, Archivio storico del Comune

= Alberto Calciolari = Anna Chiara Marchignoli = Giuseppina Benassati = Massimo Baucia = Patrizia Busi = Paola Errani = Rosaria Campioni = Zita Zanardi

Abbreviazioni utilizzate nelle schede antip. antiporta c. carta/e ca. circa calcogr. calcografico/i cit. citato / citazione ed. editore fasc. fascicolo/i fl. floruit fol. in folio front. frontespizio f.t. fuori testo geogr. geografica/e in. ineunte ill. illustrazione/i ms. manoscritto/i n.n. non numerata/e p. pagina/e pt. parte/i r recto ripieg. ripiegata/e ritr. ritratto/i sec. secolo/i seg. seguente/i segnatura di registro segn. s.v. sub voce tav. tavola/e v verso v. vedere vol./voll. volume/i xil. xilografico/a



Sommario Premessa. . . . .

di Stefano Bonaccini .

Presentazione. .

di Angelo Varni

. . . . . . . . . . . . . . . . . 8

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Manuali e trattati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

Libri di sanitĂ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 Dissertazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 Ricettari e “libri di casaâ€?. . . . . . . . . . . . . . 199

Leggi, regolamenti, inchieste. . . . . . . . . . 263

Lunari e almanacchi . . . . . . . . . . . . . . . . 291 Arti e letteratura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 311

Indice dei tipografi-editori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 364 Indice dei nomi di persona. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 367 Indice dei nomi di luogo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 378 Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 383


Premessa

Tra le proposte culturali con le quali l’Emilia-Romagna si affaccia all’Expo 2015, questo libro credo rappresenti in modo particolare motivo di interesse e di attenzione. Ritengo infatti che presentare le eccellenze dell’offerta agroalimentare di questa regione partendo dalle sue radici culturali sia un fatto importante, carico di significato e per niente scontato. Questo lavoro evidenzia in modo esemplare come la cultura, prendendo spunto dalla grande tradizione agricola ed alimentare di queste terre, si affermi come snodo tra saperi e valori, tra competenze e discipline. Inoltre, più nello specifico, il cibo e l’agricoltura offrono l’occasione di sondare, ancora una volta, quel preziosissimo patrimonio culturale, materiale ed immateriale, di cui le nostre istituzioni, i nostri musei, le nostre biblioteche, i nostri archivi, sono depositari: tessere di un importante mosaico della bellezza, indissolubilmente legato alla nostra identità regionale. Credere nella cultura significa, in un certo senso, sostenere una delle leve strategiche per la costruzione di un’identità e di un’economia regionale volta al futuro. Dalla conoscenza e dalla consapevolezza della storia della tradizione agroalimentare emiliano-romagnola, quindi, un significativo impulso a riflettere su valori e idee per nutrire la terra, filo conduttore che questa amministrazione ha voluto darsi per interpretare l’evento dell’Expo 2015. E crediamo, con soddisfazione, che anche questo libro – realizzato attraverso la preziosa competenza del nostro Istituto per i beni culturali – possa portare un contributo alla riscoperta dei processi produttivi di qualità, dei luoghi, delle tradizioni; ma soprattutto delle persone: dell’ingegno e delle abilità, dell’amore per i valori del lavoro e dell’impegno che animano le donne e gli uomini di questa Regione. In fondo, le radici di noi emiliano-romagnoli rappresentano anche un po’ le nostre ali.

Stefano Bonaccini

Presidente Regione Emilia-Romagna 8


Presentazione

Se l’occasione dell’esposizione milanese ha consigliato di rivolgere lo sguardo all’intensa e secolare trattazione di argomenti che hanno riguardato produzione agricola e alimentazione nella nostra regione, il lavoro che qui si presenta va di certo ben oltre l’attuale contingenza ed è in grado di offrire un originale ed esauriente panorama del rapporto realizzatosi nei secoli tra il mondo dei campi, con le sue attività, le sue produzioni, le sue tecniche e l’utilizzo fatto dalle successive generazioni degli esiti produttivi di tale lavorio di uomini e di cose. Con grande accuratezza filologica e paziente ricostruzione dei contenuti l’autrice offre infatti un elenco preciso ed il più possibile esaustivo di quanto scritto in regione e sulla regione tra il XIII e il XIX secolo, prendendo in considerazione tanto opere trattatistiche, ricettari tradizionali, interventi normativi nonché gli esiti di quanto ispirato dal cibo a scrittori poeti pittori e musicisti. Ne risulta in tal modo uno straordinario percorso di conoscenze e di approfondimenti che ci accompagna nei diversi territori della regione con le loro varietà produttive, le differenti elaborazioni gastronomiche, le tradizioni di un antico mondo contadino capaci di perpetuarsi anche nell’odierna trasformata realtà.

Angelo Varni Presidente Istituto per i beni artistici, culturali e naturali 9


No man is an Iland, intire of itselfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine … John Donne Devotions upon emergent Occasions 1624

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All’Esposizione milanese non si sfugge e a testimoniarlo, nel caso ci fossero dubbi, concorrono i convegni, le mostre, le trasmissioni televisive, i libri che sono fioriti come per incanto in questi ultimi mesi. E in effetti, per utilizzare un’espressione pertinente, l’occasione è ghiotta e quindi imperdibile: si è così pensato che avrebbe potuto risultare interessante – e non solo per questa circostanza – raccogliere in un unico volume una scelta di opere (manoscritte e a stampa) in grado di testimoniare, se possibile anche attraverso immagini, la presenza in Emilia e in Romagna di una importante tradizione agricola e alimentare dalle radici antiche, i cui contenuti tendano a evidenziare le colture caratteristiche, le tecniche di produzione, le consuetudini agricole e alimentari (sia quelle che sono arrivate fino a noi che quelle ormai scomparse), la legislazione di competenza, ma anche le curiosità che sono alla base di un settore ancora dinamico e fecondo della nostra regione. I criteri che hanno determinato la scelta sono lo spazio e il tempo: le opere prese in considerazione sono frutto dello studio di autori emiliano-romagnoli o che comunque nella regione hanno vissuto e operato per tutta la vita o per una parte significativa di essa. Dando però per scontata la veridicità dell’affermazione di John Donne che “nessun uomo è un’isola, bensì un pezzo di continente, una parte del tutto” sono stati inclusi tutti i riferimenti ad autori ‘altri’ quando si


Introduzione è ritenuto che il loro lavoro abbia avuto un peso determinante sulla produzione locale. L’arco cronologico contemplato si estende dai primi testi sull’argomento (secoli XIIIXIV) – primo fra tutti il trattato dell’agronomo bolognese Pietro de’ Crescenzi – fino ai documenti prodotti nell’800, ricco di innovazioni in questo settore, esteso ai primi anni del ‘900 nel caso di autori vissuti ‘a cavallo’ dei due secoli.1 Il XX secolo (e questo inizio del XXI) sono rappresentati dalla bibliografia (studi, manuali, prime pubblicazioni, ristampe anastatiche ecc.) che è stata consultata per la redazione delle schede.2 Si tratta di una vera e propria antologia che considera come scontata l’impossibilità – pur con i limiti di scelta appena enunciati – di rappresentare comunque tutto l’esistente. Gli esemplari dei testi descritti (a parte poche eccezioni di cui si è dato conto) sono presenti in almeno una delle biblioteche o degli archivi del territorio regionale, che è stato rappresentato, per quanto possibile, nella sua interezza (da Piacenza a Rimini), sia per quanto riguarda i temi, gli autori e le opere, sia per quanto riguarda la presenza degli esemplari stessi. Gli istituti che non sono nominati rientrano nella ‘dura legge’ della scelta, ma sono comunque tutti ricchi di materiali interessanti almeno quanto quelli inclusi.3 I documenti selezionati sono stati suddivisi in sette sezioni tematiche, ognuna delle quali è preceduta da una breve introduzione esplicativa.

Nella prima sono considerati Manuali e trattati (schede 1-15), vale a dire le opere di carattere generale che testimoniano il contributo particolare dato dalla regione alla storia dell’agricoltura e dell’alimentazione, anche quando si ricollegano ai testi della grande letteratura italiana ed estera del settore. Si leggerà quindi dei Ruralia commoda di Pietro de’ Crescenzi (testo fondamentale per la storia dell’agricoltura moderna italiana), del quasi contemporaneo Paganino Bonafede con il suo Tesoro dei rustici e via via, attraverso le opere di autori quali il ravennate Marco Bussato, il bolognese Vincenzo Tanara, fino all’esperimento realizzato in Romagna e raccontato dallo svizzero Elie Victor Benjamin Crud e al contributo apportato all’innovazione tecnologica di settore da Luigi Maccaferri; Nella seconda sezione si racconta dei Libri di sanità (schede 16-36) e dello stretto rapporto sempre esistito tra salute e cibo, tramite gli autori che si sono dedicati in modo particolare a questo aspetto (come il medico bolognese Baldassarre Pisanelli) e gli scienziati che hanno contribuito alla conoscenza e alla classificazione delle preziose piante commestibili – alla base di una corretta alimentazione oltre che materia prima medicinale – come i fratelli Bartolomeo e Giacinto Ambrosini; Nella terza sezione si trova una scelta di Dissertazioni (schede 37-72), cioè di opere che trattano specifici argomenti (allevamenti, colture, tecniche ecc.) come il saggio del bolognese Paolo Benni, considerato uno dei 11


pionieri della coltivazione delle patate, i cosiddetti “pomi di terra”; il piacentino Giulio Bramieri con la sua Coltivazione delle viti, oppure ancora i trattati sull’allevamento delle anguille nelle valli di Comacchio o delle api nel bolognese e ferrarese; La quarta sezione è dedicata a Ricettari e ‘libri di casa’ (schede 73-96) scritti dalle persone che nel corso dei secoli hanno operato materialmente nel settore dell’alimentazione (cuochi, pasticceri, trincianti, bottiglieri ecc.). Sarà possibile quindi trovare Il piciol lume di cucina di Antonio Maria Dalli, che fu cuoco alla corte parmense di Francesco Farnese, oppure I Libri di cucina del cuoco seicentesco bolognese Giuseppe Lamma, il cui manoscritto si trova nell’archivio della famiglia Bentivoglio, conservato dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. O ancora La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del gastronomo e critico letterario Pellegrino Artusi, ma sarà possibile anche leggere dei ‘libri di casa’ che danno conto di tradizioni gastronomiche familiari più sommesse ma altrettanto interessanti; Nella quinta sezione sono raccolti esempi vari di Leggi, regolamenti, inchieste (schede 97-114) elaborati dalle autorità governative che spesso ricordano normative attuali e altrettanto spesso si rivelano quantomeno curiose. Sono stati inclusi, a titolo esplicativo, statuti delle corporazioni d’arti e mestieri legati in modo particolare al settore dell’alimentazione, come quella dei salsicciai di Modena. Queste ‘società’ erano molto attive e fra i loro compiti vi era soprattutto quello di esercitare un rigido controllo sull’uso delle materie prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e quella che oggi potremmo definire ‘lotta alla contraffazione’, cioè ai prodotti che non rispettavano gli standard qualitativi previsti dalle associazioni stesse; Protagonisti della sesta sezione sono Lunari e almanacchi (schede 115-125) interpreti – in forma di opuscoli e manifesti – di una saggezza popolare che ha rappresentato (e in certa misura ancora lo fa, chi non conosce il famoso folignate Barbanera?) un fondamentale punto di riferimento per l’agricoltura e l’alimentazione; La settima e ultima sezione, definita Arte e 12

letteratura (schede 126-147) si pone l’obiettivo di esprimere quanto il cibo abbia ispirato nel tempo scrittori, poeti, pittori, musicisti ecc. Il cibo è testimone di identità culturale ma nello stesso tempo è anche manifestazione di scambio tra culture diverse e una ricerca sul modo con cui se ne parla (attraverso le varie forme artistiche e letterarie) può portare a scoperte affascinanti. Bologna è ben rappresentata già nel XVII secolo sia dalle composizioni del cantimbanco persicetano Giulio Cesare Croce (la Canzone sopra la Porcellina, gli Intrichi, rumori, chiacchiare, viluppi, fracassi, che si fanno nella città di Bologna al tempo delle vendemie, la Canzone noua, e ridicolosa in lode de’ sughi potendone citare solo alcuni), sia dalle suggestive ed espressive incisioni di Annibale Carracci e Giuseppe Maria Mitelli; ma anche il resto della regione è ben illustrato, per esempio dal modenese Giuseppe Ferrari con Gli elogi del porco, dal ferrarese Antonio Frizzi (La salameide), o ancora dai romagnoli Marino Moretti con La piè (Il pane dei poveri) e Giovanni Pascoli (La piada). E molti altri ancora. L’attribuzione degli autori e delle opere a una sezione è puramente funzionale: in realtà alcuni avrebbero potuto essere collocati diversamente, addirittura in più di una sezione, grazie alla loro ‘trasversalità’. I testi sono costituiti di schede, ognuna delle quali è composta di una parte descrittiva – strettamente tecnica – del documento cui si riferisce (che termina con la localizzazione presso una delle biblioteche o degli archivi consultati)4 e da una parte per così dire ‘narrativa’ che dà conto delle notizie ritenute più interessanti circa l’autore e l’opera. Alcune schede sono accompagnate da ‘box’ – evidenziati da un colore particolare – destinati ad approfondimenti legati a quanto contenuto nella scheda cui fanno riferimento. L’ordinamento delle schede all’interno di ogni sezione risponde alle esigenze proprie della sezione stessa: dove è stato possibile si è seguito l’ordine cronologico determinato dal periodo di attività degli autori, a cui si sono affiancati come criteri, a seconda dei casi, l’area di attività che eventualmente accomuna più autori o la materia di cui si sono occupati. In questo


Introduzione modo, per esempio, nella sezione ‘Dissertazioni’ (la terza) sono state individuate alcune ‘aggregazioni’ tematiche (frutta e verdura, alimenti elaborati dall’uomo come il pane, materie prime come il sale, allevamenti come quello delle anguille e delle api e così via). Sono stati elaborati tre indici: quello dei tipografi e degli editori, quello dei nomi di persona e l’indice dei nomi di luogo.5

1. Unica eccezione il documento conosciuto come ‘pergamena di Marola’ (scheda n. 54) che risale al XII secolo, scritto con altri intendimenti ma contenente il primo riferimento al formaggio parmigiano-reggiano. 2. Della ricca sitografia consultata si darà conto nella versione web di questo volume, che sarà prossimamente consultabile all’indirizzo dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna. 3. È il caso, per esempio, della Biblioteca dell’Accademia nazionale di agricoltura di Bologna che, pur essendo stata interpellata fra le prime, era purtroppo appena stata chiusa per un importante lavoro di riordino. La sua riapertura è avvenuta quando questo volume era già nella fase finale di stampa, per cui non è stato possibile dare conto del suo prezioso patrimonio che annovera pezzi di estremo interesse, sia nell’ambito bibliografico (ricchissima la raccolta di periodici) sia per quel che riguarda la grafica, basti citare la collezione di incisioni di Renzo Sommaruga. 4. Per la compilazione della parte tecnica ci si è attenuti allo standard descrittivo della guida SBN (antico e moderno). Il titolo è stato reso secondo le norme del Manuale per la compilazione della scheda (riprese nella guida SBN) a cominciare dalle regole di trascrizione che non sono invece state rispettate nelle citazioni testuali, per renderne più agevole la lettura. Le note tipografiche sono state riportate nella forma originale – sia quelle del frontespizio sia quelle del colophon che sono poste tra parentesi tonde – e comprendono il luogo di stampa, il nome del tipografo e/o dell’editore, la data di stampa o di edizione. La descrizione fisica comprende la paginazione o cartulazione, l’eventuale presenza di apparato iconografico e il formato, indicato con il metodo delle piegature che il foglio originale ha subito per ottenere la misura voluta (vale a dire in folio, in quarto, in ottavo ecc.) per le edizioni fino al 1830, con le dimensioni espresse in cm per quelle successive (in mm nel caso dei manoscritti). La prima delle note relative all’edizione è la formula collazionale che riporta la segnatura dei fascicoli. Seguono le note che servono a integrare e a qualificare le informazioni fornite nelle aree precedenti. Fra i dati riguardanti i libri antichi non è stata inclusa la rilevazione dell’impronta, ritenuta troppo ‘tecnica’ per questa occasione. 5. Desidero rivolgere un pensiero di particolare riconoscenza a: Elisa Ancarani, Margherita Bai, Massimo Baucia, Paola Bussei, Rosaria Campioni, Paola Errani, Claudia Giuliani, Patrizia Moscatelli, Stephen Parkin, Daniela Schiavina, Laura Tita Farinella, Fabiano Zambelli. 13


Al detrator di questa agricoltura sia la terra infeconda e l’acqua impura Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa

Non è cosa semplice estrapolare una scelta di trattati, con radici emiliano-romagnole, che incrocino i temi dell’alimentazione, tanta è l’offerta e la varietà di approcci, di forme e di specificità dei contenuti. E comunque una significativa selezione non può che partire da Pietro Crescenzi, il grande naturalista bolognese vissuto tra Due e Trecento, e ciò per almeno due motivi: innanzitutto perché il suo De ruralibus commodis (noto anche come De agricultura vulgare) segna una tappa miliare nella storia dell’agronomia italiana: si tratta infatti di un’opera che affronta i temi dell’economia rurale a tutto tondo e che è in assoluto uno tra i primi trattati medievali in materia. Ma vi è anche un altro buon motivo: poiché del De ruralibus esiste un prezioso cimelio manoscritto miniato, conservato alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, uno dei più importanti ed antichi “giacimenti culturali” di questa regione. Sempre sul finire del medioevo, al confine con la letteratura, con Il tesoro dei rustici di Paganino Bonafede viene proposto invece un interessante esempio trecentesco di poesia didascalica georgica, dove a robuste – e talora imperfette – forme poetiche si associa una patina linguistica bolognese. Con l’età moderna, il filone agronomico, avviato dal Crescenzi, ha una importante ricezione: tra gli esempi proposti in questa selezione, vi sono due trattati tardo-cinquecenteschi, Il giardino di agricoltura, agile manuale del ravennate Marco Bussato, e La nuova, vaga, et dilettevole villa del carmelitano piacentino Giuseppe Falcone: opere dove sono evidenti gli intenti didattici fondati su di una saggezza empirica ed una importante attitudine all’os-


Manuali e trattati servazione, alla quale si accostano esperienze di tradizione, anche di ascendenza popolare. Invece l’opera di Bernardino Carroli, Il giouane ben creato, è un esempio di precettistica dove l’intento didattico è connotato da una significativa urgenza moraleggiante. Tuttavia l’agricoltura, nella pianura padana, ha da sempre dovuto fare i conti con la presenza ambivalente delle acque, che ora favoriscono la fertilità dei terreni, o gli spostamenti di merci e persone attraverso il sistema fluviale, ora invece travolgono abitazioni e campi annientando il duro lavoro dell’uomo. Così i temi del controllo e della regimentazione di un sistema idrografico complesso e delicato, dominato dal Po e dai suoi affluenti, da secoli sono motivo di preoccupazione e di attenzione per governanti, ingegneri, popolazioni. Esempio di trattatistica frutto di questa specifica condizione è il Discorso sopra l’inondatione dell’acque del bolognese del Salaroli, che si riferisce a fatti avvenuti nel 1522 e che rende conto di quanto sia antico e complesso il dibattito sulla gestione territoriale ed idraulica nella pianura a sud del Po. Ma, per converso, le acque da sempre sono anche al centro di significative forme di economia: ne dà testimonianza il grande Luigi Ferdinando Marsili, che nella sua Agri Bononiensis palustri historia offre una panoramica interessante delle varie tipologie di coltura nelle acque interne a cavallo tra Sei e Settecento. Il Seicento, comunque, è dominato dal capolavoro del Tanara, L’economia del cittadino in villa, monumentale opera enciclopedica sull’economia agraria, che eredita e supera la precedente tradizione di studi di agronomia, e che avrà ampia risonanza con le sue nume-

rose ristampe. Col Settecento, sia come conseguenza della lezione del Tanara, sia come effetto di una nuova attenzione illuminista, si osservano alcune significative tendenze: opere come quelle del riminese Giovanni Antonio Battarra e del ferrarese Domenico Vincenzo Chendi da un lato dimostrano l’affermazione dell’idea e della pratica di un’agricoltura razionale, basata su presupposti tecnicamente solidi; e dall’altra attestano la consapevolezza da parte degli uomini di cultura del bisogno di una incisiva divulgazione delle competenze tra le classi contadine mediante una nuova pedagogia dell’agricoltura. In evoluzione rispetto a questa esperienza illuminista, nel corso dell’Ottocento Filippo Re ci offre un esempio di trattatistica connotato da un approccio scientifico ed accademico; così pure il barone Elie Crud, di origini svizzere, che pur non provenendo dal mondo accademico è autore di un manuale in francese che avrà ampia fortuna nelle scuole tecniche d’Oltralpe e che è basato su osservazioni e sperimentazioni condotte a Massa Lombarda. Lo spirito civico improntato ai moti risorgimentali lascerà una impronta significativa in alcuni dei trattatisti della seconda metà del XIX secolo: Carlo Berti Pichat e Luigi Maccaferri, autori rispettivamente di un ampio trattato generale di agricoltura e di un’agile pubblicazione, furono ambedue interessati alla qualificazione della produzione agraria, accostando all’impegno politico la pratica dello studio e la passione per il progresso e per la diffusione delle tecniche di produzione. Anche questo, in fondo era un modo di essere patrioti! (ac)

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1.

Pietro de’ Crescenzi (Bologna, 1233-1320)

De agricultura vulgare. [Venezia, Alessandro Bindoni] (Impressum Venetiis, die nono mensis Iulii 1519) 235 [ma 234], [6] c. ill. ; 4º. – Segn.: a-z8, &8 Ɂ8 भ8, A-D8. Bologna, BC Archiginnasio (17.W.VIII.8. Prov.: Antonio Magnani)

Studioso di filosofia, di medicina, di scienze naturali, di giurisprudenza, Pietro de’ Crescenzi è considerato il maggiore agronomo del Medioevo occidentale. Nel suo Ruralium Commodorum libri XII teorizzò tecniche agronomiche e di coltivazione dei giardini, la cui applicazione avrebbe determinato la struttura del moderno paesaggio rurale italiano. Questo testo sulla coltivazione fu uno dei pochissimi a vedere la luce nel periodo medievale, infatti tra la composizione dell’ultima opera agronomica della latinità, l’enciclopedica Naturalis historia di Plinio il Vecchio e i primi trattati rinascimentali, trascorsero milletrecento anni durante i quali furono pubblicati solo tre testi: uno in greco, la Geoponica, attribuita a Cassiano Basso; uno in arabo, il Libro dell’agricoltura dell’arabo Abū Zakariyā ibn al-Awwām, uno dei capolavori dell’agronomia di tutti i tempi e i Ruralium Commodorum libri XII del 1304, scritti da Crescenzi in lingua latina. Dei dodici libri, il primo è dedicato all’aria, ai venti, alla scelta di luoghi appropriati per costruire strade e case, a pozzi fontane e acquedotti, al ruolo dell’amministratore e del padre di famiglia; il secondo descrive la natura delle piante e gli aspetti comuni all’agricoltura in tutti i tipi di terreno; nel terzo sono presi in esame i campi coltivati e, in particolare, quelli di cereali e leguminose. Il quarto libro tratta “della natura & cultivatura della vite & delle vignie & d’ogni utilita di fructo loro specialmente è da dire”: qui i vini sono classificati come un moderno trattato di enologia per colore, sapore, profumo e sono elencati soprattutto quelli dell’Italia settentrionale. Si cita tra gli altri (a c. 61r e 61v) l’albana che “[…] El vino suo è molto potente et di nobile sapore ben serbevole et mezzanamente soctile: et se un poco avaccio si faccia la sua vendemmia meglio si serba il vino suo […]” e più avanti “[…] Et è un’altra maniera che è albinaza che è bincha [bianca] non lucente ma di machie piena et meravigliosamente dolcie: et è ritonda et il vino fa dolcissimo […] & maximamente al borgo apanicale [Borgo Panigale, comunità del contado bolognese] è tenuta […]” testimonianze della situazione vinicola del suo tempo per quanto riguardava la nostra regione. Il quinto libro parla degli alberi da frutto e non, e dei loro usi medicinali; il sesto 16


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dei giardini e delle virtù delle erbe, sia coltivate che selvatiche, già analizzate dal medico salernitano Matteo Plateario e dalla tradizione latina del Liber dietarum universalium del medico e filosofo egiziano Isaac Israeli; il settimo descrive i pascoli e i boschi, l’ottavo i giardini ornamentali, il nono gli animali, incluse le api e gli animali da cortile, con vari accenni a nozioni di medicina veterinaria; il decimo è dedicato alla caccia; l’undicesimo è una ricapitolazione dei precedenti libri in forma di precetti e il dodicesimo enumera i lavori dei dodici mesi dell’anno richiamandosi al modello di Palladio. Questa edizione veneziana in italiano ‘volgare’, stampata da Alessandro Bindoni, riconoscibile solo dalla marca tipografica nel frontespizio poiché non sottoscrive la pubblicazione, è arricchita da numerose piccole, espressive incisioni che illustrano i vari momenti dell’attività agreste. L’esemplare, posseduto dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, fa parte del fondo speciale Antonio Magnani, l’abate collezionista e bibliofilo che fu bibliotecario dell’Istituto delle Scienze di Bologna. (zz)

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2.

Pietro de’ Crescenzi (Bologna, 1233-1320)

De ruralibus commodis. [Segue:] Matteo Plateario, De medicinis simplicibus. Ms. membranaceo ; sec. XIV 2° quarto; I, 201, II c. (bianche le c. 200-201); segn.: 1-108, 117, 12-208, 214, 22-258, 266; richiami; segnature a registro; mm 367x236 (252x140). Cesena, BMalatestiana (S.VI.4. Prov.: Coluccio Salutati; Cosimo di Giovanni de’ Medici; Malatesta Novello)

Il manoscritto malatestiano, redatto forse a Bologna, si apre con un’epistola dedicatoria indirizzata ad Aimerico da Piacenza, generale dell’ordine dei Domenicani: l’iniziale miniata raffigura l’autore nell’atto di presentargli la sua opera. Il codice appartenne prima al letterato e politico toscano Coluccio Salutati, poi a Cosimo de’ Medici, come si rileva da una nota a c. 163v, ora parzialmente erasa. Pietro de’ Crescenzi compose tra il 1304 e il 1309 questo trattato che ebbe un considerevole successo tra la prima metà del Trecento e la fine del Cinquecento; la diffusione dell’opera, attestata dalle molteplici copie (ne restano ben 132 manoscritte) e dalle traduzioni in varie lingue volgari, fu incrementata dalle numerose edizioni a stampa, a partire da quella tedesca di Augusta del 1471 per i tipi di Johann Schlusser. Crescenzi utilizzò ampiamente nel suo trattato le fonti antiche, in particolare Palladio e Varrone per l’agricoltura e Avicenna per le conoscenze mediche, mentre per il VI libro, dedicato ai giardini, in cui discute delle “erbe” e delle loro proprietà terapeutiche, si rifece all’opera De medicinis simplicibus, conosciuta anche come Circa instans, redatta da uno dei più autorevoli rappresentanti della scuola medica salernitana, Matteo Plateario. Il richiamo esplicito a questa importante opera di botanica medicinale del Medioevo può forse spiegare la compresenza dei due trattati nel manoscritto malatestiano. Il corredo miniato è costituito da dodici iniziali figurate (oltre quella dell’epistola dedicatoria), poste all’inizio di ciascuno dei libri in cui è suddivisa l’opera e attinenti al contenuto. La decorazione è riconducibile a un miniatore bolognese formatosi a cavallo fra secondo e terzo decennio del Trecento e si distingue per l’intento naturalistico e per il tentativo 19


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Manuali e trattati di resa mimetica nella rappresentazione, nella quale la sommaria connotazione di piante e animali e l’approssimativa resa spaziale sono compensate da una precisa raffigurazione delle fisionomie e dalla vivacità descrittiva delle scene. Una datazione entro la prima metà del Trecento può essere proposta non solo sulla base della decorazione, ma anche dalla presenza a c. 163v di una data erasa di cui sono leggibili le prime tre cifre “135[.]” e che è stata considerata quella dell’acquisizione del codice da parte di Salutati. Nella stessa carta compare la nota di possesso “Liber Colucii Pyeri de Stignano”che si ripete identica a c. 199v, al termine dell’opera di Plateario. Dopo la morte di Salutati e la vendita dei suoi libri da parte degli eredi il codice fu acquistato da Cosimo il vecchio, come attestato dalla nota di possesso erasa a c. 199v: “Liber Cosme Iohannis de Medicis”. Intorno alla metà del ‘400 il volume entrò a far parte della biblioteca che Malatesta Novello dei Malatesti, signore di Cesena dal 1433 al 1465, andava allestendo all’interno del convento cesenate dei frati minori. Per la creazione della sua biblioteca egli integrò il fondo librario conventuale, costituito da testi biblici ed esegetici e da opere della tradizione scolastica, con oltre 120 manoscritti contenenti classici latini e greci e commenti dei Padri della Chiesa, che fece trascrivere nell’arco di un ventennio, dalla metà degli anni Quaranta fino alla sua morte. Il codice conserva ancora la legatura originale ricevuta in età malatestiana e la caratteristica catena in ferro battuto con cui è assicurato al sesto banco della fila sinistra dei plutei della biblioteca. (pe) Ullman, Humanism, 138, 278; Bartolomeo Bimbi, 139-140 n. 2

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3.

Paganino Bonafede (Bologna, sec. XIV)

Il tesoro dei rustici poema di Paganino Bonafede bolognese scritto in rozzo italiano l’anno 1360. Bologna, Tipografia della Volpe, 1832. 54 p. ; 20 cm. – Edizione a cura di Ottavio Mazzoni Toselli. Bologna, BC Archiginnasio (17. Scrittori bolognesi. Agronomia. Cap. II, n. 1)

Filippo Re (Della poesia didascalica georgica, 1809, p. 7) scrive: “Alla metà del quarto decimo secolo Paganino Buonafede di Bologna compose il suo Thesaurus rusticorum, del quale non altro sappiamo, se non che in versi scempiati e goffi ma d’utili insegnamenti ripieni tutta espose l’arte di coltivare la terra. Così lasciò scritto il Quadrio, che ne vide il mss. fra gli scritti del canonico Amadei ora esistenti nella Biblioteca di questa reale Università […]” e conclude dichiarando “credo irreparabilmente smarrito il Tesoro del Buonafede”. La storia del manoscritto è spiegata a p. 5 della prefazione a questa edizione curata da Ottavio Mazzoni Toselli, che l’aveva già pubblicata l’anno precedente in appendice (p. 225-276) alla sua Origine della lingua italiana. Il filologo bolognese, come racconta lui stesso, riuscì a rintracciare lo scritto di Bonafede che Filippo Re riteneva fosse andato perduto e lo donò con legato testamentario del 2 dicembre 1842, insieme alle altre sue carte, alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio che lo acquisì dalla vedova nel 1855 (ms. 3135). Sulla data di composizione e sul nome dell’autore non vi sono dubbi perché sono entrambi dichiarati all’inizio e alla fine dell’opera. Si legge infatti nell’Incipit thesaurum rusticorum: “Anni trecento e mile sesanta / Dal comencare de la vera fede santa / De cristo gratioso e benigno / Che dogne laude e donore degno / Constrense lo voler so io de trovare / Modo che fruto ne potesse trare / Ogni omo de tute le infrascritte cose / Che sono state palese over naschose / […]” mentre nelle ultime righe dichiara “Per Paganin de bona fe / Che le compose e disse e fe / Per amaistrare quelli che men sano / Da lui se tanto saver vorano”. Sono poco meno di mille versi endecasillabi a rima baciata (ma non sempre rispettata) che costituiscono una sorta di ‘eredità ideale’ dei Ruralia commoda del suo concittadino Pietro de’ Crescenzi che lo precedette di una cinquantina d’anni, ma di cui lui probabilmente non ebbe notizia. L’importanza di questo scritto è duplice: per il contenuto (si tratta infatti di un vero e proprio manuale agricolo con chiari intenti didascalici) e per la forma, che offre una vera e propria ‘messe’ di espressioni dialettali bolognesi. Nel 1915 Lodovico Frati – all’epoca conservatore dei manoscritti della Biblioteca Universitaria di Bologna – pubblicò I rimatori bolognesi del Trecento dove raffrontò i due codici esistenti del Tesoro, quello posseduto dall’Archiginnasio e il codice della Biblioteca Corsiniana di Roma (44.B.7) che risulta più ‘pulito’ nella lingua e nella metrica e arricchito di una parte preliminare contenente alcune ricette in prosa. Frati definisce il poemetto (p. XXVII) “assai notevole non solo per la storia dell’agricoltura in Bologna; ma anche come documento filologico, essendo scritto in 22


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Marco Tullio Berò: la versione “senatoria” del Tesoro Se il Tesoro di Bonafede è l’adattamento ‘contadino’ di un trattato di agricoltura, i Rustico‑ rum libri decem (Bononiae, apud Ioannem Rossium, 1568) del conte Marco Tullio Berò ne sono la versione ‘senatoria’ scritta in un latino così elegante che Giovanni Fantuzzi definì il suo autore “felicissimo imitatore di Tibullo”. Filippo Re (Della poesia didascalica cit., p. 70) nel descrivere il suo lavoro dichiara: “Quanto al Berò è da sapersi che il suo libro Rustico‑ rum libri X è molto raro. Il lodato Tiraboschi non potè vedere, ed io non ne rinvenni che un solo esemplare da leggere favoritomi dalla gentilezza del sig. abbate Antonio Magnani bolognese possessore di una delle più ricche collezioni di libri che trovinsi in questa città. Dei dieci libri solamente il terzo, il sesto, ed il nono potrebbono riguardarsi come didascalici, perché più particolarmente descrivono alcune faccende campestri, fra le quali meritano distinzione la vendemmia, la seminagione, e la maniera di mungere il latte e la fabbrica dei latticinj, ch’io qui trascriverò per dare l’idea dello stile di questo poeta […]”. In una nota a p. 72 l’agronomo reggiano precisa che “Marco Tullio dei conti Berò di Bologna aveva terminati i suoi dieci libri nel 1565, cui stampò nel 1567 [sic]. Furono molto lodati da Pietro Angelio da Barga conosciuto più comunemente sotto il nome di Bargeo [Pietro degli Angeli], da Pietro Vettori, dal Gigante, e da Antonio Ranieri da Colle”. Lo stessso Fantuzzi ci fornisce le poche notizie conosciute circa questo membro di una delle famiglie più importanti di Bologna, figlio del giurista Agostino “sappiamo solamente ch’egli fu degli Anziani [membri del Senato cittadino] nel 1547 nel gonfalonierato del co. Vincenzo Ercolani; e dovea egli allora, secondo lo stile dei nostri Magistrati, contare vent’anni almeno di età”. La Biblioteca comunale dell’Archiginnasio possiede un esemplare di questa edizione (Gelati 16. B. III. 26 op. 6. Prov.: Accademia dei Gelati).

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quel volgare rustico che è misto di forme dialettali bolognesi volgarizzate, come: bertino (da bertein) bigio, cenerognolo; menudo (da mnud) minuto; aledamare (da aldamaer) letamare; cho, capo; tuo’ (da tu) prendi; mesedato (da mesdâ) mescolato; s’ingatiglino (da ingatiaer) avviluppare, imbrogliare; insedire (da insdir) innestare; ceda lunga (da zaeda longa) siepelunga; desconconare (da c’cuncunar) levare il cocchiume [tappo di sughero] dalle botti; conchone (da concôn) cocchiume; negotta (da ngatta) niente, e tante altre”. Tra i tanti argomenti esaminati quello sulla piantumazione dell’ulivo lascia intuire quanto fosse diffusa la coltura di questa pianta nel bolognese “Se tu voi insedire olivi / E far boni quelli che son cativi / Insidissi a modo di pero / E di ciresa o voi di melo / E de madolo e di sisino / Cotal modo elle piu fino / […]”. Di Paganino Bonafede si sa pochissimo: sempre Lodovico Frati attribuisce a Mazzoni Toselli il ritrovamento di un documento del 1334 che cita “un Paganino Bonafede di Aguzzano (oggi Guzzano), nel Comune di Pianoro” ma aggiunge “Più fortunate furono le mie ricerche nei Memoriali dell’Archivio di Stato di Bologna; poiché trovai vari atti di locazione, stipulati dal 13 marzo 1371 all’11 maggio 1373 da Paganino e Pierino del fu Simone Bonafede cittadino bolognese, della parrocchia di S. Donato”. Queste ed altre carte testimoniano di una certa agiatezza della famiglia Bonafede. Nel 1374, alla morte del fratello, era ancora vivo in quanto suo esecutore testamentario, ma la data esatta della sua morte non è accertata. (zz) DBI, XI, 495

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Pianta e misure di una possessione detta di Fossolo di terra arativa, arborata, vitata etc. con casa etc. posta nel territorio di Faenza e Villa della Pieve di Cesato (Ravenna, ASC, Fondo Testi Rasponi)


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4.

Bernardino Carroli (Ravenna, sec. XVI)

Il giouane ben creato di Bernardino Carroli da Rauenna; diuiso in tre libri, nel primo de’ quali si contiene come si deue viuere christianamente. Nel secondo, come si deue gouernare la famiglia, & che buoni costumi debba tenere, & osseruare. Nel terzo, s’impara tutto quello che s’appartiene all’arte dell’agricoltura. Libro vtile, & necessario ad ogni persona. In Rauenna, presso Cesare Cauazza, 1583. [8], 157, [3], 158-286, [7] p. ; 4°. – Segn.: πA4, A-Z4, Aa-Nn4 χ4. Bianche le c. A4, V4. Ravenna, BC Classense (F.A. 83.6.N.2)

“Non era ancora il sole uscito fuori di certi nuvoletti che gl’impedivano i suoi lumanti raggi, quando Matteo la mattina per tempo giunto a casa mia pichiò alla porta, chiamandomi per nome. Io che di poco m’era vestito, subito calai a basso e, aperta la porta, senza altre cerimonie solamente con un buon giorno e buon anno ci salutiamo; e poi di casa partiti asieme ci stradamo verso casa di m. Girolamo Sibenichi, mio carissimo compar e, gionti, lo trovassimo che mirava un suo giardino di sua mano poco avanti piantato, e in compagnia di quello vi era m. Gio. Maria Manetti da Villa Nova, uomo molto giudicioso nei maneggi dell’agricoltura della quale, quando ne favella,

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ne rende buonissima raggione quant’altro uomo di Romagna. E l’uno e l’altro da noi salutati gl’esposi il desiderio di Matteo, mostrandogli quanto mi sarà grato l’insegnar al ditto e scoprirgli i secreti dell’agricoltura”. Comincia così il terzo capitolo dell’opera che “Bernardino Carroli, gentiluomo di Santerno, fattore, amministratore e piccolo proprietario, pubblicava a Ravenna, nel 1581” col titolo Instrutione del giovane ben creato “un trattato di precettistica che si è rivelato un interessante, e forse unico, documento della cultura in una parrocchia rurale e delle forme di vita in una villa romagnola della fine del ‘500”. Matteo è il ‘giovane ben creato’ o per lo meno il contadino (emblematico nel contesto di una gente che ancora adesso esprime l’essenza più vera nel suo profondo legame con la terra) che vive negli anni immediatamente successivi alla conclusione del Concilio di Trento e che vuole essere dirozzato per diventare appunto ‘ben creato’ nel corpo quanto nello spirito. E sarà accontentato: nei tre capitoli del libro si provvederà alla sua educazione – condotta da gentiluomini come l’autore, da maestri di catechismo, dai parroci – prima nei confronti di se stesso e della sua anima (istruzione cristiana), poi verso le persone che lo circondano (istruzione circa il governo della famiglia) e infine l’educazione tecnica, attraverso l’apprendimento dell’agronomia. L’opera si svolge con la struttura del dialogo, come le Vinti giornate dell’agricoltura di Agostino Gallo; infatti Matteo viene sollecitato a esprimere la sua richiesta per quanto riguarda l’istruzione agraria e lui, che ormai ha superato le due fasi educative precedenti, risponde secondo le aspettative: “Quello ch’io voglio da voi è questo: ch’essendo io per la morte di mio padre restato al governo di mia casa giovanetto inesperto, come mi vedete, bramoso come son stato dal reverendo nostro rettore ammaestrato nelle cose pertinenti all’anima e da maestro Pietro Bragalini nel governo di casa instrutto, così vorrei da voi imparar i secreti dell’agricoltura per meglio governarmi nei maneggi miei e saper governar la possessione sopra la quale vivo, com’anco fanno gli altri contadini. Vorrei, dunque, saper conoscer le terre buone per far grano, quell’altre per fava e qual da legumi, e come vogliono queste essere arrate in soma e quell’altre in fondo; come si piantano gli arbori, viti, frutti e come si facciono gl’insiti, quando si scavezzi e, in summa, saper tutte le cose pertinenti all’agricoltura”. Marco Bussato e Bernardino Carroli forniscono con le loro opere un quadro molto preciso delle pratiche agrarie in uso nel ravennate alla fine del XVI secolo. (zz) Casali 2004

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5.

Marco Bussato (Ravenna, sec. XVI-XVII)

Giardino di agricoltura di Marco Bussato da Rauenna. Nel quale con bellissimo ordine si tratta di tutto quello, che s’appartiene à sapere a vn perfetto giardiniero e s’insegna per pratica la vera maniera di piantare & incalmare arbori e viti di tutte le sorti, & i varij e diuersi modi ch’in ciò si tengono. Aggiontoui nel fine vna visita, che far si deue ogni mese alla campagna, con alcuni vtilissimi ricordi … In Venetia, appresso Giouanni Fiorina, 1592. [4], 53, [3] c. : ill. ; 4º. – Segn.: a4 A-B4 C-H8. Ravenna, BC Classense (Scaff.86.4.81)

Filippo Mordani nelle sue Vite di ravegnani illustri (Ravenna, Roveri, 1837) scrive: “V’ha di lui un libro intitolato Giardino d’agricoltura, opera lodatissima da quanti ebbero cagione di favellarne, e principalmente da Filippo Re; la quale fu stampata la prima volta a Venezia del 1592. Discorre in essa le nature de’ differenti terreni, e quel ch’essi promettano o nieghino alla industria e alle fatiche dell’agricoltore. Insegna il modo di medicare i campi sterili e arenosi: narra come gli affaticati e spossati si possano rinvigorire col fimo. Tratta dell’arare, del seminare, mietere e battere de’ grani. Parla del tempo acconcio a vendemmia, e viene narrando la fattura de’ vini, e’l modo di conservarli, e come si racconciano i torbidi e tristi. Tutto questo sommariamente. Molto però si distende nel mostrar la maniera del piantare, potare, coltivare le molte specie d’arbori fruttiferi e di viti, e nel discorrere le tante forme de’ nesti […] Nota brevemente i pregi de’ cedri, de’ limoni, degli aranci: tocca gl’innesti de’ fiori; né lascia di dire alcuna cosa delle colombaie e delle peschiere. Ha pur descritto che si convegna fare ogni mese de’ lavori campestri; […] Uscirei troppo del mio proposito se tutto volessi raccontare che in quello utilissimo libro si contiene. Avrò però detto abbastanza, se aggiungerò le parole di un dotto editore [si tratta di Francesco Locatelli, stampatore dell’edizione del 1781], le quali vanno innanzi all’opera del Bussato nella stampa fatta in Bassano del 1794. Dice che ‘l nostro georgico «s’acquistò merito singolarmente per quella parte, che riguarda la coltura degli alberi, massime fruttiferi, e ci dié degli ottimi insegnamenti per piantarli, per allevarli e per incalzarli; e quel che più importa, per eseguirne i tagli opportuni secondo le qualità, le situazioni, il bisogno ed anche il piacere; il tutto accompa27


gnando con acconcie figure; e ciò, notisi ad onor dell’Italia» […]”. Nato presumibilmente a Ravenna nella prima metà del XVI secolo e rimasto presto orfano, si guadagnò da vivere con la professione di innestatore. Compì molti viaggi che gli permisero di ampliare la sua visione dei sistemi colturali più usati. Nel 1578 pubblicò a Ravenna, presso Cesare Cavazza, una Prattica historiata dell’inestare gli arbori in diversi modi, in varij tempi dell’anno e conservarli in più maniere, divisa in dieci capitoli e illustrata da quattordici tavole. Nel 1583, sempre a Ravenna, vide la luce una sua Regola per la quale brevemente s’insegna di trovare l’epatta, l’aureo numero et li tempi della luna in perpetuo et la cagione della correttione dell’anno, opera sicuramente legata al problema – risolto dalla riforma gregoriana del calendario – di far coincidere l’anno solare con quello lunare, tema legato comunque alla sua materia preferita, in quanto la conoscenza delle fasi della luna era indispensabile all’innestatore. Nel 1592 pubblica a Venezia una versione della Prattica istoriata più completa (due capitoli sull’aratura e la semina e sulla preparazione dei concimi) intitolata Giardino di agricoltura e arricchita di nuove illustrazioni più raffinate. Chiude l’opera un’appendice sui lavori da effettuare ogni mese. Ripubblicazioni a breve distanza (1593, 1599, 1612) dimostrano il successo riscosso dal suo lavoro: le ultime contengono anche alcuni sonetti che lo fanno includere da Francesco Ginanni nell’elenco dei rimatori ravennati ma di cui Filippo Mordani esprime un giudizio piuttosto severo (“Assaggiò anche la poesia, ma non v’era da natura disposto”). La Biblioteca Classense possiede tutte le edizioni dell’opera ma anche un manoscritto (con collocazione: Mob. 3.7.C) datato 1597 e intitolato Thesor d’agricoltura di Marco Bussatti da Ravenna, con una dedica di Vitale Fusconi (nobile ravennate, fece parte del Magistrato dei savi) a Giampietro Mulla. Nel frontespizio è disegnato lo stemma della famiglia Rasponi. (zz) DBI, XV, 553

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6.

Giuseppe Falcone (Piacenza, m. 1597)

La nuoua, vaga, et diletteuole villa, del molto r.p.m. Giuseppe Falcone carmelitano. Opera d’agricoltura, più che necessaria, per chi desidera d’accrescere l’entrate, de suoi poderi, utile a tutti quelli che fanno professione d’agricoltura per piantare, alleuare, incalmare arbori, coltiuar giardini, seminar campi, secondo la qualità de terreni & paesi, edificar palaggi, case, & edifitij pertinenti alla villa. Estratto da tutti gli autori greci, latini, & italiani, che sin’ hora hanno scritto di tal materia. In Pauia, appresso Andrea Viano, 1597 (In Pauia, appresso Andrea Viani, 1597). 417 [ma 415], [9] p. ; 8°. – Segn.: A-Z8, Aa-Cc8 Dd4. Piacenza, BC Passerini Landi (L – H.3.58. Prov.: Ubertino Landi)

Carmelitano, vissuto a Piacenza anche se definito ‘oriundo toscano’, ricoprì diversi importanti incarichi all’interno del suo ordine. Fu predicatore e anche scrittore, attività che lo pone fra i trattatisti classici moderni sull’agricoltura, sul vino e sulla cucina insieme ai suoi contemporanei forse più famosi, come il bresciano Agostino Gallo, il fiorentino Michelangelo Tanaglia e il bolognese Vincenzo Tanara. Il suo manuale di agricoltura, stampato per la prima volta a Pavia nel 1597, anno della sua morte, contiene istruzioni per ogni settore dell’attività agricola scritte con un linguaggio essenziale e immediato che ricorda molto, nella struttura, i proverbi da lui riportati come espressione di una scienza antica ma ancora efficace. Da p. 49 a p. 51 si può trovare un elenco di massime, legate all’avvicendamento dei mesi, come queste riguardanti il raccolto: “Disse ’l frumento, d’April non venire, / Ch’or mai, son gravido per partorire. / Ma vien di Maggio, e vedi quel ch’hò fatto. / Coprendo la campagna affatt’affatto: / E poi se vi ritorni là di Giugno, / Certo ti riempirò di grano il pugno”. Anche l’attenzione alle fasi lunari è sempre presente, sia nelle operazioni di trasformazione degli alimenti, sia per la lavorazione e l’imbottigliamento del vino; nel capitolo “Pronostico naturale per la villa” Falcone scrive “Nel levar del Sole, correndo le nuvole a tramontana, mostra sereno: ma levando, o tramontando con foschi colori, notifica venti” e subito dopo “Luna pallida mostra pioggia: rossa venti; ma bianca, sereno”; anche il comportamento degli animali è utile per trarre auspici (p. 47): “E segno di pioggia ancora, quando gl’uccelli aquatili guizzano per l’acque; quando le rondini, volando sopra l’achua, la battono co’l petto, e con l’ale, quando le mosche, zenzale, tavani, e pulci pungono più del solito: quando le formiche traportano le sue ova da una tana bassa ad un’alta: e che le talpe, più del solito forano la terra: e che le capre, e pecore pascono più avidamente del solito: e che il gallo canta più e fuori d’hora, e che si spolveriza con le galline: & le rane gracchiano alla strangolata, e che l’asino crolla il capo con l’orecchione […] è segno 31


di mutatione di buon tempo, in pioggia o in nuvole, e tutte queste cose le deve osservare il buon contadino pratico nella villa, acciò facci le sue facende più accomodatamente”. Un altro aspetto organizzativo è dato dalla presenza degli animali, che costituiscono una risorsa fondamentale per il benessere della villa, che è tanto più efficiente e ricca in quanto ogni animale riceve le cure necessarie e contribuisce con il suo lavoro e i suoi prodotti all’alimentazione e all’economia generale. E quindi nella villa ci sono i buoi con le “lor belle fattezze”, il toro “bello e buono per le vacche”, porcelli e scrofe perché “Non può star bene una villa senza porci, animali si utili, e di molta cavata, e che varrebbe l’horto senza il porco? Questo è quello, che fa grassa la pignatta, che fa cantare la padella, e che fa stare allegra la povera brigata”. Ma Falcone giudica necessari anche animali come i cani e i gatti, di questi pensa anzi che “Come non è casa che non v’habbi un topo, così non v’è casa che non habbi bisogno, non solo di cane, ma anco di gatto, trinca de’ topi”. E poi i cavalli con “sue nobili fattezze”: ad essi e alla loro cura dedica infatti molte pagine (da 166 a 182). Il pavone “ornamento del cortile in villa”, la civetta “animal fanciullesco, però d’intrattenimento” e i colombi nella colombara “pronta provisione per la goletta”, riserva di cibo nelle emergenze. Dell’asino dice che “(parlando sempre con riverenza) poiché quasi ogni famiglia n’ha uno per casa: anco tu habbine uno in villa; ma meglio sarà un’asina, che non raggia tanto, sta sempre a casa, & ogn’anno ti fa un’asinello”. Da p. 218 si può apprendere tutto “Quel che si deve far di mese, in mese, intorno all’api”. Falcone consiglia anche di tenere una riserva di pesca, che “bisogna populare, et abbondantiarla de pesci nostrani d’ogni sorte”. Il frate piacentino vede insomma l’attività agricola come azione produttiva ma nello stesso tempo distensiva, concezione che gli deriva probabilmente dalla cultura umanistica acquisita e da lui stesso dichiarata nel sottotitolo dell’opera “estratta da tutti gli autori, greci, latini, & italiani, che fin’hora hanno scritto in tal materia”, a cui egli però aggiunge un evidente, quanto non comune almeno per il suo tempo, senso pratico. (zz) Sentieri 1933

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Manuali e trattati

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Ottavio Salaroli

(Bologna, 1590 ca. – 1632) Discorso sopra l’inondatione dell’acque del bolognese, nel quale si narra di qual tempo, & per qual causa incominciò la detta inondatione. Come fu posto il Reno nella San Martina. Quanti danni hà causato sin’ad hora... & altre cose curiose in tal materia. In Bologna, per Nicolò Tebaldini, 1624. 64, [2] p. ; 4°. – Segn.: A-H4 χ1. – Per il nome dell’autore, Ottavio Salaroli, cfr. L. Frati, Bibliografia bolognese, n. 550 e. Bologna, BA Goidanich (ANT/ZUC 211. Prov.: Dino Zucchini)

“La prima inondazione venne, perché avendo il ser.mo sig. duca Alfonso d’Este domandato alla santità di papa Gregorio decimo terzo di poter rimovere il Reno dal Po di Ferrara, et ponerlo fra l’argeno di Cugnola, & il Po d’Argenta, in un cavo da quel sig. duca fatto per tal effetto, & questo sotto pretesto, che il Reno atterrasse il Po di Ferrara, qual cosa non li havendo potuta ottenere da quel giustissimo pontefice, per molte cause, & ragioni […] Da questa repulsa dunque mosso esso sig. duca fra non molto tempo fece serrare tutte le bocche, ch’erano nel Po d’Argenta, volgarmente dette le Buove, & in quelle, che non furono serrate, vi furono posti quantità di molini, che impedivano il loro corso, & così fu levato a’ Bolognesi l’antico esito alle lor valle (reliquie forsi dell’antica Padusa) per la qual cosa quelle valle s’incominciorno a riempirsi di maniera, che tutti li condotti dell’acque, furono forzati di stagnare, & spargersi nelli buoni terreni”. Così esordisce l’autore di questo opuscolo, del quale si sa soltanto che, deceduto il 17 agosto 1632, fu sepolto nella basilica di S. Giacomo Maggiore dei padri agostiniani. Il fatto a cui fa riferimento risale al 1522 e con parole simili è descritto anche dall’architetto Giovanni Battista Aleotti nel suo discorso Dell’interrimento del Po di Ferrara e divergenza delle sue acque nel ramo di Ficarolo, rimasto inedito fino al 1847 (p. 60-61): “A nostri tempi vedemmo [i rami ferraresi del Po] navigabili per modo che abbiamo ammirato la grandissima quantità di navi da gabbia [galere], che provenendo d’Inghilterra e di Fiandra, solevano scaricare a Ferrara, come in sicurissimo porto, le molte merci, delle quali Venezia oggi dispensiera si è fatta a tutta la Lombardia. Il che potrebbe forse parer difficile a credersi per chi ciò non vide […] Ferrara, per cagione di questo fiume, d’umilissimo borgo che era si accrebbe tanto che se la potenza de’ suoi Principi passati non fu a tutta Italia formidabile, fu almeno, e pe’ loro meriti particolari e per la grandezza, venerabile, tale mantenendosi fino al punto tangente l’abside supremo della sua maggior grandezza, che fu nell’anno 1522, in cui Alfonso I lasciò indurre se medesimo a tollerare gratuitamente che il Reno fosse immesso nel Po: di modo che, perduti li suoi commerci estesissimi, de’ quali grandissima si è fatta Venezia, essa indebolendosi ognora maggiormente, vassi riducendo verso la sua fine”. Fu il disatroso, tragico straripamento del Reno in quell’anno a decidere: ci vollero comunque ancora ottantadue anni (nel 1604) prima che il fiume venisse incanalato fra gli argini da Sant’Agostino a Porotto e immesso nel 34


Manuali e trattati Po di Ferrara, poco a monte della città, ma questo non sortì l’esito sperato (aumentare la portata del Po di Primaro), bensì il suo esatto contrario: un più rapido interrimento del Po, per la deposizione dell’abbondante materiale alluvionale che il Reno trasportava. Scrive Salaroli in proposito: “in poco più d’un anno si sommersero da trecento milia tornature di terreno del nostro contado, tutto terreno arrativo, arborato, vidato, prattivo, & pascolativo”. Nel 1651 Giorgio Rivellino dalla Fratta nella sua relazione può così confermare “Quanto grave danno abbia arrecato il Reno per tal cagione al territorio di Bologna, oltre a’ fondi annegati, le opulenti ville di Bonconvento, di S. Agostino, Galliera, Raveda, Mirabello, Dosso, e contigue, terreni li più grassi, e più feraci del Bolognese, ne possono fare dolorosa fede, essendo dimezzate d’abitatori, e di rendite […]” e prosegue “Il Poggio, e le ville di Caprara, Cominale, Diolo, Tedo, Cagiojosa, Castellina, Malalbergo, Pegola, e tant’altre in parte sono distrutte affatto, caduti gli edifici, che appena se ne veggono i vestigi, parte ridotte pescarecce, parte del tutto abbandonate, altre divenute infruttifere, altre rese inospitali, onde con la perdita di trecentomila tornature di terra, la quale seminata per una terza parte renderebbero 120. mila corbe di grano, vi è anche la mancanza di quattromila contadini, che l’abitavano e coltivavano”. Le ripercussioni sull’economia e l’agricoltura sono facilmente intuibili: nel corso del ‘600 e del’700 le continue inondazioni del Reno e gli allagamenti invernali danneggiarono spesso irrimediabilmente le colture, ma soprattutto resero sempre meno praticabile e quindi più difficoltosa la navigazione sul Navile: i traffici commerciali fra Bologna e Ferrara diminuirono, preferendo Bologna dirigersi verso i mercati di Modena, Ravenna, Firenze, mentre Ferrara si rivolgeva verso Padova, Verona e Mantova. Il porto di Malalbergo perse inesorabilmente la sua importanza fino a scomparire nel corso del XIX secolo, quando il Navile fu usato soltanto per l’irrigazione e per il trasporto locale dei prodotti dell’agricoltura sui burchielli, le piccole imbarcazioni trainate da cavalli. (zz) Poni 2001

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Le piene del Reno: cronaca di un disastro annunciato Il fiume Reno è uno degli elementi portanti nella storia del territorio tra Bologna e Ferrara: con le sue piene e le sue rotte ha fortemente influenzato l’assetto economico e sociale della zona determinandone la fortuna o la distruzione. La sua sistemazione idrografica ha visto per secoli ferraresi e bolognesi in lotta fra loro. Duchi, papi, architetti, idraulici, scienziati, giuristi hanno progettato e discusso per tentare di capire come ‘imbrigliare’ il Reno nel Po, sempre e comunque allontanandolo dai propri territori. Potendo riassumere in poche righe una storia così lunga si potrebbe dire: Nel 1460 al fiume, che scorreva nelle valli con continue inondazioni, viene assegnato un alveo che passa vicino al Finale e alla Bastia. Alla fine del XV secolo il Reno ‘rompe’ ancora ed entra nella valle Sammartina: Ercole I d’Este, per bonificare la zona apre un nuovo ‘cavo’ (canale artificiale) presso Traghetto per poi reimmettere il fiume nel Po. Nel 1526 il Reno è di nuovo vagante, viene immesso nel Po a Porotto dopo l’accordo tra Bologna e Alfonso I d’Este nel 1522. Nel 1538 Ercole II d’Este realizza un’opera idraulica che obbliga le acque a piegare verso il ramo di Ferrara. Nel 1592 Alfonso II d’Este chiude il Po di Primaro per conservare navigabile, con le acque del Reno, il ramo di Volano. Nel 1604 Clemente VIII (che nel 1598 si era riappropriato del territorio ferrarese per estinzione della casa estense) fa deviare il Reno dal Po di Ferrara, lasciandolo espandere nel bacino della valle Sammartina e scavando il Po di Ferrara per attrarre le acque del ramo di Venezia. Nel 1714 uno straripamento a Sant’Agostino, nella campagna dei signori Panfili (‘Rotta Panfilia’), scava un nuovo alveo al fiume, che si espande nelle valli di Poggio Renatico e di Marrara. Nel 1724 papa Benedetto XIV Lambertini inizia i lavori di costruzione del Cavo Benedettino: il fiume Idice viene condotto nel Primaro e viene costruito un nuovo alveo per le acque del Reno da portare nel Primaro. Il nuovo cavo ben presto si interra. Dal 1767 al 1795 per opera di Clemente XIII il Reno viene inalveato e arginato dalla Rotta Panfilia al Cavo Benedettino. Il cavo viene scavato, sistemato e condotto nel Primaro al Traghetto, abbreviandone il percorso. Nel 1805 con Napoleone Bonaparte si progetta di immettere le acque del Reno nel Po Grande con uno scavo di circa dieci miglia, dalla Rotta Panfilia a Bondeno e di qui, tramite il corso finale del Panaro, nel Po a Palantone. Il Cavo Napoleonico fu ultimato però solo nel 1964 e da allora assunse le funzioni di ‘scolmatore’ e ‘irrigatore’.

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Manuali e trattati

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Luigi Ferdinando Marsili (Bologna, 1658 – 1730)

Agri Bononiensis palustri historia. Ms. cartaceo ; sec. XVIII; mm 320x215; 15 fasc. (10 c.; 24 c.; 10 c.; 48 c. + 22 tav. a penna e a colori; 14 c. + 7 tav. a penna e a colori; 14 c. + 7 tav. a penna e a colori; 28 tav. a penna e a colori; 14 c. + 2 tav. a penna; 14 c. + 2 tav. a penna; 10 c. + 5 tav. a penna e a colori + 2 tav. a penna; 19 tav. a penna; 5 c.; 14 c.; 20 c.; 18 c.) Bologna, BUB (Ms 139 II)

Non risulta che Marsili abbia compiuto studi regolari o che abbia conseguito titoli accademici, ma per i suoi lavori può essere considerato il padre dell’oceanografia, oltre che un profondo studioso di idrologia e più specificatamente della limnologia (la branca che studia le cosiddette ‘acque interne’). Fondamentali per la sua preparazione furono la visita compiuta nel 1673 all’Orto dei semplici di Padova e le lezioni – seguite come uditore – di professori dello Studio bolognese quali Marcello Malpighi, Geminiano Montanari, Lelio Trionfetti. Dopo avere molto viaggiato, trascorse gli ultimi anni nella sua città natale, alla quale donò tutto il materiale raccolto nel corso delle sue ricerche, dando origine così all’Istituto delle Scienze, che includeva l’Accademia degli Inquieti. Alla sua donazione si aggiunsero in seguito i musei di Aldrovandi e Cospi. Il suo studio sull’agro palustre bolognese (che non riuscì a portare a termine) intendeva dimostrare in quali altri modi fosse possibile sfruttare le risorse di quel territorio, oltre alla coltivazione del riso, attuabile dove la palude era meno profonda. Le risaie, oltre tutto, non erano ben viste perché considerate causa di pericolose malattie ancora nell’800. Marsili, coinvolto anche personalmente essendo proprietario di terreni sommersi, individua una serie di attività legate a ‘materie prime’ fornite dai terreni acquitrinosi come le piante, che suddivide in erbacee, quasi legnose e legnose. Queste ultime sono rappresentate essenzialmente dai salici, utili in tutte le loro parti: le radici servono ai tintori per colorare, la scorza dei rami è un ottimo nutrimento invernale per il bestiame, mentre le foglie lo sono in estate, inoltre i vinchi – i rametti più sottili, forti e flessibili – potevano essere utilizzati in molti modi (per legare i tralci delle viti, per realizzare cappelli, borse, ceste, culle) non ultimo la costruzione delle gabbie (come le nasse) per la pesca, cui è legato anche lo studio approfondito che Marsili effettua sulle specie tipiche di pesci di palude, comprese le anguille. (zz) Poni 2001

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Vincenzo Tanara (Bologna m. 1669 ca.)

L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara. Libri VII intitolati. Il pane, e’l vino. Le viti, e l’api. Il cortile. L’horto. Il giardino. La terra. La luna, e’l sole. Oue con erudita varietà si rappresenta, per mezo dell’agricoltura, vna vita ciuile, e con isparmio. In Bologna, 1644 (In Bologna, per Giacomo Monti, 1644). [8], 594, [2] p. : ill. ; 4°. – Segn.: †4 A-Z4, Aa-Zz4, Aaa-Zzz4, Aaaa-Dddd4 Eeee6. – Sul front. vignetta calcogr. (Paesaggio: Quid non informat?), incisa da G.B. Coriolano. Bologna, BA Goidanich (ANT/ZUC 000094. Prov.: Dino Zucchini)

La monumentale opera del marchese Vincenzo Tanara è da annoverare tra i più fortunati esempi di letteratura inerenti l’economia rurale italiana di età moderna: pubblicato per la prima volta nel 1644, il libro fu riedito dopo quattro anni in edizione ampliata, sempre a Bologna, dagli Eredi Dozza e poi ristampato altre quindici volte fino a oltre la metà del Settecento. Il lavoro è frutto dell’esperienza che l’autore maturò nella conduzione dei propri possedimenti. Dapprima militare al servizio di vari signori, poi magistrato nella sua città, il Tanara si convertì ben presto agli studi, mantenendo tuttavia un forte interesse per la vita rurale e per la pratica della caccia, nonché una curiosa capacità di osservazione. Il libro da un lato mostra il superamento di una visione della gestione fondiaria ispirata ad una pura logica di sussistenza, a favore di una ricerca mirata allo sviluppo della rendita e del profitto; contestualmente, nella grande messe di informazioni ed esperienze, a tratti rischia di perdere organicità, suggerendo l’idea di un sapere cumulativo, per così dire enciclopedico. Tuttavia la narrazione mantiene una certa qual vivacità, grazie anche ai richiami all’osservazione diretta e ai riferimenti di vita vissuta, alla narrazione di aneddoti ed usanze, che si armonizzano con le frequenti citazioni e i diffusi richiami eruditi alla cultura classica. L’opera è organizzata in sette libri. Il primo è dedicato al pane ed al vino: qui il Tanara descrive le modalità di preparazione dei due generi, soffermandosi in particolare sulla produzione enologica e sulle peculiarità proprie – a detta dell’autore – dell’area bolognese, come l’uso del taglio dei vini. Il secondo libro è dedicato alle viti e alle api: per quanto concerne i vigneti, l’autore si sofferma su aspetti come la messa a dimora, la gestione e le caratteristiche della vigna e della piantata. Il terzo libro è dedicato al cortile, inteso come luogo dove vengono allevati gli animali (compresi i bovini e i suini): l’autore, oltre a descrivere le caratteristiche 38


Manuali e trattati del bestiame, si sofferma sulla loro macellazione e sulla preparazione di pietanze, proponendo delle ricette (del maiale ne cita ben 110!). Curioso è il testamento del porco, antica narrazione popolare riproposta dal Tanara, dove l’animale immagina di lasciare in eredità ogni parte del suo corpo a qualcuno, a testimonianza che nulla di lui è inutile (v. box). Il quarto libro è dedicato all’orto, e tratta della coltivazione delle verdure, mentre il quinto al giardino, inteso come luogo dove sono coltivati in particolare gli alberi da frutto. Il sesto è dedicato alla terra, ossia al campo, alla aratura, alla coltivazione e raccolta dei seminativi. L’ultimo libro tratta invece del sole e della luna, cioè dei cicli della natura legati alle stagionalità, oltre che degli alimenti (e quindi delle pietanze) che si possono consumare nelle varie parti dell’anno. L’opera del Tanara si conclude con un’appendice dedicata ad una passione che accompagnò l’autore per tutta la vita: la caccia. Non per niente egli scrisse anche un trattato intitolato La caccia agli uccelli (edito nel 1866 sulla scorta di un manoscritto conservato alla Biblioteca dell’Archiginnasio). Inutile dire che nell’appendice dedicata all’arte venatoria, l’autore fa allusione ad alcune importanti qualità del cacciatore: fede, tenacia, prudenza e, perché no, anche fortuna! (ac) Bignardi 1964

Il testamento del porco Prima lascio che il mio corpo sia di una caterva di golosi con varia cuocitura nel lor ventre sepelito. Lascio a Priapo il mio grugno, col quale possa cavare i tartuffi dal suo orto. Lascio a’ librai e cartari i miei maggior denti, da poter con comodità piegare e pulire le carti. Lascio a’ dilettissimi Hebrei, da’ quali mai non ho havuto offesa alcuna, le setole della mia schena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio, da quelle chiamato sutor. Lascio a’ pittori tutti i miei peli, per far pennelli. Lascio a’ fanciulli la mia vesica da giocare. Lascio a le donne il mio latte, a lor proficuo e sano, secondo Plinio. Lascio la mia pelle a’ mondatori e munai, per far valli d’acconciar i grani. Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori per far cola da stucco e l’altra metà a quelli che fabricano il sapone. Lascio il mio scevo a’ candelottari, per misticarlo la metà col buino e caprino per far ottime candele, con le quali li virtuosi possano nella quiete della notte studiare. Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carratieri e l’altra metà a garzolari per conciare la canepa. Lascio le mie ossa a’ giocatori per far dadi da giocare. Lascio a’ rustici miei nutritori il fiele da poter senza spesa cavarne le spine del lor corpo, quali, quando scalzi e nudi in lavorar la terra gli fossero entrati nella pelle, e per poter senza spesa in luogo di lavativo con quello l’indurato corpo irritare. Lascio a gli alchimisti la mia coda, acciò cognoscano che il guadagno che sono per fare con quell’arte è simile a quello che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda. Lascio a gli hortolani le mie ugna da ingrassar terreno, per piantar carotte. In tutti gli altri miei lardi, presciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami, mortadelle, salcizzoti, salcizze et altre mie gustose preparationi, istituisco e voglio che sia mio herede universale il carissimo economo villeggiante. (Vincenzo Tanara, L’economia del cittadino in villa, p. 193-194).

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Manuali e trattati

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Domenico Vincenzo Chendi (Formignana, 1710 – Tresigallo, 1795)

Il vero campagnuolo ferrarese di Domenico Vincenzo Chendi. In Ferrara, per Giuseppe Barbieri, [1761]. xii, 332, [4] p. ; 4°. – Segn.: ***6 A-Z4 Aa-Oo4 Pp2 Qq-Tt4 χ2. – Presumibilmente pubblicato nel 1761, data della dedica a c. ***4v. – A c. Qq1r un occhietto introduce: Parere del dottore Francesco Maria Nigrisoli... intorno alla corrente epidemia degli animali bovini. Bologna, BA Goidanich (Antichi 77)

L’agricoltor ferrarese in dodeci mesi secondo l’anno diviso a comodo di chi esercita l’agricoltura con molte altre curiose, e del pari vantaggiose notizie spettanti all’economia, interessanti anco il pubblico, non che il privato, bene. In Ferrara, nella Stamperia camerale, 1775. [4], 332 p. : 4°. – Segn.: π2 A-T8 V4 X6 Y4. – A c. π1v ritr. calcogr. dell’autore inciso da Giuseppe Mandolini. Bologna, BA Goidanich (ANT/ZUC 156. Prov.: Dino Zucchini)

Don Domenico Vincenzo Chendi fu parroco di Tresigallo dal 1742 fino alla morte. Nel lungo periodo che trascorse nella località della pianura ferrarese, ebbe modo di conoscere i cicli della vita agreste, anche attraverso la gestione diretta del beneficio parrocchiale. Questo osservatorio privilegiato (assieme ad una certa curiosità scientifica che aveva maturato fin da giovane, con gli studi universitari di medicina e botanica) gli consentì di elaborare una conoscenza approfondita dell’economia rurale e della gestione del fondo agrario, inteso come un sistema complesso, dove nulla era lasciato al caso, e la cui vita si dispiegava secondo i ritmi scanditi delle stagioni. L’opera Il vero campagnuolo ferrarese e la sua riedizione dal titolo L’agricoltor ferrarese, rappresentano la summa di questo sapere: empirico, deliberatamente rivolto a fornire indicazioni “a soli campagnuoli, e campagnuoli soltanto ferraresi [...] nella maggior parte sperimentate, prima di proporle”; quanto al lessico, Chendi si premurava di sottolineare di aver “procurato sovra tutto di usare li termini, le parole, e le espressioni più usitate, e volgari, acciò fossero meglio intese, essendo questa […] fatica stata intrapresa, ed eseguita in due soli mesi, e diretta unicamente a gente di campagna, e di professione agricoltori pratici, e non solamente teorici”. Il lavoro del Chendi rispondeva quindi principalmente a finalità didascaliche, associate ad un approccio talora edificatorio e moraleggiante: in tal senso va letta la Raccolta di sentimenti, proverbi e motti tendenti a fare l’uomo virtuoso e più cristiano, con la quale si apre il libro. Tuttavia, la gran messe di informazioni proposta dal libro riserva anche delle sorprese: la descrizione di uno dei salumi più tipici del Ferrarese, la salama da sugo, trova qui una delle più antiche descrizioni; come pure le pagine dedicate all’uva d’oro, tuttora importante vitigno alla base della produzione di vino ferrarese (e non solo!). Né deve stupire che il Chendi, negli stessi anni in cui lavorava alle due edizioni dell’opera, si prodigasse anche – sotto lo pseudonimo Patrasso – nella stesura di almanacchi con

Tomaso Cassani, Pianta, e misura d’una possessione detta delli Gazzoli posta in San Venanzo quale è arborata, vidata, parte scoperta, con casa, ed altre sue adderenze […], ms. sec. XVII. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Pagine seguenti: Ritratto di Domenico Vincenzo Chendi nell’antiporta de L’agricoltor ferrarese, 1775 (particolare). Annibale Carracci, 46. Il pizzicarolo, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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le previsioni dell’anno: Il fa per tutti (pronostico per il 1762); Il nuovo Patrasso (per il 1770) e L’Anti-Patrasso (per il 1774). In fondo, anche questo era un modo per provvedere ai bisogni dell’agricoltor ferrarese. (ac) Camillucci 1936; Andreotti 2014

La salama da sugo ferrarese secondo Chendi

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In ogni peso di carne pesta si mettono dieci unzie di sale secco e fatto in polvere […]. Indi per ogni peso di carne da Salami di carne si mettono ben peste e quasi in acqua, cotiche libre quattro; fegato ben pesto ed in acqua, quasi libre una gagliarda; pepe franto un’unzia; canella fina in canna ed in polvere un’ottavo d’unzia; brocche di garofalo pesto in polvere un’ottavo d’unzia; noce moscata la metà di una. Chi vuol facilmente sbrigarsi, pesata la carne, prenda nell’indicato peso gli aromati, e tutti unitamente li pesti nel mortaio, indi il tutto mescoli ben bene la carne facendola passare tra dita a dita, e poscia in monte la lasci riposare ventiquattro ore, passate le quali per ogni peso di carne pongavi quattro bicchieri di vino generoso, e dopo rimescoli la carne tutta, come fece prima delle ventiquattro ore, e tantosto faccia li salami, empiendo benbene la budella e sovra netti burrazzi li dimeni, acciò la carne s’ammassi, s’unisca, né resti in essa buco alcuno, e per ciò con ago fori spesso la budella, acciò n’esca l’aria compressa e molto dannificante; indi leghi bene il Salame; e poscia fatti tutti, gli attacchi alla pertica e dia loro sei ed al più otto giorni di fuoco temperatissimo, tanto che si asciughino, voltandoli dopo tre o quattro giorni, acciò per da ogni parte prendano egualmente il calore; ricercandosi soltanto che si asciughi la budella e non la carne, avvertendo anzi che il troppo fuoco è l’unico pregiudizio di cui li Salami si risentono. Così ben asciutti, si ripongono in luogo arso ed asciutto nell’ore più temperate dando loro aria, ma non nell’ore umide. Succedendo stagione umida e piovosa, diasi ai salami, in luogo dal fuoco lontani, qualche poco di fumo con scaldaletti, padelle, ecc., facendo fumare scorze di poma, grappe secche, erbe odorifere e cose simili per sotto ai salami; così un’ora per giorno o pure ogni due giorni, a misura del bisogno e della più e meno stagion umida. Dopo Pasqua si mettino in dispensa o in magazzino ben asciugati dalla muffa, che avranno già fatta, o pure in un vase squagliandovi sopra appena caldo, ma ben liquido, del distrutto; o pure si conservino nella paglia o nella Cenere e ad uno per volta si gustino, che saranno di buon gusto, piaceranno a tutti e non invidieranno a qualunque estero Salame. Ma cuocere poi il Salame si proccuri che non rompasi la budella, altrimenti escirà fuori il succo e diverrà disgustoso ed insipido. Per tali salami è ben servirsi di vesciche, gossi di Pavone, stanteché riescono belli, tondi; e ben caldi, senza pelarli o romperli, si portano in tavola colla minestra e tagliati subito, e così caldi mandano fuori il succo assai piccante, del quale con un cucchiaio ognuno de’ commensali a piacimento ne infonde nella sua parte di minestra, a cui dando un salutifero condimento, satolla e rallegra [...]. So che alcuni tra li nominati aromati mettono anco il mastice; ma io il riprovo, perché riscalda, costa troppo e poi disgusta. Da L’agricoltor ferrarese, p. 303-305


Manuali e trattati

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Giovanni Antonio Battarra (Coriano, 1714 – Rimini, 1789)

Pratica agraria distribuita in varj dialoghi opera dell’abate Giovanni Battarra professore di filosofia in Rimino tomo I [-II]. Edizione terza nuovamente corretta, ed accresciuta di varie aggiunte interessanti dall’autore medesimo. In Faenza, presso Giuseppe Archi, 1794-1798. 2 voll. ([2], XVI, 168 p., I c. di tav. ripieg.; 230, [2] p., IV c. di tav.) ; 8°. – Segn.: π1 §8 A-K8 L4; π2 A-P8 Q4 χ1; A-O8 P4. Bologna, BST (STeo M II-5, 24)

Nel 1778 Giovanni Antonio Battarra pubblica la sua opera più importante, la Pratica agraria (scritta in forma di dialogo tra un padre e i suoi due figli, Mingone e Ceccone), in cui sostiene la necessità di un’agricoltura razionale esordendo con l’affermazione che “Il primo difetto dell’agricoltura nostra, che io stimo il principale, procede dal non sapere i nostri contadini né legger né scrivere; onde restan privi di quell’unico presidio, che può produr loro il gusto di sapere come l’agricoltura ne’ vari paesi d’Europa s’eserciti, per potere o migliorare l’usato metodo della loro coltivazione, o per tentar nuove sperienze, come si pratica in varie regioni colte. Questo utilissimo presidio certamente non manca a’ coloni delle possidenze dell’Inghilterra, dove al riferire del Baretti, mio amicissimo, e testimonio oculare, il gusto di leggere è talmente in tutti gl’individui d’ogni professione in quel regno, resosi comune, che non v’è casipola di contadini, che non abbia almeno una sufficiente raccolta di libri agrarj, che leggono, e fanno leggere a’ loro figliuoli, e famigli”. Il Baretti cui fa riferimento è lo scrittore torinese Giuseppe – il fondatore della rivista «Frusta letteraria» – che da tempo viveva proprio nella capitale inglese. Sulla coltura del ‘maiz’ (p. 104) Battarra fa rispondere al personaggio del padre cui il figlio Ceccone chiede un parere: “Or figliuoli miei se vi foste incontrati nell’anno del 1715, che dai vecchj si è sempre chiamato l’anno della carestia, nel quale non v’era ancor l’uso di codesta biada, avreste vedute le povere creature morirsi di fame. Avreste vedute povere famiglie di noi altri contadini andare a pascolarsi nel verno di radici d’erbe; cavar le radici dell’aro, o come qui si chiamano del zago, o pan di biscia, cuocerle, e senza conditura mangiarsele, ed altre farne focaccie! Vi furon persino chi stritolava con l’accetta minutamente sarmenti di viti; li macinavano, e facean pane! Chi potea aver pan di ghiande, e di fave non era dei meschini. Finalmente è piaciuto a Dio d’introdur questa biada, e qui è generalmente per ogni parte, che se succedono annate scarse di frumento, ci si ripiega con un cibo, che in sostanza è buono, e nutritivo; ed oltre di questo la providenza fa ora che si comincia a introdurre (e voglio qui introdurle anch’io) certe radici forestiere come i tartuffi bianchi, che chiamansi patate”. E alle patate dedica un dialogo intero, il dodicesimo. Nel secondo libro, dove si aggiungono altri interlocutori, molta parte è dedicata alle viti e agli innesti. Un dialogo tratta delle “fraudi de’ contadini” con particolare attenzione ai tentativi di truffa riguardanti le olive e 44


Manuali e trattati l’olio che ne risulta, testimonianza evidente della coltivazione di questo frutto nell’area romagnola: “Si raccolgon le olive, ma non si mandano al mulino a macinare tutte in una volta; ma o noi altre donne, o i nostri uomini ne nascondono de’ cestelli, e di nottetempo, se hanno amico il prefetto del mulino, glie le recano, e ne riportan il suo olio. Se poi è un uomo scrupoloso abbiamo i casarecci, a cui le diamo, e questi dicono al mulinaro, che sono olive raccolte in terra, o che hanno avute per carità, o per mercede quando si raccoglievano” e al padre che chiede “per mercede? E che quei, che vengon a coglier l’olive si pagano colle olive?” la donna risponde “Sì signore; ed in ispecie su quelle possessioni, dove il colono ha solo il terzo dell’olio. Non sa ella che spesa sia pel povero colono quando si colgon le olive? Un oliveto, che dia otto barili d’olio, si rimette la spesa di due, o tre barili. E come si può salvare, se non si facesse così?”. Alla fine dell’opera, nel “Dialogo XXX e ultimo” (p. 217) descrive dettagliatamente Le costumanze, vane osservanze e superstizioni de’ contadini romagnoli, che indica come esempio da non seguire. Per queste pagine, Battarra è riconosciuto come il pioniere della scienza folcloristica italiana. Il dialogo si apre però con una interessante ricetta per fare la polenta: “Prima bisogna setacciar la farina di formentone, poi farla cuocere nel

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latte a fuoco lento, e dimenarla bene, acciò non si aggruppi a gnocchi. Questa vuol esser d’una consistenza alquanto densa. Incorporata, e cotta, che sia nel latte, si prende una cazzeruola, od un tegame di terra verniciato, si prepara del cacio parmigiano, zucchero, cannella, e carofani (ma questi aromi, in poca dose) dopo si piglia un pugno di questo parmigiano così mescolato, e si distende nel fondo della cazzeruola, e sopra vi si fa uno strato di polenta grosso un dito. Bisogna avere anche un po’ di burro in pane, e se ne spandono sopra a questo strato alcune fette; poi si torna da capo un pugno di quel cacio, e un altro strato di polenta sopra il suo burro, e così si seguitano questi strati finché si vuole. Così composta si mette la cazzeruola col suo coperchio al fuoco, ma sarebbe meglio metterla nel forno, acciò il fuoco la circondi ugualmente da per tutto, dove tutto quel condimento si liquefà, s’incorpora, e si tiene al fuoco finché abbia fatto sotto, e sopra quella crosta rosata. Si lascia raffreddare, e poi si mangia”. (zz) DBI,VII, 235

Antonio Metelli: gli ulivi della Val d’Amone Lo storico locale Antonio Metelli dedicò alla sua terra un’opera monumentale in quattro volumi, la Storia di Brisighella e della valle di Amone, stampata a Faenza nella tipografia di Pietro Conti (un esemplare è posseduto dalla Biblioteca comunale di Russi, con collocazione: Montanari. L.7.51) tra il 1869 e il 1872. Nell’opera, fitta di notizie, Metelli dedica parole molto belle alla coltivazione degli ulivi nella sua terra; scrive infatti (p. 14 e segg. del primo volume): “Imperocché dove appena cominciano a spuntare le collinette, e a far riparo coi loro dorsi ai venti, che spirano da tramontana, ivi vedesi verdeggiare di perpetue foglie l’ulivo, raro dapprima, poi cresciuto in numero e unito alle vigne spargersi insieme con esse lungo la sinistra giogaja, che volge a mezzodì tanto che per lo spazio che la medesima come da Fognano sino a Brisighella, quelli co’ rami, queste co’ tralci quasi tutta l’adombrano. Le ulive, che quivi particolarmente si raccolgono, e nei concavi seni della valle dove fa un’aria tepida e benigna, non sogliono per l’ordinario ascendere ad uguale quantità, essendo il mignolare dell’ulivo, anziché stabile, alternativo, ma i frutti sono sempre così perfetti, che ne stilla da essi un olio finissimo”. E più avanti: “E dove crescendo i monti, ed inselvatichendo il suolo va cedendo l’ulivo, sottentrano opportunamente i boschi di castagno, che colle verdi e lucide loro foglie coprono le cime, dai quali è largita tanta copia di frutti, che una volta si mandavano a Venezia, e fino in levante, ed ora dopo aver supplito ad ogni altro difetto di viveri, che per caso vi fosse, si spargono per tutta Romagna offrendo gratissimo cibo agli abitatori delle pianure”. Dalla biblioteca di Antonio Metelli proviene il manoscritto da poco pubblicato di Francesco Maria Saletti Comentario di Val d’Amone, nel quale l’autore sottolinea l’importanza, per la sua valle, della coltivazione del vino e dell’olio come prodotti d’eccezione.

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12.

Filippo Re

(Reggio Emilia, 1763 – 1817) L’ortolano dirozzato di Filippo Re cavaliere dell’ordine della corona di ferro, p. professore di agraria nella R. Università di Bologna, ecc. ecc. Milano, presso Giovanni Silvestri stampatore-libraio Agli scalini del duomo, n. 994, 1811. 2 voll. (1: 423, [1] p., VI c. di tav. di cui 1 ripieg., ill. calcogr.; 2: V, [3], 400 p.) ; 8°. – Segn.: [1]8 2-268 274; π4 1-248 254 25*4. Bologna, BA Goidanich (Antichi 65 1-2)

Filippo Re, nato a Reggio Emilia nel 1763, è stato un grande botanico e “principe degli agronomi italiani” famosissimo nell’800 per gli avanzati studi e le ricerche nel campo della scienza agraria che contribuirono al radicale rinnovamento dell’agricoltura italiana per portarla al pari di quella di altri paesi europei, in particolare di Francia, Germania e Inghilterra. Fu personaggio attivamente coinvolto nella vita politica del tempo partecipando ai moti rivoluzionari di Reggio e Modena che condussero alla formazione dell’Italia cisalpina. Successivamente fu nominato capitano della Civica Milizia e membro della Municipalità; si dimise poi da tutte le cariche per non voler prestare, contro la propria coscienza, giuramento “di odio eterno al governo dei Re, degli Aristocratici, degli Oligarchi”, come richiesto dal Governo dei Cisalpini di ispirazione giacobina. Ciò nonostante era persona estremamente stimata e apprezzata tanto che Napoleone gli affidò la cattedra di agricoltura presso l’Università di

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Bologna nel 1803 e nel 1807 divenne segretario della Società Agraria di Bologna. Si dimetterà, con grande dolore da questa ultima carica nel 1811, dimostrando ancora una volta la sua indipendenza ed integrità morale, in segno di protesta contro la decisione napoleonica di renderla una sezione dell’Università bolognese, sottraendole la libertà di ricerca. Dopo la caduta di Bonaparte, gli vennero offerte le prestigiose cattedre di agraria alle Università di Napoli e di Pavia, ma, anche per l’amore che lo legava alla sua terra emiliana, vi rinunciò, preferendo accettare la cattedra di agraria e botanica all’Università di Modena. Le opere, i saggi, le ricerche pubblicate da Filippo Re sono numerosissime; dalle catalogazioni delle varie specie vegetali, alle raccolte di lezioni di agronomia, con una sintesi delle conoscenze del tempo su botanica, fisiologia vegetale, chimica, applicate alle coltivazioni; dalle panoramiche sull’evoluzione del pensiero agronomico occidentale, agli scritti sull’importanza di creare una raccolta di pratiche agronomiche per favorire il progresso dell’agricoltura dell’Italia unita; dagli studi sulle rotazioni delle colture e sulle concimazioni più adatte alle varie specie vegetali, alle analisi sulle pratiche orticole in base alle più aggiornate conoscenze botaniche europee del tempo. Proprio a quest’ultimo tema è dedicata la pubblicazione del Re che maggiormente ci interessa: L’ortolano dirozzato. Con questo saggio il botanico vuole elencare gli elementi più moderni e attuali della coltivazione degli orti. L’opera è divisa in tre parti, tutte precedute da un proemio che ne spiega il contenuto. La prima parte consiste nel “prestare agli amatori delle cose rustiche un soccorso di sommo rilievo”, cioè fornire un dizionario che renda pienamente intelligibili ad ognuno i diversi vocaboli impiegati per definire una pianta (per es. l’autore cita la cuscuta, una pianta infestante, che è conosciuta con almeno 26 nomi diversi nelle varie parti d’Italia) e gli strumenti di agricoltura, “la differenza dei quali è tanto grande da paese a paese e, spessissimo, tra villaggio e villaggio che non è possibile l’intenderli senza un interprete”. 48


Manuali e trattati

Nella seconda parte vengono elencati, in generale, i principali precetti per le pratiche ortensi: la natura del terreno da scegliersi per l’orto, i metodi per emendarne eventuali inconvenienti, le pratiche di concimazione ed adacquamento, le tecniche di seminagione, il riparo dai danni che all’orto arrecano le stagioni, in particolare il freddo, e gli animali. Nella terza ed ultima parte, infine, vengono elencate, nel particolare, le tecniche di coltivazione delle principali specie orticole, tutte definite, accanto alla denominazione latina, con il loro nome in volgare. (acm) Stefanelli 1966, 5-9

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13.

Carlo Berti Pichat (Bologna, 1799 – 1878)

Istituzioni scientifiche e tecniche, ossia Corso teorico e pratico di agricoltura: libri 30. Torino, Pomba, [poi] Utet, 1851-1870. 6 voll. (LX, 1448 p.; 808 p.; 1595 p.; 1212 p.; 1557 p.; 1743 p.) ill. ; 25 cm. Modena, BCA Poletti (Maestri. MAE. C. 120)

Uomo dotato di vastissima cultura, era figlio di Jean-Baptiste, un ufficiale dell’esercito rivoluzionario francese e di Anna Berti. Quando il padre, all’indomani del rientro al potere dei sovrani assoluti, fece ritorno in patria, il ventenne Carlo si stabilì invece nei possedimenti che aveva ereditato nel territorio di San Lazzaro dallo zio materno, di cui assunse il cognome. Scrittore e patriota, partecipò in maniera attiva alle vicende politiche a lui contemporanee procurandosi infine il bando perpetuo da Bologna. Rifugiatosi in Piemonte, riprese a occuparsi intensamente di problemi agricoli, dando inizio alla pubblicazione delle sue Istituzioni. Tornato a Bologna dopo dieci anni di esilio, prese ancora parte alla vita politica della città, di cui fu critico instancabile. La morte prematura dei due figli aggiunse dolore e amarezza agli ultimi anni della sua vita. Quella torinese è la prima e unica edizione di una delle più importanti opere ottocentesche del settore. Di impostazione enciclopedica ed arricchita di numerosissime illustrazioni, esamina in maniera approfondita i molteplici aspetti storici, economici e giuridici legati alla pratica agricola. Nel Prodromo al primo volume, parlando del “Pregio dell’agricoltura” (punto 2, p. XXIX) scrive: “Quando da tanti secoli addietro Omero celebrava un Laerte re coltivatore di sue terre: quando le storie scrivono Gedeone in atto di battere il frumento mentre l’angelo invitavalo a liberare il popolo, e Saul re conducente i suoi bovi, e Davide pascolando gli armenti, ed Eliseo reggendo l’aratro: quando rammentiamo in che onoranza fosse l’arte campestre nella Grecia, nella Siria, nella Sicilia e presso Egiziani, e Cartaginesi e Persiani: quando ricordiamo la Romana Repubblica, pel cui ordinamento politico le rustiche tribù alle urbane si preponevano, e contava magistrati dal campo levati a Dittatura, e duci che le mani ancor fumanti del sangue del vinto inimico ritornavano al governo dell’aratro […] si pare ormai superfluo dimostrarlo ad uomini del secolo XIX. – Secolo nel quale l’agricoltura levandosi alla sua vera natura di arte e di scienza, è destinata a quel perfezionamento senza del quale il rapido e notevole crescimento di popolazione e di civiltà sarebbe, anziché beneficio, disavventura e rovina”. E più avanti, sul tema dell’importanza della teoria affiancata alla pratica, scrive (punto 39, p. XLVII): “Non è dunque il solo villico, il rustico lavoratore del campo, che ripudii la teoria; ma eziandio gran parte dei possidenti meglio istruiti ed affezionati alla coltivazione. Lo stesso illustre Consesso della Sezione agronomica e tecnologica sia in Pisa che in Torino, non dubitò d’invitare i migliori coltivatori a descrivere le pratiche rispettive di ogni paese, riputando per tal modo di servire eminentemente al progresso dell’agricoltura. Proposta bellissima, già messa in atto da Filippo Re ne’ suoi utilissimi Annali d’agricoltura del 50


Manuali e trattati regno d’Italia, e riproposta ed in qualche parte da alcuni scrittori sparsamente adempita. Tuttavia ciò vale a conseguire un’immensa raccolta di pratiche o, acciochè il dica, una vera congerie di cose buone, d’inutili, di contradditorie e d’erronee. Converrà sempre che la mente dell’uomo illuminato dalla scienza pronunci quali sieno da adottare, quali da emendare, quali da proscrivere.Vedremo alcuni possedere floridissimi gelsi che mai furono tocchi dal ferro del potatore, ed altri commendare l’uso di capitozzarli troncando loro ogni sorgente di prosperità […]”. (zz) DBI, IX, 553

14.

Elie Victor Benjamin Crud (Losanna, 1772 – 1845)

Economie theorique et pratique de l’agriculture. Paris, Béthune et Plon, 1839. VI, 412 p. ; 22 cm. Massa Lombarda, BC Venturini (solo vol. 1: Soppalco 338.1 ECOTEP)

Figlio del barone Jean-François, Elie Victor Benjamin Crud fu amministratore dei sali a Losanna, sua città natale e nel 1796 divenne notaio giurato. Dopo aver ricoperto diverse cariche pubbliche, si ritirò nella sua proprietà di Genthod, dove si dedicò all’agricoltura. Nel 1811 venne in Italia e acquistò una proprietà a Massa Lombarda, all’epoca compresa nel territorio dello Stato pontificio. Fu qui che scrisse, in francese per darle maggiore divulgazione, la sua opera più importante, l’Economie theorique et pratique de l’agriculture, talmente valida che fu subito adottata come libro di testo in tutte le scuole di agricoltura di Francia. In essa Crud descrive tutti gli esperimenti da lui effettuati nella tenuta Caseria – dove aveva introdotto trecento mucche da latte provenienti dalla Svizzera per la produzione di burro e latticini – ricevendo riconoscimenti a livello europeo. Egli fu il primo a proporre agli agricoltori della zona un sistema di cooperazione che li aiutasse a far fronte alle frequenti grandinate devastatrici. Il numero 58 del «Giornale agrario toscano» (anno 1841) riporta un lungo articolo sulla sua esperienza massese; l’autore è il marchese Cosimo Ridolfi, fondatore del periodico nonché agronomo, uomo politico, membro dell’Accademia dei Georgofili e direttore della Zecca. Sull’opera di Crud si esprime in questi termini: “Vivissimo era in me il desiderio di compilarlo [questo scritto], perché profonda sentivo la convinzione di render così un servizio all’agronomia dell’Italia, col richiamare l’attenzione di tutti quelli che se ne occupano verso un’opera che, essenzialmente italiana per la materia, andò sgraziatamente a pubblicarsi lungi dalla nostra penisola, con forme poco nostrali, e quindi pochissimo si divulgò fra di noi. Io voleva al tempo stesso offrire all’illustre agronomo, che in quel suo libro avea raccolto una preziosa messe di fatti ed una serie numerosissima di consigli importanti, quel giusto omaggio di lode e di riconoscenza che gli è dovuto. […] Il baron Crud, egregio scrittore 51


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d’agronomia, si occupò personalmente di una vasta intrapresa agraria nella Romagna, che lasciò ultimamente dopo molti anni di cure diligenti ed assidue”. Prosegue Ridolfi precisando che le critiche mosse al lavoro dell’agronomo svizzero lo hanno spinto ad approfondirne la conoscenza, criterio che ritiene necessario per poter esprimere un qualunque tipo di giudizio ma che forse non da tutti è stato seguito. L’Economia teorica e pratica è composta di due volumi ed è in realtà “un compendio fatto dall’autore stesso di tutta la scienza che possiede, la quale […] avrebbe richiesto un gran numero di volumi. Sente dunque ciascuno che l’autore dee avere scelto le cose più importanti per esporle, e quindi può ben credere che il libro in questione non conta una pagina sola che non sia necessaria”. Nel descrivere la prima parte dell’Economia chiarisce che “contiene osservazioni, norme e precetti applicabili dovunque; espone quelle generalità che l’agronomo deve aver sempre dinanzi agli occhi, perché sta in esse la parte essenziale della sua scienza, quella dalla giusta applicazione della quale dipende essenzialmente la sua fortuna o la sua rovina. Questa parte, trattata al solito concisamente, è accompagnata non solo da tutta la forza del ragionamento […] ma ancora dal linguaggio ben più eloquente delle cifre, le quali riducono all’evidenza e dimostrano ciò che le parole non possono talvolta che asserire”. Secondo Ridolfi quindi il lavoro di Crud dovrebbe avere un ‘effetto magico’ sugli agricoltori pratici, su coloro cioè che non possono limitarsi alla sola teoria perché l’agricoltura costituisce la loro ragione di vita. “È questo, ci sembra, il primo libro d’agronomia scritto in Italia, e per l’Italia coi principj della nuova scuola agronomica oltramontana, la quale, se ha per fondamenti certe gran verità insegnate fin da remoti tempi tra noi, ha però il merito d’aver saputo progredire e di aver ridotto i suoi canoni all’altezza di quelli delle più floride industrie”. Ma, ribadisce Ridolfi “ci duole profondamente di vedere il libro del baron Crud composto in Romagna, pensato e scritto in francese, e pubblicato a Parigi, mentre l’autore e parla e scrive, occorrendo, nel nostro idioma, del quale per un lungo soggiorno [dal 1825 al 1836] tra noi si è bene accorto che il suo lavoro non avrebbe avuto lettori numerosi in Italia […] ed ha preferito cercarne altrove, sicuro d’incontrarne moltissimi”. Ridolfi auspica che l’agronomo svizzero, ormai rientrato in patria senza avere purtroppo portato a termine la sua impresa non per mancanza di volontà ma per pesanti problemi economici, decida di realizzare ora una versione italiana della sua opera, lui in persona e non altri poiché per l’agronomo fiorentino è grande il “dolore di vedere il coltivatore egregio di Massa Lombarda scriver francese, pubblicare sulla Senna e dedicare alla Società reale e centrale d’agricoltura di Parigi un libro, che per la sua natura era fatto per il vantaggio dell’agricoltore italiano” non solo per gli argomenti trattati nella seconda parte, particolarmente diretti alle colture specialistiche ‘nostrali’ ma proprio per le massime enunciate nella prima parte, tese a dimostrare che anche in Italia il progresso dell’agricoltura dipende dal perfezionamento delle metodologie di lavorazione del suolo e questo, secondo Ridolfi, si ottiene solo dalla conoscenza, perché “la 54


Manuali e trattati lettura dei giornali e dei libri di agronomia è sempre il primo movente di questo stato di cose, è sempre l’eccitamento che lo sostiene; e finché questo non penetri fra di noi, finché dell’utilità che ne deriva e del diletto insieme che l’accompagna, non ci si persuada in Italia, noi resteremo sempre a Virgilio, perché non come agronomi, ma come scolari d’umanità e di rettorica ci cacciano quelle frasi e que’ versi pel capo”. L’altra ‘mancanza’ che Ridolfi rimprovera a Crud è quella di non avere trattato le ‘piante arboree’ probabilmente perché nella sua tenuta non avevano ragione di essere: questa è la parte che, integrata, farebbe dell’Economia il manuale più utile e completo che l’Italia potesse desiderare. (zz) Galvani 2000

Pagine precedenti: Pianta e misura di una possessione detta la Babbina di terra arativa, arborata, e vitata etc. Con casa etc. posta nel territorio di Faenza Villa della Pieve Cesato (Ravenna, ASC, Fondo Testi Rasponi) 55


15.

Luigi Maccaferri

(Massa Lombarda, 1834 – 1903) La migliore delle industrie agricole suggerita ai coltivatori delle pianure dell’Italia centrale. Bologna, Stab. tipografico succ. Monti, 1884. 15 p. ; 20 cm. Massa Lombarda, BC Venturini (F. Storico Opuscoli. 543b)

Persica vulgaris, Pesco, in Ulisse Aldrovandi, Hortus pictus, Tavola 70, vol. IV, piante, c. 207. (Bologna, BUB)

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Alla prima Esposizione nazionale di frutticoltura, svoltasi a Trento nel 1924, l’azienda dell’ingegner Camillo Borgnino, uno dei maggiori produttori ortofrutticoli locali, si aggiudicò la medaglia d’oro. Nel 1927 Massa Lombarda fu sede della seconda Mostra nazionale di frutticoltura; questo avvenimento rappresentava un degno riconoscimento di un’avventura cominciata, nel suo complesso, quasi cento anni prima. Fin dall’inizio dell’Ottocento infatti, con le figure di Benjamin Crud, Maccaferri e del cugino Adolfo Bonvicini, il centro romagnolo è stato all’avanguardia nella sperimentazione prima delle coltivazioni in genere e poi particolarmente in quelle specializzate della frutta: ancora adesso ne sono testimonianza varie aziende di servizi, di produzione, di lavorazione e commercializzazione, ma anche la presenza del Museo della Frutticoltura, dedicato proprio ad Adolfo Bonvicini. La città ha infatti siglato un protocollo d’intesa per la costituzione della rete italiana delle ‘città delle pesche’ aderente al progetto ‘Res tipica’ promosso dall’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e dalle associazioni nazionali delle ‘città di identità’ per la promozione del patrimonio enogastronomico, ambientale, culturale e turistico dei mille comuni che ne fanno parte. Ingegnere e proprietario agricolo, combattente per l’indipendenza nel 1859 e poi garibaldino nel ‘66, Luigi Maccaferri fu il primo ad introdurre nelle campagne di Massa Lombarda le trebbiatrici meccaniche, i mulini a vapore, la coltivazione del pomodoro su vasta scala e una fabbrica per l’estrazione dell’alcol dalla barbabietola (qui entrò in funzione uno dei primi zuccherifici romagnoli). Grazie a lui la zona cominciò a passare da un’agricoltura di sussistenza ad un alto sviluppo produttivo: il crollo dei prezzi del riso e del grano nel 1880, dovuto alla grave crisi agraria abbattutasi anche sull’Italia, alla fine convinse i possidenti della zona che era necessario puntare sulla specializzazione delle colture, cercando di introdurne delle nuove. In questo contesto i fratelli Ulisse e Giovanni Gianstefani avevano effettuato i primi esperimenti sulla coltivazione del frutteto e questa idea convinse il proprietario terriero Adolfo Bonvicini ad avviare su larga scala la produzione di alcune varietà pregiate di pesche, che poi si estenderà da Massa a Conselice e Sant’Agata. Ancora ai fratelli Gianstefani si deve, nel 1907, l’avvio della lavorazione dei prodotti alimentari (come i succhi di frutta) che rappresenta il punto di partenza dell’attività industriale del settore. Tutto questo trasforma profondamente il paesaggio agricolo fino a una ventina di anni prima praticamente abban-


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donato e Massa Lombarda diventa sinonimo di frutticoltura. Alla fine degli anni ‘80 inoltre erano state portate a compimento quasi contemporaneamente due importanti opere pubbliche che agevoleranno le comunicazioni e i trasporti: la ferrovia Bologna-Budrio-Massa Lombarda inaugurata nel 1887 e il tronco Massa Lombarda-Lugo (della linea Lugo-Lavezzola) nell’aprile del 1888. Con questa occasione, il sindaco Emilio Roli renderà un omaggio postumo a Benjamin Crud che tanto aveva fatto per l’agricoltura massese bonificando dapprima vaste zone e poi sperimentando con successo nella sua tenuta nuove colture tra cui la barbabietola da zucchero. “Se una frutticoltura pratica, remunerativa, industriale, è finalmente sorta anche in Italia e ha trovato la sua culla proprio nel Ravennate, ciò è merito indubbio di coraggiosi industri agricoltori, i cui nomi sono sulla bocca di tutti”, così scrive nel 1923 il professor Tito Poggi direttore del Reale Osservatorio di frutticoltura di Pistoia, membro della Commissione direttiva dell’Istituto pro Frutticoltura Italiana. Queste parole si trovano nella prefazione al libro di Adolfo Bellucci La frutticoltura industriale in Provincia di Ravenna in cui il professore – che resse per ventitre anni la cattedra ambulante di agricoltura di Ravenna istituita nel 1898 – trattava diffusamente della frutticoltura massese e del suo pioniere Adolfo Bonvicini. (zz) Galvani 2000

Le fabbriche della salsa: quando i bolognesi vendevano il pomodoro agli americani

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“Si hanno notizie di 3 fabbriche di conserva di pomodoro che si trovano rispettivamente nei comuni di Imola, Castelfranco dell’Emilia e Bologna. La fabbrica di Imola denominata Stabilimento del Santerno, nella quale oltre alla conserva di pomodoro si preparano anche legumi e ortaggi sotto olio non che le scatole di latta, è fornita di un motore a gas della forza di 2 cavalli, di una pressatrice e di un frangitoio per pomodoro, di una batteria da cucina in rame e di diverse macchine per la lavorazione delle scatole di latta. Il personale fisso addetto a questa fabbrica è di 10 persone; però durante il periodo di maggior lavoro vengono assunti anche operai avventizi. Nel 1896 questo stabilimento produsse circa 100,000 chilogrammi fra conserva di pomodoro, salsa e conserva di pomodoro e 50,000 chilogrammi di ortaggi e legumi sott’olio. Si osserva però che questa produzione è molto variabile dipendendo interamente dalla quantità dei raccolti. La materia prima è prodotta interamente negli orti e terreni del territorio di Imola e i prodotti sono venduti quasi per intero in Inghilterra e in parte anche nelle due Americhe. Nella fabbrica di Castelfranco dell’Emilia, di proprietà del signor Zecchi Egidio sono occupati per circa 40 giorni dell’anno 8 operai nella produzione di conserva di pomodoro solida e liquida. Finalmente nella fabbrica di Bologna che […] è compresa nella fabbrica di scatole di latta della ditta Nenzioni Fratelli, sono occupati 6 operai maschi adulti che preparano la conserva di pomodoro con 2 caldaie riscaldate a vapore. Nello stesso comune di Bologna la ditta Grabinsky Stanislao e C. tiene occupati 3 operai nella preparazione in scatole, con un processo speciale, di carni diverse, di cacciagione e pollame”. (Da Annali di statistica. Statistica industriale. Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Bologna. Fasc. V-A, 1898, p. 62)


Manuali e trattati

Pera limone. Tavola disegnata dal bolognese Antonio Basoli e incisa dal toscano Francesco Corsi, in Giorgio Gallesio, Pomona italiana, Pisa, co’ caratteri de’ FF. Amoretti. Presso Niccolò Capurro, 1817-1839, vol. II, (Piacenza, BC Passerini Landi) 59


Consiglierò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa Giuramento di Ippocrate IV sec. a.C.

La nascita della scienza medica ha nell’uso del cibo il suo elemento cardine e questo vale sia per il mondo occidentale che per l’Oriente: nel Huangdi Neijing, il Canone di medicina interna dell’imperatore - antico trattato tradizionale cinese - la centralità del cibo viene sottolineata precisando che si cura con i farmaci, ma si guarisce con i cibi. La sua redazione è praticamente contemporanea a buona parte dei testi che compongono il Corpus Hippocraticum, una raccolta di circa settanta trattati che sviluppano vari temi, scritti nel corso dei secoli e accorpati tra di loro in un’epoca imprecisata: alcuni sono ascrivibili proprio a Ippocrate, mentre altri appartengono sicuramente a mano diversa anche se influenzata dai suoi insegnamenti. Tra le dissertazioni che compaiono nella raccolta meritano particolare attenzione lo studio ‘delle arie, delle acque e dei luoghi’ relativo all’influenza dell’ambiente sulla salute dell’uomo e quelli riguardanti una corretta alimentazione. Nella Medicina antica si afferma che gli uomini hanno dovuto individuare attraverso l’esperienza personale le proprietà dei vari alimenti e hanno scoperto che ciò che è opportuno quando si sta bene è invece nocivo nella malattia. Sulla scia dell’insegnamento ippocrateo sono stati inseriti in questa sezione esempi di opere tese a sottolineare lo stretto rapporto tra salute e alimentazione, ponendo l’attenzione sia su autori - medici e speziali in particolare - che nel corso del tempo hanno dimostrato speciale attenzione per tale legame, sia sui prodotti che per la loro stessa natura hanno


Libri di sanità potuto essere utilizzati indifferentemente in cucina e in medicina. Prima fra tutti l’acqua, elemento costitutivo di ogni ecosistema, origine della vita nel nostro pianeta e indispensabile in tutti i settori, dall’agricolo all’economico-industriale. Fra queste opere sono inclusi erbari, farmacopee,‘libri di secreti’ e tacuina sanitatis: la botanica nacque dall’esigenza di riconoscere e attribuire un nome a tutte le piante che vennero elencate, descritte e raffigurate negli erbari allo scopo di studiarne le proprietà, sia che fossero esse medicinali o semplicemente commestibili. Nel corso del Medioevo l’arte erboristica era praticata quasi esclusivamente dai monaci: all’interno dei monasteri una piccola stanza ospitava erbe di ogni genere che vi venivano essiccate, bollite, lavorate e conservate; normalmente l’uso era destinato all’infermeria del monastero stesso. La ricerca veniva effettuata in ogni periodo dell’anno, poiché ogni pianta ha una sua stagione e le proprietà terapeutiche acquistano rilevanza, a seconda della specie che le possiede, nei mesi più diversi. Solo in un secondo momento i monaci presero a coltivare le varietà più utilizzate negli orti interni, arrivando a creare quello che nel Rinascimento prese poi il nome di “orto dei semplici”. Esistevano diversi tipi di preparazioni: infusi e tisane, decotti, impacchi, suffumigi e inalazioni, cataplasmi, macerazioni, polveri, tinture, estratti, pozioni, sciroppi. Inoltre un sistema di conservazione delle caratteristiche medicamentose delle piante era legato alla produzione di liquori, che originariamente erano limitati alle pratiche curative.

Solo in seguito si procedette a migliorarne il sapore per ottenere liquori da degustazione. Con la farmacopea l’erboristeria acquisì, per così dire, un carattere ufficiale: si tratta di un vero e proprio codice, costituito di disposizioni tecnico-scientifiche e amministrative, alle quali il farmacista fa riferimento per controllare la qualità dei medicamenti, delle sostanze e dei preparati finali. Contiene inoltre le disposizioni necessarie a regolare l’esercizio della farmacia. I ‘libri di secreti’ sono enciclopedie pratiche che insegnano principalmente la preparazione dei medicinali. I loro autori cercavano di fornire in particolare i primi rudimenti di una tecnica, quella distillatoria, che nella seconda metà del ‘500 non era molto conosciuta e veniva praticata quasi esclusivamente dagli alchimisti e solo da qualche medico o speziale. Lo schema di base era la ricetta (come è ancora quella di cucina), una enumerazione di ingredienti necessari con poche e sommarie indicazioni. Con il nome di Tacuina sanitatis vengono indicati i manuali di scienza medica scritti e miniati (soprattutto in Italia settentrionale) dalla seconda metà del XIV secolo al 1450 circa e che descrivevano, sotto forma di brevi precetti, le proprietà mediche di ortaggi, alberi da frutta, spezie e cibi, ma anche stagioni, eventi naturali, moti dell’animo, riportandone i loro effetti sul corpo umano ed il modo di correggerli o favorirli. Ad essi si sono ispirati in seguito diversi autori, come il bolognese Baldassarre Pisanelli. (zz) 61


16.

Nicola Bertuccio (Bologna, m. 1347)

Nusquam antea impressum Collectorium totius fere medicine Bertrucij Bononiensis in quo infrascripta continentur. Primo de regimine sanitatis. Secundo de egritudinibus particularibus que sunt a capite vsque ad pedes. Tertio de egritudinibus vniuersalibus hoc est de febribus. Quarto de crisi et de diebus creticis. Quinto de venenis. Sexto de decorazione. [Lione, Barthelemy Trot] (Impressum Lugd., per Claudium Dauost alias de Troys. Impensis honesti viri Bartholomei Trote,1509 tertio kal. Nouembris [30 X]) [4], 254 c. ; 4°. – Segn.: AA4 a-z8 A-H8 I6. Bologna, IOR (Putti 148. Prov.: Vittorio Putti)

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 29, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis

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Di lui si hanno notizie scarse e frammentarie: anatomista, allievo e successore di Mondino dei Liuzzi a Bologna, fu continuatore delle pratiche del suo maestro e anche se i suoi studi non lo condussero a scoperte di rilievo, contribuì comunque allo sviluppo dell’anatomia. Tra i suoi discepoli ebbe il celebre chirurgo Guy de Chauliac, che nella sua Chirurgia magna descrive dettagliatamente il metodo seguito dal maestro nel condurre le autopsie. Scrisse varie opere, tra le quali il Collectorium totius fere medicine, una raccolta sistematica delle malattie delle varie parti del corpo e del modo di curarle esponendo soltanto le teorie che riteneva vere e provate. Questa è la prima edizione, lionese, cui ne seguirono altre: ancora a Lione nel 1518, a Strasburgo nel 1533 e a Colonia nel 1537. Delle sei parti che costituiscono questa raccolta la prima è il De regimine sanitatis, un vero e proprio trattato sul rapporto esistente tra salute e stile di vita, compresa l’alimentazione, il sonno e l’attività fisica (a c. 22, per es., sostiene che “le carni bovine sono meglio per lo stomaco collerico”). Seguono il De aegritudinibus particularibus quae sunt a capite usque ad pedes (sulle malattie particolari considerate da capo a piedi), il De egritudinibus universalibus hoc est de febribus (sulle malattie sistemiche con una particolare attenzione per le febbri), il De crisi et de diebus criticis (sulle crisi e i giorni critici), il De venenis (sui veleni e i rispettivi antidoti) e infine il De decoratione (sui prodotti di bellezza). (zz) DBI, IX, 651


Libri di sanità

17.

Michele Savonarola (Padova, 1384 – Ferrara, 1468)

Libreto delo excellentissimo physico maistro Michele Sauonarola: de tute le cose che se manzano comunamente e piu che comune: e di quelle se beueno per Italia: e de sei cose non naturale: & le regule per conseruare la sanita deli corpi humani con dubij notabilissimi. Nouamente stampato. (In Venetia, per Simone de Luere, adi xxi Agosto 1508) [53], 1 c. ; 4°. – Segn.: a-m4 n6. Piacenza, BC Passerini Landi (C-FF.6.24.03)

Nonno del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, fu professore presso lo Studio padovano e poi medico di Niccolò d’Este a Ferrara. Scrittore assai prolifico, descrisse per primo le acque termali e le relative pratiche balneoterapiche in Italia, con particolare attenzione per quelle venete di Abano, sulle quali pubblicò il De balneis thermis naturalibus (di cui la prima edizione conosciuta fu stampata a Ferrara nel 1485 da André Belfort). Con l’invenzione e lo sviluppo dell’arte tipografica le sue opere si diffusero e furono fondamentali fino alla metà del Cinquecento, tanto che Niccolò Machiavelli nella sua Mandragola fa citare dal falso medico Callimaco frasi tratte proprio dalla Practica Maior e dal De urinis di Savonarola. Con il Libreto, dedicato al duca Borso d’Este, il medico padovano-ferrarese si pone fra i primi scienziati a sottolineare l’importanza dell’alimentazione in rapporto ad una buona qualità della vita. Il suo intento è annunciato nella prefazione: “Scriverò de tutte le cose che se manzano comunemente e più che comune” e già da questa frase si intuisce la sua intenzione di distinguere fra ciò che si mangia tutti i giorni da quello che si prepara per ‘i banchetti’, che deve costituire un’eccezione. E prosegue: “Et ancho mentione farò de le altre sei cose non naturale. Como è aere. Exercitio. Riposo. Somno e vegiare [vegliare]. Reimpire & evacuare”. Nel capitolo 16 per esempio, offre indicazioni piuttosto attuali circa i condimenti: “Il lardo e unto sono di calda e umida natura: sono nauseativi: e manzati rilassa il stomaco: facilmente se convertino in colera: dove ritrova il

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 59, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 89, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis

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caldo zenera flegma: sono opilativi [facili a ostruire]: corumpe l’altro cibo facendolo levigare: siché non sono da usare se non solamente per preparazione di altri cibi: dano cativo e pocho nutrimento: e volesse manzare in pocha quantità”. Esorta inoltre il suo signore a non mangiare “la carne fritta con il grasso” perché “è nauseativa e tarda discende al stomaco”, molto meglio cucinarla “su la brae” magari “frita con lo oleo” possibilmente di oliva acerba [che noi chiamiamo extravergine]: “chiamato olio crudo: da li medici onfancino. E de questo tale dice Avicena chel è migliore per li sani”. Michele Savonarola è autore anche del primo trattato sulla distillazione dell’acquavite: Libellus singularis de arte conficiendi aquam vitae simplicem & compositam. Et de eiusdem admirabili virtute ad conseruandam sanitatem, & ad diuersas humani corporis aegritudines curandas, in cui è descritta la differenza fra i tre tipi di acquavite in uso nel XV secolo in Italia: l’acquavite semplice, l’acquavite comune e la quintessenza, ovvero, come sosteneva anche il frate francescano – e alchimista – Giovanni di Rupescissa, quinta forza assieme ad aria, acqua, fuoco e terra, necessaria a bilanciare l’eventuale predominio di uno degli altri elementi per l’equilibrio e il benessere umani. Il libretto contiene anche la descrizione del primo apparato atto alla produzione dell’acquavite distillata, con l’accenno alla serpentina per la refrigerazione e l’uso del rame per la fabbricazione degli alambicchi. Savonarola spiega tra l’altro l’origine della parola acquavite: l’alcool era definito aqua vitis e non aqua vitae, perché la serpentina di condensazione aveva forma di spirale come la vite (“ab instrumento vero antiquorum sitis dicto in modus vitis retorte facta, aqua vitis appellata est”). Segue un elenco delle proprietà curative dell’acquavite, considerata un vero e proprio elisir per la salute. La Biblioteca Passerini Landi possiede anche un esemplare di questa opera nell’edizione stampata ad Hagenau da Valentin Kobian nel 1532. (zz) Segarizzi 1900

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 71, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis 64


Libri di sanità

18.

Girolamo Manfredi (Bologna, 1430 ca. – 1493)

Liber de homine: cuius sunt libri duo. Primus liber de conseruatione sanitatis capitulum primum de causis & naturis omnium eorum quae sumuntur in cibo. Quesita LXX. (Bononiae, impressum per me Vgonem Rugerium et Doninum Bertochum Regienses, 1474. Die prima Iulii). [112] c. ; fol. – Segn.: assente. [da GW: ab6 c–h8 ik6 l–q8]. Bologna, IOR (Fondo Putti, 667. Prov.: Vittorio Putti)

Girolamo Manfredi è stato uno dei più autorevoli professori dello Studio bolognese nella seconda metà del Quattrocento. Medico e astrologo, raggiunse rapidamente una fama che varcò i confini cittadini, soprattutto per la proficua attività di estensore di pronostici, che aveva il compito di rendere pubblici ogni anno, insieme a un tacuinus, un componimento diffuso a stampa come i pronostici, riguardante essenzialmente la salute e contenente l’indicazione dei giorni e delle ore più idonei alla somministrazione delle cure tramite la descrizione della posizione degli astri. Sullo stesso argomento produsse, nel 1489, il Centiloquium de medicis et infirmis (Bologna, per Bazaliero Bazalieri), scritto in latino, in cui ribadisce la sua convinzione che le malattie siano causate dall’influsso negativo degli astri e che il medico capace deve intendersi anche e soprattutto di astrologia. Nonostante la vasta cultura, amava confrontarsi anche con interlocutori non specialisti o dotti e farsi capire da tutti nonostante i contenuti non sempre facili del suo insegnamento: di qui discende verosimilmente la sua scelta di comporre in volgare le opere più importanti: il Liber de homine ovvero Il Perché e il Tractato de la pestilentia, alle quali dette un’impostazione decisamente divulgativa e antiaccademica. La prima edizione del Liber de homine risale al 1474 e fu affidata al laboratorio tipografico bolognese di Ugo Ruggeri in società con Donnino Bertocchi da Reggio; nel 1497 il solo Ruggeri ristampò l’opera (un esemplare di questa edizione è conservato dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna), che due anni dopo fu anche tradotta in lingua catalana: questa versione, rarissima (se ne conoscono solo quattro esemplari – di cui due non completi – posseduti dalle biblioteche spagnole di Barcellona, Madrid e Valenza) fu stampata a Barcellona (il 20 novembre 1499) da Pere Posa con il titolo Liber aggregationis seu Liber secretorum de virtutibus herbarum, lapidum et animalium quorundam. Il nome dell’autore non compare

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Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 65, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis

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in alcun modo nell’opera che fu attribuita per molto tempo al teologo domenicano Alberto Magno. Questa opera fu ristampata numerose volte fino a tutto il XVII secolo, a testimonianza della sua popolarità, essendo un testo di relativamente facile comprensione e di grande godibilità di lettura ancora adesso. Il Perché è sostanzialmente un trattato a struttura enciclopedica, articolato in domande con le relative risposte e costruito secondo il modello della quaestio aristotelica, che però l’autore caratterizza con il suo vastissimo patrimonio di conoscenze personali e con l’uso della lingua volgare. L’opera è costituita di due libri: il primo descrive i mezzi più adatti alla conservazione della salute, il secondo mira a chiarire i vari quesiti, i “perché”, come per esempio (a c. p3r) “Perché alle volte viene un apetito canino che quanto più l’huomo mangia tanto più voria mangiare”. Vengono trattati diversi tipi di cibi, sia quelli ‘tradizionali’ che quelli meno consueti, come il leone, l’orso, il pavone, lo struzzo o il cammello ed emerge netta la separazione tra ciò che consumavano abitualmente le classi abbienti e l’alimentazione del ‘popolo’. Nel quesito 25 del primo libro “Perché alcuni cibi sono boni e laudabili al corpo nostro, alcuni cattivi, & illaudabili” Manfredi risponde con un’affermazione che non è reperibile in altri testi di medicina, infatti sostiene che “non è cosa né cibo che più sia conforme al nutrimento dell’huomo quanto è la carne humana se non fusse la abbominatione che la natura ha a quella”. Un esemplare della prima edizione è posseduto dalla Biblioteca degli Istituti ortopedici Rizzoli di Bologna: si trova nella ricca collezione del medico e bibliofilo Vittorio Putti ed è appartenuto a sir Michael Woodhull, anch’egli medico e collezionista. (zz) DBI, LXVIII, 697-700


Libri di sanità

19.

Leonardo Fioravanti

(Bologna, 1517 – Venezia, dopo il 1583) Del compendio de i secreti rationali, dell’eccell. medico & cirugico m. Leonardo Fiorauanti bolognese, libri cinque. Nel primo de’ quali si tratta de’ secreti più importanti nella professione medicinale. Nel secondo si insegnano molti secreti appartenenti alla cirugia, & si mostra il modo d’esercitarla. Nel terzo si contengono i secreti più ueri et piu approuati nell’arte dell’alchimia. Nel quarto si scriuono molti belletti, che usano le donne per apparer belle. Nel quinto si comprendono i secreti più notabili in diuerse arti & esercitij. Con la tauola di tutti i capitoli. In Venetia, appresso Vincenzo Valgrisi, 1564 (In Venetia, appresso Vincenzo Valgrisi, 1564). [20],183, [1] c. ; 8°. – Segn.: *-**8 ***4 A-Z8. Piacenza, BC Passerini Landi (C – OO.10.18)

Se Alessio Piemontese (da identificarsi con Girolamo Ruscelli) è stato il più diffuso autore di ‘libri di secreti’ il bolognese Leonardo Fioravanti è senz’altro da considerarsi il più prolifico, infatti sull’argomento sono da annoverare in particolare, oltre al Compendio, i suoi: De capricci medicinali (Venezia, 1561), Dello specchio di scienza universale (Venezia, 1564), Il tesoro della vita humana (Venezia, 1570), La cirugia … Con una gionta de secreti nuoui (Venezia, 1582), Della fisica (Venezia, 1582), tutti scritti in lingua volgare per essere accessibili al maggior numero possibile di persone, nel tentativo di affrancare i ceti più umili dal potere dei dottori; il successo fu tale che vennero tradotti in latino, inglese, francese e tedesco. Piero Camporesi lo definisce “personaggio a metà fra il medico non privo di genio e il ciarlatano d’alto livello”, esperto anche di chirurgia per aver viaggiato come medico al seguito di eserciti. Fu un sostenitore della medicina di Paracelso, che privilegiava ai decotti di antica tradizione le nuove tecniche soprattutto distillatorie; sostenne risolutamente l’autorità della pratica rispetto alla teoria, pur non negando valore a quest’ultima. Secondo Fioravanti infatti, come non si può prescindere dai libri altrui, così non c’è “miglior cosa per imparare quanto l’andar per il mondo; percioché ogni giorno si vede cose nuove, et s’imparano vari et diversi secreti importanti” e conclude che “la vera scientia non è altro che la theorica dell’esperientia”.

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 101, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis

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I ‘libri di segreti’ di Caterina Sforza e frate Pietro Donavita

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Due pregevoli esempi di ‘libri di segreti’ di mano ‘altra’ da quella medica sono costituiti da altrettanti manoscritti presenti in regione: il primo in ordine di tempo riguarda salute e bellezza e ne fu autrice Caterina Sforza, contessa di Imola e Forlì – dal 1488 al 1500 – prima con il marito Girolamo Riario e poi come reggente per il figlio Ottaviano. Il codice, che fa parte di una collezione privata, fu pubblicato nel 1894 a cura di Pier Desiderio Pasolini con il titolo Experimenti de la excel‑ lentissima signora Caterina da Furlj, matre de lo illuxtrissimo signor Giouanni de Medici (Imola, Tip. d’Ignazio Galeati e figlio). Il figlio citato nel titolo è Giovanni dalle Bande Nere, l’ultimo ‘capitano di ventura’ che cambiò il nome quando appose il simbolo del lutto alle proprie insegne per la morte del pontefice Leone X Medici. L’edizione, stampata in 102 esemplari numerati (la Biblioteca comunale di Imola ne possiede un esemplare), è la trascrizione, effettuata nel 1525 dal conte Lucantonio Cuppano di Montefalco, del manoscritto proveniente dall’archivio Pasolini di Ravenna. Le 454 ricette sperimentate personalmente (molte recano in fine la dicitura ‘è provato’) riguardano diverse materie: alcune si occupano della fabbricazione di veleni e inchiostri simpatici – secondo il più classico spirito rinascimentale – altre, la maggior parte, si occupano di rimedi medicinali di cui descrivono la lunga e laboriosa preparazione: forse la più interessante serve “a far dormire una persona per tal modo che porrai operare in chirurgia quel che vorrai e non ti sentirà et est probatum”, molto simile a un anestetico e contenente sostanze come l’oppio, le foglie di mandragola, di edera, di cicuta e altre ancora. Molte ricette riguardano la cura del corpo (contro la rossezza e le macchie del viso, per l’abbronzatura, per denti bianchissimi netti e belli, per le mani screpolate e così via) e anche su questo argomento Caterina seppe trovare qualcosa che la rese molto famosa, l’acqua celeste che, come scrive lei stessa “è de tanta virtù che li vecchi fa devenir giovani et se fosse in età di 85 anni lo farà devenir de aparentia de anni 35, fa de morto vivo cioè se al infermo morente metti in bocca un gozzo de dicta aqua, pur che inghiottisce, in spazio di 3 pater noster, ripiglierà fortezza et con l’aiuto de Dio guarirà”. Ne facevano parte decine di ingredienti, come salvia, rosmarino, garofano, basilico, menta, sambuco, noce moscata, anice, rose (bianche e rosse). Il secondo manoscritto (conservato dalla Biblioteca Gambalunga di Rimini e proveniente dalla raccolta del conte riminese Cosimo Guerrieri Bertozzi) risale al 1781 e reca la firma di Pietro Donavita, frate minore nel convento di S. Bernardino. Le ricette propongono rimedi per disturbi come il “mal della pietra” (cioè i calcoli renali), il mal di denti (con un decotto a base di acqua, miele rosato e chiodi di garofano) o l’insonnia (grazie a un impacco sulla fronte con olio violato, rosso d’uovo e latte di donna). Il frate suggerisce anche “segreti” per l’economia domestica quotidiana – come conservare la carne o aumentare la produzione di uova – e persino ricette di bellezza, classica quella per ‘sbiancare’ i denti (con polvere di corno di capra).


Libri di sanità

Il Compendio è suddiviso in cinque parti che contengono rispettivamente: i secreti più importanti nella professione medicinale, i secreti appartenenti alla cirugia, i secreti più veri et più approvati nell’arte dell’alchimia, nel quarto si scrivono molti belletti che usano le donne per apparer belle, nell’ultimo si comprendono i secreti più notabili in diverse arti. Possiamo quindi trovare nello stesso libro la ricetta per tutti i prodotti tipici di una ‘farmacia’ (preparati medicinali, pillole, sciroppi e così via), per curare pustole e ulcerazioni di varia natura in ogni parte del corpo, l’elenco delle erbe con l’indicazione del loro uso, fino al “modo di fare brodetti di più sorti per gli ammalati”, “del modo di fare un cibo di grandissimo rinfrescamento & nutrimento” (si pigliano otto bianchi di ova fresche, once quattro di latte, et once quattro di latte di mandole dolci, & once sei di zuccaro con un pochetto di acqua rosa finissima, et si rimena tanto dentro un mortaro, che tutte le sopradette cose si incorporino insieme, & diventino in forma di liquido unguento; e sarà fatto. Et questa è una compositione, la quale dà grandissimo nutrimento a gli ammalati; et li rinfresca, et gli estingue la sete; et tal compositione si dovrebbe usare da tutti quando sono ammalati, et massime di febri calide, che inducono grandissima siccità), “del modo di fare il pesto per quei che son feriti”, “del modo di condire molte sorti di cibi per gli ammalati & sue raggioni”, “del modo di fare dolce l’acqua salsa di mare & farne gran quantità”, ma anche “del modo di fare inchiostro giallo per scrivere in carta”, “del modo di fare inchiostro turchino bellissimo per scrivere” e di tanti altri colori e poi i vari modi per fare calcina, per fare stucco, colla “di farina di formento per incollar carte & altre cose”, “del modo di fare il butiro che si chiama fior di latte”, la ricotta, il formaggio e ancora del “modo di fare che il vino non si guastarà mai, secreto rarissimo”, “del modo di fare bianco mangiare in un subito”, “di confettare ogni sorte di frutti”, “di fare cotognato col mele, & col zuccaro”, il modo di fare la “peverata che si usa in Lombardia” che è una “salsa molto salutifera al stomaco”, e ancora il modo di fare il pan forte che “a Bologna lo chiamano pan spetiale”, la pasta di marzapane, il modo di conciare le scorze dei cedri. (zz) Camporesi 1997

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 103, particolare, (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis 69


20.

Baldassarre Pisanelli

(Bologna, 1535 ca. – Roma?, 1586) Trattato de’ cibi, et del bere del signor Baldassar Pisanelli medico bolognese, oue non solo si tratta delle virtù de cibi, che ordinariamente si mangiano, et de vini che si beuono, ma insieme s’insegna il modo di correger’ i diffetti che se trouono in essi, per mantener la sanità. Ridotto in vn’ assai bell’ ordine, et aggiontoui di molte dotte, et belle annotationi sopr’ ogni capo dal sig. Franc. Gallina medico di s. m. christianiss. et del luogo di Carmagnola in Piemonte. Di nuouo ristampato, & con diligenza ricorretto. In Carmagnola, appresso Marc’Antonio Bellone, 1589 (In Carmagnola, appresso Marc’Antonio Bellone, 1589). [8], 238, [2] p. ; 4°. – Segn.: +4 A-Z4, Aa-Gg4. Parma, Academia Barilla (AC 9.3.2.12)

Tacuinum sanitatis, manoscritto, c.55v-56r. (Modena, BEU. Fondo Estense α.O.6.8). V. box I tacuina sanitatis

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Allievo di Ulisse Aldrovandi, di lui scrive Serafino Mazzetti: “Bolognese, laureato in medicina e filosofia il giorno primo agosto 1559, nel qual anno ottenne tosto una cattedra di medicina teorica, che tenne sino al 1562, sul finire del qual anno si mise a viaggiare, terminando in Roma, in cui fu fatto medico dello Spedale di S. Spirito, ed ove sembra che cessasse di vivere”. Il suo Trattato ebbe un tale successo che dal 1583, anno della prima edizione romana, se ne contarono una trentina, fino alla fine del XVIII secolo. Tale successo fu sicuramente dovuto anche alla forma semplice e facilmente consultabile che Pisanelli diede al suo lavoro, costituito da una serie di ‘schede’ precedute dalle Historie naturali, brevi introduzioni sull’origine e la provenienza – e l’opinione che ne avevano gli antichi – dell’alimento o della bevanda descritti: carne, pesce, latte, formaggi, frutta, verdura, vino, spezie, di tutti si consiglia il miglior utilizzo, specificando per cosa siano utili o nocivi. Delle ostriche, per esempio, scrive per quanto riguarda la ‘elettione’ che “non sia presa in luogo fangoso e se si può piglisi di quelle, che sono nate su i fondi de’ navilij vecchi, sia di mesi c’hanno la R. e siano mangiate fresche”, per quanto riguarda i benefici “ha un certo succo salato, che muova il corpo più gagliardamente di tutti gli altri restati, risveglia l’appetito, & accresce il coito, ma poco


Libri di sanità

I tacuina sanitatis Il Trattato di Pisanelli richiama l’impostazione tipica dei tacuina sanitatis, manuali di medicina scritti e miniati diffusisi dalla seconda metà del XIV secolo, che descrivevano, in forma di brevi precetti, quasi dei proverbi, le proprietà mediche di cibi, condimenti, frutta e verdura, ma anche stagioni e fenomeni naturali, sonno e movimento, controllo dei sentimenti, mettendoli in relazione con il corpo umano e fornendo indicazioni sul modo di correggerli e riportarne il maggior beneficio possibile. Traevano la loro origine dal testo del medico arabo Ibn Butlan, attivo a Bagdad nell’XI secolo e il loro nome latino deriverebbe dall’arabo Taqwin al‑Sihha (Tavole della salute): attraverso di essi il continente europeo poté venire a conoscenza delle norme igieniche e alimentari della medicina araba. Dalla funzione pratica di questi testi si passò gradualmente anche a quella estetica, data dalle vivide illustrazioni: alcuni di essi sono giunti sino a noi, come l’esemplare della Biblioteca Nazionale di Vienna, quello della Biblioteca Nazionale di Parigi e il Theatrum sanitatis (variante del nome) conservato dalla Biblioteca Casanatense di Roma. In ogni tacuinum il testo occupa solo poche righe a piè pagina, lo spazio rimanente è destinato a una miniatura che illustra la materia alla quale il testo fa riferimento. Sono rappresentati ortaggi, frutti, piante insieme a donne e uomini che ne indicano i metodi di coltivazione, di raccolta o di preparazione. Sono raffigurati, inoltre, interni di botteghe nelle quali si scorgono prodotti salutari e mercanti che s’accingono a venderli o a prepararli. La Biblioteca Estense Universitaria di Modena possiede un manoscritto membranaceo, composto di 24 fascicoli di 201 c. totali (con collocazione: Lat.175.α.O.6.8) che, pur non essendo miniato, appartiene comunque alla ‘famiglia’ di questi trattati. All’inizio è presente un indice redatto da Pellegrino Nicolò Loschi, che fu archivista a Palazzo Ducale alle fine del ‘700. Il codice è una raccolta di trattati medico-farmacologici tradotti, quasi tutti, dall’arabo in latino e risalenti al XIII-XIV secolo (alcuni recano le date 1290 e 1294). Tra gli autori si segnala in particolare Ruggero da Parma: figlio di Giovanni, originario di Frügard (Finlandia), che probabilmente fece parte del piccolo contingente svedese sceso in Italia nel 1154 al seguito di Federico Barbarossa, stabilendosi poi definitivamente a Parma. Ruggero insegnò nello Studio della sua città, poi passò a Salerno, dove fondò la Scuola chirurgica salernitana, da cui gli derivò anche il nome di Ruggero Salernitano. Il manoscritto fu dato alle stampe nel 1531 (Strasburgo, Johann Schott) - poi ancora due anni dopo dallo stesso tipografo – con il titolo Tacuini sanitatis Ellucha‑ sem Elimithar Medici de Baldath, de sex rebus non naturalibus, earum naturis, operationibus, & rectifica‑ tionibus, publico omnium usui, conseruandae sanitatis, recens exarati. Albengnefit De uirtutibus medicinarum, & ciborum. Iac. Alkindus De rerum gradibus. La Biblioteca comunale Manfrediana di Faenza possiede un esemplare della prima edizione (Cinq. 4.1.11.1) che fa parte del fondo Ludovico Caldesi, uomo politico ma anche botanico, che regalò il suo erbario all’Orto dell’Università di Bologna e pubblicò il Florae Faventi‑ nae Tentamen.

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nutrisce”, ma presentano lo svantaggio di essere “difficile a digerirsi, e la sua carne ne i stomachi freddi accresce la flemma, e ci fa ostruzione”, si rimedia però “apparecchiandosi con pepe, oglio, e succo di aranci acerosi, dopo ch’è cotta su la bragia, avertendo che non si ha da lessare”. Il vino rosso (p. 144) “che sia di sostanza più sottile che sia possibile, splendido e chiaro, simile alla pietra chiamata rubino. Nutrisce molto bene, genera buon sangue, leva la sincope, e fa vedere sogni grati la notte” ma “s’è grosso grava lo stomaco, nuoce al fegato & alla milza, con fare

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Libri di sanità oppilazione, & è assai tardo da digerirsi” in tal caso bisogna “mangiarle appresso granati, overo aranci acetosi overo altri cibi conditi con aceto, o con succhi acetosi”; è adatto “nei tempi freddi per quell’etadi & complessioni che ricercano molto nutrimento, overo medicamento astringente”. Il vino bianco “che non sia di più di un’anno, perché sarebbe troppo caldo, sia splendido e lucido, e fatto di uve mature nate nelle colline. Resiste a i veleni, purga le vene da gli humori corrotti, e resiste alla putredine: è buono per li vecchi, perché conforta il calor naturale”. (zz)

Tacuini sanitatis, Strasburgo, 1531, p. 26-27 (Faenza, BC Manfrediana). V. box I tacuina sanitatis 73


21.

Bartolomeo Traffichetti (Bertinoro, 1523 – Rimini, 1579)

L’arte di conseruare la sanità, tutta intiera trattata in sei libri, per Bartolomeo Traffichetti da Bertinoro medico in Rimino. Stampata in Pesaro, [Girolamo Concordia], 1565. (In Pesaro, per Gieronimo Concordia) [14], 257, [1] c. ; 4º. – Segn.: †4 ††8, A-S8T-V4 X-Z8, AA-KK8 LL4. Imola, BIM (1.N.3.35)

Medico e filosofo, conosciuto non solo in Romagna ma anche a Bologna, a Venezia, a Roma e nelle Marche, esercitò a Rimini dove gli fu intitolata la settima delle arche dedicate a illustri personaggi nel Tempio Malatestiano. La notorietà di Traffichetti è legata soprattutto ad alcune accese polemiche con altri medici, che si tradussero in altrettante pubblicazioni: con Marco Antonio Cappelletti, medico di Cagli, polemizzò sui metodi terapeutici adottati per curare la malattia di un giovane riminese e, a difesa delle proprie argomentazioni, pubblicò Antidosis (Il rimedio), premettendovi una giustificazione in lingua volgare, sottoscritta da dodici medici riminesi. Una delle sue opere più famose, l’Idea di conservare la sanità – dedicata ad Alberto Pio signore di Sarsina e Meldola – fu presa in considerazione dal fisiologo e igienista Paolo Mantegazza. Nel 1572 Traffichetti pubblicò un’altra volta quest’opera sotto il cui titolo si legge la precisazione scritta già da M. Bartolomeo Traffichetti da Bertinoro, et hora per il medesmo diffesa dalle false opposizioni di M. Matteo Bruni il medico da Rimino. Traffichetti ebbe uno stretto rapporto con Bertinoro e con la lingua italiana, che usò sempre per scrivere le sue opere. (zz) Gabici-Toscano 2006

22.

Matteo Bruni

(Rimini, 15.. – dopo il 1597) Discorsi di M. Matteo Bruno medico ariminese sopra gli errori fatti dall’eccell.te M. Bartolomeo Traffichetti da Bertinoro. Nell’arte sua di conseruar la sanità tutt’intiera, à lui dal medesmo per sua correttione inuiati… In Venetia, appresso Andrea Arriuabene, 1569. [4], 9-146 [i.e. 144, 20] p. ; 4º. – Segn.: πA², A2 C-T4, †4 ††4 †††2. Rimini, BC Gambalunga (BT 491)

Figlio del riminese Raffaello e padre di Camillo, anch’egli medico, e di Fabio che vestì l’abito dei gesuiti, è da distinguersi dal suo omonimo e coevo – nonché riminese – che fu legista. Stilò il proprio testamento il 22 settembre 1597. La sua risposta al primo opuscolo di Traffichetti fu decisamente vivace, subito dopo l’introduzione – in cui si rivolge a Giulio Contarini procuratore di S. Marco (era la più prestigiosa carica vitalizia della Repubblica 74


Libri di sanità di Venezia dopo quella del doge) – si legge infatti (p. 10) “Prima dico, e non l’habbiate per male, ch’a me pare ch’error fosse il vostro, e non picciolo a pensare scrivendo volgar in questa materia d’acquistar lode, o riputazione alcuna, com’io presuppongo che fosse l’intento vostro, quando ch’a scriverla incominciaste, o come vi forzaste voi di persuadere, a quell’illustrissimo signore a cui sta l’opra vostra diretta, che sia vostro desiderio, di giovare o portar utile alcuno al prossimo; da poi volendo pur scrivere, e scrivere in questa lingua a noi tanto familiare, e domestica, maggior error al mio giuditio havete fatto, a non vi usar alcuna diligenza, ne studio per adornarla, e polirla, sforzandovi anzi più tosto di bruttarla, e renderla quasi a posta sporca, e mal netta, hor con voci barbare, & insuete, or con novi, e mal composti nomi […]”. L’opera riporta un articolato indice in cui sono elencati tutti i punti che l’autore contesta all’ ‘avversario’ come per esempio, il “Cibo più conveniente à putti” di cui si parla a p. 109 in questi termini: “Hora venendo a i putti, voi che scrivete al volgo signor Traffichetti, perché in alevargli non vi contentate, che per lor vitto godano della tetta della madre, o della nutrice, per fin ch’è tempo, e in sopplemento alle volte poi mangino anco un poco di panata in acqua, o fatta con latte di capra, di vacca, o di pecora senza fargli così sempre, la ricerca di brodi di pollo, o qualch’altra carne di buon sugo, e nutrimento, come capretti, perdici [pernici], e fasani, sapendo che i poveri saranno per amor vostro sforzati con questo a morirsi di fame: & perché crescend’anco poi, e producendo i denti, non lasciate questi medesimi mangiar de’legumi del pane, et simil cose senza procurarli, o comandarli, che mangino sempre pollo, capretto e castrato, sapendo, o dovendo saper voi medesimamente, ch’i legumi costano meno, nutriscono assai, e riempiono e non si putrefanno leggermente com’all’incontro il pollo, il capretto, il castrato, i vitelli, le starne, i fagiani & simili costano assai, nutriscono troppo e si putrefanno facilmente, e i poveri non hanno d’onde provedersene […]”. La Biblioteca civica Gambalunga di Rimini conserva anche la sua cronaca manoscritta (Annotazioni di cose diverse di misser Matteo Bruni medico ariminese da lui raccolte per modo di memorie cominciando l’anno 1571 con qualche cosetta dell’anno 1569 et 1570) e il suo diario (Diario del s.r Matteo Bruni Medico e Gentilhomo Riminese dal 1571 sino al 1595). (zz) Gabici-Toscano 2006

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23.

Girolamo Rossi (Ravenna, 1539 – 1607)

Hieronymi Rubei Rauenn. De destillatione liber. In quo stillatitiorum liquorum, qui ad medicinam faciunt, methodus ac vires explicantur: et chemicae artis veritas, ratione, & experimento comprobatur. Rauennae, ex Typographia Francisci Thebaldini, 1582. (Rauennae, apud Franciscum Thebaldinum, impress. illustriss, & reuerendiss. Archiepisc. atq. Mag. Communitatis, 1581) [16], 222, [2] p. ill. ; 4º. – Segn.: †4 ††4, A-Z4, Aa-Ee4. Ravenna, BC Classense (F.A. 83.7.I.2)

Filippo Mordani, nelle sue Vite di ravegnani illustri (p. 127), lo definisce “filosofo, oratore, poeta, medico ed istorico celebratissimo”. Avviato agli studi di medicina e filosofia dallo zio paterno che lo chiamò a Roma, si addottorò poi in tali materie presso lo Studio di Padova. Fu autore, fra le altre cose, di una storia della sua città (Historiarum Rauennatum libri decem) e di un commento (Ad Cornelium Celsum in libros octo Annotationes, 1614) all’opera del medico Cornelio Celso, considerata il primo trattato di medicina in latino. Sempre secondo Mordani, scrisse anche un “dialogo della ignoranza, improbità ed infelicità de’ medici […] ma che forse più non si trova”. Fu anche medico personale del pontefice Clemente VIII. Questa opera tratta della distillazione in tutte le sue forme, compresa quella dei vari metalli come l’oro e l’argento. Da essa apprendiamo che molti rappresentanti delle famiglie nobili del suo tempo, tra i quali Cosimo de’ Medici (a cui Rossi la dedica) praticavano la distillazione di oli vegetali e essenziali e anche dell’aqua vitae. Sul modo di estrarre quest’ultima mostra una sicura competenza, descrivendo i vari tipi di distillatori (che sono illustrati) e dichiarando di preferire il raffreddamento dei vapori in una serpentina, perché in grado di produrre un’acquavite pura con una sola distillazione. La terza parte dell’opera elenca una serie di rimedi a vari mali, come per esempio per i “dentes cariosos, ac putridos” (p. 173) per i quali conviene fare spesso sciacqui con infuso di camomilla nel vino. Girolamo Rossi scrisse anche una Disputatio de melonibus (Venezia, 1607), nella quale dibatte con altri scienziati (come il genovese Vincenzo Alsario della Croce e Sebastiano Iozzi, medico del cardinale Pietro Aldobrandini) sulle proprietà del melone, ponendosi domande del tipo “utrum aqua potanda sit post melones, an vinum?”: meglio bere acqua o vino dopo aver mangiato questo frutto? E la sua risposta è che “vinum esse post melones bibendum” (c. 5v) contrariamente a quanto sostengono i discepoli di Avicenna che raccomandano l’acqua. E la risposta è data dalla natura stessa, poiché “quae post melones vini gustum suaviorem reddidit”, dopo il melone il vino lascia un sapore più piacevole. La Biblioteca Classense di Ravenna possiede anche un esemplare di questa opera (con collocazione F.A. 83.6.S.2/6). (zz)

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Libri di sanità

24.

Giovanni Bianchi (Rimini, 1693 – 1775)

Se il vitto pittagorico di soli vegetabili sia giovevole per conservare la sanità, e per la cura d’alcune malatie, discorso di Giovanni Bianchi medico primario della città di Rimino. In Venezia, presso Giambatista Pasquali, 1752. 94, [2] p. ; 8°. – Segn.: A-F8. Reggio Emilia, Arcispedale (F.Antico.I.G.28. Prov.: Pietro Giuseppe Corradini)

Il riminese Giovanni Bianchi è forse più conosciuto con lo pseudonimo di Janus , da lui stesso scelto e spesso italianizzato in Iano (o Giano) Planco. È praticamente impossibile riassumere in poche righe i suoi molteplici interessi (fu un assiduo collezionista di materiale naturalistico e archeologico, con il quale trasformò la sua abitazione in un museo) e soprattutto la sua infinita produzione di scritti. Tenne anche una fittissima corrispondenza con molti suoi illustri contemporanei quali Giovanni Battista Morgagni e Antonio Vallisnieri (dei quali divenne amico), Ludovico Antonio Muratori, Albrecht von Haller, Paolo Maria Paciaudi, Apostolo Zeno e altri ancora (il suo vasto carteggio è conservato nel fondo “Zefirino Gambetti” della Biblioteca Gambalunga). Tra i suoi scritti, copiosi sia per la quantità che per gli argomenti trattati, non occupano certamente un posto di primo piano quelli medici: di dimensioni solitamente ridotte, nascevano spesso dalle frequenti polemiche in cui si lanciava con facilità, ed erano pubblicati in forma di opuscoli a stampa o di lettere inviate a periodici. Interlocutorio è anche questo lavoro, scritto in risposta al medico Antonio Cocchi, in cui confuta la tesi del medico mugellano che, nel suo Del vitto pitagorico per uso della medicina (In Firenze, nella stamperia di Francesco Moücke, 1743) sostiene l’efficacia di un’alimentazione totalmente vegetariana, basata sul consumo di ortaggi, erbe fresche, radici, frutti e semi. Il matematico e filosofo greco Pitagora – ispiratore di questa dottrina – secondo il suo biografo Diogene Laerzio “stava contento di solo miele, o favo, o pane; vino non gustava fra il giorno. A companatico, per lo più, camangiari [erbe commestibili] bolliti e crudi; rado cose marine”. Il cuoco-gastronomo pugliese Vincenzo Corrado, uomo di grande cultura e primo sostenitore della cucina mediterranea, a p. 123 (Trattato IX) del suo Il cuoco galante, pubblicato nel 1773, scrive in proposito: “Il vitto Pitagorico consiste in erbe fresche, radiche, fiori, frutta, semi e tutto ciò 77


che dalla Terra si produce per nostro nutrimento. Vien detto pitagorico, poiché Pitagora, com’è tradizione, di questi prodotti della Terra soltanto fece uso”. Nel suo lavoro, Giovanni Bianchi assume la posizione opposta, esprimendo preoccupazione per questa consuetudine alimentare causata, secondo lui, non tanto forse dall’attenzione alla conservazione della salute, quanto da una generale situazione di ristrettezze economiche che consentivano soltanto agli abbienti una variazione dei cibi, spesso con un consumo decisamente smodato. (zz) Le arti della salute 2005, p. 442

L’aglio

Allium sativum, Aglio comune, in Ulisse Aldrovandi, Hortus pictus, Tavola 82, vol. IV, piante, c. 279. (Bologna, BUB) Annibale Carracci, 41 Vende agli e cipolle, Roma, 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) 78

Rimedio nella medicina popolare – e non solo – contro molti disturbi, fu definito la ‘teriaca dei villani’. Costanzo Felici, nella sua lettera sulle insalate (v. scheda n. 37) indirizzata a Ulisse Aldrovandi, scrive: “L’aglio, che da’ Latini allium e da’ Greci σκοροδον [scorodon] si chiama, è cibo molto frequentato e principalmente da’ villani, che poi per le sue virtù rare vien detto teriaca de’ villani, […] et è cibo nottissimo, così a chi piace per la sua acutezza e sapore, como ancora a chi non piace per il suo terribile odore. […] Questo si usa e crudo e cotto, e in erba con le foglie et in perfettione della pianta, e nell’insalata e con l’insalata e negli arosti e in guazzetti e in minestre de diverse sorte e principalmente in compagnia con il cece, ché così insieme aiuta il gusto e toglie gli altrui vitii”. L’aglio è da molto tempo il simbolo del paese di Monticelli d’Ongina (Pc), che vanta un’eccellente qualità di questo prodotto nella varietà ‘piacentino bianco’. Poiché Monticelli si trova al centro della zona di produzione, è stato nominato ‘capitale dell’aglio’; ogni anno vi si tiene la ‘‘Fiera dell’aglio’’, generalmente la prima domenica di ottobre.


Libri di sanitĂ

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25.

Lampridio Anguillara (Ferrara?, sec. XVI?)

Vaticinio, et auertimenti per conseruare la sanità, & prolongar la vita humana. Raccolto per Lampridio Anguillara, da vno scrittore antico arabo, detto Elbymbitar. In Ferrara, per Vittorio Baldini, 1589. 29, [3] p. ; 8°. – Segn.: A-B8. Bologna, BC Archiginnasio (10.Igiene.4. 27. Prov.: Annibale Anelli)

Iniziale posta nell’incipit del testo, raffigurante una persona seduta a tavola 80

Il merito di questo libretto, stampato a Ferrara da Vittorio Baldini, è di avere ripreso – e probabilmente contribuito a diffondere – il lavoro di uno dei più importanti e significativi scienziati dell’antichità. Si tratta dell’arabo spagnolo Ḍiyā’al-Dīn Abū Muḥammad ‘Abd Allāh ibn Aḥmad al-Mālaqī, più noto come Ibn al-Bayṭār o Ibn al-Bīṭār. Esperto di botanica grazie agli studi compiuti a Siviglia, nel corso della sua vita si ritiene abbia catalogato quasi un migliaio di erbe medicinali. Nel 1220 lasciò la sua città e cominciò a viaggiare in varie parti del mondo musulmano: frequenti sono stati i suoi viaggi in Nord Africa, in Asia Minore, in Siria ed in Egitto, viaggi che hanno arricchito le sue conoscenze medico-botaniche e che gli hanno permesso di conoscere nuove piante da utilizzare nei suoi composti. In Egitto, nel 1224, entra al servizio del sultano Al-Malik al-Kāmil, che lo nomina erborista capo. Il suo più importante lavoro è un compendio dei medicamenti semplici e degli alimenti (dall’arabo Kitāb al-Ğāmi‘ li-mufradāt al-adwiya wa al-aġḏiya): si tratta di un’enciclopedia di farmacopea che elenca in ordine alfabetico 1400 piante e spezie e il loro uso. Per ognuna di esse Ibn al-Bayṭār espone brevi commenti e fornisce informazioni sugli autori che per primi si sono occupati di quello stesso soggetto. Ne risulta quindi anche una importante compilazione biografica; le fonti maggiormente citate sono la Materia Medica di Dioscoride e il secondo libro del Kitāb al-qānūn fi ‘t-tibb (il Canone della medicina) di Ibn Sīnā, meglio conosciuto come Avicenna. Ibn al-Bayṭār fornisce informazioni dettagliate sulla produzione dell’acqua di rose e dell’acqua di fiori d’arancio. Descrive lo Šarāb (sciroppo), spesso estratto da fiori e foglie rare, usando olio bollente e grasso, successivamente raffreddato da olio di cinnamomo. Gli olii utilizzati erano ricavati dal sesamo e dalle olive. L’olio essenziale era realizzato unendo varie storte (recipienti di vetro usati nei laboratori per la distillazione), condensando il vapore e combinandolo in modo che le goccioline risultanti potessero essere impiegate come profumi o per produrre le medicine più costose. Egli fu anche il primo studioso a occuparsi dell’albero di argan e del suo olio. L’argan (Argania spinosa) è una pianta originaria del Marocco e rappresenta la seconda risorsa silvicola di questo paese dopo il leccio e subito prima della tuia; può vivere fino a duecento anni ed è particolarmente resistente alle condizioni climatiche tipiche delle regioni calde: la siccità e l’arsura. Può resistere a temperature che vanno dai tre ai cinquanta gradi centigradi, accontentandosi di una umidità piuttosto scarsa: sopravvive infatti dall’era terziaria e probabilmente ciò gli ha permesso


Libri di sanità di adattarsi ai suoli più poveri e alle condizioni più difficili. L’argan ha un ruolo fondamentale nell’equilibrio ecologico e nella protezione della biodiversità; inoltre, grazie alle sue radici molto forti, contribuisce alla tenuta del terreno e alla lotta contro l’erosione idrica ed eolica, tra le cause principali del fenomeno di desertificazione. Si presta, infine, a molteplici usi: ogni parte può essere utilizzata ed è una risorsa nutritiva ed economica. La versione originale in arabo dell’opera di Ibn al-Bayṭār è stata integralmente pubblicata in lingua tedesca (Grosse Zusammenstellung uber die Krafte der bekannten einfachen Heil- und Nahrungsmittel, tradotta da Joseph von Sontheimer e stampata in 2 volumi a Stuttgart, da Hallberger, nel 1840) e in lingua francese (Traité des simples, in 3 volumi tradotti da Lucien Leclerc, Paris, Imprimerie Nationale, 18771883). Per quanto riguarda l’autore del Vaticinio, nulla si sa di lui con precisione: vissuto forse a Ferrara nel XVI secolo, nemmeno riguardo alla sua identità si può avere certezza. Il cognome Anguillara è verosimilmente ferrarese, anche se forse troppo scontato, ma il nome Lampridio suscita diversi interrogativi sulla sua veridicità: infatti alla fine del testo è riportato un sonetto a lui dedicato, il cui primo verso si presenta scritto così: LAMpa PRIma di DIO […]. L’acronimo è evidente. Questo autore, chiunque egli sia, ha comunque il merito di essersi occupato di un testo importante, rendendolo in qualche modo accessibile e sottolineandone i punti da lui ritenuti più significativi. Si può leggere per esempio nel VI capitolo dedicato alle Cose che consumano gli humori superflui, & putridi (p. 14): “Sono molte cose […] eletuarij [preparati farmaceutici], che per la calidità confortano le digestioni; sonovi polvere calide, come garofoli, legno aloe, mastice [resina antisettica e cicatrizzante], galanga [pianta officinale], noce moscate, oro, cubebe [pepe di Giava], zenzero, & simili, ma acciò la virtù de questi vadano per tutti gli membri, userà quest’arte di pigliare di ciascuna di queste una oncia, & poi infondere in oncie quatro di vino, bianco che sia buono, & si lasciaranno infuse per un giorno, & una notte, & poi si colerà, & salvarassi in vaso bene otturato, il detto vino più facilmente porta la virtù delle sudette cose per tutti i membri, la qual cosa disseccarà per tutte le parti la humidità flegmatica …”. (zz) Huff 2003

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Antonio Musa Brasavola e il giardino del Belvedere Nel fertile territorio ferrarese era cresciuto anche Antonio Musa Brasavola (Ferrara, 1500-1555) che doveva il doppio nome al padre, il quale evidentemente si augurava per il figlio una brillante carriera come quella dell’omonimo medico dell’imperatore Augusto, celebre per le sue terapie a base di bagni freddi. L’opera cui Brasavola forse deve la maggiore notorietà è l’Examen omnium simpli‑ cium medicamentorum – stampato per la prima volta a Roma nel 1536 nell’officina tipografica di Antonio Blado – che l’autore dedica a Ercole II d’Este e alla moglie Renata di Valois-Orléans, anche per ringraziarli di avergli affidato l’organizzazione e la cura del giardino del Belvedere – su un isolotto del Po – che veniva continuamente arricchito di nuove piante provenienti da vari paesi. Questa attività gli permise di studiare in modo sistematico le proprietà medicinali delle piante, sperimentandone l’uso non soltanto su animali ma anche sui condannati a morte messigli a disposizione dal duca, con esiti spesso positivi: i risultati di queste ricerche sono esposti nell’Examen, che consiste in un ricco catalogo di tutte le piante, i semi e i frutti (nella seconda parte anche pietre, terre e metalli) usate dagli apotecari ferraresi, con la discussione delle loro reali proprietà terapeutiche. Il testo è preceduto da un epigramma del poeta ferrarese Francesco Bovio il quale annuncia che questo libro contiene l’esame dei medicamenti ‘semplici’ e più precisamente “[…] flos, radix, fructus, & herba potens / Lignum, poma, nuces, oleum, sal, gemma, / metallum, mel, liquor hic, succi. / Pharmaca quaeque patent” ogni tipo di medicinale quindi che venga dai prodotti ‘vegetabili’. Segue un utile indice di tutti i ‘semplici’ citati nel volume. La struttura del testo ha l’impostazione di un dialogo che si svolge tra Brasavola stesso, un ‘senex pharmacopola’ (un vecchio farmacista) e un ‘herbarius’, cioè un esperto della raccolta delle erbe (forse un uomo della campagna, chi più capace di lui?) che si incontrano “per has alpes inhospitas, & inaccessas & per tam horridos recessus, qui vix timidis capreolis & levibus damis ac dorcadibus aditum praestant”, in un luogo quindi delle montagne inospitali dove solo animali timidi e leggeri come caprioli, camosci e daini possono arrivare, dove si possono raccogliere erbe e radici ancora verdi da conoscere guardandole, stropicciandole, annusandole e assaggiandole. Cocilovo-Mollica 2012

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Libri di sanità

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Germano Azzoguidi (Bologna, 1740 – 1814)

La spezieria domestica. Operetta utile a tutte quelle persone, che bramano di vivere lungamente, e necessaria a quelli, che si trovano lontani dal medico o dallo speziale, come per lo più accade a chi vive nella campagna, nei chiostri, collegj, ec. e a chi intraprende viaggi di terra, e principalmente di mare. Edizione quarta. Rimino, presso Giacomo Marsoner, 1799. 152 p. ; 8°. – Segn.: [1]-98 104. Forlì, BC Saffi (Pianc. Sala O.Stampatori 365. Prov.: Carlo Piancastelli)

Laureato in filosofia e medicina il 3 giugno 1762, dopo due anni cominciò l’insegnamento presso lo Studio bolognese, attività che proseguì, tranne una breve pausa, fino alla morte: fu professore di anatomia e di istituzioni mediche, poi di fisiologia e anatomia comparata. Questa è la quarta edizione della sua opera di spezieria, la prima fu pubblicata a Venezia nel 1782, seguita da due ristampe, sempre veneziane, nel 1784 e nel 1790. È dedicata “all’egregio e valoroso medico il signor dottore Lodovico Govoni” e il motivo è spiegato subito dopo nella lettera dedicatoria: “Voi mi avete salvato da grave, e pericolosa malattia: la mia morte era nella mia camera, e la crudele accostava la falce insidiosa al mio letto.Voi sapeste combatterla, vincere, o fugarla, e dopo aver trionfato di colei, poco a poco mi ridonaste nelle braccia della desiderata sanità […] Nel mentre che voi faticavate a risanarmi, si stampava in Venezia un mio opuscolo: soffrite, che io lo onori col vostro nome”. Lo scopo per cui è stato scritto l’opuscolo viene invece enunciato nel titolo stesso: dovrà servire a tutti coloro che, per circostanze varie, non possono ricorrere all’aiuto del medico o

Farmacia portatile o, come la chiama Germano Azzoguidi, spezieria domestica. (Bologna, IOR)

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dello speziale: una sorta, quindi, di ‘pronto soccorso’. L’autore si riferisce a quella che veniva comunemente conosciuta come ‘farmacia portatile’ e la descrive minuziosamente (p. 7-8):“La spezieria domestica superiormente aperta presenta tre bottiglie: bramerei, che queste fossero marcate con qualche segno, che l’una distinguesse dalle altre. Per esempio la prima si marchi A, la seconda B, la terza C. Questi segni particolari sono necessarj, rispondendo essi nel libricciuolo a quelle sostanze, che si racchiuderanno nei recipienti della Spezieria. Alle tre indicate bottiglie restano vicini quattro vasi, ciascuno de’ quali si marcherà con una delle quattro lettere che seguono D. E. F. G. Poscia si presentano otto bottiglie meno grandi delle tre prime. Una delle seguenti otto lettere segnerà ciascuna bottiglia, H. I. K. L. M. N. O. P. Aprendo la spezieria anteriormente, e dividendola nelle due parti laterali, nel mezzo si osservano quattro cassette, due superiori, e piccolissime, una contrassegnata V, l’altra X. La prima si dividerà in tre parti distinte l’una dalle altre colle lettere a. b. c. Sotto a questa ne resta collocata un’altra, che serve a nascondere le bilancie, ed i pesi da servirsene poi a misurare la dose dei rimedj. Inferiormente riscontrasi una cassetta maggiore delle altre. Questa si marcherà colla lettera T. e si dividerà al di dentro in quattro parti, delle quali i segni saranno I. II. III. IV. Lateralmente s’incontrano due cassette di grandezza mezzana: la destra l’indico colla lettera Q. la sinistra colla lettera R. Ciascuna di queste due cassette si vuol divisa in tre parti. Le divisioni della cassetta Q. saranno segnate coi numeri 1. 2. 3. quelle della cassetta R. saranno indicate coi numeri 4. 5. 6. Nell’interno del coperchio con lamina di legno si può preparare un nascondiglio destinato a dare ricetto alle ostie, che serviranno ad inviluppare le sostanze da inghiottirsi poi a modo di pillole”. Segue l’elenco delle sostanze che l’autore ritiene debbano essere incluse nella spezieria e che saranno poi illustrate, in ordine alfabetico, nell’opuscolo. La prima sostanza, per esempio, è l’acqua vulneraria della quale l’autore scrive tra l’altro (p. 14): “Non è cosa rara o nuova che dalle Case Religiose escano produzioni utili alla società. Frate Emiliano da Bologna, direttore della Spezieria dei Padri Minori Osservanti riformati della stessa città, fabbrica un’acqua di questo genere della quale io medesimo più d’una volta mi sono incontrato a vedere le singolari e benefiche prerogative. Non credo fuori di proposito l’accennare, che con una porzione di spirito di vino, con una metà di quello d’aceto e con un quarto di spirito di vitriolo si compone un’Acqua Vulneraria, la quale fa moltissimo vantaggio a chi l’adopera opportunamente”. Si tratta di un “rimedio alle piaghe esterne”, come le ferite, ma adatto anche per le apoplessie, le vertigini, i dolori di testa ecc. Un raro esemplare di questo oggetto è posseduto dalla Biblioteca degli Istituti ortopedici Rizzoli di Bologna: fa parte della raccolta di libri e oggetti appartenuta al medico e collezionista bolognese Vittorio Putti. (zz) Mazzetti 1988, n. 260

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Libri di sanità

27.

Salsomaggiore e i suoi bagni. Parma, Pietro Grazioli, 1877. 106 p. ; 18 cm. Bologna, BC Archiginnasio (10. P. IV. 38 op. 3. Prov.: Giorgio Del Vecchio)

Antonio Stoppani nel suo Il bel paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, scrive (Serata XV): “Il nome di Salsomaggiore (ché vi ha poi anche Salsominore lì presso) deriva certamente dalle sorgenti salate, utilizzate per la fabbricazione del sale fin da tempi antichissimi. Vuolsi che le saline di Salsomaggiore rimontino a dugento anni prima dell’era volgare” e più avanti, mentre spiega le proprietà di queste acque, precisa che “ai bagni servono piuttosto le acque madri, quelle acque cioè, cariche di sali diversi, che restano nelle caldaje, quando il sale comune si è già posato e cristallizzato, e si spediscono anche lontano in cassette per chi voglia convertire l’acqua comune in acqua di Salsomaggiore”. E dell’acqua madre si servì nel 1839 Lorenzo Berzieri, medico degli Ospizi civili di Borgo San Donnino e considerato il padre del termalismo salsese, per curare una bambina – Franchina Ceriati – affetta da osteite acuta. Nell’arco di qualche mese la guarigione fu completa. Nonostante questo fosse l’inizio della storia termale di Salsomaggiore, destinata ad una costante crescita a livello internazionale, ancora per buona parte dell’ ‘800 si estraevano ogni anno parecchie tonnellate di sale da cucina. Anche nella vicina Tabiano il dottor Berzieri ebbe modo di dimostrare le capacità terapeutiche delle acque minerali come direttore dello stabilimento termale, inaugurato il 14 ottobre 1841 dalla duchessa Maria Luigia di Parma che ne aveva voluto la costruzione. Nella Guida turistica balneare delle stazioni termali redatta nel 1923 dallo scrittore-giornalista Luigi Alfieri, oltre a Salsomaggiore e Tabiano si trova anche Sant’Andrea dei Bagni – che Stoppani definì “la Svizzera parmense” – la cui acqua “frizzante e leggera, gradevole e tonificante” fu scoperta casualmente nel 1804 da un ufficiale napoleonico. Lo stesso Paolo Mantegazza ebbe occasione di lodare le proprietà curative di queste acque. (zz) Rubbi-Tassinari Clò 1983

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28.

Giovanni Battista Moreali (Sassuolo, 1699 – Modena, 1785)

L’acqua della Salvarola rediviva scoperta per rimedio specifico della dissenteria. In Modena, per gli eredi di Bartolomeo Soliani stampatori ducali, 1764. 32 p. ; 4°. – Segn.: A-D4. Reggio Emilia, Arcispedale (F.Antico.II.E.126. Prov.: Pietro Giuseppe Corradini)

Pianta de Bagni, tavola, in Ferdinando bassi, Delle terme porrettane, Roma, 1768.

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La storia delle acque della Salvarola, conosciute probabilmente anche nell’antichità dai Romani, comincia con lo scritto di questo autorevole scienziato a cui il duca Francesco III – che gli affidò l’incarico di medico fisico dei due importanti Ospedali civile e militare di Modena – concesse la privativa di usufrutto perpetuo della fonte, estesa agli eredi e ai successori. Ma fu soltanto dopo quasi cento anni e successive cessioni di diritti, che l’avvocato Luigi Rognoni, nel 1880, poté finalmente mettere a frutto le proprietà dell’acqua. Quattro anni dopo venne edificato l’albergo Moreali sostituito successivamente dalla grande costruzione termale liberty progettata da Pietro Carani. Moreali pubblicò diversi studi sulle acque minerali, oltre questo, come la Relazione dell’acqua marziale già scoperta dal dott. Giambattista Moreali nel 1742 (Modena, Torri, 1749); Modo di usare l’acqua subamara ed il sale catartico amaro di Modena scoperta nell’anno 1750; Dell’uso che potrebbesi fare delle molte sorgenti d’acqua nel circondario di Modena, e di quelle delle valli (Modena, Soliani, 1780). (zz) Rubbi-Tassinari Clò 1983


Libri di sanità

29.

Ferdinando Bassi (Bologna, m. 1774)

Delle terme porrettane. In Roma, nella stamperia di Giovanni Zempel, 1768. VI, [2], 283, [1] p., [4] c. di tav. ripieg. : ill. calcogr. ; 4º. Segn.: a4 A-Y4 Z4, Aa-Mm4 Nn2. Reggio Emilia, Arcispedale (F. Antico I.A.78. Prov.: Pietro Giuseppe Corradini)

Dei ‘Bagni della Porretta’ – questo è il nome storico più conosciuto – si è parlato e scritto profusamente. L’illustrazione che orna il frontespizio dell’opera di Ferdinando Bassi (bolognese, botanico e naturalista, fu custode dell’Orto botanico dell’Università di Bologna) fa riferimento alla leggenda secondo la quale le fonti sarebbero state scoperte verso la metà del XIII secolo a causa di un bue malato che, bevendo casualmente l’acqua ancora sconosciuta, avrebbe riacquistato la salute. Ma la Porretta è già citata proprio in quel secolo, lo stesso Bassi lo scrive nella parte finale dell’opera (p. 256 e segg.), oltre che in uno statuto della città di Bologna, anche dal cremonese Gerardo Patecchio che nel suo componimento poetico in volgare lombardo intitolato Splanamento de li Proverbii de Salamone, dichiara che “Assai mieg purga l’omo / tro c’à qualque causeta / d’umori boni e rei / quel no fai la Porretta” (come dire che non c’è rimedio migliore ai mali dell’uomo dell’acqua della Porretta). Ne parla Tura da Castello (il medico bolognese Bonaventura Castelli, vissuto nella prima metà del XIV secolo) nei suoi Recepta aquae balnei de Porecta, stampati per la prima volta nel 1473, probabilmente a Vicenza, dal tipografo Giovanni da Reno: di questa edizione si conosce un esemplare posseduto dalla Biblioteca Universitaria di Bologna (con collocazione: A.V.B.X.12.3). Il medico umbro Gentile da Foligno ne parla nel suo trattato De balneis e ancora Giovanni Sabadino degli Arienti ambienta qui le Porrettane, dedicate a Ginevra Sforza, sposa di Giovanni II Bentivoglio: un gruppo di gentildonne e gentiluomini riuniti per le cure, si divertono raccontandosi a turno sessantadue novelle. (zz) Rubbi-Tassinari Clò 1983

Incisione del frontespizio raffigurante il “bue malato”, in Ferdinando bassi, Delle terme porrettane, Roma, 1768

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30.

Paolo Sarti

(Medicina, 1781 – Faenza, 1838) Analisi delle acque minerali di Brisighella eseguita da Paolo Sarti farmacista per ordine della magistratura. Lugo, presso Vincenzo Melandri, [1822]. 32 p., [1] c. di tav. ; 8º. – Segn.: 1-28. Faenza, BC Manfrediana (M.Z.N.43.9. Prov.: Luigi Zauli Naldi)

Chimico-farmacista, dal 1816 cominciò a spostarsi sul territorio prelevando campioni d’acqua da ciascuna fonte per esaminarli, con esiti molto incoraggianti. Bartolomeo Righi nei suoi Annali della città di Faenza (1° vol., p. 20) scrive che “quattro miglia in circa superiormente alla città furono scoperte nel 1819 sorgenti d’acque minerali, che tengonsi più efficaci che quelle di Riolo Secco; però che il nostro chimico e farmacista Paolo Sarti com’ebbe dal Magistrato ricevuto incarico d’analizzarle, le trovò pregne di particelle ferree, e per conseguente di virtù maggiori che non erano quelle, che in avanti conoscevansi. Cotali acque veggonsi sgorgare nel mezzo de’ grandi scaglioni di sasso, che formano la così detta pubblica Chiusa, ove ne’ mesi di luglio e agosto molti terrazzani e forestieri convengono per parecchi giorni a prenderne copiose bibite, risanando le più volte al tutto di varie indisposizioni di stomaco, di fiacchezza di nervi, d’angioiti, e d’altre simili infermità”. Gli opuscoli di Sarti, Analisi delle acque minerali di Riolo di Paolo Sarti farmacista (Faenza, nella Tipografia Conti, 1818); Tavole sinottiche delle sostanze contenute in cento libbre di ciascun’acqua minerale di Riolo, e di Brisighella giusta l’analisi fatta delle medesime dall’egregio farmacista signor Paolo Sarti, e resa di pubblico diritto colle stampe, (Imola, Tipi del Seminario, 1824), tutti presenti nella Biblioteca comunale faentina (con collocazione rispettivamente RF.16.2.45/4 e Gab.Stampe Cas.49 Cart.2/53) testimoniano gli esiti delle sue ricerche. Già in parecchi si erano occupati di queste acque prima di lui: nel 1579 Giovanni Battista Codronchi scrive il De aquis Rioli ac Vallissenii libellus (Biblioteca comunale di Imola, manoscritto con collocazione: Aula magna. Collezione Imolese.2.2): in questo lavoro sistematico Codronchi cita anche “quella di Castel San Pietro, nelle nostre contrade, è chiamata La Fegatella per la sua efficacia nelle cure epatiche come personalmente ebbi modo di sperimentare”; il riferimento risale al 1570, quando l’autore se ne era occupato come studente di Costantino Brancaleoni professore di medicina e filosofia presso lo Studio bolognese. Anche il medico Luigi Angeli, che fu il primo a sperimentarle dal punto di vista professionale, ne parla nel 1783 nell’opuscolo Delle acque medicate di Riolo. (zz) Rubbi-Tassinari Clò 1983

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Rappresentazione degli influssi favorevoli del pianeta Venere in Sphaerae coelestis et planetarum descriptio, manoscritto, XV sec., tavola, c. 20. Proviene forse dal corredo dotale di Anna Sforza, moglie di Alfonso I d’Este. La scena del bagno nella fonte è una figurazione simbolica, che ritorna spesso anche in altri codici miniati, soprattutto per illustrare le cure con acque salutifere. (Modena, BEU)


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Libri di sanitĂ

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31.

Giambattista Borsieri di Kanilfeld (Civezzano, 1725 – Milano, 1785)

Delle acque di S. Cristoforo trattato. In Faenza, pel Benedetti impress. vesc. e delle insigni accad.[emici] degl’illustrissimi sigg. Remoti, e Filop.[atridi], [1761]. XII, 164 p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. ; 8º. – Segn.: *6, A-I8 K10. Faenza, BC Manfrediana (RF.16.3.48. Prov.: Gesuiti)

Annibale Carracci, 53 Carrettiere con aqua di fiume, Roma, 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Pagine precedenti: Veduta di una parte di collina, in cui si trovano le acque di S. Cristoforo, in Giambattista Borsieri di Kanilfeld, Delle acque di S. Cristoforo. Sotto è riportata la seguente legenda: “A. Acqua di S. Cristoforo. B.C. Due polle dell’acqua di Olmatello. D. Acqua salsa. E. Pozzo fatto ultimamente in cui si deriva l’Acqua di Olmatello. F. Chiesa di S. Cristoforo. G. Olmatello. Poco lungi da questa sommità dalla parte di dietro vi è l’abitazione del Sig. D. Franc[esc]o Gallignani, il quale custodisce la chiave del pred[ett]o Pozzo. H.H.H.H. Rio di Quartolo.”

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Nella Guida alle acque minerali d’Italia (Torino, Loescher, 1868) si può leggere a proposito di questa fonte (p. 31-32): “detta anche dell’Olmatello. Se da Faenza si prende la strada di Brisighella, si trova a 5 chilometri un ponticino sul torrente Quartolo, e seguitando il corso di quest’ultimo per circa un chilometro verso la sua origine, si vede la sorgente d’acqua minerale, che prende nome dall’antica cappella di S. Cristoforo, che una volta vi esisteva. Antico è altresì l’uso di quest’acqua nei contadini, infatti narra il Borsieri come nel 1495, accadendo da queste parti una grande epidemia tra i bestiami, uno di questi fu abbandonato per morto presso la sorgente; alla quale bevve e risanò. In seguito a questa scoperta fortuita Manfredi, signore di Faenza, vi fece fare un pozzo per ricevere l’acqua, che gode ancora di fama nei contorni; sebbene non sia provveduta di alcun comodo pei bevitori”. Ne avevano parlato Mengo Bianchelli nel suo De balneis (1513), il modenese Gabriele Falloppio nel De thermalibus aquis (stampato postumo a Venezia nel 1564, per cura di uno dei suoi studenti, Andrea Marcolini) e il marchigiano Andrea Bacci. Delle proprietà di quest’acqua era ben consapevole il dottor Borsieri, medico condotto della città tanto che riuscì a far ricostruire dal Comune il pozzo – crollato nel frattempo per mancata manutenzione – che venne rinchiuso e dotato di uno sportello per rendere più facile il prelievo dell’acqua. La chiave fu consegnata al proprietario del terreno, ma la fruibilità restò pubblica, come testimonia il relativo atto (Archivio di Stato di Faenza, Instrumenta, vol. L, c. 212). L’anno seguente (1761), Borsieri pubblicò il trattato Delle acque di S. Cristoforo, in cui illustrò la storia e le qualità di quest’acqua. La prima analisi chimica fu compiuta nel 1812 da Paolo Sarti, che confermò le caratteristiche terapeutiche già rilevate da Borsieri. Nel 1821, Paolo Anderlini scrisse la Topografia medica di Faenza e del suo territorio in cui cita la sorgente medicinale, con le tre qualità d’acqua già descritte dal Borsieri (S. Cristoforo, Olmatello e Salsa).Verso il 1905, una grossa frana seppellì il pozzo che per molti anni cadde nell’abbandono. Solo nel 1921, Luigi Ranieri pensò di ritrovare l’acqua curativa e sfruttarla; chiese pertanto al Comune la concessione della sorgente, obbligandosi a ricostruire il pozzo ed incanalare le acque a sue spese. Ai piedi dell’Appennino forlivese, a poca distanza da Faenza, sorge il suggestivo borgo medioevale di Castrocaro, le cui acque compaiono già nell’Italia illustrata dello storico rinascimentale Flavio Biondo ma sarà solo lo studio ottocentesco del fiorentino Antonio Targioni Tozzetti che darà impulso all’industria termale. A poca distanza sono le “acque della Fratta” (Bertinoro) dove il ritrovamento di resti di elementi architettonici


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Le acque scomparse o dimenticate L’Emilia Romagna è una delle regioni più ricche di acque minerali e di conseguenti impianti termali e la sua fama in questo settore è antichissima, per citare tutte quelle esistenti occorrerebbe un’opera sistematica, ma molte sono anche le fonti che non esistono più: nel circondario di Bologna, per esempio, dove nel 1881 Alfonso Barbieri registra 67 sorgenti (Cenni sulla idrologia medica nella montagna bolognese, «Appennino bolognese», 1881, p. 183-189), come la sorgente di acqua marziale [ferrosa] di Corticella, scoperta nel 1826 dal farmacista Giovanni Minelli: la Società medico-chirurgica di Bologna ne certificò l’efficacia rendendola fruibile, cosa che avvenne solo nei primi anni del ‘900, ma nel frattempo l’importanza del canale Navile, che scorreva nei pressi, come via di comunicazione del traffico mercantile era andata inesorabilmente scemando e la zona cadde nell’oblio. Il torrente Ravone è oggi poco più di un rigagnolo mascherato dalla vegetazione che confluisce nel Reno dopo aver costeggiato la via omonima. Nel corso dell’Ottocento le acque del torrente, ora così poco invitanti, hanno però goduto del loro momento di gloria: il 10 gennaio 1853 Gaetano Sgarzi indirizza la relazione sull’esito delle sue analisi al dottor Francesco Sarti Pistocchi, segretario della Commissione sulle consultazioni per le acque minerali, nella quale si legge: “Quest’acqua è limpida, facile da conservarsi e trasportarsi senza che si alteri in fiaschi e barili, è salata abbastanza, non è irritante, non nauseosa, non fetida appena estratta. Agisce allora come blando lassativo catartico, ma più come antiscrofoloso, e di fatto contiene quest’acqua tracce di iodio le quali nelle delicate costituzioni de’ bambini linfatici possono riuscir bastevoli al salutare intento che si ricerca” («Bullettino delle scienze mediche», serie III, vol. 23°, 1853, p. 139-141). Fu così che verso la fine del secolo a Casaglia sorse persino uno stabilimento d’acqua salino-iodata, di proprietà “del signor Gaetano Boriani”, che per qualche decennio richiamò un pubblico numeroso, soprattutto nei mesi estivi. Nel 1893 l’acqua da tavola Barbianello ottenne la medaglia d’oro all’Esposizione nazionale di Roma e nel 1900 quella d’argento all’Esposizione nazionale d’igiene a Napoli. Scoperta nel 1857, ad appena un chilometro dal centro cittadino “il difficile però è trovare posto, una volta si pagava un soldo ogni due bicchieri d’acqua, ora con due soldi si ha l’ingresso ed un cartoncino blu su cui è stampato ‘bibita’; ma nessuno si faccia illusioni perché bibita rimane sempre quell’acqua fresca e limpida, con un leggero sapore di chiodi arrugginiti, prova evidente che del ‘ferro ve n’è’”. Così Oreste Cenacchi sul periodico bolognese «Ehi! ch’al scusa» nel numero di luglio 1881 racconta il percorso per raggiungere le fonti. Nel 1830 il medico imolese Gioachino Cerchiari pubblica le sue osservazioni Sulle acque minerali imolesi dette del Monte Castellaccio (Ravenna, dai tipi Roveri e Collina) dove sono descritte le proprietà curative di queste acque sulfuree e marziali, che si trovavano nell’area conosciuta come “Parco delle acque minerali”. A Quara, nel Reggiano, due sorgenti d’acqua sulfurea sono già citate nel 1623 da Fulvio Azzari (Compendio dell’historie della citta di Reggio, In Reggio appresso Flaminio Bartoli) e poi anche da Gabriele Falloppio (nel 1563), Antonio Vallisnieri e Filippo Re (nel 1798). E molte altre ancora. 94


Libri di sanità alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso giustificò l’ipotesi che fossero già utilizzate dagli antichi Romani. E poi ancora a Bagno di Romagna le acque minerali citate da Andrea Bacci da Monte Lupidio nel De Balneis e dall’imolese Codronchi nel De aquis Rioli ac Vallissenii libellus. E infine l’antichissima fonte Galvanina, a pochi chilometri da Rimini, che compare per la prima volta nelle settecentesche Memorie ariminesi manoscritte di Ubaldo Marchi, conservate nella Biblioteca civica Gambalunga (con collocazione 4.B.II.7-10). (zz) Rubbi-Tassinari Clò, 1983

32.

Antonio Campana (Ferrara, 1751 – 1832)

Farmacopea ferrarese del dottore Antonio Campana professore di fisica sperimentale e di chimica nel liceo di Ferrara. Seconda edizione molto aumentata, e corretta dall’autore. In Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1803. 285, [3] p. ; 8°. – Segn.: a-q8 r-u4. Ferrara, BC Ariostea (E 12.5.2)

Laureato in medicina e filosofia, cominciò la pratica medica all’ospedale di Firenze, ma la cosa non ebbe seguito per la sua scarsa propensione alla chirurgia. Tornato a Ferrara, si dedicò interamente allo studio della chimica e della fisica sperimentale. Curò il giardino botanico della sua città, che arricchì di nuove piante portando le specie ospitate dalle circa 200 del 1797 alle quasi 3500 del 1812. Redasse anche un catalogo che fu adottato da tutti i licei del Regno come guida, per disposizione del Ministero della pubblica istruzione. Con la Farmacopea, pubblicata per la prima volta a Ferrara nel 1799, acquisì una fama indiscussa, tanto che l’opera conobbe molte riedizioni anche straniere. Nella prefazione l’autore dichiara le sue intenzioni: “In mezzo all’abbondanza di farmacopee vecchie e recenti, questo Dipartimento del Basso Po mancava di una, che servisse di norma comune agli speziali e ai medici. Libero ognuno d’essi di servirsi di qualunque più gli aggradiva, accadeva per conseguenza che la stessa preparazione fosse fatta con metodi diversi; il che non solo recava grande fluttuazione nell’arte, ma pericolo eziandio, poiché è noto ad ognuno, che la varietà delle preparazioni può accrescere o diminuire inopportunamente l’efficacia dei medicamenti. Si rende perciò essenzialmente necessario un determinato e costante metodo d’eseguirle. A fissare questo determinato e costante metodo è consacrata la Farmacopea presente. Con essa io determino i lavori dello speziale, e do una norma al medico. Faciliterà il primo l’opera della sua mano; assicurerà il secondo gli effetti de’ suoi calcoli. Questa Farmacopea è divisa in due parti. Contiene la prima i medicamenti semplici, fra i quali oltre i più efficaci, e dai moderni medici celebrati, ho pur voluto collocarne anche alcuni, che quantunque di poco valore, non potevo però tralasciare perché ancora usitati. In questi ai nomi officinali degli animali, e vegetabili ho aggiunto il nome Linneano. I medicamenti composti sono compresi 95


nella seconda. Il metodo indicato per alcuni è nuovo affatto: esso è però garantito dalla esperienza. Riguardo agli altri ho seguite le più accreditate Farmacopee; ma nel seguirle la semplicità, e la certezza dell’esito sono state le mie norme”. Per preparare per esempio lo ‘sciroppo con viole’ occorre: “Viole mammole fresche una libbra. Acqua piovana una libbra. Macera per due giorni in acqua bollente i petali delle viole peste in mortajo di marmo con pestello di legno poi spremi, e filtra, ed al liquore limpido unisci: Zucchero bianco chiarito e cotto a perla libbre due, ovvero sciogli nel detto liquore a bagno maria. Zucchero raffinato libbre due. Nella stessa maniera farai gli sciroppi con fiori di papavero erratico, di peonia, di ninfea, di tossilaggine, di garofanine, di camomilla romana con foglie di capelvenere, di assenzio, coll’acqua stillata di cannella, di fior’aranci &c. Alcuni propongono un vaso di stagno per macerare le viole mammole”. Per quanto riguarda i pesi Campana specifica che “sono un articolo molto importante nel caso nostro. Una legge determinerà un peso uniforme in tutta la Repubblica, e questo peso avrà rapporto ad una misura costante, immutabile. Siccome questo peso non è ancora così determinato, mi sono servito della libbra ferrarese. Questa si divide in dodici once, l’oncia in otto dramme, la dramma in tre scropoli, e lo scropolo in 24 grani”. (zz) DBI, XVII, 328

Antonio Campana e il “peso uniforme”

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Quanto auspicato da Antonio Campana, cioè l’adozione di un sistema unico di peso, sarà realizzato dapprima da Carlo Alberto di Savoia, che lo introduce nel suo regno con un editto dell’11 settembre 1845 (attuato solo nel 1850) riconoscendo ufficialmente la necessità di uniformità di pesi e misure a totale vantaggio del regolare svolgimento dei traffici. Con l’unità italiana – e cioè il 1° gennaio 1861 – il sistema metrico decimale veniva esteso a tutto il territorio nazionale. Nel 1867 fu costituito a Parigi un Comitato internazionale dei pesi e misure e delle monete. La prima conferenza si tenne nella capitale francese il 1° marzo 1875. Chi vuole sapere di più sulla storia degli strumenti di misura e sulle bilance in particolare può visitare il Museo ad esse dedicato di Campogalliano, il comune della provincia modenese specializzato in questa produzione dal 1860.

Incisione raffigurante un frate nella spezieria, in Donato D’Eremita, Dell’arte distillatoria libri IV, ms. cartaceo del XVII sec. (A 1055). Di questo domenicano non si sa molto se non il luogo di nascita, Rocca d’Evandro (Caserta). I manoscritti delle sue opere, fondamentali per la storia della spezieria, si trovano nella Biblioteca dell’Archiginnasio e la loro provenienza è il Convento bolognese del suo ordine. Sono quattro (Ms. A 1055-1056-10571147), a cui si accompagnano anche due esemplari a stampa Dell’elixir vitae (Napoli, Secondino Roncagliolo, 1624) e un Antidotario (1639, dallo stesso tipografo) accompagnati da incisioni di mano dell’autore. La parte più interessante è quella mai pubblicata dedicata interamente allo zucchero e alle sue applicazioni anche gastronomiche.


Libri di sanitĂ

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Pastalino Pastalini (Bologna, sec. XVI)

Ragionamento del Pastarino. Sopra l’arte della speciaria. Alli mag. ci et illustri senatori di Bologna. Accioché si pigliano cura di questo vtilissimo essercitio. In Bologna, Per Giouanni Rossi, 1575. 23, [1] p. ; 4°. – Segn.: A-C4. Bologna, BUB (A.V.Tab.I.E.1.396/5. Prov.: Ulisse Aldrovandi)

Giovanni Fantuzzi, nelle Notizie degli scrittori bolognesi (v. 1, p. 318) fornisce il nome completo, ma in realtà questo speziale bolognese si firma sempre Pastarino in ognuna delle opere da lui scritte che ci sono pervenute (Preparamento per medicarsi in questi sospettosi tempi di peste, Bologna, Giovanni Rossi, 1577 e sempre dallo stesso tipografo Instruttione sopra la vniuersal peste, & frenetico morbo d’amore. A gli innamorati giouani bolognesi, 1584). Questo Ragionamento è in realtà una vera e propria invocazione che l’aromatario rivolge al Senato e dalla quale emerge chiaramente l’immagine di una città in cui dottori e speziali lavorano in condizioni di grande tensione. “Non ci basta aspettare i pagamenti (per sostentarci nell’arte) i mesi e gli anni, né ci giova il sopportare umanamente che i nostri conti siano sminuiti e tassati, che poi ci convien mantenere con salario un riscuotitore che gli vada le decine delle volte a casa a domandare il pagamento, a guisa del povero che chiede la limosina. […] Ma qui pur fosse il fine: che anco sentendoci su la faccia bravare e minacciare, ci convien per forza pigliar l’arme in mano”. Situazione evidentemente molto diversa da quella descritta nel Compendium aromatariorum (1488) di Saladino Ferro da Ascoli, il medico-speziale del principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsino, che sottolineava il valore etico-professionale di chi esercitava l’arte speziaria, che non doveva essere “superbus, pomposus aut mulieribus et vanitatibus deditus. A ludo etiam et vino sit alienus et sobrius” privo di superbia e di pomposità, o dedito alle donne, al vino e alle vanità, sobrio quindi sotto tutti i punti di vista. Piuttosto “rectus, iustus, pius” soprattutto nei confronti dei poveri, inoltre “studiosus, solicitus” e “bene doctus et expertus in arte sua”. Doveva “bene conoscere et habere gustum et saporem omnium simplicium” e saper distinguere i sapori amari, dolci, aspri, salati o insipidi. Al tempo di Pastarino invece l’occupazione più importante sembra essere quella di lamentare la “insopportabile ingratitudine che viene usata ne’ pagamenti, et de gli insulti, de i disprezzi e de’ manifesti torti” e di chiedere aiuto affinché “quest’Arte non sia ne’ pagamenti assassinata”. E d’altra parte, continua Pastarino “Come volete, Signori, che si comprano e si tengano nelle speciarie robbe buone, se non ci sono giustamente pagate e se non ci potiamo prevalere de’ nostri denari?” Difesa del proprio lavoro, quindi, ma anche ammissione della colpa, “Son ben contento di non contradire alla ragione di molti, che dicono questo avenire perché in una così importantissima Arte si commettono moltissimi errori e che fra gli speciali vi sono di grandissimi difetti: e che o per avarizia o per ignoranza o dappocaggine si mancano a quelle cose che sogliono per lo più ordinare 98


Libri di sanità i medici di sperimentata dottrina. Onde poi n’aviene o che il male perfettamente non si cura, o che l’infermo s’uccide, non senza gran danno finalmente dell’universale […] un vero medicinalista ha quelle scienze umane che in ogn’altro animo virtuoso si può ritrovare, perché tutte gli servono: essendo vero che ogni cosa è creata a servizio dell’uomo, circa al quale egli opera”. (zz) Camporesi 1981

34.

Bartolomeo Ambrosini (Bologna, 1588 – 1657)

Panacea ex herbis quae à sanctis denominantur concinnata opus curiosis gratum medicis verò & pharmacopaeis perutile cui accessit capsicorum cum suis iconibus breuis historia ... Auctore Bartholomeo Ambrosino … Bononiae, apud haeredes Victorij Benatij, 1630. [16], 63, [11], 27, [3] p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. ; 8°. – Segn.: †8, A-E8 F12. – Frontespizio inciso. Bologna, BC Archiginnasio (17.V.IX.27)

Medico e botanico illustre, nonché prefetto dell’Hortus bolognese dal 1620 al 1657, per parecchi anni esercitò nel Ginnasio cittadino, insieme con il fratello Giacinto, l’insegnamento dei ‘semplici’ e lavorò alla pubblicazione delle opere di Ulisse Aldrovandi, di cui era stato allievo, quasi tutte ancora inedite. Nel 1630 diede alle stampe il suo De capsicorum varietate cum suis iconibus unito alla Panacea ex herbis quae a sanctis denominantur: il primo è un trattato sulla natura e le caratteristiche dei peperoni, con il secondo Ambrosini intese fornire un ‘rimedio a tutti i mali’ (questo significa il termine panacea) grazie alle proprietà, reali o immaginarie, delle piante dedicate a santi, come ad esempio l’erba ‘Santa Maria’ conosciuta anche come menta greca che, anche secondo Vincenzo Tanara “serve per far fritelle, e per la sua dolce agrezza sono vivanda grata li giorni di magro, se bene fatto grosso, non sono ingrate, si come trite e misticate con ova, la frittata rende buona; dà ancora buon gusto e odore alle minestre, ove con altre erbe entra e salse; è mangiata volentieri dalle donne e per giovar i dolori della matrice. Moltiplica col spartire il caspo, se ne fa impiastro sopra il petinecchio e fa orinare; scaldata con vino bianco e sopra lo stomaco, lo corrobora; questa pianta sparsa in terra, scaccia i serpenti e lo stesso fa il suo fumo”. Si trovano così elencate nell’operetta di Ambrosini piante come l’erba della SS. Trinità (la viola del pensiero con proprietà antinfiammatorie), l’erba di S. Croce (il tabacco) il cui succo e le foglie, applicate sulle ferite di frecce avvelenate neutralizzano il veleno e disinfettano la ferita; e ancora l’erba di S. Cunegonda (detta anche ‘cannabina’ perché le sue foglie assomigliano a quelle della cannabis) efficace contro la febbre terzana. E così via. L’Orto botanico dell’Università di Bologna è, insieme a quelli di Padova, Pisa e Firenze, uno dei più antichi, fon99


Tavola raffigurante le diverse varietà di peperoni, in Bartolomeo Ambrosini, De capsicorum varietate, operetta legata alla Panacea ex herbis, 1630

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dato nel 1568 dal Senato cittadino su suggerimento del medico e naturalista Ulisse Aldrovandi: la prima sede fu posta all’interno del Palazzo comunale in un cortile che oggi corrisponde approssimativamente alla sede della Biblioteca Salaborsa; durante il secolo seguente si sviluppò secondo gli intendimenti di Aldrovandi, ma con due modifiche sostanziali, l’enorme aumento delle conoscenze del regno vegetale e la progressiva autonomia della botanica rispetto alla medicina. Nel 1587 la coltivazione venne trasferita in un luogo più ampio presso l’attuale porta S. Stefano, dove le piante coltivate aumentarono dalle 800 del 1573 alle circa 3000 del 1595. All’interno del Palazzo comunale rimase solo la collezione dei ‘semplici’, cioè delle piante officinali, coltivate per uso terapeutico, perché necessarie alle esercitazioni degli studenti. Infine, nel 1803 l’Università acquistò, tra porta S. Donato, porta Mascarella e via Irnerio, un’ampia area agricola, provvista di giardini e viali alberati, dove venne definitivamente posto il nuovo orto risultato dalla riunificazione delle raccolte precedenti. Il peperone è una delle tante piante orticole provenienti dall’America meridionale e fu importata in Europa nella seconda metà del ‘500. Come molte piante esotiche allora sconosciute, fu impiegato in principio solo a scopo ornamentale o per usi diversi da quello alimentare: Leonardo da Vinci, ad esempio, lo usava essiccato e pestato per le tinte dei suoi affreschi. Ben presto tuttavia divenne un alimento comune e raggiunse gran parte dei paesi europei, in Italia troviamo alcuni cenni nella letteratura gastronomica del Seicento: Carlo Nascia lo propone con la cottura del tacchino e Antonio Latini per insaporire le salse. Bartolomeo Ambrosini ne studiò le varietà e le proprietà – come fece poi il fratello Giacinto con le patate – contribuendo quindi alla sua diffusione. Già prima di lui si era occupato del peperone padre Gregorio da Reggio Emilia, cappuccino, di cui non sappiamo quasi nulla (morì probabilmente nel 1618). Si sa che scrisse una breve De capsicorum historia (il frate ne coltivava numerose varietà, nel giardino del convento di Bologna): inviata a Charles de L’Ecluse con tredici immagini delle piante, fu pubblicata all’interno delle Curae posteriores apparse nel 1611 (p. 96 e segg.), dopo la morte del botanico francese. Studioso instancabile compì numerosi viaggi a scopo scientifico, che lo portarono a compilare un erbario ora conservato presso il Dipartimento di botanica dell’Università di Oxford. (zz) Mazzetti, n. 114; Cappuccini 1949


Libri di sanità

Ulisse Aldrovandi e lo studio della “natura sul campo” Ulisse Aldrovandi fu un attento osservatore del mondo naturale, che studiò nei suoi diversi aspetti e di cui raccolse campioni ed esemplari sia vegetali che animali. Poco prima di trasferirsi a Roma, dove fu arrestato per eresia, aveva conosciuto Luca Ghini, il fondatore degli orti di Pisa e di Firenze, mentre quello di Padova fu voluto da Francesco Bonafede. Ghini fu tra i primi botanici ad utilizzare il metodo della conservazione e catalogazione delle piante mediante essiccazione, ottenuta sottoponendole a forte pressione tra fogli di carta; questo sistema didattico, integrato dal confronto con le illustrazioni dal vero, si diffuse rapidamente tra i botanici e nelle università di tutto il mondo occidentale, poiché permetteva di verificare l’identità di piante provenienti anche da regioni molto lontane. Uomo di vastissima cultura, studiò le piante tramite l’osservazione diretta, che liberava lo studio della botanica dalle limitazioni imposte dalla sola lettura dei testi antichi e ne sanciva così definitivamente l’indipendenza dalla medicina. Tutte le opere di Luca Ghini – erbari e disegni – sono andate perdute, ci rimane solo quanto riportato da alcuni suoi allievi come Bartolomeo Maranta, l’Anguillara (Luigi Squalermo), Andrea Cesalpino, ma soprattutto lo stesso Aldrovandi che ci ha lasciato gli appunti delle lezioni. Oltre a Luca Ghini, Aldrovandi conobbe anche il medico e naturalista francese Guillaume Rondelet, famoso per i suoi studi sui pesci (Libri de piscibus marinis, in quibus verae piscium effigies expressae sunt): l’incontro con entrambi indusse il naturalista bolognese a tornare nella sua città per continuare gli studi. Nel 1554 iniziò la sua carriera di professore prima di filosofia, poi di botanica medica e infine di storia naturale. Nel 1575 fu sospeso a causa di una controversia con gli speziali bolognesi sulla composizione di una antica medicina, la teriaca. Per tutta la vita si dedicò allo studio della natura ‘sul campo’ fissando poi le sue osservazioni in alcune centinaia di volumi (conservati dalla Biblioteca Universitaria di Bologna) arricchiti di illustrazioni – che richiesero da parte di Aldrovandi un impegno di tempo e di denaro non indifferente – eseguite da alcuni dei più stimati artisti italiani e stranieri del suo tempo fra i quali, solo per citarne alcuni, Jacopo Ligozzi e il cugino Francesco, Cornelio Schwindt, il bolognese Passarotto Passarotti, Pellegrino Tibaldi. Natura picta 2007

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35.

Giacinto Ambrosini (Bologna, 1605 – 1671)

Hortus studiosorum Bononiæ consitus. [Bologna, eredi di Evangelista Dozza] (Bononiæ, typis Io. Baptistæ Ferronij, 1657). 103, [1] p. : ill. ; 4°. – Segn.: [A]4 B-N4. – Marca di Ferroni (Allegoria di Bologna) nel colophon. – Titolo dell’occhietto a c. [A]2r: Hortus studiosorum siue Catalogus arborum, fruticum, suffruticum, stirpium, & plantarum omnium. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Ambrosini 31.B. Prov.: Raimondo Ambrosini)

Cucurbita maxima, Zucca, in Ulisse Aldrovandi, Hortus pictus, Tavola 59, vol. III, piante, c. 143. (Bologna, BUB)

Quando nel 1657 il fratello Bartolomeo morì, Giacinto assunse la direzione dell’Orto botanico. Il 18 aprile 1630 aveva discusso presso lo Studio bolognese una tesi (pubblicata da Malisardi) che gli procurò il titolo di “versatissimo e pratichissimo bottanico”. Anche lui curatore delle opere di Aldrovandi e titolare della cattedra dei ‘semplici’, si cimentò nella catalogazione di tutte le piante presenti, con l’aggiunta di descrizioni e immagini mai pubblicate prima. Intraprese anche la stesura della Phytologia, un’opera molto vasta e impegnativa sulla storia delle piante, che avrebbe dovuto essere contenuta in tre libri; in realtà riuscì a pubblicare solo il primo nel 1666. Nel 1657 introdusse nell’Orto bolognese la patata, che coltivò per studiarne le caratteristiche e il possibile utilizzo, pur non intuendone ancora le potenzialità come alimento umano, mentre veniva usata solo per foraggiare il bestiame. (zz)

L’Orto botanico Anche se di recente si tende a usare indifferentemente i termini ‘orto’ e ‘giardino’, in origine con ‘Orto botanico’ si indicava solo quello annesso alle università, dove sono coltivate piante autoctone o esotiche a scopo di studio e di istruzione. L’origine degli orti è molto antica, ma ricevette riconoscimento ufficiale nel XIII secolo con la disposizione di papa Niccolò III che, nel 1279 – come si legge in un’epigrafe che si trova nella Sala Capitani del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio – fece costruire un muro intorno al frutteto coltivato nelle terre vicine al Vaticano disponendo di allestire anche un giardino in cui piantare alberi e un prato destinato a diventare il ‘giardino dei semplici’, lo spazio cioè riservato alla coltivazione delle piante medicinali. Tutto il complesso venne definito dallo stesso pontefice ‘pomerium’ per la presenza di alberi da frutto, ma fu conosciuto pure come ‘viridarium’ o ‘jardinum magnum’, all’interno del quale fu istituito il ‘pratellum et fontem’ che può essere identificato come il vero e proprio ‘giardino dei semplici’). Il settore dedicato alle piante medicinali era affidato al ‘capellanum medicum’ e forniva medicamenti cosiddetti ‘semplici’ per distinguerli da quelli ‘composti’ cioè i medicinali elaborati dagli speziali. Nel 1545 poi fu aperto l’Orto botanico dell’Università di Padova, ad opera di Francesco Bonafede, cui seguirono subito dopo quello di Pisa, di Firenze (circa 1550), Bologna (1568) e via via una serie di altre città sia italiane che straniere, come la francese Montpellier il cui Orto universitario, fondato nel 1593 da Enrico IV, ha sempre attirato studiosi del calibro di Pietro Bubani. 102


Libri di sanitĂ

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Libri di sanità

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Giacomo Zanoni

(Montecchio, 1615 – Bologna, 1682) Istoria botanica di Giacomo Zanoni semplicista, e sopraintendente all’horto publico di Bologna. Nella quale si descriuono alcune piante de gl’antichi, da moderni con altri nomi proposte; e molt’altre non piu osseruate, e da varie reggioni del mondo venute, con le virtù, e qualità della maggior parte di esse, & in figure al viuo rappresentate. In Bologna, per Gioseffo Longhi, 1675. [12], 211, [1] p., [1], LXXX c. di tav. : ill. calcogr. ; fol. – Segn.: π4 †², A-Z4, Aa-Cc4 Dd². – Antip. calcogr. incisa da Francesco Curti. Piacenza, BC Passerini Landi (C – OO.IV.21)

Nato a Montecchio di Reggio Emilia nel 1615, perduto il padre in giovane età, Giacomo Zanoni fu avviato agli studi dallo zio materno. Una volta intrapresa la strada paterna dell’arte di speziale si mostrò subito dotato di talento per la botanica. Tanto che a vent’anni si trasferì a Bologna per approfondirne lo studio, sotto la guida di Bartolomeo Ambrosini che in quel tempo insegnava presso lo Studio bolognese, dove era viva la tradizione di questa materia, avviata nel secolo precedente da Luca Ghini e Ulisse Aldrovandi. Nel 1642 Zanoni venne nominato soprintendente dell’Orto botanico (incarico che ricoprirà per quarant’anni) che arricchì di molte specie, anche esotiche, descrivendone di nuove. Qui coltivò piante provenienti dai viaggi di esplorazione, creò un erbario, facendo uso di un particolare glutine per incollare le erbe ai fogli e pubblicò nel 1675 l’Historia botanica: si tratta del catalogo delle piante coltivate nell’Orto universitario, nonché in un suo orto privato, descritte ed illustrate per le proprietà medicinali. Uno dei pregi dell’opera è costituito senz’altro dalle 105 incisioni eseguite dal bolognese Francesco Curti e dal suo allievo Francesco Maria Francia, che illu­strano con estrema precisione altrettante specie. La fama derivatagli da quest’opera indusse il Senato bolognese a concedere a lui e ai suoi discendenti la cittadinanza bolognese. Molti anni dopo la sua morte, nel 1742, Gaetano Monti, prefetto dell’Orto e figura di rilievo nel panorama del Settecento botanico bolognese, ne curò una seconda edizione (la Rariorum stirpium historia), ampliata e tradotta in latino per darle maggiore diffusione. Il botanico e naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus, più noto semplicemente come Linneo, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, gli dedicò il genere Zanonia, della famiglia delle Cucurbitacee. Affiancando agli interessi botanici quelli di speziale, che non aveva mai

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abbandonato, nel 1668 ottenne dal Senato di Bologna l’autorizzazione a ricavare una cripta da utilizzare come cantina e farmacia in via S. Stefano. Passerà poi ai discendenti e sarà conosciuta, tra XVII e XIX secolo, come “Farmacia dei Zanoni”. Nella dedica “Al lettore” Zanoni scrive: “Essendomi convenuto d’assoluta necessità di valermi del testo greco del gran Dioscoride; sappi che mi sono servito dello stampato in Basilea l’anno 1529 e di Marcello Virgilio greco, e latino stampato nello stesso tempo, e nel medesimo luogo, e per l’interpretazione dal greco, ho havuto ricorso alla virtù, e peritia in detta lingua dell’eccellentissimo sig. priore Pietro Mengoli dottore di filosofia collegiato, e publico lettore delle matematiche, e dell’eccellentiss. sig. doctor Lorenzo Legati professore di lettere greche in questa nobilissima Accademia”. Dioscoride Pedanio fu medico, botanico e farmacista ed esercitò a Roma al tempo di Nerone. Marcello Virgilio Adriani, letterato e politico, cancelliere della Repubblica fiorentina, nonché umanista e traduttore dello scienziato greco, fu per questo soprannominato “il Dioscoride”. Pietro Mengoli e Lorenzo Legati insegnarono presso lo Studio bolognese. Il secondo redasse l’inventario del Museo Cospiano (Bologna, per Giacomo Monti, 1677). Ferdinando Cospi abitò a Bologna in via S. Vitale, nel palazzo dove collocò il suo Museo ispirato alla Wunderkammer o “Stanza delle meraviglie” che ospitava, con l’apparente disordine tipico di questo fenomeno collezionistico seicentesco, reperti provenienti dai tre regni della natura, manufatti di ogni tipo e provenienza e oggetti strani o curiosi, con l’obiettivo di riunire in un unico luogo la complessità del mondo. Il museo fu trasferito nel 1743 all’Istituto delle Scienze e da qui, insieme al resto delle antichità del Museo universitario, andò a costituire una parte del Museo civico archeologico di Bologna. (zz) Mazzetti, n. 3191

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Libri di sanitĂ

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Libri di sanità

Cesare Majoli, “uomo laboriosissimo per la storia naturale” La Romagna di fine ‘700 annovera fra i più illustri botanici Cesare Majoli (Forlì, 1746-1823), religioso della Congregazione dei poveri eremiti di san Girolamo; il senatore Luigi Rava – cui restano legate alcune leggi fra le prime emanate a protezione dell’ambiente e dei beni culturali – definì lui un ‘valente ingegno’ e la sua opera ‘un prodigio vero di quell’età’. Dopo aver molto viaggiato e aver ricoperto diversi incarichi, anche di docente, ritornò nella sua città dove attese al riordino della Biblioteca comunale che oggi conserva tutti i suoi scritti (come riscontra Piero Camporesi 75 volumi in tutto di storia naturale di cui 70 manoscritti e solo 5 editi), fra cui anche quello dei Mesi vegetabili dell’anno delle mura e fosse della cit‑ tà di Forlì, osservati dal Lettor Cesare Majoli negli anni repubblicani 1797, 1798, 1799 a scanso dei pericoli nella finta democrazia, e descritti per commodo degli speziali e di chi ama conoscere i patrii naturali prodotti (con collocazione: Ms. IV/41-42-43). Il suo biografo, Domenico Antonio Farini scrive a proposito di Majoli e del suo lavoro (Memorie autobiografiche, 1985, p. 71): “era uomo laboriosissimo per la storia naturale, sulla quale aveva un ammasso di opere. Egli dipingeva le piante dal naturale e le trasportava nelle sue opere con molto garbo”. In effetti questi volumi sono corredati di raffinate tavole e costituiscono un rarissimo documento che testimonia l’esistenza di quella ‘flora urbica’ forlivese che ormai non esiste più. Il naturalista Pietro Zangheri definisce così la vegetazione oggetto dello studio sia di Majoli sia del suo La flora del circondario di Forlì, pubblicato a Firenze nel 1913; sul lavoro del botanico forlivese si esprime in questi termini (p. 53): “Quest’opera che più direttamente riguarda parte del nostro distretto fu da me accuratamente esaminata. Consta di tre volumi manoscritti in piccolo formato e di complessive 1400 pagine circa: comincia con una introduzione nella quale l’Autore dice che essendogli stata tolta per le mutate vicende politiche ogni sua occupazione e compenso, à pensato, piuttosto che darsi all’ozio, di raccogliere le piante che crescono lungo la cinta della città di Forlì; continua dicendo che non à la pretesa di aver fatto gran cosa, ma ch’è felicissimo di essere riuscito a togliersi dai pericoli dell’oziosità e d’aver sentito meno il peso della sua miseria. Aggiunge infine che crede d’aver fatto cosa utile per gli speziali che voglion premunirsi contro l’empirismo. La materia è distribuita in otto parti o capitoli che dir si voglia, e cioè: - Piante che fioriscono in Marzo: Piante che fioriscono in Aprile… ecc. e così di seguito fino a Ottobre. Contiene citazione di 450 specie circa di piante trovate nella cinta di Forlì: di ogni pianta è dato un cenno descrittivo e quasi sempre la figura colorata, talora veramente ben fatta: seguono le proprietà specialmente medicamentose della pianta stessa […]”. A questo punto Zangheri scrive una nota: “Dal libro del Majoli risalta l’aspetto botanico che dovevano offrire un secolo fa, gl’immediati dintorni di Forlì. Tale fisionomia è oggi totalmente cambiata, e delle 450 specie Majoliane, non ne resteranno in quegli stessi luoghi che appena la metà: anzi per talune specie bisogna spingersi ben lungi dalla città per trovarne esemplari, od anche non se ne trovano più affatto”.

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Quando vedo che si colgono le olive dico pensa tu come verrebbe male senza l’olio buono la nostra insalata Gino Paoli Pomodori

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Questa sezione è dedicata alle opere e ai documenti che attraversano la tradizione alimentare emiliano-romagnola e riguardano specifici prodotti o singoli generi alimentari. Sorprende la varietà degli approcci, delle implicazioni e delle finalità che comporta questo genere di scritti: talora, ad esempio, la trattazione sconfina nella letteratura e il cibo diventa motivo ispiratore di componimenti, come il curioso poemetto Della coltivazione de’ fichi, redatto originariamente in latino dal parmigiano Tommaso Ravasini, vissuto tra ’600 e ’700. Oppure è il caso de La coltivazione dell’anice poemetto del romagnolo Luigi Raineri Biscia, della fine del ’700. O ancora dei versi su I vini modanesi di Giovanni Battista Vicini o di alcuni Baccanali di Girolamo Baruffaldi. Ma forse l’esempio più significativo di questa varietà di esiti è fornito da una selezione di tre trattati (collocati tra il XVII ed il XIX secolo) riguardanti le principali colture cerealicole che da secoli segnano le terre della pianura a Sud del Po: il grano, il granoturco ed il riso. Al primo è dedicato un saggio dello scienziato bolognese Jacopo Bartolomeo Beccari, nel quale l’autore dimostra per primo la presenza di una sostanza, il glutine, nella farina ricavata da quella pianta. Al frumentone è invece dedicata la relazione del bolognese Petronio Ignazio Zecchini, dove sono esaltate le proprietà di questo cereale (che ancora nel ’600 stentava a diffondersi), utile per far fronte alle periodiche crisi alimentari. Ancora, a metà ’800, il carpigiano Achille Caprari pubblica lo studio Sulle risaie degli Stati Estensi: dove alle valutazioni socio-economiche della produzione del riso si associa un’interessante


Dissertazioni descrizione ambientale della zona del carpigiano, profondamente segnata dalla coltura. Gli alimenti quindi possono essere banco di prova ora per dissertazioni di carattere scientifico, ora per lavori dove emergono in particolare il valore sociale e le implicazioni politiche ed economiche dell’alimentazione, ora per studi che incrociano i temi del paesaggio e che ci restituiscono un’immagine della sua evoluzione storica ed economica. Affascinanti gli studi che maggiormente rendono conto di quest’ultimo filone. Emerge infatti la storia di una regione che a tratti ha saputo mantenere inalterati alcuni dei suoi più significativi valori ambientali nel corso dei secoli: è proprio questa la percezione che si ha leggendo il settecentesco trattato di Francesco Ginanni sui pinoli e sulle pinete ravennati, o gli scritti, sempre settecenteschi, di Giovan Francesco Bonaveri sulle valli di Comacchio, dove si pesca da sempre l’anguilla; oppure sui carmi De salinis cervensibus del reggiano Pietro Antonio Zanoni; oppure l’ottocentesca memoria di Giuseppe Bertoloni sul castagno dell’Appennino. Ben diversa urgenza si trova nei trattati dove emerge invece la preoccupazione per esigenze socio-politiche: l’approvvigionamento di cibo e lo spettro della fame per secoli hanno agitato gli animi tanto di regnanti ed amministratori quanto dei popoli: ne sono ad esempio pervasi, tra ’600 e ’800, i saggi sulla coltivazione delle patate dei bolognesi Pietro Maria Bignami, Paolo Benni e Giovanni Francesco Contri, oppure la trattatistica di Ovidio Montalbani sui prodotti succedanei del pane; fino ad arrivare, tra ’800 e ’900, alle iniziative – non solo editoriali – di filantropi

come il romagnolo Giuseppe Sangiorgi. Talora anche gli uomini di cultura e di scienza prendono parte a questo dibattito, e non a caso figure come Montalbani o Benni o Contri sono espressione del mondo accademico o comunque ad esso contigue. Ma la dimensione che più si confà ai trattati scritti da uomini di scienza riguarda l’osservazione dei fenomeni naturali e la descrizione delle piante; ne sono esempio gli scritti di Costanzo Felici, corrispondente di Ulisse Aldrovandi, o del micologo riminese Giovanni Antonio Battarra; oppure i saggi di Luigi Dalla Fabra, Agostino Paradisi, Angelo Rambaldi sulle colture esotiche che tra ’600 e ’700 si affacciavano nel vecchio continente: il caffè e il cacao. Ma i trattati sui cibi costituiscono anche gli strumenti con cui viene conservato il ricordo delle eccellenze locali. Ne sono esempio le diverse opere sulla produzione vinicola, scritte tra gli altri dal Lancerio (XVI secolo), dal piacentino Giulio Bramieri (fine ’700), dai modenesi Luigi Maini e Francesco Aggazzotti (XIX secolo). Oppure i saggi di Alessandro Spinelli sulla spongata di Brescello o del Maini sulla mostarda prodotta un tempo a Carpi. Senza tralasciare attestazioni di natura archivistica, come la cosiddetta Carta di Marola, una pergamena del XII secolo dove si ha la più antica memoria del formaggio di latte vaccino a pasta dura: il progenitore del Parmigiano Reggiano. Ed ancora, interesse rappresentativo dell’imprenditoria otto-novecentesca sono i saggi dedicati agli stabilimenti (con macchine a vapore!) della distilleria Buton o del salumificio di Medardo Bassi, entrambi bolognesi. (ac)

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Costanzo Felici

(Casteldurante, 1525 ca. – Pesaro, 1585) Lettera sulle insalate. Ms. cartaceo; Sec. XVI; [24] c.; seguono: c. 28v-30v: Lettera sulle medicine del lupo; c. 31r-42v: Lectio nona in qua de fungis, in genere atque in speciebus, pertractatur; c. 49r- 149v: De differentiis atque partibus plantarum. Bologna, BUB (Fondo Aldrovandi, ms. 782)

È datata “Di Piobbico, il dì 5 febraro 1565” la lunghissima lettera (la cui stesura definitiva risale però al ‘72) che il medico e naturalista – nato a Casteldurante (l’odierna Urbania) da famiglia originaria di Piobbico, ma vissuto poi a Rimini per matrimonio – indirizza all’amico e corrispondente Ulisse Aldrovandi, che gli aveva chiesto informazioni circa il “cibo dell’insalata”. Felici risponde alla richiesta con quello che può essere considerato un vero e proprio trattato sui ‘vegetabili’ commestibili. Così esordisce l’autore rivolgendosi al naturalista bolognese: “Mi fu data una vostra letera, la qual al principio, considerando voi tenere sì bona memoria de’ fatti miei e più ancora considerando in essa la tanta sua amorevolezza; ma poi, seguitando il legger quella, più inanti vi trovai una particola strana e un desiderio vostro curioso e novo che mi dette in principio quasi da ridere, poi da mal pensare, considerando che, volend’io satisfar alle vostre voglie, dove e in che profondo pellago io entrava [praticamente in un mare di guai], che non ardiva pur guardarvi dentro, non che avesse l’animo audace pur entrarvi, non che pensasse poterne mai uscire”. Ma Felici possiede evidentemente un animo audace, che gli permette di affrontare l’impresa estendendola anzi a tutti i vegetali commestibili, dalle insalate vere e proprie, ai cereali, alla frutta, fornendo anche suggerimenti sul modo di cucinarli e mangiarli. E così ci informa innanzi tutto “che l’insalata è nome de’ Italiani solamente, avendo la denominazione da una parte del suo condimento, cioè dal sale, però che si chiama così un’erba, o più miste insieme, o altra cosa con condimento d’olio e sale e tutto generalmente (ch’altra cosa ancora alcuni si suola giungere, o sapa o mele [miele] o zuccaro e simile), o cotte o crude che siano, masticando il tutto in uno […] L’aceto poi si pone a questa medema intentione e poi ancora di più che incida et assotiglie l’umidità dell’erbe, chè le rende più atte alla digestione e le fa più abbracciare dalla bocca del stomaco e le rende oltra di questo più grate al gusto. Se gli aggionge poi l’olio perché si trovano molto asprezze nell’erbe che offendono il gusto: quello con la sua untuosità lenisce e rende quelle più grate alla diglutitione et è per questo condimento generale”. Per quanto riguarda il momento più opportuno per consumare verdure, Felici nota che “non si serve ordine alcuno, che ci sono quelli che gli diletta tanto che a pasto non si curano d’altro cibo” e questo non è bene perché non se ne può “cavare se non cativo e debol nutrimento”. Ci sono poi “quelli che indifferentemente l’usano la sera e la mattina”: abitudine lodevole quella di cominciare la giornata così, spiega, soprattutto “a’ tempi di digiuno e di magro e di quaresima, perché allora, moltiplicando assai gli umori grossi generati da’ cibi grossi che si magniano ordinariamente a quelli tempi, pigliando ancora la mattina un 112


Dissertazioni poco di quel cibo incisivo si rimedia alla grossezza dell’umore et al gusto fastidito”.Vi sono poi coloro che consumano insalate indifferentemente di sera, prima e dopo i pasti poiché sostengono che sono degli ottimi “aguzza et incita appetito” ma chi possiede già “bonissimo appetito” sarebbe meglio, come sosteneva il medico greco Ippocrate “che dove è appetito non bisogna cercarlo”. L’elenco prende l’avvio con le ‘radici’ e troviamo quindi la descrizione dello scalogno, dell’aglio, del porro, della rapa e del raponzolo, del navone (“radice grossa, piramidale, de colore e gialla e bianca, atta più in menestra e con carne et altri condimenti di coccina che in insalata. Si possono ancora usare le cime sue como quelle di cauli, ma non sono sì grate al gusto”). Seguono il rafano, le carote, la pastinaca e così via, passando tra le erbe aromatiche, le zucche, i meloni, i cocomeri e le melanzane si arriva ai cereali: a proposito del grano (“un seme tanto conosciuto da ogni persona che neanco cosa più, perché faria malamente l’uomo senza questo”) col quale si producono vari tipi di pane, Felici scrive che “se ne fanno tante sorte di vivande che difficil cosa saria ritrovarle, como son piade o cresce de diverse sorte nel fuoco, nel forno; e misto con altre cose, come è con olio, con grasso, con cascio, con noce e con speciarie, se fan lasagne, macaroni de più sorte, tagliatelli, vermicelli, granetti, lassagnate sottili, la farinata, e poi finalmente entravi in compagnia quasi del più delle vivande come sostegno e fondamento”. La lettera si conclude con l’invito a Ulisse Aldrovandi ad accontentarsi di quanto si è potuto fare e “state sano e più non vi venghi simili voglie”. La lezione sui funghi passa in rassegna le specie tipiche dell’Appennino marchigiano. Il lungo discorso che segue sulle olive condite, indirizzato al riminese Alessandro Ortigio esamina e descrive i vari tipi di questo frutto e le tecniche per conservarlo e cucinarlo. Nel 1584, poco prima di morire, Felici pubblicò a Rimini l’operetta Del lupo e virtù e proprietà sue, in cui riassunse tutte le credenze mediche di matrice magica del suo tempo, come quella secondo la quale “portare al collo sospeso un piede di lupo, libera l’huomo da dolori colici” (p. 151). La Biblioteca Universitaria di Bologna possiede sia il manoscritto che una copia dell’edizione (collocata in A.V.Tab. 1.G.1 469/2); la versione a stampa include uno studio sull’alce (Trattato del grand’animale o gran bestia) del milanese Apollonio Menabeni, che fu protomedico alla corte di Giovanni III di Svezia. La Biblioteca Universitaria possiede anche l’altra versione autografa del trattato sulle insalate (ms. 688, Del’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo). (zz) DBI, XLVI, 61-63; Lettera sulle insalate, 1977

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“Tutti i frutti che in Italia si mangiano” nei ricordi di un esule a Londra All’inizio del XVII secolo anche Giacomo Castelvetro (Modena, 1546-Londra, 1616) decide di occuparsi dello stesso argomento, le insalate. Il suo Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano fu scritto a Londra, dove Castelvetro era approdato dopo varie peregrinazioni per l’Europa, soprattutto a Ginevra dove aveva raggiunto lo zio Ludovico, lì rifugiatosi a causa di una condanna dell’Inquisizione. Ritornato per breve tempo in Italia, si trasferì poi definitivamente in Inghilterra, dove riteneva di avere più possibilità di trovare un’occupazione. Gli fu in effetti affidato un insegnamento di italiano a Cambridge nel secondo semestre del 1613: l’incarico non ebbe seguito ma, come annota Luigi Firpo “vi mangiò agli ultimi d’ottobre delle fragole squisite”. E proprio a Londra – e poi nel Kent – mentre era ospite di Adam Newton, segretario del principe di Galles, si dedicò alla stesura di questo trattatello, scritto con tenerezza e rimpianto per combattere la nostalgia della patria e della sua gastronomia. Le tre copie manoscritte, rimaste nella dimora di Newton, passarono dagli eredi alla Biblioteca del Trinity College (Western Manuscripts. Cod. R. 14.19: la più antica del 14 giugno 1614; le altre due, del 28 giugno e del 28 settembre in Cod. R. 3.44). Altri esemplari si conservano alla British Library (Sloane MS 912 e Add MS 9282). Firpo 1974, 131-176.

Giuseppe Maria Mitelli, Gridando va quest’ortolana avara, / Chi vuol de l’odorifera insalata; / Se di comprarne un galant’uom prepara, / La fa pagar carissima salata. / 24, v. scheda 127 (Bologna, BC Archiginnasio) 114


Dissertazioni

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Tommaso Ravasini (Parma, 1665 – 1715)

Della coltivazione de’ fichi poemetto latino di Tommaso Ravasini Parmigiano, trasportato in verso italiano da Giovanni de’ Brignoli In Raccolta di poemetti didascalici originali o tradotti, volume I [-XII]. Milano, Tipografia Destefanis a S. Zeno a spese degli editori, 1822. 12 voll. 16°. – Il trattato di Ravasini si trova alle p. [209]-240 del V vol. Bologna, BCasa Carducci (4. a. 401. Prov.: Giosue Carducci)

Figlio di Pier-Francesco, giureconsulto e di Angela Roncagli, molto presto rimase orfano di padre. Nonostante la sua gracilità si applicò agli studi con molta determinazione, frequentando le scuole dei Gesuiti, dove ebbe come precettore di retorica il padre Francesco Grandi che stimò e ricordò anche nelle sue poesie. Sposò Angela Ambanelli che morì un anno dopo il matrimonio. Avendo perduto anche la madre nel 1694 si ritirò in una villa di famiglia a San Michele Tiorre, dedicandosi alla scrittura. Ma da una lettera scrittagli da padre Grandi da Piacenza apprendiamo che fu chiamato alle armi, vista la grave situazione di guerra che aveva investito ormai tutta l’Italia settentrionale: “Intendo dal suo foglio, che sia soldato a cavallo, e che le convenga cambiar le cetre di Parnaso in pistole da Marte. La compatisco di cuore, né mi sarebbe mai caduto in cuore una stravaganza così impensata”. Successivamente il Ravasini ottenne dal duca di essere esentato dalla milizia e di poter tornare a Tiorre dove compose il primo dei suoi Dialoghi critici. Si risposò con Angela Becchetti da cui, nel 1704, ebbe un figlio che gli morì purtroppo dopo un anno. Dopo aver dato alle stampe altre raccolte poetiche, sempre in latino, si conquistò la stima di parecchi letterati tra cui Ludovico Antonio Muratori col quale strinse una lunga e fraterna amicizia. Avrebbe potuto approfittare della fama che aveva conquistato, ma ricusò costantemente ogni onore e ricompensa e non compariva mai dove poteva raccogliere applausi, anzi era solito vestirsi dimesso e quasi incolto. Nel 1712 pubblicò insieme tutte le sue poesie, le edite e le inedite, come sappiamo da una lettera del celebre poeta latino Tommaso Ceva gesuita: “Ho ricevuto il suo bel libro di versi la settimana scorsa, ma non ho voluto risponderle prima di aver letto tutto ciò che di nuovo ella ha aggiunto alle altre corde della sua dolcissima cetra:Tutto è degnissimo del suo Autore, cioè d’un vero poeta. Mi sono piaciute in estremo le descrizioni delle Ville Ducali”. Ammalatosi poi gravemente morì nel giugno del 1715 e venne seppellito con onore nella chiesa della Steccata di Parma dove lo ricorda un’iscrizione. Della coltivazione de’ fichi è il poemetto qui preso in esame e tradotto in italiano da Giovanni de’ Brignoli di Brunnhoff, nato a Gradisca in Friuli nel 1774, che era appassionato di storia naturale e di agricoltura, avendo egli fondato un giardino destinato dapprima ai fiori, e che in breve divenne orto botanico. Dopo un’introduzione che fa riferimento al mito greco per la nascita della 115


pianta del fico ci sono, in versi, tutti i consigli per ottenere con successo la crescita della pianta: “se nel tuo campo il fico hai diletto piantar […] al tepor sia volto, e al sol […] prospereranno i giovani alberetti […] nel suol […] ove alla sabbia calce sia unita”. Viene spiegato poi che il terreno attorno al fico deve essere smosso almeno due volte l’anno e gioverà “cenere intorno spargere alla pianta” per difenderla dagli attacchi delle formiche e “alla pianta in cima s’esponga uno spauracchio” per tenere lontani i passeri dai frutti, di cui sono ghiotti, frutti che la pianta, generosamente, offre due volte l’anno. Lodata poi la bontà dei frutti, vengono illustrati i modi di conservarli (messi al sole sopra dei graticci) e i moltissimi usi che dei fichi secchi si possono fare, ad esempio “quando […] il digiun le parche cene […] a te piace calmar” oppure quando vuoi “ a tosse rimedio oppor”. (acm) Affò 1797

Fico verdeccio, in Giorgio Gallesio, Pomona italiana, Pisa, co’ caratteri de’ FF. Amoretti. Presso Niccolò Capurro, 1817-1839, vol. II. Tavola disegnata dal bolognese Giuseppe Bazoli e incisa dal modenese – attivo anche a Livorno – Alessandro Contardi (Piacenza, BC Passerini Landi) 116


Dissertazioni

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Luigi Raineri Biscia (Forlì, 1744 – Dovadola, 1820)

La coltivazione dell’anice di Arnerio Laurisseo P.A. presentata ai virtuosissimi signori accademici Georgofili della città di Firenze. In Cesena, per Gregorio Biasini all’insegna di Pallade, 1772. 80 p. ; 8°. – Segn.: A-E8. Bologna, BC Archiginnasio (8.W.IV.36 op. 5)

Uscito per la prima volta in questa edizione, il volumetto divenne presto introvabile; nel 1828 si decise allora di farne una nuova edizione (Firenze, Luigi Pezzati) corretta e accresciuta come spiega l’editore fiorentino: “Essendo da qualche tempo esaurita e divenuta assai rara una prima edizione di questo poemetto, fatta in Cesena nel 1772 per Gregorio Biasini, si è creduto far cosa grata al colto pubblico facendole succedere questa seconda, emendata d’alcuni errori corsi in quella, premessevi alcune notizie intorno alla vita e ad altri scritti dell’autore, ed aggiunte alle annotazioni, che questi vi aveva apposte, alcune altre, le quali saranno contrassegnate da un asterisco”. Dalla biografia premessa alla seconda edizione si apprende che l’autore, il cui vero nome era appunto Luigi Raineri Biscia, era nato “nella sua villa di Salto” dove “esisteva anticamente un tempio dedicato a Giove Ossequente ed a Giunone Regina”. Portato dal padre a Faenza per coltivare un “ingegno non ordinario” palesato da subito, venne affidato all’“eruditissimo professor Ferri, sotto la cui direzione si applicò allo studio delle lettere greche, latine, e italiane”, studio che dovette presto abbandonare per motivi di salute. E la salute lo tradì sempre fino alla fine della sua vita, a causa di una gravissima forma reumatica che lo ridusse “con dolori acerbissimi [...] storpio delle gambe e delle mani”. Ricoprì incarichi importanti, come quello di governatore di Forlì e podestà di Meldola. Il poemetto, di chiara impostazione didascalica, è diviso in due libri e il soggetto è annunciato subito dallo stesso autore: “Qual terra cerchi, qual cultura, e in quali / Utili all’uman’uopo usi si volga / Quella gentile odorosetta pianta, / Anice detta, tra cantori il primo / A corde etrusche con piacer m’appresto / Oggi, o Numi, a fidar ec.”. L’agronomo reggiano Filippo Re, nel suo studio Della poesia didascalica georgica degli italiani dopo il ristoramento delle scienze sino al presente saggio (Bologna, fratelli Masi e comp., 1809), parlando della coltivazione dell’anice, si esprime così (p. 60-61): “Il solo Palladio fra i georgici latini ci insegna a coltivare l’Anice, del quale Plinio, dopo averci raccontato che era fra i pochissimi cibi lodati da Pitagora, racconta le virtù e proprietà che tante sono che sembra che fosse creduta una panacea per tutti i mali. È noto che al presente viene in più luoghi coltivata e fra gli altri con molto vantaggio nel Dipartimento del Rubicone. Arnerio Laurisseo sotto il qual nome celasi il sig. Luigi Ranieri [ma Raineri] di Meldole appunto del citato Dipartimento volle farne argomento ad un suo poemetto in versi sciolti distribuiti in due canti, i quali abbondano di molta erudizione. E sebbene la minor parte di entrambi si aggiri intorno alla Coltivazione dell’Anice, ciò pure torna in gran parte a lode dell’autore, che in piccolo soggetto trovò di che molto 117


dire, sebbene forse alcun dei tanti aristarchi viventi dir potesse che ciò è a danno di quella economia cui pur conviene serbare massime nei piccoli poemetti. Come preparare le terre acconciamente, e seminarvi l’anice ci spiega nel primo canto. Nel secondo parlasi a lungo del commercio che se ne fa dopo averci insegnato la maniera di raccoglierlo, e con in istile a mio giudizio assai colto, come potrà ognuno giudicare dai seguenti versi: Poni fine agli indugi: il guardo gira / E ben vedrai, che alla bramata / Ei giunse maturità; vè che si piega / Arsiccio al suol; vè le cadute foglie / Già t’invitano all’opra: ogni dimora / Perigliosa si fa; che poi di molti / Inutili lamenti esser potria, / E di vano dolor madre feconda […] / Scorda il ferro crudel, metti in obblio / Ferite e piaghe, e colla man piuttosto / Tutto si svelga e in fastellin si accolga. / Che pria che di vigore il sol, di forza / Scemi soverchio e delle nevi algenti / Il verno quindi apportator, tu pronto / Espor sull’Aja a raggi suoi dovrai […] / Ora il tempo di batterlo e la norma / Imparar non t’incresca: allorché in tutto / Disseccati dal sol tu mirerai / I raccolti tuoi mucchj, onde già pronti / Tu li vegga a lasciar, quanto di seme / Custodicono in seno, in tua balia / Il nodoso baston, che al violento / Sforzo de’ colpi, e dell’edace tarlo / Mai non cesse al furor, provvido impugna. / Poscia uno strato ognun di giunte insieme / Assi componga, se fa d’uopo, in cui, / Come sul palco di condanna, tragga / L’innocente a soffrir Anice il peso / Del voluto flagello; ivi più forte / Forse il fiacco riceve, onde l’armata / Turba il percuote, e qual più dessi il batte; / Anche perché dell’importuna polve, / che l’involge tenace a tutta possa / Resti scevero, e netto, acciò del cribro, [crivello] / Che a purgarlo s’appresta, egli minore / Nell’estremo travaglio abbia bisogno. / In tal guisa disposte alfin le cose / Mano pure all’impresa, e a spessi colpi / Il sottoposto suol gemer s’ascolti”.(zz)

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Dissertazioni

40.

Jacopo Bartolomeo Beccari (Bologna, 1682 –1766)

De frumento in De Bononiensi Scientiarum et Artium Instituto atque Academia commentarii. Bononiae, ex typographia Laelii a Vulpe, apud Metropolitanam, 1741-1791. 10 voll. ill. ; 4°. – La dissertazione occupa le p. 122-127 del vol. 2.1; a cura di Francesco Maria Zanotti, il cui nome compare nella prefazione del vol. 1. Imola, BIM (Aula Magna D.5016)

Si tratta della celebre dissertazione esposta il 18 marzo 1728 e mai pubblicata integralmente. Di lui scrive Giovanni Fantuzzi: “Compiuti i primi studj della grammatica passò alle scuole degli allora vigenti pp. Gesuiti per appararvi l’umanità e la rettorica. Ebbe del genio alla poesia e buona disposizione a compor versi latini, alcuni de’ quali recitò nell’Accademia degli Indivisi, a cui fu aggregato ancor giovinetto. Nel 1697 si applicò allo studio della filosofia sotto la disciplina del canonico Lelio Trionfetti, celebre non solamente in quella facoltà, ma anche nella botanica, e generalmente in tutta la storia naturale […] Compiuto il corso della filosofia passò il Beccari alla medicina, sciegliendosi per maestro il dottore Jacopo Sandri, uno de’ più accreditati seguaci del famoso Malpighi […] Nel 1704 si addottorò in filosofia e in medicina: e nell’anno seguente sostenne conclusioni pubbliche nell’Archiginnasio, come sono obbligati di fare que’ cittadini, che aspirano ad essere fatti lettori”. Nel 1714 comincia la sua attività l’Istituto delle scienze – prosegue Fantuzzi – “in questa nostra città. Tanto il generale Marsigli, fondatore di esso, quanto i senatori deputati a questo affare pensando a provedere di professori le facoltà, che vi si dovevano insegnare, poser l’occhio per la fisica esperimentale sopra il dottore Matteo Bazzani e sopra il nostro Beccari. Ma di poi mutatasi disposizione, fu destinato il Bazzani ad occupare il posto di segretario dell’Instituto e dell’Accademia, onde restò solo il Beccari alla professione della fisica. Trattossi di dargli un compagno, che fosse di sua soddisfazione, come portano le costituzioni dell’Instituto, ed ottenne il dottore Domenico Gusmano Galeazzi, uomo secondo il suo cuore non tanto per la stretta ed antica amicizia, che passava fra loro, quanto per l’ingegno attissimo alle fisiche osservazioni, ed esperienze”. Tutto questo per spiegare almeno in parte perché sia considerato uno dei protagonisti della vita scientifica bolognese del suo tempo. Con questa dissertazione sul frumento e con la succesiva sul latte (De lacte, vol. 5.1 dei Commentarii, ex typographia Laelii a Vulpe, 1747, p. 1-8) Beccari dimostrò di avere individuato il glutine nella farina del frumento e sostanze secondo lui analoghe al glutine nel latte. Per questa ragione è considerato il ‘padre’ del nutrizionismo. Sua l’affermazione (p. 122 del De frumento) “Quid aliud sumus, nisi ad ipsum, unde alimur?”, che altro siamo, se non ciò che mangiamo? (zz) Schede umanistiche 2007, 2

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41.

Petronio Ignazio Zecchini (Bologna, m. 1793)

De grano turcico libri tres. Bononiae, ex typographia Laelii a Vulpe, 1791. [4], 54, [4], XVIII, [2] p. : ill. ; 4°. – Segn.: π2 A-G4, χ1, a-b2 c6. – Contiene: Adnotationes et appendix. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sassoli 500.173. Prov.: Tommaso Sassoli)

Scrive di lui Serafino Mazzetti: “figlio di Lorenzo bolognese, laureato in filosofia e medicina li 12 giugno 1758, indi nel 1767 provvisto di una lettura onoraria di anatomia teorica. Nel 1768 venne collocato tra gli anatomici ordinarii, e fatto lettore di anatomia teorica stipendiario, aggregato all’Accademia filosofica dell’Istituto delle scienze e dichiarato archiatro [primo medico] dei duchi di Olstein Gottorp allora dimoranti in Bologna. Nel 1772 passò a leggere la medicina nello Studio di Ferrara collo stipendio di scudi 400, e dopo tre anni conseguì l’aumento di scudi 300. Sostenne questa cattedra con molto applauso e concorso di scolari fino alla di lui morte avvenuta colà il 13 settembre 1793”. Nel 1791 dà alle stampe la relazione sul mais da lui esposta all’Accademia delle scienze il 22 gennaio 1767, nella quale esalta le proprietà di questo cereale, come alimento alternativo soprattutto nei periodi di carestia. La coltivazione del mais inizialmente non fu accolta in modo positivo: nel 1644 Vincenzo Tanara scriveva (p. 465): “Chiamano formentone certo grano grosso, rotondo, e per ordinario di color giallo, ma per straordinario nero, rosso, o bianco; questo dal Fussio è chiamato formento turchesco, dal Mattioli indiano, e da altri siciliano, ancorché il Mattioli ne descriva un’altra specie sotto nome di siciliano. La coltivazione di questo da noi poco si pratica, perché volendo terreno grassissimo, in luogo di questo, forse con miglior conseglio, nel terreno grasso poniamo la canepa. Alza un gambo grosso, nodoso & alto, come canna; ne’ nodi alti da terra più di due piedi trà le foglie, che ci sono, caccia alcune guaine longhe una spanna, nella sommità pinacchiate con certe fila di vario colore, in queste si racchiude la spica con le grana, quali in tempo d’abbondanza si danno a colombi e galline, ma in tempo di carestia, ridotto in farina, se ne fa polenta dolce, e da villani, che se la mangiano, è affermato che sazia assai, ma dà poco fiato”. Ancora alla fine del XVIII secolo i pareri erano discordanti: se nel 1782 Giovanni Antonio Battarra scrive (Pratica agraria, Dialogo IX): “L’uso di piantar fromentone non è cosa nuova, se tu intendi in poca quantità. Non saran quarant’anni, che i contadini d’intorno agli orti ne piantavano una spica, o due, e ne avrebbono riscosso una bernarda o due, per fare otto, o dieci volte la polenta. Ma a poco a poco ingrossando la piantagione è succeduto, che le raccolte sono state ubertose, e hanno riempiuti dei bei sacchi e allora i padroni dei predj, che non badavano a quelle piccole raccolte, ne hanno voluto la lor metà, e saranno 25 o 30 anni al più che s’è introdotto questo capo d’entrata molto ampliato in questi nostri paesi” e prosegue ricordando quanto fosse stato provvidenziale averlo durante la terribile carestia del 1715. Dall’altro lato pochi anni prima – nel 1775 – il botanico bresciano don Cristoforo Pilati nell’Aggiunta sopra il formentone 120


Dissertazioni pubblicata in appendice alle Vinti giornate dell’agricoltura di Agostino Gallo, afferma che “Il pane di questo grano non è cibo propriamente che de’ contadini […] La farina molto sottile riesce da pane, perché fa diventar più tenace la pasta; per polenta vuol essere macinata più grossa, e come dicesi scagliata, perché asciughi di più e più fragile riesca l’impasto […] Questo pane anche da’ contadini non si usa che nella stagione fredda, o al più nelle due temperate, mai nella state, perché non riesce comodo; se si cuoce troppo egli è tanto duro che non si può frangere coi denti; se è molle e di mezza cottura, in pochissimo tempo ammuffisce di certa muffa amara e disgustosa; poi nelle dure fatiche di quella stagione sono persuasi di procacciarsi miglior nutrizione col pane bianco di frumento. Sogliono le povere genti fare varie misture per questo pane, unendovi della farina di melica (oltre la segala) e di miglio o altro grano; anzi abusivamente chiamano il pane di formentone pane di miglio, forse perché sia succeduto questo pane a quello che dai poveri si facea col miglio prima dell’introduzione del sorgo turco; siccome la farina di questo ha preso il luogo della farina di quello nell’uso di fare la polenta […]” (p. 555-556). Pilati risolve anche il problema relativo al nome di questo cereale, infatti “quello malamente alcuni chiamano frumento turco, e dico malamente, perciocché si dee chiamare indiano, e non turco, per essere portato dall’Indie occidentali, e non d’Asia né di Turchia, come crede il Fuchsio”. Si riferisce al botanico tedesco Leonhart Fuchs. L’opera di Zecchini termina con un’appendice (p. XVII-XVIII) intitolata De turcica pulte peridoneo infantum alimento (se la polenta di mais sia un alimento adatto ai bambini) in cui l’autore spiega come la sua risposta affermativa dipenda dal suo metodo di analisi, effettuato sulle orme di quello applicato da Jacopo Bartolomeo Beccari per il frumento. (zz) Schede umanistiche 2007, 2

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42.

Achille Caprari

(Carpi, 1800 ca. – Parma, 1878) Sulle risaie degli Stati Estensi: ricerche e studi. Modena, Tipografia di Alfonso Pelloni, 1852. 80 p. ; 23 cm. Modena, BAccademia SLA (Opuscoli CXXIV 5 185)

Ordine si debe servare per lo officiale alla vitualia di Carpi, quaderno, sec. XVI. Nel documento sono descritte in 40 capitoli le competenze del Giudice alle vettovaglie, detto anche Ufficiale della Piazza, preposto al controllo e alla organizzazione dell’approvvigionamento delle derrate alimentari a Carpi durante il dominio degli Estensi (1527-1796). (Carpi, ASC, Archivio Guaitoli, documento n. 154).

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Le risaie a Carpi risalgono alla seconda metà del XVIII secolo, ma la coltivazione di questo cereale dovette inizialmente scontrarsi con resistenze simili a quelle opposte nei confronti del mais e delle patate, se ancora a metà dell’Ottocento si discuteva sull’opportunità di potenziarla nonostante l’inchiesta condotta nel 1846 da Carlo Roncaglia – consultore del governo dello Stato Estense – rilevasse che un terzo circa dell’intero territorio era stato ridotto a risaia, con un incremento della produzione pari a quattro volte quella del grano (Statistica generale degli Stati Estensi, Modena, Tipografia di Carlo Vincenzi, 1847). Pochi forse sanno chi fosse Achille Caprari, anche se la sua città gli ha dedicato una strada, ma in questa relazione riesce a descrivere in maniera precisa e dettagliata la collocazione e l’estensione che quei territori presentavano nel 1852, prima delle bonifiche: “vaste terre vallive distendonsi a destra e a sinistra del regio canale di Carpi nel cammino che percorre quando uscito da questa città dirigendosi a settentrione per mezzo a Cibeno e tra Fossoli e San Marino scende a Novi per mettere foce in Secchia alle chiaviche Mantovane. Queste terre della complessiva estensione di biolche 10.083 prendendo i nomi delle parrocchie sotto cui giacciono, e soglionsi dividere in quattro grosse vallate di Fossoli, di Novi, di Rovereto e di San Marino. […] Sopra queste quattro vallate trovansi 50 case sparse a diverse distanze: diciotto in quella di Fossoli, tredici in quella di Novi, otto in quella di Rovereto, e finalmente undici in quella di San Marino […] Sono pochi anni che si vedevano universalmente incolte […] e siccome non era la superficie piana e uniforme, ma sparsa qua e là di tumuli e di gibbosità, avveniva che l’acqua si accumulava nei punti più bassi, ove ristagnava anche allorquando le piccole eminenze e gli scoli stessi si erano asciugati; cosicché una serie successiva e interminabile di erbe, una miriade di insetti e di vermi ivi sviluppavansi” e ancora “le terre del basso carpigiano e del novese sono soggette a periodici allagamenti per insufficienza di scoli. Le risaie, le così dette valli di Budrione, di Fossoli e le contigue terre di Novi sono ridotte per il disgelo e la pioggia a bacini che non si svuotano se non lontanamente […] Là la terra è triste: poche erbe gialle corrono coi loro ciuffetti tisici le zolle nerastre: larghi crepacci corrono a zig-zag per tutti i sensi i campi infecondi, crepe e crepacci


Dissertazioni profondi fino a due metri, in cui entra un piede stanno a dimostrare che sete orrenda quella povera terra soffra: l’aridità squassa i ponti, i fabbricati: la terra gonfiandosi d’inverno, restringendosi d’estate, solleva e abbassa le opere murate con diabolica facilità: non vi è ponte a cui non cadano le ali e non abbia spaccato il ventre: la vite, ricchezza e gioia delle nostre campagne, là alligna tardi e male, l’olmo stesso, lo sposo della vite, il prato pensile che dà buon mangime, che fornisce il legno robusto e il resistente combustibile, l’olmo cresce lento, faticoso, quasi a dimostrare l’ingratitudine della terra in cui alligna. Tale è la realtà del basso budrionese”. Una delle cause più ‘forti’ che si opponevano all’introduzione definitiva della coltura del riso era la malaria, che all’epoca veniva imputata all’aria malsana e alle acque putride – tipiche dei terreni paludosi – e non ancora alla vera responsabile, la zanzara anofele. Scrive lo stesso Caprari ancora nel 1852: “Gli abitatori delle poche case sparse in quelle vallate, e nei dintorni, andarono in ogni tempo soggetti, e in modo speciale nella estate e nell’autunno, a varie infermità e più particolarmente alle febbri intermittenti”. D’altra parte a favore delle risaie venivano addotti argomenti come il fatto indiscutibile che costituissero una risorsa preziosa (l’esito dell’inchiesta Roncaglia lo confermava) in armonia con la poca produttività di quelle terre in altri settori e che risolvessero il problema della massiccia emigrazione stagionale dei braccianti carpigiani. Inoltre la risaia costituiva anche un elemento di occupazione per categorie solitamente ‘sottostimate’ come i bambini e le donne. La bonifica ‘Parmigiana-Moglia’, che avrebbe trasformato completamente il paesaggio e le condizioni di vita, fu avviata da Natale Prampolini, che la racconterà anni dopo (La bonifica di Parmigiana Moglia, Reggio Emilia, 1928). Ingegnere, industriale-agricoltore, agronomo nonché direttore del Consorzio omonimo per trent’anni (dal 1915 al ‘45) progettò e condusse quest’opera gigantesca, primo esempio di moderna bonifica idraulica in Italia, che gli procurò successivamente una serie di incarichi simili, come la bonifica dei territori ferraresi e dell’Agro Pontino. (zz) Nora 2006

Officij de Carpi, [1523]. Il documento riporta uffici e competenze vigenti durante la Signoria Pio a Carpi (13311527). Tra questi figura l’officiale al granaro et la spesa de pane et vino, e de le biade tutte, al quale competevano funzioni di controllo annonario, in particolare sulle derrate cerealicole. (Carpi, ASC, Archivio Pio di Savoia, busta 31 bis, fasc. 4, documento n. 8)

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43.

Giovanni Antonio Battarra (Coriano, 1714 – Rimini, 1789)

Fungorum agri Ariminensis historia a J. Antonio Battarra lynceo restituto & in eadem urbe publico philosophiae professore compilata aeneisque tabulis ornata. Faventiae, typis Ballantianis, 1755. VII, [1], 80 p., XL c. di tav.; 4°. – Segn.: π4 A-K4. Longiano, BC Pasolini (M 3459. Prov.: Paolo Agelli)

Nacque vicino a Rimini, alla Pedrolara di Coriano, da Domenico Battarra e Giovanna Francesca Fabbri. Entrò nel Seminario di Rimini, dove fu ordinato sacerdote nel 1738, ma continuò a studiare seguendo le lezioni di geometria, fisica e storia naturale del medico, naturalista e archeologo Giovanni Bianchi (Ianus Plancus). Nel 1741 si aggiudicò la cattedra di filosofia nel Seminario di Savignano sul Rubicone, dove insegnò per quattro anni. Incominciò intanto ad interessarsi di scienze naturali, e in particolare di micologia, a cui si appassionò studiando le tavole a colori della Sylva Fungorum del monaco vallombrosano Bruno Tozzi, naturalista, ornitologo ed entomologo di cui divenne discepolo. Nel 1748 ottenne la cattedra di filosofia a Rimini, che occupò per sette anni. Nel 1755 pubblicò il trattato Fungorum agri Ariminensis historia, corredato di quaranta tavole in rame da lui stesso disegnate e incise, dove descrisse 248 specie di funghi. L’opuscolo venne poi ristampato senza variazioni, salvo che nella dedica, sempre a Faenza nel 1759. Battarra ha composto anche dei sonetti in lingua romagnola. Il micologo svedese Elias Magnus Fries riconobbe nell’opera micologica di Battarra oltre 150 specie e il micologo olandese Christian Hendrik Persoon gli dedicò il genere Battarrea. (zz) DBI,VII, 235

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Dissertazioni

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44.

Francesco Ginanni (Ravenna, 1716 – 1766)

Istoria civile, e naturale delle pinete ravennati nella quale si tratta della loro origine, situazione, fabriche antiche, e moderne, terre moltiplici, acqua, aria, fossili, vegetabili, animali terrestri, volatili, acquatili, anfibj, insetti, vermi, &c. Opera postuma del conte Francesco Ginanni ... Con le annotazioni del medesimo, carta topografica, e varie altre figure in rame di cose da essolui osservate, e fatte delineare. In Roma, nella stamperia di Generoso Salomoni, 1774. [12], 478, [2] p., [2], XVIII c. di tav., di cui 1 ripieg. : ill. calcogr., 1 c. geogr., 1 ritr. ; 4º. – Segn.: a6 (1+a1) A-Z4, Aa-Zz4, Aaa-Ooo4. Forlì, BC Saffi (Pianc. Sala P.5.83. Prov.: Carlo Piancastelli)

Erede di una famiglia patrizia che annoverava più di uno studioso, figlio del conte Marco Antonio, che fino al 1720 fu principe dell’Accademia ravennate degli Informi (che riuniva abitualmente nel suo palazzo), Francesco venne introdotto tredicenne alla corte dei Farnese per essere educato nelle arti cavalleresche. Avendo dimostrato tanta passione per la lettura quanto disinteresse per la danza e la scherma, prima Antonio Farnese, poi alla sua morte la vedova, Enrichetta Maria d’Este, lo affidarono ai migliori maestri di corte, poeti, grammatici, matematici. Rientrato nella sua città si occupò dell’eredità dello zio Giuseppe, appassionato collezionista di uova, di nidi e conchiglie, assiduo corrispondente di naturalisti italiani e stranieri. Di lui pubblicò a sue spese, nel 1755 e nel 1757 (a Venezia per Giorgio Fossati), le Opere postume, Tomo primo nel quale si contengono centoquattordici piante che vegetano nel mare Adriatico, e Tomo secondo nel quale si contengono testacei marittimi, paludosi e terrestri dell’Adriatico, e del territorio di Ravenna. Nel 1759 pubblica a Pesaro il suo studio Delle malattie del grano in erba. La febbre che lo stronca a soli cinquant’anni gli impedisce di vedere pubblicata la sua opera più importante che sarà data alle stampe romane di Generoso Salomoni nel 1774. Ginanni definisce il bosco ravennate “il più celebre e il più ragguardevole dell’Italia, che ben fu conosciuto per un carattere distintivo di questa città” (p. 15). D’altra parte questa pineta ha sempre attirato l’attenzione di letterati e poeti, come Giovanni Boccaccio che vi si ispirò per ambientarvi una delle sue novelle (quella di Nastagio degli Onesti nella quinta giornata del Decameron). Giovanni Pascoli era convinto che la ‘selva oscura’ e la ‘foresta spessa e viva’ descritte da Dante all’inizio della sua Commedia si riferissero proprio al grande bosco 126


Dissertazioni di pini, allora rigoglioso: “Ché la Comedia nacque nella tua selva, o Ravenna. La foresta dell’Eden somiglia, esso dice, alla pineta di Classe. Ebbene la selva con cui comincia il poema, è quella stessa foresta. Sono antiche come il mondo; sono la vita. […] Chi sa? Forse ci si trovò in quei primi giorni dell’esilio divenuto allora definitivo, in un momento di tempesta. Forse vi si indugiò, forse anche vi si smarrì di notte [...] La vide poi, di giorno, un giorno d’autunno, quando le eriche a’ piedi dei pini erano gemmate dei loro bocciolini rosei, e fiorivano colchici e i dianti e le radicchielle, i vermigli e i gialli fioretti [...] E in quell’ombra, tra quel canto, tra quel murmure d’acqua e di vento, Dante si ritrovò” (La mirabile visione, “Dedica a Ravenna”). In questo lungo racconto sulle meraviglie del bosco ravennate, costituite dagli animali che lo abitano ma soprattutto dalla folta flora minuziosamente descritta, molte pagine sono dedicate alle ‘pine’ e ai ‘pinocchi’, Ginanni narra dettagliatamente il lavoro di bacchiatura (p. 164-165): “Lunghe sono, e brigose, le operazioni della ricolta de’pinocchi […] E dirò, che in sul primo incominciare dell’ottobre in questo spaziosissimo bosco hassi in costume di raunare per ogni Pineta un’assai numerosa schiera di uomini robusti, che nelle pinete di S. Vitale e di Classe sono in gran parte alpigiani, e col nome di pinajuoli vengono riconosciuti. Costoro […] poco prima dell’alba novella escono frettolosamente, pur anche dal sonno ingombri, dall’abitazione, che li accoglie; la quale, ampia e agiata, in iscoperto opportuno luogho stassene collocata. Alquanti de’ medesimi danno quindi di piglio a’ propri arnesi, e si armano di lunghissime aste, (Tav.VI. n. 2) in cima delle quali conficcati si stanno acuti uncini di ferro, ond’essi traggono il nome di Ancini: e si trasferisce tutta e si divide la gran ciurma ne’ destinati luoghi del bosco per ivi raccogliere quelle pesanti frutta. Con animo intrepido pertanto, conficcando prima, e assicurando nella sommità degli eminenti Pini le uncinate Aste, dietro poscia questa pericolosa scorta, temerariamente e con sommo orrore de 127


riguardanti, arrampicandosi, quelli ne salgono. Ciò viene da’medesimi continuato, sintanto che giunti a stabilirsi in sicuro su qualche più forte ramo, su quello si posano, e, a quello le accennate Aste finalmente traendo, si adoperano poi arditamente col loro uncino per far cadere a terra le Pine. Queste con tutto l’agio da altri, meno risicosi giovanetti, raccolte, i quali Manganelli sono nominati, trasportate indi vengono sopra spaziose carrette da gagliardi muli trascinate, in ampio aperto sito, alla testè accennata abitazione contiguo, ed Aje addimandato: dove scaricate, in lunghi filoni di poi si vanno disponendo, i quali volgarmente filoni si chiamano”. La lettura di queste pagine è divertente, oltre che istruttiva: “ottimi per conciar lo stomaco” (p. 162) col loro olio si possono “conciar cibi”, insomma “Questi nostri sono stimati i pinocchi migliori dell’Italia” (p. 169). Ancora oggi Ravenna dedica una sagra a questo prezioso frutto dalle molteplici virtù. (zz) DBI, LV, 3-5

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Dissertazioni

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45.

Giuseppe Bertoloni

(Sarzana, 1804 – Bologna, 1878) Del castagno e della sua coltivazione: memoria. Bologna, Tipografia dell’Ancora, 1857. 19 p. ; 24 cm. Bologna, BC Archiginnasio (13.Agronomia. Caps. LK.2. n. 27)

Annibale Carracci, 75 Marroni allessi, Roma, 1776. v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) 130

Giuseppe Bertoloni si laureò in medicina a Bologna nel 1828; l’anno successivo fu nominato professore sostituto nella facoltà medico-chirurgica, per la cattedra di chimica, botanica, farmacia e materia medica, con diritto di accedere alla prima cattedra vacante, cosa che avvenne nel febbraio del 1837, quando il padre lasciò l’insegnamento della botanica. Nel 1833 divenne membro del Collegio medico-chirurgico bolognese, e cinque anni dopo entrò a far parte dell’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Con decreto regio il 18 gennaio 1863 fu confermato professore ordinario di botanica con la prerogativa di appartenere alla facoltà medico-chirurgica e alla facoltà di matematica e scienze naturali. Botanico ed entomologo (la sua collezione di rarissimi insetti è conservata nel Museo di zoologia dell’Università di Bologna) si dedicò con passione all’agricoltura e alle pratiche agricole più moderne e adatte a migliorare il livello qualitativo della produzione. Il suo lavoro più importante fu quello pubblicato nel 1867, La vegetazione dei monti di Porretta (Bologna, Regia Tipografia), in cui parla “dei vegetabili che si coltivano in questo distretto, e delle piante spontanee”, descrive la topografia della zona e la natura del terreno; discute la coltivazione, i commerci e l’utilizzazione dei prodotti del Porrettano, ed aggiunge un ampio studio sui legnami per fabbricazione e sulla preparazione del carbone dolce dal castagno e del carbon forte dal carpino, dal faggio e dalla quercia. La sua attenzione per i castagneti è qui evidente, ma è già preannunciata dall’opuscolo, stampato dieci anni prima, dedicato a questa pianta e ai suoi frutti, che tanta parte hanno avuto nel corso dei secoli soprattutto per la popolazione della montagna. Scrive Bertoloni (p. 17): “Il prodotto del castagno oggi è, anche dopo tanta estensione di coltivazione de’ cereali, di molta importanza per la sua utilità, e squisitezza, e perciò commercio […] e benché gli scrittori delle cose antiche abbiano detto che i primi uomini, che abitarono l’Italia si cibassero di ghiande; per me queste ghiande furono le castagne, che in allora ancora crescevano spontanee nella penisola, siccome vi crescono oggi, perché nei terreni diluviani si rinvengono filliti [foglie fossili] e fossili della specie del castagno, e in terreni del Bolca [località dei monti Lessini in provincia di Verona] il ch. Mussologno ha trovato i frutti fossili, per che sono il documento certissimo dell’antichissima esistenza della medesima spece”. Dallo studio sui monti della Porretta è agevole evincere quale fosse la situazione economico-alimentare della zona a metà ‘800: “I cereali che si ottengono dalla coltivazione porrettana non sono sufficenti a soddisfare ai bisogni della popolazione del paese, e tanto meno poi alle richieste delle popolazioni vicine, che discendono al mercato di Porretta a provvedere il pane necessario, ed il formentone da fare polenta per le rispettive famiglie,


Dissertazioni

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quindi da Bologna in tutte le stagioni dell’anno e grano e formentone vi si trasportano in non piccola quantità. Nel commercio del paese poi poco aumenta il prezzo di questi generi di massima necessità sopra quelli di Bologna, perchè il negoziante ed un giorno il vetturale si contentavano di un equo guadagno, ma il trasporto presentemente per maggior vantaggio si fa sulla ferrovia. La quantità di questi due cereali, che vi si commerciano, è assai variabile da un anno all’altro a seconda dei prodotti ottenuti dalle coltivazioni del paese, e principalmente del prodotto più o meno abbondante dei boschi di castagno. Alla Porretta si porta ancora riso e legumi, perché il primo vi è mancante affatto; però molto risone si pila nelle vicinanze del paese; i faggiuoli vi sono assai scarsi e vi si consumano perciò in molta copia i forestieri, siccome il minuto popolo mangia molti lupini, così quelli de’ campi di Torretta, di Granaglione, di Casio, e di Gaggio non sono sufficenti, e perciò a soddisfare in primavera alla consumazione de’ medesimi addolciti vengono opportuni i forestieri. Anche molte cicerchie si trasportano dal di fuori al mercato di questo paese”. E subito dopo aggiunge: “L’entrata di maggiore importanza del porrettano è quella delle castagne, perchè i monti che sovrastanno al paese sono vestiti di grandiosi boschi di alberi assai produttivi, e che riescono il principale sostentamento di questa popolazione montanara. Detto albero presenta varietà diverse nella produzione de’ suoi frutti che si distinguono col nome di Marrone, Pastonese, Loiola, Salvatica, Mascarina, Lizzanese, Salvanone, Molana, Rìccia e Bastarda. Fra tutte queste la Pastonese produce castagne di miglior qualità, e perciò il suo innesto si ripete di preferenza nella parte bassa del monte Porrettano sino a mezza costa. Al disopra di questa posizione si rincontra la Lizzanese frammista alla Loiola, alla Riccia, ed alla Bastarda. La Mascarina invece cresce nella maggiore elevatezza del bosco e quasi alla sommità del medesimo. Nelle stesse maggiori altezze del monte hanno esperimentato che vi potrebbe allignare la varietà Molana, la quale ha il gran pregio di essere primaticcia, ma sino ad ora è scarsa la pratica di innestarvela. Sono primaticcie anche la Loiola, e la Mascarina. La proprietà di essere precoci nel centro dell’Appennino è pregevolissima, poiché assicura il raccolto, che diversamente potrebbe mancare per la caduta delle nevi, e di freddi troppo solleciti, od anche potrebbe essere danneggiato dalle smodate pioggie autunnali. Gli alberi tutti delle dette varietà acquistano in questi boschi un grande sviluppamento sino quasi alla cima del monte di Granaglione. I più bei castagneti però sono attorno al paese delle Capanne poiché gareggiano per bellezza con quelli di Badi, di Camugnano, di Castelluccio, di Lizzano, e delle Case dei Gabrielli. Questi ultimi, a mio giudizio, sono i più giganteschi di tutti e si trovano in posizione molto elevata che confina col Faggio, ed abbastanza distanti dai monti porrettani”. Nel 1913, a Parma, l’agronomo Fabio Bocchialini pubblica I marroni di Campora (considerati particolarmente adatti per la produzione dei marron glacé), mentre il primo riconoscimento pubblico a questo frutto della terra sarà a Roma, sei anni dopo, quando nel corso di una mostra al Ministero dell’agricoltura e commercio, viene premiato con medaglia d’oro come “la migliore varietà italiana”. Una copia dell’opera di Bocchialini è presente nella biblioteca gastronomica dell’Academia Barilla (con collocazione AC 9.4.9.8). (zz) DBI, IX, 611 132


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Annibale Carracci, 57 Vende marroni, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

Mestieri dimenticati “Armondare: ripulire i castagneti; detta così sembra facile, ma ce ne voleva del tempo e ce n’era per tutti. Durava mesi. Si cominciava a scamaiare, cioè a potare, poi c’era da rastrelare le foglie vecchie, da tagliare i cespugli e le ragge, da spazare con le scope di pino bianco. Insomma, alla fine il sottobosco pareva un biliardo, da giocarci a goriziana con le castaggne, quando crodavano”, così Francesco Guccini, nelle sue Cròniche epafàniche (Milano, Feltrinelli, 1990, p. 168) spiega alcuni termini decisamente desueti. Al castagneto, da considerarsi un frutteto a tutti gli effetti, era legato uno dei mestieri più funamboleschi e spericolati, quello dello scamaiatore, che svolgevano solo i boscaioli più esperti e specializzati nell’acconciatura degli alberi produttori del ‘pane dei poveri’. Lo scopo era quello di eliminare i rami secchi e improduttivi: essi raggiungevano il bosco alla fine dell’inverno o al massimo all’inizio della primavera e si arrampicavano, in genere senza scale e senza funi di sicurezza, fino a raggiungere i rami più alti e poi, appoggiandosi dove potevano, cominciavano la loro opera. L’arnese che utilizzavano era il ‘manarino’, una piccola ascia con la lama molto tagliente e il manico di legno, dalla facile e comoda impugnatura che veniva maneggiato con destrezza da una sola mano, perché l’altra era impegnata a tenere un appiglio per evitare rovinose e spesso mortali cadute. 133


46.

Pietro Maria Bignami (Codogno, sec. XVIII) Le patate. In Bologna, nella stamperia di Lelio Dalla Volpe, 1773. 24 p. ; 4°. – Segn.: A-C4. – I nomi degli autori si trovano a c. B4v (Pietro Maria Bignami) e a c. C4v (Gaetano Lorenzo Monti e Giovanni Angelo Brunelli). Bologna, BA Goidanich (Ant/Man 30)

Avversata per oltre un secolo come ‘frutto del diavolo’, in quanto si sviluppa sotto terra e provoca la lebbra, grazie allo Studio bolognese era già osservata durante il XVII secolo nell’Orto botanico dove Giacinto Ambrosini la descrisse come pianta medicamentosa, anche se ancora non alimentare. Fu solo nella seconda metà del ’700 che Pietro Maria Bignami, agronomo e proprietario di terreni originario di Codogno – nel lodigiano – sollecitò l’Assunteria di abbondanza (ufficio annonario del governo bolognese) a diffondere la coltura della patata a scopo alimentare. Lo scrittore inglese Arthur Young, che lo aveva conosciuto, così parla di lui (nei suoi Travels in France and Italy during the years 1787, 1788 and 1789, London, W. Richardson, 1794 vol. 1, p. 242): “I found Signore Bignami at home. He is a considerable merchant, who has attended to agriculture, sensible and intelligent” [ho incontrato il signor Bignami a casa sua. Egli è un considerevole mercante, che si occupa di agricoltura, sensibile e intelligente]. Arthur Young, che amava sia i viaggi che l’agricoltura, durante il suo itinerario italiano era rimasto colpito dal paesaggio bolognese caratterizzato dalla ‘sistemazione a piantata’ (v. box) dove i campi coltivati erano intersecati da file di alberi che sostenevano le viti. Bignami introduce la coltivazione delle patate nel suo vasto possedimento Pie’ di Sapone a Moglio, sulla collina bolognese. Nel 1773 pubblica questo opuscoletto con il chiaro intento di descrivere “alcune esperienze, che ora mi fo coraggio d’umiliar Loro, da me fatte intorno alle volgarmente dette patate, sperando, che vorranno co’ mezzi a loro proprj procurarne nel nostro territorio la coltivazio134


Dissertazioni ne, poiché da questa non si può se non se avere, che un riguardevolissimo vantaggio, al popol tutto, alla felicità del quale con tanto impegno ne presiedono”. Dopo di che spiega brevemente cosa sono le patate,‘dove allignano’ (“in modo particolare nei sedimenti de’ fiumi, e terreni dolci, sabbiosi, ghiajosi, quantunque montuosi, onde la collina, non men che la montagna ci offrono vastissime campagne, dalle quali trarne abbondantissimi raccolti”), i modi per coltivarle, dove piantarle e infine i loro usi. Quello sugli usi è sicuramente un capitolo interessante, considerando che parte della diffidenza nei confronti di questo tubero proveniva dal non sapere come consumarlo. Spiega infatti Bignami: “Servono le patate a nutrimento buonissimo per gli uomini, e sostanziosissimo per ogni sorta di bestiame. Per gli uomini se ne fa ottimo pane con metà farina di formento, e metà di esse, preparandosi, come segue. Si fa il lievito con la farina del formento, al quale si aggiungono le patate cotte a lesso in acqua, dopo levatane la pellicola, indi pestate in mortajo s’impastano col medesimo lievito, e col resto della farina, non mettendovi acqua, servendo d’acqua la loro umidità, e ben impastate colla farina, se ne fa il pane, e lievitato secondo il bisogno si fa cuocere. Il suddetto pane è di un ottimo gusto, avendone molte volte fatto fare per i miei domestici, a’ quali tanto piace, che spontaneamente ne mangiarebbero sempre; com’è piacciuto a chiunque ne ho fatto gustare, e che medesimamente presento alle Signorie Loro […] con alcune patate crude, ed altro pane fatto con metà delle medesime, e metà di farina di grano turco, il quale servir potrebbe tanto per i coloni, che per gli operaj di città. Ha questo poi di singolare, che tal quale si conserva anco per lungo tempo, ben lontano ad incontrar durezza, come a divenir muffato. Di queste pure se ne fanno moltissime vivande, come consumasi in Francia, in Germania, Fiandra, Inghilterra, ed America; e fra le altre si fanno frittelle, bignè, tagliatelle &c. Queste faranno ottima lega con qualunque altre sorte di farina, cioè d’orzo, e segala &c”. Segue il giudizio – espresso sulla dissertazione di Bignami – dei bolognesi Gaetano Lorenzo Monti e Giovanni Angelo Brunelli. Il primo, curatore dell’Orto botanico già dal 1733, si addottorò in filosofia e medicina privilegiando lo studio della storia naturale. Occupò la cattedra di botanica dal 1782 fino alla morte. Il secondo, astronomo e scienziato, collaborò all’attività dell’Osservatorio astronomico dell’Accademia delle scienze. Nel 1755 fu chiamato a far parte della prima Commissione incaricata di disegnare i confini tra i possedimenti spagnoli e portoghesi in America del Sud tra il 1753 ed il 1761, dove si trattenne arrivando a pubblicare alcuni suoi lavori sull’Amazzonia, uno dei quali dedicato alla manioca (De mannioca, pubblicato nel 1767 in De Bononiensi Scientiarum et Artium Instituto atque Academia Commentarii, v. 5/2, p. 334-344), in cui descrive i metodi di coltivazione della radice e la sua lavorazione a scopi alimentari. Si fermò in Portogallo, dove fu inizialmente professore di arit-

In queste pagine e pagina seguente: Tomaso Cassani, “Adi 30 giugno anno 1683 / Pianta e misura d’uno luocho posto nel Commune di S. Paolo di Ravone / Contà di Bologna posseduto dal Sig.r Nicolo Arnoaldi il quale è / Tornature 26 Tavole 126 Piedi 50 et è di Terra lavorativa casaliva / vidato arborato moreto prativo ortivo et altre qualità con ara / pozzo stalle teggie casa per pradoni et da coloni / et altre; qual mappa e pianta è stata / formata dà mè sotto il suddetto”, 1685, Tavola XI, particolari. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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metica e geometria all’Accademia Reale della Marina e, successivamente, di filosofia e matematica al Collegio dei Nobili. Nel 1769 fece rientro a Bologna dove proseguì l’attività scientifica. Così si espressero:“Il giudizio, che intorno a ciò abbiam creduto potersi formare, e che ora ci diamo l’onore di partecipare alle Signorie Loro […] si è, che la introduzione di queste patate possa, e debba riguardarsi come utile, e profittevole; essendo per somministrare un nuovo genere di alimento di approvata salubrità, onde sovvenire in qualche modo alla scarsezza de’ grani negli anni più penuriosi. I nostri maggiori ebbero cognizione di questa pianta, come si prova dal vederla chiaramente specificata in una descrizione del Giardino pubblico di Palazzo, data alle stampe l’anno 1657 dal professore bottanico di quel tempo, Giacinto Ambrosini: e se essi mostrarono soltanto di pregiarla per titolo di rarità, né mai si avvisarono di accomunarla col popolo, ciò fu per averla stimata alquanto ritrosa ad allignare, e a propagarsi in questo clima, del che ora abbiamo chiarissime prove del contrario […]”. (zz) Paci 2003

La ‘piantata’

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È l’antico modo di coltivare la vite, tipico del paesaggio padano: non potendo sostenersi da sola, la pianta veniva ‘maritata’ a un albero tutore, solitamente l’olmo o l’acero, ma a volte anche il pioppo e il gelso. La piantata emiliana si distingueva per la regolarità dei campi, delimitati sistematicamente da fossati (le cavedagne). Nel 1550 il frate domenicano Leandro Alberti così li tratteggia nella sua opera Descrittione di tutta Italia (p. 262): “Scendendo alla via Emilia, & caminando per mezo della amena & bella campagna di vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnati, ornata” e più avanti (p. 290) “Et eziandio si veggiono arteficiosi ordini di alberi sopra i quali sono le viti, che da ogni lato pendeno, onde se tragge ogni generatione de vino cioè bianco, vermiglio, dolce, austero, fumoso & piacevole”. I vantaggi che comportava la piantata erano diversi, infatti si potevano avviare contemporaneamente più colture: la vite, i seminativi e il foraggio. Le viti, tenute alte dagli alberi, esponevano i grappoli alla massima insolazione, necessaria alla corretta maturazione, garantendo un minimo di umidità e diminuendo così i rischi delle muffe. Inoltre le foglie degli alberi, raccolte quando erano ancora verdi, costituivano un’ottima integrazione alimentare invernale per le mandrie. La descrizione più esaustiva della piantata risale al XVII secolo, ad opera di Vincenzo Tanara (L’economia del cittadino in villa, 1644, p. 86): “Li fili d’arbori, o piante, che sostentano le viti sono più frequenti in queste parte […], e con utilissima ragione, poiché con questi non s’occupa, o impedisce parte alcuna di terreno, che non si possi lavorare e cavarne frutto, anzi dallo stesso lavorare, che per altro si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui mantengono, e sostentano la vite, e col mezo di questi le allunghi, e dilati tanto, che rende più frutto un filo di questi arbori, o vogliam dire una piantata bene avitata, che non fa una viga [sic]: porgono ancora dilettatione alla vista per la rettitudine, & il prospetto dell’uva, quale alta da terra in abbondanza, si vagheggia; servono per comodità di separare un campo dall’altro, con la cui regola si lavorano, e seminano, & in due modi le vediamo disposte, uno è in filo d’arbori in mezo del campo, nel quale semplice; lungi l’uno dall’altro otto, o dieci piedi, si piantano detti arbori, havendovi prima fatto un fosso, o buche, come nel modo di piantar’ arbori diremo, e questo al sicuro in egual sito, terreno, & arbori bassi contende con la vigna in produr uva perfetta, e buon vino”.


Dissertazioni

47.

Paolo Benni

(Bologna, sec. XVIII-XIX) Osservazioni sopra la coltivazione delle patate o pomi di terra praticata nell’alta montagna da Paolo Benni e riflessioni intorno ad esse in risposta di quesiti fattigli dall’egregio professore d’agraria signor Giovanni Contri nella pontificia Università di Bologna. Bologna, tipografia Ramponi, 1817. [8], 39, [1] p. ; 8°. – Segn.: π4 1-28 34. Bologna, BA Goidanich (Antichi 103)

Ricco possidente e stimato orologiaio, è considerato a pieno titolo uno dei pionieri della coltivazione della patata nel territorio bolognese, lo stesso Giovanni Contri attinse da lui molte delle sue informazioni, come dimostra questo opuscolo, pubblicato in poche copie lo stesso anno dell’Istruzione agli agricoltori del professore di agraria. Scritto in forma di dialogo, si apre con una serie di domande che Contri pone al suo interlocutore che è ricco di una esperienza di sedici anni nella coltivazione delle solanacee, condotta in uno dei suoi fondi di montagna. Alle domande da quanto tempo, in quale luogo abbia cominciato la coltivazione dei ‘pomi di terra’ e quali osservazioni abbia maturato fino a quel momento, Benni così risponde (p. 1-2): “Fino dell’anno 1800, fatale per la carestia, fu intrapresa da Paolo Benni [l’autore inizia parlando in terza persona] la coltivazione dei pomi di terra, ossiano patate, nel Comune di S. Giorgio di Valle di Sambro. Prevedendo sino d’allora, e conoscendo l’avversione dei contadini alla coltivazione di questa pianta; furono da esso indotti a metterle fra mezzo al formentone; mentre così colla stessa fatica coltivavano, e rincalzavano l’uno, e l’altro assieme, senza che quasi se ne risentissero. Fu con buon successo ottenuto in questo modo una discreta raccolta, e fu di più osservato, che non pregiudicavano in verun modo il formentone stesso, dalle più convincenti prove di averne molte fila frammezzato con patate, e poi altrettante senza di queste; a colpo d’occhio si vidde, che il formentone era dello stesso valore, e della stessa bellezza, tanto dove trovavasi solo, quanto dimezzato da quelle. Fu anzi osservato che le più belle patate furono quelle, che per combinazione erano internate nella radice medesima della pianta del formentone stesso, e così pure la pianta medesima del formentone era d’egual valore in proporzione delle altre che n’erano prive”. Questo risultato incoraggiò anche i coloni dei poderi vicini a sperimentare la coltivazione promiscua delle due piante, ma quasi tutti abbandonarono l’impresa poco dopo. Solo Benni proseguì senza esitazioni, convinto della bontà del prodotto, anche se poi era smerciato a “vilissimo prezzo” o destinato al mantenimento del bestiame, specie delle vacche (che aumentavano la quantità di latte), delle pecore, del pollame e dei maiali dei quali “Taluno […] fu da prima schifo di questo cibo, ma quando furono passati pochi giorni, senza somministrargli altra sussistenza, ne divennero tutti eccessivamente ghiotti. Ho veduto questi alimentarli in tutto il corso d’inverno con il cibo delle sole patate; nel successivo autunno e precisamente al tempo della ghianda, abbandonare le quercie, 137


sotto delle quali cibavansi di essa, e fuggire nel formentone dimezzato da queste, a derubarle a preferenza della ghianda, naturale suo cibo” (p. 15). Di grande valore economico risultò pure l’amido ottenuto da Benni, che aveva perfezionato anche alcuni macchinari per facilitare le operazioni di estrazione. “Oltre alla bellezza, e bianchezza, come la neve, di questo amido, sebbene di un fusto meno tenace di quello di frumento, se gli dà il pregio di non corrodere in verun modo a la biancheria la più fina, ancorché per lungo tempo si lasci compiegata negli armadj ove vien custodita. La ragione è fisica. L’amido di grano è fermentato, e marcito, e diventa un corrosivo applicato alla biancheria, segnatamente fina. Tale non è quello ricavato dalle patate”. La conclusione di Benni è quindi che “Non mi estendo a dimostrare la teoria della facilitazione di un tal ricavato, e di quanto benefizio saria negl’anni di carestia in risparmio di tanto grano, che si consuma a questo solo oggetto, e che potrebbe servire di sfamo alla popolazione; interpellato come pratico, darò la direzione di un tal lavoro, e mi presterò di buon animo per il bene comune, tale dovendo essere lo scopo dell’uomo sincero” (p. 17-18). (zz)

48.

Giovanni Francesco Contri (Bologna, 1788 – 1860)

Istruzione agli agricoltori della provincia di Bologna sul coltivamento e gli usi de’ pomi di terra. Bologna, tipografia di Luigi Gamberini, e compagno stampatori arcivescovili, 1817. XII, 62, [2] p., [1] c. di tav. ripieg. ; 8°. – Segn.: π6 [1]8 2-48. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Ambrosini Op.4.293 A. Prov.: Raimondo Ambrosini)

Nel 1817 il cardinale Carlo Oppizzoni, arcivescovo di Bologna dal 1802, preoccupato per le conseguenze drammatiche della recente carestia sulla popolazione bolognese (soprattutto quella di montagna), si rivolge a Giovanni Francesco Contri, ingegnere e agronomo, perché scriva un testo ‘sui pomi di terra’ per incoraggiarne la coltivazione. Contemporaneamente, il 19 febbraio emette una circolare (contenuta nelle p. VII-XII) indirizzata ai vicari foranei della diocesi di Bologna in cui spiega il suo intendimento: “La coltivazione de’ pomi di terra, ossia delle patate, ci si è offerta naturalmente al pensiero, e vedemmo subito che, ove fosse ella seguitata nel territorio bolognese, sarebbe questa la migliore, e fors’anco l’unica maniera per allontanare da noi il terribile flagello della carestia. Ed ecco il perché noi abbiam divisato di mandar a V.S. la presente Istruzione sulle patate, la quale dietro nostro particolare invito, è stata stesa a bella posta da un Professore, il quale accoppia alle molte cognizioni dell’arte sua il più caldo desiderio di giovare a’ suoi concittadini. La ragione poi per la quale Noi abbiam giudicato di accompagnare questa scrittura agraria colla presente circolare, e di indirizzare l’una, e l’altra a V.S. ella è perché, veduto prima bene l’argomento, possa V.S. nella sua qualità di vicario foraneo, tenere diligentemente proposito su di ciò coi parrochi a Lei soggetti, e questi stessi possano quindi trasmettere a’ loro Parrocchiani 138


Dissertazioni le utili cognizioni, che sulla scorta del Libretto avranno concepute, trattandone prima diffusamente con Lei […] La gente specialmente di campagna vuol esser convinta più dai fatti, che dal raziocinio. Or qui i fatti son grandi, comuni, evidenti, il pomo di terra, è un frutto, che in una gran parte d’Europa è ormai conosciuto, e studiosamente coltivato. Guai a tante, e tante popolazioni, cui fallì in quest’anno, siccome a noi, il ricolto delle biade, guai se non fossero venute le patate a prontamente soccorrerle!”. Fu grazie agli studi e all’impegno di uomini come Contri che la patata riprese ad essere coltivata dopo il precedente tentativo di Pietro Maria Bignami che era rimasto però nell’ambito del ‘cibo di emergenza’ più adatto semmai agli animali che all’uomo. Con il lavoro di Contri, suffragato da quello di Giovanni Antonio Pedevilla che nel 1789 aveva pubblicato i Principii di agricoltura e di Filippo Re, il pomo di terra abbandonò definitivamente il terreno limitato dell’orto per trasferirsi a pieno titolo nei campi. Scrive Contri nella sua introduzione: “Per servire a’ venerati comandi della Eminenza vostra mi sono dato a scrivere la presente Istruzione nel modo di coltivare i pomi di terra. Conoscendo l’utilissimo scopo, ch’Ella si è proposto nell’affidare a me questo incarico, ho procurato di valermi della maggior possibile chiarezza, e semplicità, ommettendo tutto ciò che può esser riguardato puramente scientifico, ed a questo preferendo le notizie pratiche più valevoli, ed efficaci a persuadere la comune degli agricoltori, cui tale Istruzione è principalmente diretta. Ora pertanto, considerando lo stato attuale e le circostanze in cui trovasi spesse volte questa Provincia, si può riconoscere presentemente la medesima nello stesso caso per riguardo a pomi di terra in cui fu un giorno rispetto al formentone. Quantunque nel frumento, e nel formentone si abbiano due prodotti di natura alquanto diversa, per cui il raccolto dell’uno può sperarsi, e talora si ottiene in fatto, quando pur manchi quello dell’altro, nondimeno spesse volte accade che siano scarsi ambidue, e non bastino insieme per fornir l’occorrente, e per far fronte al bisogno. Ciò ha indotto gli avveduti agricoltori a ricercare un terzo genere di qualità analoga a quella degli anzidetti, ma di natura diversa in quanto alla vegetazione, ed alla maniera di vita; e tale si è trovato senza dubbio nel pomo di terra. Questa pianta somministra colla sua radice una sostanza assai nutritiva, e sanissima di gusto piacevole, e di tal natura, che ben si panifica, e si converte in ogni sorta di vivande adatte alla frugalità del contadino, non meno che alle mense più laute, e più variate del ricco”. Alla fine dell’opuscolo si trova una “Tavola che dimostra quale

Carlo Berti Pichat, Istituzioni scientifiche e tecniche, ossia Corso teorico e pratico... Volume quinto, Torino, Utet, 1866, p. 118-119, v. scheda 13, (Modena, BCA Poletti),

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prodotto abbiano ricavato da’ pomi di terra nella Provincia di Bologna quegli industriosi proprietari, che quivi gli hanno coltivati nel 1816”, tavola che riporta i nomi degli ‘agricoltori virtuosi’ che hanno seguito per primi le indicazioni dell’ingegnere bolognese e danno qui conto della quantità e qualità dei loro raccolti. (zz) DBI, XXVIII, 540

Alessandro Volta, la pila e la patata Originaria dell’America centro-meridionale, una volta giunta in Europa la patata incontrò diffidenza e opposizione non solo in Italia. In Francia, per esempio, la sua diffusione è legata ad Antoine Augustin Parmentier, farmacista, agronomo e nutrizionista che la scoprì durante la guerra dei Sette Anni (1756-1763) e che la valorizzò in patria riuscendo a dimostrare l’infondatezza dei pregiudizi ai professori dell’Accademia di medicina di Parigi. Nel 1771 l’Accademia di Besançon aveva istituito un concorso dal titolo: Quali sono i vegetali che possono essere sostitutivi in caso di carestia rispetto a quelli di impiego comune e la loro preparazione. Parmentier redasse una memoria rimasta celebre sull’uso fatto mentre era farmacista al seguito delle truppe in tempo di guerra. La memoria fu premiata nonostante una legge del parlamento accusasse il tubero di trasmettere infezioni. Divertente e nello stesso tempo fruttuoso fu il trucco da lui escogitato per convincere i contadini francesi piuttosto diffidenti verso la consumazione del tubero che, pure, regolarmente coltivavano nelle terre dello Stato. Parmentier fece inviare militari armati a presidiare, dall’alba al tramonto, i campi coltivati a patate; i contadini si convinsero trattarsi di cibo prezioso e cominciarono a rubarle di notte, avviandone il consumo. In Italia, uno dei primi uomini di cultura a incoraggiarne la coltivazione e l’utilizzo fu Alessandro Volta che ne venne a conoscenza nel 1777 durante un viaggio attraverso la Svizzera, l’Alsazia e la Savoia e ne portò con sé al rientro in patria. Achille Campanile ne parla con la sua consueta arguzia nel capitolo dedicato allo scienziato piemontese delle sue Vite degli uomini illustri (Milano, Rizzoli, 1975): “Prima che in Italia, era stata introdotta in altri Paesi d’Europa e a portarla tra noi fu Alessandro Volta. Pensate, il grande fisico comasco, non contento di averci dato la pila, ci diè anche – per così dire – un possibile contenuto di essa; usando qui la parola pila nell’accezione, comune in alcune regioni d’Italia, di pentola. E in questo senso bisogna dire che in un modo o nell’altro Alessandro Volta, con la pila e la patata, provvide a gran parte del fabbisogno delle cucine; e che, se doloroso sarebbe avere la pila senza la patata, ben più imbarazzante sarebbe avere la patata senza pila”.

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Dissertazioni

49.

Alberto Bacchi della Lega (Faenza, 1848 – Bologna, 1924)

Caccie e costumi degli uccelli silvani. Città di Castello, S. Lapi tipografo-editore, 1892. 376 p. ; 19 cm. Bologna, BCasa Carducci (6. a. 133)

Laureatosi in giurisprudenza a Bologna nel 1869, grazie ai suoi interessi letterari e specificatamente bibliografici, entrò a far parte del personale della Biblioteca Universitaria nel 1886 con il titolo di sottobibliotecario. Fu molto amico di Carducci che lo chiamava Bacchilide e che, stimandolo, gli propose di entrare a far parte, in veste di segretario, della regia Commissione dei testi di lingua (associazione con dimensioni nazionali, fondata a Bologna nel 1860 da Luigi Carlo Farini – all’epoca governatore delle province dell’Emilia – e da Antonio Montanari, ministro della pubblica istruzione, per rintracciare e divulgare le opere degli scrittori italiani del ‘300 e del ‘400). Fu amico anche di Olindo Guerrini e di Corrado Ricci, con i quali lavorò come segretario di sezione nella Esposizione emiliana che si tenne a Bologna nel 1888 (v. box). Oltre ai due lavori di argomento ornitologico (le Caccie e costumi degli uccelli silvani e il Manuale del cacciatore dell’uccelletto) produsse diverse bibliografie (dei testi di lingua a stampa nel 1878, dei vocabolari dei dialetti italiani l’anno seguente), redasse gli indici della Bibliografia dantesca di Colomb de Batines (nel 1883) e completò, insieme a Lodovico Frati, l’Indice degli incunaboli della Biblioteca Universitaria (nel 1889) compilato da Andrea Caronti. Curò anche la pubblicazione di alcuni antichi testi italiani dei bolognesi Sabadino degli Arienti, Gaspare Nadi, Lodovico Varthema, Vincenzo Tanara e altri nella collana “Scelta di curiosità letterarie inedite o rare” edita dalla Commissione per i testi di lingua. Di Vincenzo Tanara curò la pubblicazione del manoscritto conservato dalla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio La caccia degli uccelli (Bologna, 1886) di cui Bacchi della Lega dice nella prefazione: “Due cacciatori bolognesi, Vincenzo Tanara, e Bartolomeo Alberti detto il Solfanaro, non contenti di aver esercitata da valorosi la piacevole arte, vollero insegnarla anche ai loro concittadini e ne scrissero due grossi volumi; ma i poco curanti concittadini li lasciarono fino ad oggi dormire, ignorati o quasi, uno nella Biblioteca Comunale […], l’altro nella Biblioteca Universitaria […] I tre libri della caccia di Vincenzo Tanara, i quali avrebbero dovuto far seguito

Tavola I raffigurante le reti per la cattura degli uccelli, in Bartolomeo Alberti, Il cacciator bolognese. (Bologna, BUB) 141


alla celebrata Economia del cittadino in villa, rimasero sempre inediti, quantunque in molte ristampe dell’Economia stessa gli editori promettessero di darli in luce; e il prezioso manoscritto che li conteneva fu conservato dai discendenti dell’autore fino all’anno 1850, in cui, per cortese dono della marchesa Elisabetta Tanara ved.a de’Buoi, entrò nella Biblioteca Comunale della nostra città”. Le caccie e costumi degli uccelli silvani costituiscono una piccola enciclopedia – preceduta da un ricco Saggio bibliografico di testi che trattano lo stesso argomento – dove si possono trovare volatili dei boschi descritti minuziosamente e per ognuno di essi è indicato il modo migliore per catturarli. Dell’averla maggiore (p. 43 e segg.), dopo aver dato il nome scientifico e quello con cui è chiamata a Bologna (Buferla grossa) e a Faenza (Farluton) scrive che “Entrò nei fasti della falconeria, quando la falconeria era in fiore, e non ne fu ultimo vanto. L’addestrarono a cacciar gli uccelletti portandola sul pugno; la recarono nelle spedizioni grosse contro i falconi, contro gli sparvieri e gli astori, perché dotata di vista acutissima, col grido annunziava la comparsa del rapace nell’alto dei cieli”. Alcune specie sono oggi sconosciute o quasi, del piccolo ‘ortolano’ (Emberiza hortulana), per esempio, Bacchi della Lega scrive (p. 292): “[…] La gloria dell’Ortolano è finita. Dello splendore di Bologna si è perduta fin la memoria. Non più serbatoi, non più camerini con centinaia di prigionieri, amorosamente custoditi; non più raffinatezze di petti ingrassati, di pelli tagliate in lasagne, di cervelli stemprati in crostini. Non più scatole di Ortolani, spediti per il mondo intiero, e per il mondo intiero celebrati; petits pelotons de graisse délicate, appetissante, exquise, come li predica il Buffon. Ora con qualche cenno storico cercherò di rinnovare la memoria di colui che fu, come ho detto in principio, lo splendore di Bologna. Trovasene in diverse parti d’Italia, ma particolarmente in Toscana sul Bolognese. Cosi l’Olina fino dal 1622. Dopo di lui il Tanara (nel 1650 circa) scrive che l’Ortolano [...] porta più splendore a Bologna che altro uccello, per la quantità che se ne manda l’inverno per tutte le parti del mondo, e per l’utilità, perché molti vivono della caccia di quest’uccello. Dopo il Tanara la faccenda s’era alquanto mutata, ma era sempre viva. Quel buon praticante del secolo scorso, Bartolomeo Alberti detto il Solfanaro, c’insegna che qui nel contado gli uccellatori del suo tempo adoperavano contro gli Ortolani tanto le reti, quanto le ragne… Finisco con un sospiro di desiderio a tutte le ghiottonerie che i nostri vecchi cavavano dagli Ortolani cosi affogati nel grasso; alle polpette di carne disossata; alle lasagne di pelle secca e tagliata a striscie; alle crostate di petti minuzzati; ai cervelli distesi sui crostini. Di tali fantasie degli Apicii bolognesi non rimane più nemmeno il ricordo: ma del commercio si tenta ancor qualche cosa. In uno di questi ultimi anni, nelle beatitudini dell’Appennino Toscano, e propriamente a Trebbio, distante da Modigliana quattro miglia, il parroco don Giovanni Monti prese grandi quantità di Ortolani, li ingrassò in camerino, e grassi, pelati, infarinati, posti in scatole (come insegna il Tanara), li vendette al prezzo di una lira per capo. L’esito fu ragionevole, ma ormai hanno levato all’onesto prete l’utile e il gusto: perché il nuovo regolamento della caccia per quelle montagne ne determina l’apertura al 20 di agosto e al 20 di agosto gli Ortolani di lassù sono quasi tutti partiti. 142


Dissertazioni Il culto dello splendore di Bologna dunque ha ancora da rifiorire”. La Biblioteca Universitaria possiede anche il manoscritto di Bartolomeo Alberti Il cacciator bolognese overo Brevi notizie intorno alla generazione delli uccelli, e a varj modi più facili o sicuri per prenderli in buon numero. Opera di Bartolomeo Alberti Bolognese, detto il Solfanaro. Utile a veri indagatori delle cose naturali, ed utilissima a chiunque vuole istradarsi nell’esercizio dilettevole di Cacciatore. In Bologna per […] Ad excell.m d. doc.m Giraldi ut videat, fr. Io.V. M.a vic.us S.O. Bon.iae. Die 8 Januarij 1716.Vidit et admitti posse censuit. Jo. Bapt. Gyraldus pro santissima inquisizione revisor ordinarius (Ms 96, manoscritto cartaceo in folio, di 64 p. numerate, proveniente dalla Biblioteca marsiliana). Di Alberti si sa pochissimo: bolognese, vissuto tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, era soprannominato il ‘solfanaro’ (venditore di solfanelli, fiammiferi). L’opera è di grande interesse anche perché corredata da 48 incisioni raffiguranti scene di caccia e trappole per uccelli, accompagnate quasi tutte dai rispettivi disegni preparatori. Scrive Bacchi della Lega a tale proposito (p. 7-8): “Le rappresentazioni di tutte le caccie descritte sono la parte più attraente del Codice; e vengono appresso in numero di quarantacinque, finite a penna e a matita con molta disinvoltura. Portano numeri romani, da I a XLV. Sono precedute da due tavole, della stessa mano bensì, ma escluse dal novero generale; le quali fanno da introduzione […] È notevole che tanto queste due tavole, quanto le prime ventidue delle numerate (meno la ventunesima) sono state incise in legno; e le prove delle incisioni, con vari pentimenti, si trovano unite nel libro alla tavola originale, quasi sempre in doppio esemplare. […] La tavola XLV, Del pigliar i Tordi alla formara, è ripetuta in due carte”. Nel 1929 l’opera fu stampata per la prima volta, dalla Editrice Compositori, in 410 esemplari numerati, per cura di Giulio Brighenti. (zz)

Bologna e le sue Esposizioni. 1888. Pubblicazione straordinaria della Illustrazione italiana, Milano, F.lli Treves editori, [1888] (Bologna, BC Archiginnasio)

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L’Esposizione Emiliana del 1888 Nel 1888 la prestigiosa rivista settimanale «L’Illustrazione italiana», che la casa editrice milanese Treves aveva cominciato a pubblicare nel 1873, offrì ai suoi lettori un numero speciale, come d’abitudine arricchito da un raffinato apparato iconografico, sull’Esposizione che si sarebbe tenuta a Bologna in varie sedi e che aprì i battenti domenica 6 maggio. L’iniziativa, come si può leggere già dalla prima pagina, veniva a coincidere con un altro avvenimento molto significativo per la città: “E siccome ogni storia ed ogni grandezza a Bologna, e tutta la sua vita antica appunto sta in questa massima gloria, così il risveglio che oggi le preparano le Esposizioni regionale d’agricoltura ed industria, nazionale di belle arti, internazionale di musica, procede anche dall’Università: perché questi avvenimenti ebbero origine e sviluppo appunto dalla proposta che, in seguito alla dotta memoria pubblicata l’anno passato dal dottor Corrado Ricci nella quale le origini dello Studio venivano fissate fra il 1076 e il 1090, si fece di commemorare quest’anno l’VIII centenario delle origini dello Studio”. L’Esposizione fu ospitata ai Giardini Margherita e all’inaugurazione presenziarono il re Umberto I, la regina consorte (cui era dedicato il parco cittadino, aperto ufficialmente nove anni prima) e il presidente del consiglio Francesco Crispi. Il complesso espositivo si articolava in tre settori: industria e agricoltura, musica e belle arti (collocate sulla collinetta di S. Michele in Bosco cui si accedeva con una funicolare). Il settore musicale era stato affidato ad Arrigo Boito, quello delle belle arti a Enrico Panzacchi. La commissione per l’agricoltura, le aziende rurali, la zootecnia e la floricoltura era costituita da Annibale Certani (presidente onorario), da Cesare Marchi (presidente effettivo), e dai segretari Pompeo Goretti, Gino Cugini, Alberto Bacchi della Lega e Giuseppe Berti. Direttore dei lavori fu nominato Filippo Buriani che progettò tutti i grandi padiglioni, come quello della Ditta Buton, della birreria Finzi, o il lavoriero per la pesca delle anguille allestito nel laghetto del parco. Proseguendo, a p. 11 si legge: “Le industrie alimentari, che debbono essere caratteristiche di un paese che ha riputazione di abbondanza, presentano due importanti mostre: nel grande ottagono centrale della sala di lavoro la ditta Majani con apposite macchine confeziona il cioccolatte: e più oltre in un grande chiosco di forma molto elegante tutti i salumieri di Bologna hanno raccolti in una sola mostra i loro grassi e profumati prodotti: una gigantesca mortadella del peso di oltre un quintale e mezzo, presiede a quella saporita apoteosi del maiale”. Il palazzo e la mostra dell’agricoltura sono descritti così: “Questo allegro fabbricato tutto aria e luce, tutto arabeschi, colonnine, trafori, a cinque navate, si trova alla sinistra di chi entra nel Palazzo dei Concerti. E non contiene soltanto una esposizione di prodotti e delle industrie dei campi, così per contenerla; ma rappresenta in tutta la sua vigoria il concentramento delle forze agricole della nostra regione. E come indica al visitatore l’importanza commerciale di ogni coltura, così ne determina in metodo razionale il tornaconto. Ogni prodotto è accompagnato dalle indicazioni sulla sua quantità, sul suo valore, sull’avvicendamento, qualità, quantità e prezzo dei concimi che gli occorrono, insomma da tutto quel concorso di condizioni che aiutano a formarsene un esatto concetto. Le statistiche più accurate illustrano e completano queste mostre collettive. Quantunque il periodo di preparazione sia stato breve, nulla è trascurato di ciò che vale a completare la mostra. Coi prodotti principali figurano i prodotti dei boschi, dei frutteti, dei giardini e degli orti. La bachicoltura, la piscicoltura, l’apicoltura, la meccanica agraria sono largamente rappresentate […] Spigolo dal catalogo nomi di espositori e di prodotti esposti. Per le macchine agrarie il Benfenati, la Ditta Alessandro Calzoni, il Massarenti, il Brunetti, l’ingegnere Alberto Riva. Per i cereali il Gavazzi, il Serrazanetti. Per gli animali il Suppini, Carlo Berti, il marchese Ercole Pallavicini, i conti fratelli Spalletti, il Brazzetti, Angelo Sanguinetti, e molti altri. Frutta e fiori recano il Canè Giuseppe, il Casanova Alfonso, il celeberrimo Gnudi porta i suoi mirabili fiori. E Bacco? Baccus amat colles, e le nostre colline lo sanno. Il conte Riccardo Zorzi, il marchese Alessandro Bevilacqua, Cesare Conti, Pietro Bacchelli, Giulio Negroni, espongono le uve. Alessandro Calzoni, frantoio e torchio, Alessandro Galvani le solforatrici, Luigi Frontini i tini […] i fratelli Fortuzzi le botti”. 144


Dissertazioni

50.

Giovan Francesco Bonaveri (Bologna, sec. XVII-XVIII)

Istoria fisico naturale dello Stato delle valli di Comacchio. Ms. cartaceo; sec. XVIII 1a metà; mm 270x197; 816 p. num. con numeraz. moderna (4 p. n.n., 653 p., 3 p. n.n., 76 p. n.n., 60 p. n.n. + X tav.); le 76 p. contengono il Piccolo vocabolario di Comacchio; le 60 p. contengono l’Indice delle cose più notabili, contenute in questa lettera. Bologna, BUB (Ms. 315)

Della città di Comacchio, delle sue lagune, e pesche descrizione storica civile, e naturale divisa in tre parti dal dott. Gian. Francesco Bonaveri... Ed ora ampliata, coretta, e con varie note illustrata dal dott. Pierpaolo Proli Cesenate. In Cesena, per Gregorio Biasini impressor vescovile, e del S. Ufficio, 1761. VIII, 247, [1! p., [4] c. di tav. xil. ripig. ; fol. – Segn.: [1]4 A-Z4, Aa-Hh4. Ravenna, BC Classense (RAV. 78 5 X)

Scrive di lui Giovanni Fantuzzi: “Bolognese, e dottore di filosofia, e medicina, condotto per medico in molti luoghi con grido, fra’ quali a Comacchio. E nel soggiorno che ivi fece, scrisse una Istoria fisico naturale dello Stato delle valli di Comacchio, che donò poi Mss. all’Accademia delle Scienze dell’Instituto, della quale era socio, e che si conserva di presente fra’ Mss. nella Biblioteca di detto Instituto”. A Bonaveri si deve la descrizione attenta del lavoro frenetico di pesca delle anguille, ma anche di altre varietà di pesce. Nelle valli di Comacchio questa attività era molto praticata; tipici della zona erano (e sono) i casoni da pesca, capanne fatte di pali, paglia e canne palustri. Queste strutture servivano anche come punti di appostamento per la sorveglianza contro la pesca di frodo. Infatti la storia delle valli comacchiesi è stata ‘costruita’ sia dai vallanti – gli addetti ai casoni e ai lavorieri – sia dai fiocinini, i pescatori abusivi che avevano trasformato il furto di pesce in mestiere lecito da tramandare. Il lavoriero, come spiega lo stesso Bonaveri (p. 196-197) è uno strumento molto antico ma ancora molto efficiente, che permette di catturare le anguille separatamente dagli altri pesci “[…] si tirano due siepi una di qua, l’altra di là, le quali sono stivate, e fatte di vimini, e di virgulti. Nel principio sono dette siepi molto fra loro distanti, sicché vengono, come a formare la base di un triangolo. In queste, o sia nel mezzo, sta una nassa, o lavoriero da raccogliere il pesce, e questo lavoriero più tosto suole porsi in uso, nel quale da se calando a seconda del fiume vanno a impri-

Lettera autografa di Giuseppe Garibaldi, datata Caprera 31 dicembre 1861, nella quale il Generale ringrazia il signor Savini per la cassetta di anguille ricevuta (Ravenna, BC Classense)

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gionarsi le anguille non solamente, ma gli altri pesci ancora […] Anche al presente vi si praticano due parti di grisole, che dalle sponde si partono, e vanno a combaciarsi nel mezzo, facendo capo in un lavoriero quadrato, che è l’Excipula di Plinio, perché ammette, e dà libero l’ingresso al pesce, che vi entra, ma poi non vi concede libera l’uscita”. Come per il maiale nel resto della regione – e anche altrove – a Comacchio e dintorni dell’anguilla non si buttava via niente: con la pelle essiccata si facevano i lacci da scarpe, le teste e le code venivano consumate dai fiocinini o donate dai vallanti ai poveri; le trippe d’anguilla in umido erano considerate una prelibatezza da chi non poteva permettersi di meglio; non si gettavano nemmeno le lische, che venivano fritte. Persino il grasso che colava durante la cottura veniva raccolto e utilizzato per l’illuminazione oppure, mescolato all’olio, per friggere il pesce. La marinatura dell’anguilla consentiva (e consente) di conservare la ‘regina delle valli’ per tutto l’anno e di spedirla in tutto il mondo. Bonaveri ci tramanda anche la ricetta per cucinare l’anguilla (p. 185 dell’edizione cesenate): “Per ora contentatevi, che io vi spiega la maniera di cucinare il pesce all’uso di valle, e come si faccia quella vivanda, che col nome di Bruetto si chiama. In due maniere colà si pratica, l’una con gli aromati, e l’altra senza di questi. Quando sentirete a nominare da qualche Comacchiese la sola parola Bruetto intenderete tosto quello fatto semplicemente con molte anguille tagliate in pezzi per lo traverso, che volgarmente diconsi Morelli posti nell’acqua della stessa laguna entro un laveggio a bollire. Cotta, che sia l’anguilla la danno in tavola, sebbene il più uguale è quello fatto coi cavoli, o verze pigliando il più tenero, ed il più crespo, e posto a bollire assieme con l’anguilla. Egli riesce gustosissimo; ma solamente in valle, attribuendo molti la virtù all’acqua. Io però ne do il vanto all’anguilla viva, e subitamente levata dall’acqua, e alla loro abbondanza, che si ha in valle, per cui il suo brodo riesce grato, 146


Dissertazioni e sostanzioso. Quando poi il Bruetto è fatto colle Spezie, in tal caso cotta che sia l’anguilla, dissolvono in un mezzo bicchiere di aceto un cuchiaretto di speziaria, che colà comunemente si fabbrica con croco, coriandi, e zenzero, e bene sciolta la gettano nel laveggio, e poco dopo si porta in tavola […] Praticano pure di aprire pel lungo l’anguilla, o miglioramento, e poscia tagliata per traverso alla larghezza di tre deta con poco sale sopra, pongono que’ pezzi a cuocere a fuoco ardente su la graticola, e cotti li danno a tavola, ed è una delle squisite vivande, che in valle si mangia, nominandole bragiolette. La terza maniera di cucinare le anguille, o miglioramenti è quella di levar loro la pelle, tagliarle in pezzi, salarle, ed infilzarle nelle schidone. Gli buratelli hanno una forma di più delle anguille per essere cucinati, ed è quella di essere prima benbene battuti, e poscia o piegati, o distesi alla lungha sopra la graticola con poco sale aspersi, e cotti che sieno, bollenti portati in tavola. Aspersi con sugo di limone, o di arancio, e mangiati con mostarda sono squisitissimi”. Il manoscritto è corredato di una serie di eleganti tavole, fra le quali una in particolare raffigura il magazzino dove si lavorano i pesci cotti e salati. È presente anche un piccolo vocabolario di termini comacchiesi che costituisce uno dei primi esempi di repertorio di voci dialettali. La Biblioteca Classense possiede anche un cospicuo numero di lettere che Giuseppe Garibaldi scrisse a Giuseppe Savini (Jufina) per ringraziare lui e tutti i ravennati per le cassette di ‘buratelli’ che gli arrivavano frequentemente a Caprera e che ‘l’eroe dei due mondi’ chiamava ‘esaltanti anguille’. (zz) Sorella anguilla 1990

Magazzino dove si Fabbricano i Pesci Cotti, e Salati, in Giovan Francesco Bonaveri, Istoria fisico naturale dello Stato delle valli di Comacchio, Tavola V, (Bologna, BUB) 147


L’anguilla ‘rivestita’ di Messisbugo Piglia miglioramenti [le anguille più grosse] freschi, e scorzali, e fa lavare a più acque le scorze, poi salvale, ponendo a bogliere i miglioramenti in morelli, e come seranno ben cotti, li pigliarai, e ponerai nel mortaio, riservando i pezzi delle spine da banda, e il buono ponerai nel mortaio con poche mandole ambrosine pellate, e zuccharo, e canella fina, uva passa, et herbe oliose, et il conveniente sale, e pesta bene ogni cosa insieme, poi piglia pezzi delle scorze grandi come i morelli [pezzi], et empili del detto pastume, ponendoli nel mezo i pezzi delle spine, e con lo ago li cuserai da i capi, e ponerai allo spiedo colle stecche, tanto che si cuoca la pelle, et cotta che serà, tagliarai da i capi i reffi. Poi le imbandirai, ponendoli sopra zuccharo, e canella, e poco sale. Da Cristoforo Messisbugo, Banchetti compositioni di viuande, et apparecchio generale, In Ferrara, per Giouanni De Buglhat et Antonio Hucher compagni, 1549 (c. 60v)

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Luigi Savani

(Modena, 1754 – 1837) Modo pratico per conservare le api e per estrarre il mele senza ucciderle dell’avvocato Luigi Savani. Milano, dalla tipografia di Giovanni Silvestri agli scalini del Duomo, n.º 994, 1811. XIV, [2], 152, [2] p., [4] c. di tav. ripieg. : ill. ; 8º. – Segn.: π⁸ 1-9⁸ 104 χ1. Modena, BF S. Carlo (A VII 16)

Dopo aver esercitato per diversi anni la professione forense, nel 1807, pur non abbandonando la sua attività, si ritirò nella villa di Spilamberto dove si diede alla pratica dell’agricoltura. Oltre a questo trattato sulle api, scrisse anche una Istruzione pratica per la formazione de’ prati artificiali di sano fieno, di erba medica e di trifoglio (Modena, 1819), con la quale concorse al premio – che vinse – proposto dalla Facoltà di agraria dell’Ateneo bolognese. Fu anche socio dell’Accademia dei Dissonanti alla corte di Francesco II Este, duca di Modena. Nella lettera dedicatoria, indirizzata a Filippo Re perché ne desse divulgazione, l’autore dichiara la sua intenzione di “scrivere qualche cosa intorno alle api, e precisamente una pratica istruzione per ben governarle […] onde ottenere dalle medesime il maggior possibile vantaggio, e per invogliare altri ad educarle: dimostrando il lucro che render ne possono, ed i sommi vantaggi eziandio che i loro prodotti arrecano alla salute ed all’erario; giacché qui il mele di drogheria è asceso sino ad una lira e quindici centesimi per ogni nostra libbra, cioè paoli due e un ottavo per libbra modonese”. Il miele è stato per secoli praticamente l’unico dolcificante disponibile: i “bugni villici” (rozze arnie costruite con materiali vari come tronchi d’albero, rocce, stuoie ecc.) erano presenti un po’ ovunque sull’Appennino, dove esisteva un contratto particolare (la soccida), secondo il quale il 148


Dissertazioni proprietario delle api cedeva all’affittuario il primo sciame e le attrezzature necessarie, mentre il prodotto risultante veniva poi diviso in proporzione fra le due parti. In questo lavoro si descrivono nuove tecniche per la salvaguardia della vita delle api stesse, che nei tempi passati venivano frequentemente uccise ad ogni raccolta del miele. Nella stessa opera si cita anche un intervento di Ludovico Antonio Muratori – tratto dal XVI capitolo Della pubblica felicità – nel quale lo storico e scrittore dichiara (a p. 209) che “dovrebbe ogni Principe far qualche regolamento non coattivo, né soggetto a pene pecuniarie, acciocché tanto i padroni quanto i villani in ciascun podere […] tenessero pecchie [api], e sapessero la maniera di governarle e custodirle; spese non costa questa mercanzia, solamente richiedono attenzione, se ne ricava tanto guadagno”. Sul carattere innovativo della sua tecnica di raccolta del miele senza recare danno allo sciame scrive ancora Savani (a p. 14): “Quando io intrapresi ad introdurre ne’ miei poderi il metodo di estrarre il mele e la cera senza uccidere le Api, e di educare queste a norma delle pratiche che venivano proclamate più vantaggiose, ma però contrarie all’uso invalso che era quello di ucciderle, chi gridò scelleraggine, chi si strinse nelle spalle e chi malignamente col gomito percosse il vicino: me ne avvidi e procurai bene di procedere in guisa che nessuno scandalo ne venisse; a tale effetto, prima di procedere ad alcuna operazione nelle arnie, cominciai col ben guarentire gli operaj con cappuccio, con guanti e camiciotto di grossolana tela sino ai piedi in guisa di veste tallare; perocché, guai se alcuno di essi fosse stato ferito dalle Api; […] io intanto assiduo assistevo alla decimazione [estrazione del miele], ai tagli de’ favi attaccati dal tarlo, al travasamento delle intere arnie, e sempre senza cappuccio, senza guanti e senz’altro riparo, salvo che un poco di fumo di cenci di pannolino entro al vasetto […] e grazie al cielo niun male me ne è mai accaduto”. (zz)

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Albino Bonora

(Santa Maria Codifiume, 1814 – Budrio, 1867) Intorno ad un esperimento di allevamento delle api nel bolognese e ferrarese: nota letta nella Società agraria di Bologna dal socio ordinario Albino Bonora. Bologna, tip. del Gior. di agricoltura del Regno d’Italia detta degli agrofili italiani, 1865. 17 p. : ill. ; 22 cm. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sassoli.OP.300.2245. Prov.: Tommaso Sassoli)

La famiglia Bonora proveniva da Santa Maria Codifiume (in provincia di Ferrara) dove possedeva terreni. Per poter educare degnamente i tre figli Severino, Saturnino e Albino, i genitori acquisirono una residenza anche a Bologna (attorno al 1820 abitavano in via S. Felice, nel tratto diventato via Ugo Bassi) dove poi restarono tutti e tre i figli, nonostante il legame che continuarono a provare per la terra d’origine: Severino nella via di Mezzo di San Martino, fra via Malcontenti e Campo dei Fiori (la palazzina già della famiglia Biancani Tazzi, rasa al suolo nel 1884 per la 149


creazione di via dell’Indipendenza), Saturnino in Strada Maggiore 290 e Albino nella parrocchia di S. Bartolomeo. I Bonora possedettero poi anche il palazzo già Hercolani in via S. Stefano. Albino, che aveva dimostrato subito una particolare predisposizione per l’agricoltura (i suoi prodotti campestri e soprattutto le canape furono premiati in diverse esposizioni), che aveva una fabbrica di aratri a Budrio e che era proprietario di terreni, si interessò dei problemi – sempre attuali in un territorio soggetto periodicamente alle esondazioni del Reno – del riordinamento idraulico e partecipò attivamente alla pubblica amministrazione prima come consigliere, poi come sindaco di Budrio. Morì a soli 53 anni nella sua villa della Riccardina presso Budrio per una cefalite contratta a Billancourt, dove si era recato per visionare nuove attrezzature agricole.

Le api di sant’Apollinare A sant’Apollinare, che si festeggia tradizionalmente il 23 luglio, patrono di Ravenna e dell’Emilia-Romagna – essendone stato il primo evangelizzatore – è dedicata la grande Basilica paleocristiana di S. Apollinare in Classe. Al centro del mosaico che ricopre l’abside, sotto la croce, si staglia la sua immagine in cui spicca il manto d’oro (la pianeta), che secondo la leggenda era solito indossare, formato da duecentosette api. Tralasciando il significato simbolico sicuramente insito in questa rappresentazione, non si può comunque non pensare che la zona sia stata oggetto di un’apicoltura intensa. Nel 2013, per festeggiare i 1500 anni dalla fondazione della Basilica, il paese di Alfonsine ha affidato ad un artista l’incarico di strutturare il grande labirinto del mais (da qualche anno visitabile) in modo che ricordasse la forma delle api. Chi desidera sapere qualcosa di più su questi preziosi e delicati insetti, può visitare il Museo a loro dedicato presso l’Istituto nazionale di apicoltura, che ha sede a Bologna. 150


Dissertazioni Nella sua nota, letta presso la Società agraria, così esordisce: “Fra gl’insetti fino ad ora conosciuti, l’ape a parer mio, è quel solo che in grado eminente in sé riunisce con l’utile ancora il meraviglioso”. Anche lui si pone il problema, ancora esistente, di come estrarre il miele senza uccidere le api e lo risolve cambiando la struttura e il materiale con cui venivano costruiti gli alveari i quali, “usati comunemente da coltivatori nelle nostre campagne, per l’ordinario altro non sono che una porzione di tronco d’un vecchio albero scavato, e per lo più esteriormente tarlato, ovvero si formano con quattro pezzi di tavole di legno inchiodate a forma di cassa […] Pensando fra me medesimo come toglier di mezzo un così grave inconveniente, trovandomi alcuni anni or sono in Toscana, mi venne il pensiero di conoscere come colà si praticasse questa piacevole coltivazione. Recatomi da un ricco possidente presso a Pontedera, che aveva nome di valente agricoltore, vidi che in luogo di alveari alla nostra maniera, egli li aveva a cassette, e tenevali in un suo giardino accomodati in modo che servivano per giunta di adornamento a quella sua graziosa villa, e gli servivano di dolce passatempo” (p. 6-7). Seguono varie illustrazioni che contribuiscono a rendere ancora più chiara la spiegazione di come sono strutturate le cassette da lui proposte e adottate. L’esito di questa innovazione è evidente: “Due anni or sono, io volli in due luoghi diversi esperimentarlo, ed essendo riuscita la prova felicemente, credo di non fare cosa al tutto discara a questa illustre Società collo esporre tanto il modo da me tenuto, quanto il risultato […]”. (zz) Cenni biografici 1867

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Paolo Bonizzi

(Modena?, 18.. – 1881) I costumi delle api: lezione scientifico-popolare del Prof. Paolo Bonizzi. Lettura tenuta a Modena il 7 aprile 1870. Modena, Tip. sociale, 1871. 28 p. ill. ; 22 cm. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Silvani Op.300.3804)

Incisione nell’incipit del IV libro delle Georgica di Virgilio in cui si tratta dell’allevamento delle api, in Publio Virgilio Marone, Opera, Lione, Jean Crespin,1529, p. CCXXXIII, (Bologna, BC Archiginnasio)

Naturalista ed entomologo, insegnante nel regio Liceo di Modena, Paolo Bonizzi nel suo opuscolo descrive le abitudini delle api e fornisce anche indicazioni sul modo di porre rimedio alle loro punture: “[…] Assai facilmente dopo qualche tempo, si riesce ad avvezzarsi alle punture in modo da non provare più né gonfiezza né dolore. Molti sono i rimedi suggeriti contro la puntura delle api; uno dei più efficaci è una goccia di ammoniaca liquida; ultimamente è stata indicata la glicerina”. (zz)

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Pergamena di Marola. Ms. membranaceo; sec. XII (13 aprile 1159). Modena, ASM (Pergamene di Marola, b. II, n. 17)

Annibale Carracci, 47 Vende casio fresco, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Annibale Carracci, 73 Vende formaggio parmigiano, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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La cosiddetta Pergamena di Marola è un instrumentum, ossia un atto in base al quale l’abate di Marola, Giovanni, concede ai fratelli Giovanni, Domenico e Martino di Formolaria (oggi località in comune di Carpineti) due terreni di proprietà dell’Abbazia posti in Formolaria e in Campitello, “a livello”, ossia per la durata 29 anni con l’impegno di corrispondere un affitto e di effettuare opere di miglioria. Il testo è redatto in una scrittura carolina, è organizzato su 29 righe cui fanno seguito la sottoscrizione del notaio, i segni dei testimoni e le sottoscrizioni dei frati; è vergato da una sola mano, del notaio, in inchiostro bruno-scuro, ad eccezione della parte dove sono indicate le sottoscrizioni dei frati, vergata da mano diversa e in inchiostro bruno-rossiccio. Il documento è redatto “sub porticu casa de Maruola”, da identificarsi con una dipendenza del monastero di Marola ubicata a Corniano (comune di Bibbiano). Ciò che interessa è che l’affitto che i tre fratelli sono tenuti a versare ai frati comprende, oltre a tre soldi e mezzo di denari lucchesi, dei beni in natura e, tra questi, “tres aportos de formadio” (righe 19-20); questa espressione sarebbe la più antica attestazione del formaggio vaccino a pasta dura, da riferire alla “forma” rotondeggiante e, soprattutto, ben distinto dal “caseo”, termine utilizzato in altre pergamene coeve della stessa area, per indicare il formaggio di pecora (Arlotti 2008, p. 55). Esiste quindi una data di nascita ufficiale del progenitore del Parmigiano-Reggiano? Di certo il documento di Marola fornisce elementi utili per ricostruire la storia della produzione casearia nell’area appenninica reggiana. Sta di fatto che dopo appena due secoli un riconoscimento sicuro del formaggio vaccino a pasta dura prodotto in area emiliana lo fornisce nientedimeno che Boccaccio, che nella Novella terza della Giornata VIII, descrivendo la contrada di Bengodi, cita esplicitamente questo prodotto: “[…] eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato”. (ac) Arlotti 2008


Dissertazioni

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Gli elogi del formaggio

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Il percorso che ha portato alla codificazione dell’“identità” del Parmigiano-Reggiano, inteso come il formaggio vaccino a pasta dura prodotto a sud del Po, tra Parma e il Fiume Reno, ha trovato una tappa decisiva nella costituzione del Consorzio di tutela e nell’approvazione di uno specifico disciplinare: tuttavia si tratta di fatti avvenuti di recente, nel corso del Novecento. Prima di allora, e comunque dopo la Pergamena di Marola e la citazione del Decamerone, il formaggio parmigiano e il grana reggiano hanno goduto di una significativa fortuna nella letteratura specialistica e scientifica. Ecco due esempi. Un elogio al Parmigiano si ha nel Lexicon de partibus aedium, opera di Francesco Mario Grapaldi (Parma, 1460-1515). Umanista, allievo di Beroaldo, la sua vita fu divisa tra l’insegnamento delle huma‑ nae litterae, il culto della poesia e dei classici da un lato e l’attività pubblica dall’altro (ricoprì anche il ruolo di cancelliere del comune di Parma e gli furono affidate importanti ambascerie). La prima edizione del De partibus risale al 1494 e uscì a Parma per i tipi di Angelo Ugoleto; l’opera godette poi di grande fortuna e fu ristampata fino agli inizi del Seicento. Il lavoro è articolato su due libri, per complessivi 22 capitoli, ciascuno dedicato ad un’area o parte della casa antica: paries – vestibulum – ianua – atrium – peristylium; cavaedium (cortile); cella (cantina); cellarium (dispensa); hortus; piscina; leporarium (parco per la selvaggina); stabulum; ornithones (uccelliera); thermae; scale; coenaculum; co‑ quina; gynaecium; cubiculum; valetudinarium; sacellum; bibliotheca; armamentarium; granarium; turris. Le parti della casa sono minuziosamente descritte con l’ausilio di fonti classiche, sia tecniche (soprattutto Vitruvio e Celso), sia letterarie: l’opera risulta quindi una vera e propria enciclopedia che ricostruisce, idealmente, le forme e gli spazi della aedes in rapporto alle loro funzioni, quasi un prontuario di economia domestica; per questo rappresentò una sorta di manuale che ispirò gli architetti del Rinascimento. Il libro si sofferma anche a descrivere gli alimenti, la selvaggina e gli altri animali allevati, gli ortaggi e la frutta, gli oggetti d’uso in cucina e nella mensa. Nel cap. IV del libro I, dedicato al cellarium, laddove parla del caseus, Grapaldi fa un riferimento ai suoi tempi ed afferma che il primato della “nobiltà” dei formaggi va attribuito a quello della sua città, cui dedica un distico elegiaco dove il prodotto viene definito capolavoro non fatto dalle mani dei migliori casari dell’antichità, ma dal latte di Parma: «Prima nobilitas in Italia caseo datur Parmensi his temporibus […]. Hinc nos disticho: “Non me Vestinus pressit, non luna nec Hyblae / Bubsequa: sum Parmae nobile lactis opus”». Un secondo esempio di elogio interessa il formaggio prodotto nel Reggiano e risale alla fine dell’Ottocento, Jacopo Ravà nel suo saggio Il formaggio di Grana reggiano (Lodi, Tip. Costantino Dell’Avo, 1886) affermava: “La regione classica del formaggio reggiano è compresa da quella plaga di terreno, che ha per limiti a sud il piede dei colli, a nord la via Emilia ed in qualche punto si estende oltre questo limite che è segnata ad ovest e a est dai corsi del Crostolo e dell’Enza. Nella posizione più alta di questa zona, troviamo Bibbiano, che assieme alle terre limitrofe di Montecchio, Cavriago ed altre minori, ha il vanto di produrre il più squisito formaggio di grana di tipo reggiano. Non è qui il caso di discutere se il grana siasi fabbricato prima nel territorio di Reggio, oppure quello di Parma o di Lodi. Ammetto con il prof. Del Prato che a Noceto e a Fontanellato, in provincia di Parma, si facciano ottimi formaggi di grana, ma essi non possono competere con quelli fabbricati specialmente nel territorio Bibbianese”. Con queste parole il dr. Jacopo Ravà liquidava la questione del primato qualitativo del formaggio vaccino a pasta dura. Insegnante presso l’istituto tecnico di Bologna, Ravà era ben addentro alla materia, e lo dimostrano le sue diverse pubblicazioni in materia: L’acidità del latte in rapporto alla fabbricazione del formaggio (Lodi, Tip. Lit. Costantino Dell’Avo, 1887); Processo Schaffer per riconoscere il latte non adatto alla caseificazione (s.n.t.); L’analisi chimica e l’apprezzamento dei foraggi (s.n.t.). A proposito proprio di Bibbiano, un curioso aneddoto è chiaro indice della – peraltro giustificata! – autostima che i casari di quel luogo avevano delle proprie capacità: nel 1872 una singolare competizione si tenne proprio nella località dell’appennino reggiano: durante la locale fiera fu organizzata una gara tra casari, dalla quale erano però esclusi quelli locali, con una motivazione del tutto interessante: per manifesta superiorità! DBI, LVIII, 561-563; Vignali 2005


Dissertazioni

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Giovanni Buton e C. (distilleria)

Illustrazioni sulle specialità esclusive della premiata distilleria a vapore Gio. Buton e C. Bologna, proprietà Rovinazzi fornitore dell’imperial casa del Brasile della real casa d’Italia. Bologna, Tip. deli agrofili italiani, 1872. 21 p. : ill. ; 23 cm. – Estratto da: «Giornale d’agricoltura ecc. del regno d’Italia». Bologna, BC Archiginnasio (17.Artistica.M.2)

Il Dizionario Larousse degli alcolici e dei cocktails, compilato da Jacques e Bernard Sallé, riporta alla voce ‘Buton’ (p. 54): “Jean Bouton aveva a Gentilly [cittadina francese nella regione dell’Île-de-France] una fabbrica di liquori ed era fornitore dell’Imperatore. A seguito della caduta di Napoleone, anche Bouton cade in disgrazia e nel 1820 si varca il confine e giunge in Emilia Romagna, che sembra possedere caratteristiche geofisiche simili alla Charente, da cui provenivano i vini che Bouton utilizzava per la sua produzione oltralpe. E il vitigno più adatto il trebbiano bianco. A Bologna conosce Giacomo Rovinazzi, il titolare della pasticceria che aveva sede in via d’Azeglio 34. Con lui fonda nel 1830 la Distilleria Giovanni Buton & C. (italianizzando il proprio nome) per la produzione di liquori, con sede a Bologna in viale Pietramellara. I primi prodotti sono una crema cacao, l’Amaro Felsina e la Coca Buton. In pochi anni riceve numerosi premi e riconoscimenti internazionali per i propri prodotti. All’Esposizione universale di Parigi del 1900 il padiglione Buton riceve il Gran Prix con medaglia d’oro per la sua produzione. L’azienda si espande notevolmente ed arriva a produrre quarantacinque tipi di liquori diversi. Nel 1939 nasce il Vecchia Romagna Buton Cognac che verrà poi chiamato brandy”, questo perché una convenzione stipulata fra Italia e Francia il 28 maggio 1948 (ratificata dalla legge 766/1949) stabilì che dal 1° gennaio 1950 il termine ‘cognac’ avrebbe dovuto essere riservato esclusivamente ai distillati di vino prodotti nella regione omonima, il Cognac appunto. Tutti gli altri si sarebbero dovuti definire ‘brandy’. L’opuscoletto si apre con una breve introduzione storica: “L’origine della distillazione si perde nella notte del tempo, e soltanto se ne ha qualche traccia in secoli

Annibale Carracci, 70 Aquavitaro, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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Ditta Gio. Buton & C., Etichetta per l’Amaro Felsina, secolo XX (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Ditta Gio. Buton & C., Etichetta per la Coca Buton, secolo XX (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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assai remoti […] Gli arabi ebbero diffatti conoscenza esatta della distillazione, e tutto induce a credere che da essi abbia avuto l’origine sua […] Arnault di Villanova, nel 1240, sembra essere stato il primo che abbia insegnato a distillare il vino ed ottenere l’acquavite a cui si attribuiscono eminenti virtù. Questo nome di Acqua di vita gli conviene, egli dettava e scriveva, poiché è una vera acqua dell’Immortalità che prolunga i giorni, dissipa gli umori, rianima il cuore e conserva la giovinezza: sola od unita a qualche altro rimedio guarisce la Colica, l’Idropisia, la Paralisi, la pietra ecc. ecc.” proseguendo la lettura si incontra il padre della medicina, Ippocrate, che “compose il primo liquore aromatico, il cui uso venne adottato da quasi tutti i popoli civili sotto il nome d’Ippocrasse e conteneva vino, miele e cannella. Questo liquore, perfezionato da certo Alexix piemontese [si tratta del fiorentino Girolamo Ruscelli, vissuto fra ‘400 e ‘500, che scrisse i Secreti, ricette medicinali], si è tenuto moltissimo tempo in voga, di modo che fino al declinare del secolo passato la città di Parigi mantenne sempre l’uso di presentarne ogni anno in un determinato giorno alcune bottiglie ai suoi regnanti”. Il prodotto più famoso fu sicuramente il liquore denominato ‘Coca Buton’, derivato dalla distillazione delle foglie di coca boliviana con un procedimento che eliminava completamente le tossine pericolose della pianta. L’accoglienza del mercato fu entusiasmante poiché il prodotto sembrava possedere notevoli proprietà corroboranti. Di esso si legge infatti più oltre che era “ormai celebre pel suo ottimo sapore non meno che per le preziose sue qualità igieniche ammesse anche dal chiarissimo Prof. Mantegazza a cui si deve la conoscenza della coca […]”. Paolo Mantegazza è considerato a livello europeo uno dei pionieri della psicofarmacologia. Alla pianta della coca dedicò lo studio Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale (1858), ma il suo lavoro più importante sulle droghe fu quello, di oltre 1200 pagine, pubblicato a Milano nel 1871, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze. L’altro fiore all’occhiello della Ditta Buton era “l’Eucalypto, gustosissimo liquore aromatizzato colle sostanze essenziali dell’Eucaliptus Globulus d’Australia, sostanze molto igieniche ed eminentemente febbrifughe”. La Statistica industriale del 1898 riportava che “la fabbrica della ditta Buton, che è la più importante, occupa 24 operai ed è fornita di una caldaia a vapore della forza di 5 cavalli” mentre l’altra ditta, quella di “Gancia Giovanni non occupa nella sua fabbrica che 4 operai maschi adulti i quali fabbricano liquori senza il sussidio di motori meccanici”. (zz)


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Le origini della moderna liquoreria Le erbe che si usano in liquoreria in genere sono per loro natura amare. Vincenzo Agnoletti nel suo Il cre‑ denziere perfetto (v. scheda n. 88), a p. 131 spiega come deve procedere il liquoriere per ovviare a questo problema: “Le acquavite aromatizzate si usano così naturali, ovvero addolcite gradevolmente con il zucchero. Comunemente queste acquavite si fanno di anasi [anici], di finocchio, di menta, di cannella, di mandorle amare, di garofani, di china, di limone, di arancio, di rose, di fiori di arancio, di angelica, di sas‑ so frasso, di matricaria, di coriandoli, d’assenzio, di ruta, di ginepro, di reabarbaro [sic], di legno guaico, di melissa, di cacao, di caffè ecc. […] volendo rendere più gradevoli, tanto le suddette acquavite, che quelle qui sotto descritte, non si deve fare altro, che unirvi dello zucchero chiarificato, e cotto a straccio, e questo in proporzione, che addolcisca sufficientemente l’acquavita”. Ma cosa significa chiarificare lo zucchero e cuocerlo a straccio? Lo dice bene lo stesso Agnoletti all’inizio del suo trattato: “Molti sanno chiarificare lo zucchero, ma pochi però lo fanno a dovere, mentre benché sembri una cosa molto facile, non è così, esigendo tale operazione molte attenzioni […] bisogna avere un calderotto, o sia stagnata di rame, o di ottone, che si riempie con circa due terzi di zucchero. Abbiate un altro recipiente nel quale porrete due bianchi d’uovi per ogni libbra di zucchero, oppure invece di bianchi d’uovi un bicchiere scarso di sangue liquido di bue; vi si aggiunga dell’acqua a sufficienza, e si sbatte il tutto finché il bianco d’uovo, oppure il sangue sarà unito all’acqua; si versi poscia parte del miscuglio nel zucchero, e si ponga il caldajo sopra un buon fuoco; appena avrà spuntato il bollore vi si versi un poco dell’acquachiarata suddetta, e con la cucchiaja bucata si venga levando la schiuma, la quale si mette a parte dentro una concolina, e così a mano a mano che bolle si và fermando il bollore, e si va schiumando con gran diligenza, finchè non getterà più niente di schiuma, e che lo sciroppo sarà ridotto chiarissimo; allora si passerà lo sciroppo per feltro di lana, o per un panno di lino bagnato, e ben spremuto, finchè sarà limpidissimo, ed acciocchè questo succeda, conviene tornarlo a filtrare più volte, e poscia si conservi in vasi vetriati in luogo fresco”. A Bologna, più che centenaria è la storia dell’amaro creato da Stanislao Cobianchi. Il nobile bolognese, nato nel 1862, per sfuggire alla carriera ecclesiastica a lui predestinata dalla famiglia abbandonò la sua città e cominciò a girare il mondo. Nel principato balcanico del Montenegro venne a conoscenza delle virtù digestive del karik, un infuso di erbe tradizionalmente consumato a fine pasto. Ritornato in Italia si stabilì in Piemonte per apprendere l’arte della liquoreria, riuscendo a riprodurre la ricetta della bevanda montenegrina. Tornato nella sua città, nel 1885 avviò ufficialmente la sua attività insieme al fratello Cleopatro, con un prodotto apprezzato al punto che il Vate pescarese, in una lettera del 26 maggio 1926 (esposta nel 2013 in occasione della mostra “D’Annunzio a Bologna. E sèguito a vivere studiosamente voluttuosamente”) lo definì “liquore delle Virtudi”. Nel 1905 Gennaro Fabbri, ex impagliatore di sedie, e la moglie Rachele avviano a Portomaggiore (Fe) l’attività che porterà il loro nome; la sede dell’azienda sarà poi trasferita a Borgo Panigale (Bo). Tra i primi marchi della “Premiata distilleria G. Fabbri” il liquore Virow, fatto con le uova, il liquore Primo Maggio, con tanto di falce e martello sull’etichetta e l’Amaro Carducci, in onore del poeta del “Canto di primavera” che aveva appena ricevuto (1906) il premio Nobel. Ma saranno soprattutto gli sciroppi e le amarene al liquore, conservate nello speciale vaso con le decorazioni faentine bianche e blu, a rendere celebre la ditta. 157


I liquori tradizionali dell’Emilia Romagna

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I liquori tradizionali dell’Emilia Romagna a base di erbe officinali riconosciuti dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali hanno tutti origini lontane nel tempo: l’anicione di Finale Emilia (Modena), antica cittadina situata ai confini con la provincia di Ferrara, è un liquore che si produce praticamente solo qui, tanto da essere divenuto un elemento caratterizzante del territorio. Questa produzione pare sia iniziata nel 1814 ed è poi proseguita ininterrottamente tanto che oggi esso viene riconosciuto non solo come prodotto tipico della zona, ma è esteso all’intera regione. L’anicione, come spiega il nome stesso, è un liquore ottenuto dalla distillazione dei semi di anice in alcool purissimo di frutta unito ad altri semi aromatici ricchi di principi digestivi. Altrettanto antica è a Finale Emilia l’abitudine di bere l’andsòn (questo è il termine dialettale) la mattina del giorno dei morti (il 2 novembre), secondo una tradizione anch’essa mai interrotta, insieme con la ‘torta degli Ebrei’, una millefoglie salata con due strati di formaggio parmigiano-reggiano; l’anisetta reggiana (anisèta) ne è la versione più delicata; del nocino (nosen, nozèn) non è certa la provenienza, ma si sa che in Italia ha radicato inizialmente in Liguria e poi nel Modenese, dove ha dato vita anche ad un’associazione (l’Ordine del Nocino modenese di Spilamberto): l’albero del noce è da sempre legato a leggende di streghe e incantesimi, che condizionano anche la preparazione stessa del liquore. Tradizionalmente, infatti, le noci venivano raccolte nella notte di s. Giovanni (23-24 giugno) dalla donna più esperta nella preparazione che, salita sull’albero a piedi scalzi, staccava solo le noci migliori a mano e senza intaccarne la buccia. Lasciate alla rugiada notturna per l’intera nottata, si mettevano in infusione il giorno dopo. La loro preparazione terminava la vigilia di Ognissanti, cioè la notte del 31 ottobre. Nella raccolta la tradizione chiede di non usare attrezzi di ferro perché il metallo intaccherebbe le proprietà delle piante officinali. La credenza è comunque molto antica: già i druidi la seguivano cogliendo il vischio con un falcetto d’oro; il sassolino è una bevanda ‘spiritosa’ – tipica della provincia di Modena – dal caratteristico sapore di anice aromatizzato con spezie miste, tra cui il cumino, la cannella, il finocchio e piccole parti di assenzio. Si ricava dall’anice stellata, chiamata così per la forma del frutto che però dal punto di vista botanico non ha niente a che vedere con l’anice vero e proprio. Il liquore fu preparato per la prima volta nel 1804 da alcuni speziali svizzeri provenienti dal Cantone dei Grigioni che si erano trasferiti a Sassuolo, dove avevano iniziato la distillazione; l’acqua d’orcio o d’orzo è una dissetante bevanda alla liquerizia, prodotta a Reggio Emilia fin dal 1412, quando il governatore Ippolito Malaguzzi (nonno di Ludovico Ariosto) ne autorizzò la vendita nella piazza Maggiore (ora piazza del Duomo); lo zabaglione all’uovo risalirebbe per tradizione al XVI secolo, quando il capitano di ventura Giovanni Baglioni (conosciuto come Zvàn Bajòun), accampatosi nei pressi di Reggio Emilia, un po’ per caso e un po’ per necessità di sfamare i suoi uomini, creò con ciò che aveva a disposizione (uova, zucchero e vino) una mistura che da lui prese il nome; il sorbolo (sorbolino, sorbolen), tipico dei comuni di Sorbolo e Coenzo (Parma), vanta una ricetta antica: la sua esistenza è documentata già alla corte dei Gonzaga fin dal XVII secolo. Ricavato dalle sorbe mature, la cui pianta doveva essere particolarmente diffusa nella zona, è prodotto in due versioni: il ‘liquore nobile di sorbe’ di Coenzo e il ‘sorbolino’ di Sorbolo; lo sburlon è un liquore a base di mele cotogne, tipico della pianura e della zona collinare del Parmense. Fu chiamato così (significa ‘spintone’ in dialetto) perché si riteneva che, bevuto a fine pasto, desse una ‘spinta’, per facilitare la digestione; allungato con acqua era ritenuto un ottimo tonificante. Lo sburlon è ottenuto della macerazione e infusione alcolica della polpa, precedentemente grattugiata. il bargnolino (bargnulein), o più comunemente prunella, è tipico del Piacentino: si tratta di un liquore ad alta gradazione alcolica, ottenuto dall’infusione delle bacche di prugnolo selvatico, detto anche pruno spino (in dialetto bargnò) che è un arbusto tipico dell’Appennino tosco-emiliano. Le bacche vanno raccolte nel mese di ottobre; Dalla «Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana», n. 141, 20 giugno 2014, Parte prima: Supplemento ordinario n. 48


Dissertazioni

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Geminiano Grimelli

(Carpi, 1802 – Modena, 1878) Aceto balsamico. Fatto immediatamente con ogni economia e salubrità mercè il metodo. Modena, R.D. Camera, 1857. [3], 4-8 p., 21 cm. Ferrara, BAccademia Scienze (BACS. C. 131)

Desta curiosità questa operetta di Geminiano Grimelli, con la quale l’autore presentava (e promuoveva!) un prodotto di sua invenzione: il balsamo d’aceto, una sorta di concentrato da diluire in acqua o in vino per ottenere aceti balsamici. Il libretto – contraddistinto da un forbito linguaggio scientifico, con magniloquenti descrizioni delle qualità organolettiche del prodotto – potrebbe essere rapidamente liquidato tra le esperienze deteriori di chimica degli alimenti del secolo XIX; tuttavia per essere meglio compreso va rapportato allo spirito dell’epoca ed inquadrato in rapporto all’autore. Personaggio eclettico ma tutt’altro che sprovveduto, il Grimelli, nativo di Carpi, fu medico e diresse dapprima il locale ospedale. Tuttavia la sua precoce carriera lo vide ben presto diviso tra l’attività accademica e quella politica: fu infatti docente presso l’Università di Modena, dove divenne rettore nel 1859, e presidente dell’Accademia reale di scienze, lettere ed arti; ma fu anche fervente patriota: coinvolto nei moti del 1848, fu chiamato nel 1869, all’indomani della fuga degli Este, dal dittatore di Modena Farini a dirigere il dicastero dell’Istruzione e poi fu eletto al parlamento del regno di Sardegna. Grimelli fu certamente un uomo di scienza e lo attestano le tante sue pubblicazioni di chimica, biochimica, medicina, farmacologia. Spirito inquieto, ingegno curioso, fu personalità di prima linea nel dibattito scientifico emiliano, talora assumendo posizioni conservatrici; si oppose ferocemente, tra l’altro, alle idee di Darwin che negli anni ‘60 dell’800 animarono gli ambienti accademici di Modena: infatti proprio in quella città nel 1864 fu pubblicata la prima traduzione italiana de L’Origine della specie. Tuttavia la sua ricerca era contraddistinta da un significativo pragmatismo che probabilmente gli proveniva da un lato dalla professione medica e dall’altro, dalla sua attitudine all’attività politica. Ed è appunto con una specifica attenzione alla cosa pubblica e alle ricadute sociali del proprio operato che sono spiegabili iniziative dal sapore filantropico, quali gli anni passati in Liguria (1860-1862) a studiare la lebbra endemica; oppure l’invenzione di una bevanda succedanea del vino, in anni nei quali le malattie parassitarie, quali la fillossera, falcidiavano la vite facendo lievitare il prezzo del prodotto. Ed anche il balsamo d’aceto rispondeva al bisogno di fornire un succedaneo dell’aceto a costi accessibili, di fronte ad un prodotto che, manco a dirlo, era tra i più preziosi della tavola dei modenesi: quasi una sorta di “oro nero”. Dallo stesso spirito doveva essere stato guidato Luigi Maini (v. scheda n. 61), che nel 1854 a Modena (per i tipi degli Eredi Soliani) aveva pubblicato un opuscolo dal titolo del tutto eloquente: L’acqua ridotta a vino pei bisogni del povero ossia vino senza uva simile a quello d’uva con ogni economia e salubrità. Istruzione popolare. (ac) DBI, LIX, 666-667

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Il vero balsamico

Annibale Carracci, 33 Vende aceto, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

Il tentativo di imitazione di Grimelli la dice lunga sul pregio e sul prestigio del vero balsamico. Probabilmente l’origine dell’uso di tale aggettivo è dovuta alle supposte qualità farmaceutiche che si attribuivano all’aceto prodotto secondo determinate procedure; e la più antica traccia dell’uso del termine “balsamico” associato all’aceto si ha in un documento modenese di Casa D’Este, il “Registro delle vendemmie e vendite dei vini, per conto delle cantine segrete per l’anno 1747” (Modena, Archivio di Stato). E ciò è significativo sia dell’origine estense – in senso geografico, cioè modenese-reggiana – sia dell’importanza sociale ed economica del prodotto, considerato un vero alimento di lusso. Tuttavia l’origine dell’aceto balsamico è certamente più antica; in tal senso è significativa la testimonianza del conte Giorgio Gallesio. Nato a Finale Ligure nel 1772, studiò diritto a Pavia ed esercitò la carriera giuridica, che abbandonò poco più che quarantenne, quando si ritirò a vita privata per seguire, tra l’altro, i suoi interessi legati allo studio della coltivazione degli alberi da frutto. Le sue osservazioni sulla morfologia dei frutti (mele, pere, pesche, fichi, susine, uve…), sulle varietà, sulle modalità di produzione, vennero raccolte anno dopo anno, durante viaggi ed intense ricognizioni di studio condotti nelle campagne italiane, e furono pubblicate a Pisa dal 1817 al 1839 nella sua monumentale opera: la Pomona Italiana. Proprio durante uno di questi viaggi, nel settembre del 1839 ebbe modo di recarsi nella tenuta dei conti Salimbeni di Nonantola. Qui era organizzata un’importante acetaia, attiva dall’inizio del XVIII secolo. Nel Giornale di agricoltura e dei viaggi, una sorta di diario dove appuntava le sue osservazioni, Gallesio descrive per la prima volta, con stupita ammirazione, il funzionamento dell’impianto e le modalità di produzione dell’aceto. Il ritrovamento, nel 1993, del manoscritto originale del Gior‑ nale (ora conservato negli Stati Uniti, presso la Harvard University) ha offerto la possibilità di acquisire il più antico disciplinare per la produzione degli aceti. Ma nel corso dell’Ottocento non era certo venuto meno l’interesse e l’attenzione degli scienziati su questo prodotto del tutto originale, dalle proprietà organolettiche uniche e frutto di una lunga e sapiente lavorazione; non è un caso che il chimico Fausto Sestini abbia pubblicato a Bologna, nel 1863, un proprio saggio sull’argomento. Nel corso poi del Novecento la parola fu data al legislatore, che stabilì le caratteristiche del prodotto, e nacquero l’Accademia Italiana Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, con sede a Nonantola, ed i Consorzi di Tutela dell’Aceto Balsamico di Modena e dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a Spilamberto. Balsamico e Balsamico tradizionale: che, neanche a dirlo, sono due prodotti ben distinti e che rispondono a due diversi disciplinari. Ma questa è un’altra storia. Baldini 1995

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Olindo Guerrini

(Forlì, 1845 – Bologna, 1916) Nova polemica: versi di Lorenzo Stecchetti. II ed. con aggiunte e correzioni. Bologna, Nicola Zanichelli, 1878. 246 p., [1] c. di tav. : 1 ritr. ; 16 cm. Bologna, BC Archiginnasio (Rabbi. E. 429. Prov.: Luigi Rabbi)

Antonio Mirandola, Hosteria del Mal Tempo, In Bologna, per Nicolò Tebaldini, 1639 (Bologna, BC Archiginnasio). Illustrazione in frontespizio disegnata da Giovanni Francesco Barbieri (Guercino) e incisa da Francesco Curti.

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Nova polemica è una raccolta di poesie scritte da Olindo Guerrini con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, stampate per la prima volta nel 1878 e in seconda edizione, con aggiunte e correzioni, l’anno seguente. La particolarità di questa pubblicazione è data dalla presentazione dell’autore (v. box), che la dedica al birraio Otto Hoffmeister, il quale ‘teneva bottega’ a Bologna nella centrale via che nel 1866 era stata intitolata a Luigi Carlo Farini e che troviamo citato anche altrove: Hans Barth, corrispondente in Italia del quotidiano politico «Berliner Tageblatt», durante il suo lungo soggiorno romano – dal 1887 interrotto praticamente solo durante la prima guerra – vagabondò per la penisola raccogliendo ricordi e informazioni che trasferì nel suo famoso Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Venezia a Capri (pubblicato in tedesco a Stoccarda nel 1908 e due anni dopo a Roma nella versione italiana). Parte della fama di questo lavoro deriva dalla prefazione di Gabriele D’Annunzio (che era astemio, pur se non da sempre, ‘difetto’ che gli causò qualche motivo di tensione anche con Carducci), il quale si rivolge all’autore dicendogli “Il vostro lepidissimo e disertissimo libro, polito con la pomice lasciata da Catullo su la tavola d’una taverna veronese, mi sembra illustrare la sentenza di quel savio bevitore Avicenna che morì d’una malattia di stomaco: esser permesso il vino all’uomo di bello spirito e vietato al balordo […] L’astemio, nato ebro, onora in voi il beone “ornato di tutte lettere” come il cardinal Bembo nell’iscrizione Veneziana e come lo scolare Martin Lutero nella vecchia Isenach dei Langravii. […] Le vostre pagine mi son dunque un vero dono d’autunno, anche per questa malinconia, simili a un fascio di pampani scritti”. Molte pagine del volume sono dedicate a Bologna e a p. 126 si incontra proprio la “Birreria già (pur troppo!) Hoffmeister. Durante il Giubileo dell’Università di Bologna, nel 1888, era questo il gradito ritrovo di tutti i professori e studenti tedeschi, che erano venuti alla grande festa universitaria, e vi scorreva una inesausta fonte del più divino umore, distribuito dal più ideale e più rotondo Perkeo, che nessuna accademia abbia mai celebrato. Ed oggi?” Perkeo, al secolo Giovanni Clementi, nato nel 1702 nell’allora austriaca Salorno, fu giullare di corte del principe elettore Carlo III Filippo di Wittelsbach-Neuburg, ad Heidelberg. Il soprannome gli derivò dalla sua abitudine di rispondere alla domanda se volesse un bicchiere di vino con “Perché no?”. Barth trasferisce il suo nomignolo a Hoffmeister poiché col tempo il giullare fu


Dissertazioni nominato custode della grande botte del castello di Heidelberg, costruita nel corso dei secoli dai vari principi elettori del Palatinato. La ‘Grosses Fass’ – allora la più grande del mondo – poteva contenere fino a 230 tonnellate di vino. Un’altra birra ‘quasi sinceramente nordica’ citata da Barth subito dopo è quella venduta nella “Birreria Ronzani. In via Orefici, vicina alla Piazza. Vi si arriva anche da via Rizzoli, passando per alcuni viottoli coperti. Grandi sale e colonne uso Partenone. Birra italiana leggera, chops con coperchio alla tedesca, ambiente simpatico. Avrebbe potuto servire per le grandi riunioni della Teutonia, se fosse stata già in fiore nel medioevo”. In realtà Bologna è stata una delle capitali italiane di questa produzione: molti birrai vendevano piccole quantità spesso prodotte ed imbottigliate nelle cantine sottostanti. Il primo era stato Lorenzo Bignami nel 1796, seguito poi da Luigi Mattioli in via S. Giuseppe, da Gaetano Paggi in via Cavaliera; dalla fabbrica di Giovanni Mayr in via Farini, da Giuseppe Lamma in via dei Giudei, da Gaetano Nadalini in Strada Maggiore e tanti altri. Hans Barth dedica qualche riga anche al “Giardino Spiess (Belletti). A destra della porta d’Azeglio, ha aperto un suo spaccio elegante e ottimamente amministrato. Il direttore e la kellerina sono della Svizzera, la musica del concertino serale è italiana”. La storica birra Spiess – con annessa fabbrica di barili e botti, nonché di ghiaccio – aveva la sua sede italiana a Rimini, in un palazzo di fronte alla stazione ferroviaria dove produceva dal 1906 e dove fu attiva fino alla grande guerra che ne provocò il declino e la distruzione definitiva nel 1920. (zz) Molinari Pradelli 1991; Masini 2004

Al Birraio di via Farini Otto Hoffmeister Birraio in via Farini MXLVI Bologna Mio caro, questo libro è tuo. Te lo dedicai quando vide la luce la prima volta in quattordici paginette, e poichè tu, non guastato dalla lode, continui fedelmente a mescermi birra ottima, fedelmente ti ridedico il libro cresciuto quattordici volte e ristampato. Te lo meriti. Non aspettarti però di sentirlo lodare. Ahimè, mio buon Otto, ho dei vecchi conti da pagare a certi critici, ed il libro che ti dedico è stato e sarà il capro emissario! Molti mi credettero morto e portarono il mio cadavere al Campidoglio per tumularlo con tutti gli onori; ma poichè videro che feci il morto, poichè mi veggono saltar fuori dalla bara, non dubitare, ritenteranno di precipitarmi dalla rupe Tarpea. Eppure, mi vedrai tutte le sere seduto tranquillamente nella tua bottega, mi sentirai fare le consuete chiacchiere cogli amici, giuocare l’eterno tresette e, quel che più ti preme, mi guarderai bere la solita razione di birra. Tant’è, nè le lodi sperticate nè le villanie letterarie mi leveran mai l’appetito. Sarà colpa della mia tendenza a metter pan‑ cia, ma è così. Rallegrati dunque che, per quanto i critici mi flagellino, non mi vedrai bere un bicchiere di meno. Dico di certi critici e non della critica. Tu sai che, se mi piace la birra, non mi piacciono certe birrarie. Non cre‑ der dunque che io confonda le due cose. Aborro certe critiche beghine e certe birre marcie: venero invece la critica, i critici onesti, il buon re Gambrino [leggendario re delle Fiandre, considerato il patrono della birra], ed i bravi birrai. Non confondiamo. Il libro è dedicato a te, ma leggerai nel frontispizio un pro domo sua ciceroniano il quale vuol dire al lettore di non arricciare il naso se nelle pagine che seguono si parla troppo in prima persona del singolare. È necessità di difesa, e poichè le critiche furono fatte a me, proprio a me, io non potevo certo rispondere in altra persona. Otto mio, ti raccomando questo libro. Non lo lasciare sul banco tra i bicchieri e il salame. I miei buoni critici diranno abbastanza che il libro è sporco. Non dar loro ragione. Amami e sii meno idealista nel mescermi la birra. Te l’ho già detto: dammi più liquido e meno spuma. Da Olindo Guerrini, Nova polemica, presentazione.

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Sante Lancerio (Ferrara?, sec. XVI)

I vini d’Italia giudicati da papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio / operetta tratta dai manoscritti della biblioteca di Ferrara e per la prima volta pubblicata da Giuseppe Ferraro. Firenze, Tip. Editrice dell’Associazione, 1876. 42 p. ; 23 cm. – Estratto da: «La Rivista Europea». Ferrara, CS S. Simone e Giuda (OP XXV.17 FERRG 1876. Prov.: Giulio Righini)

Di Sante Lancerio si hanno scarne notizie; di certo, tuttavia, egli rivestì l’importante incarico di bottigliere presso la corte di papa Paolo III Farnese: il suo compito era quello di curare la scelta e l’approvvigionamento dei vini da servire al papa. I suoi scritti rimasero inediti fino al 1876, quando furono scoperti presso la Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara dal filologo ed etnografo Giuseppe Ferraro, allora insegnante liceale in quella città. L’edizione fu poi più volte ristampata. Lancerio ha lasciato due relazioni di viaggio ed una lettera. I primi due documenti si riferiscono al tragitto compiuto dal papa per recarsi da Roma a Nizza (1536) e da Ferrara ad Ancona; tra il seguito del pontefice vi era Lancerio, che ci ha lasciato una sorta di dettagliata agenda, con annotazioni sui luoghi e sui vini che si trovavano nel percorso: Dal Viaggio da Roma a Nizza “La sera alloggiò fuori di Parma, città buona ma non fa buoni vini. La mattina pranzò al convento della Nontiata fuora, et la sera fece l’entrata in città […]. Di qui si partì sua Beatitudine il giorno veniente, data la palma, et andò a pranzo al Borgo S. Donnino [Fidenza] dove erano buoni vini del Signor Cagnino, la mattina a Firenzuola [Fiorenzuola], che fa buoni vinetti […]. Et qui vicino è Soragna che ha buoni vinetti, ma Castelloarquato fa vini perfettissimi, et è gran peccato che tutta quella collina non sia vigne, che qui sono di così dilicati vini quanto sia in tutta Lombardia, tanto rossi quanto bianchi. Et qui sua Beatitudine si forniva per il viaggio, et anco ne mandava a pigliare, anco che fosse a Ferrara et a Bologna. Da Firenzuola S[ua] S[antità] fece la entrata in Piacenza, dove fece la Pasqua con tutta la corte, con tutte le messe solenni e con tutti gli offici della Ebdomada Santa. Qui non sono vini buoni, eccetto se da quelle ville montuose non vengono. Di qui S[ua] S[antità] si partì et la mattina andò a pranzo a Castello San Giovanni, et anco si alloggiò la sera, ove non è buono vino” (p. 20-21). Dal Viaggio da Ferrara in Ancona “[…] volse sua Beatitudine dare quel contento all’Ill.mo et Eccell.mo Duca di Ferrara di andare in Ferrara. Dove fu da S.E. con gran pompa accettato, con grandissimi trionfi et apparati. Dove qui non sono buoni vini, perché sono molli e grassi. Montechiarugolo, luogo del Parmigiano, fa buoni vinetti, Sasolo [Sassuolo] fa ottima bevanda, tanto rossa quanto bianca […]. Reggio non fa buon vino, se non in quelle ville montuose. Scandiano fa un perfetto vino. Modena ha perfetti vini, quanto in tutti 164


Dissertazioni i luoghi toccati in questo viaggio, massime il bianco, che è così bello come sonovi belle […] le donne. Castello Franco non fa buon vino […]. Tornando Sua Santità venne a Bologna, città bella et grassa, ma generalmente non fa buoni vini. Da alcune ville vicine vengono alcuni perfetti, massime del Sasso [Sasso Marconi], et di questi Sua Santità beveva volentieri quando era a Bologna. Di qui si partì et ritornando a Roma per la via di Romagna e per la Marca, la mattina arrivò a Castel San Pietro, che non ha mal vino, et la sera arrivò ad Imola, città piccola et buona, et fa buon vino et qui S[ua] S[antità] fece favore alli Palattieri di alloggiare in casa loro. La sera in Faenza, che non fa buoni vini. La mattina a pranzo in Ravenna città et quivi stette due giorni, in quel bel convento di S. Maria in Portico, et qui ottimo vino. Di qui a pranzo a Cervia, che ha tristo vino et la sera a Forlì grande, che fa vini grossi et grassi, ma ne sono alcuni da quelle ville montuose molto buoni. Di qui la mattina a Forlì piccolo [Forlimpopoli], dove è vino molle e tristo. La sera entrò in Cesena, ben posta e ben dotata di vino, e lo fa unico tanto rosso quanto bianco, massime quello dei frati del Monte et di questo S[ua] S[antità] si fornì per il viaggio. Di qui si partì et venne a pranzo a Santarcangelo, che fa ottimo vinetto, et la sera a Rimini, città dove sono ottimi vini, tanto bianchi quanto rossi” (p. 28-30). Ma la misura della competenza e della passione di Lancerio è apprezzabile soprattutto nella lettera che scrisse al Card. Guido Ascanio Sforza nel 1549. Qui il bottigliere dispiegava un catalogo dei migliori vini che approdavano nelle cantine papali: dalla Malvasia di Creta ai vini della Corsica e della Spagna, da quelli della Liguria e della Toscana a quelli del Regno di Napoli. Merita attenzione la precisione e l’accuratezza con cui vengono descritte le qualità organolettiche dei vini attraverso un accorto sistema di tecnicismi per l’analisi dei colori, degli aromi e dei sapori; cosa che fa di questo lavoro una sorta di antesignano della moderna enologia. Ecco alcuni esempi: “Trebbiano. Il trebbiano viene in Roma dallo Stato fiorentino di Valdarno di Sopra et da molti altri luoghi, ma li migliori sono quelli di S. Giovanni et Figghine. La maggior parte si porta in fiaschi con le ceste, et ne vengono anche alcuni caratelli. Questa tale sorta di vino è un delicato bere, ma non a tutto pasto per essere vino sottile. A volere conoscere la sua perfetta bontà, non vuol essere di colore acceso ma dorato, di odore non troppo acuto, amabile, non dolce, non agrestino, anzi habbi del cotognino […]” (p. 37-38). “Greco di San Gemigniano. È una perfetta bevanda da signori, et è un gran peccato che questo luogo non ne faccia assai […]. Il vino ha in sé perfettione; […], ma volendo conoscere il buono, non vuol essere agrestino, anzi avere del cotogno come il Trebbiano, et sia maturo, pastoso et odorifero” (p. 40-41). “Il vino Corso.Viene da un’isola nominata Corsica. Tali vini sono molto grandi et fumosi, ce ne sono delli dolci assai et degli asciutti, sono vini da famiglia più che da Signori. A volerli conoscere nella loro perfettione, vogliono essere non dolci né asciutti, anzi amabili con odore, colore et sapore. Il colore dorato, il sapore cotognino et mordente et di odore non fumoso. Quando sia in mosto, il colore vuole essere impagliato e non verdesco, perché sarebbe grasso. Si trovano alcuni vini asciutti massime di 165


Pietranera o di Brando, che fanno bellissima et buonissima prova la state, che quando l’agresto comincia a maturare, gli altri vini corsi tutti cominciano a mutare, et farsi forti, ma questi no” (p. 43). (ac) Lancerio 1994

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Giovanni Battista Vicini

(Finale Emilia, 1709 – Modena, 1782) I vini modanesi. Baccanale d’un Accad. dissonante colle annotazioni. In Modena, per Francesco Torri, 1752. [8], 53, [3] p. – Segn.: π4 A-C8 D4. – Le annotazioni sono di Niccolò Caula. Modena, BAccademia SLA (ac armadio g 23)

Figura interessante del Settecento estense, l’abate Giovanni Battista Vicini fu membro dell’Accademia dei Fluttuanti di Finale Emilia, di quella dei Dissonanti di Modena e dell’Arcadia; ricoprì altresì il ruolo di docente al Collegio San Carlo di Modena. Fu egli un uomo di cultura diviso tra un significativo impegno letterario (il Tiraboschi, nella Biblioteca Modenese, elenca decine di sue pubblicazioni, soprattutto componimenti poetici di carattere religioso) ed una profonda inquietudine (subì diversi processi per eresia e fu tra i primi animatori della massoneria nel ducato di Modena nel Settecento). Nel 1752, dopo trent’anni dall’uscita della prima edizione dei Baccanali di Baruffaldi, il Vicini dà prova, con questo componimento, della propria capacità di cimentarsi nello stesso genere con arguzia e vivace ironia: le conoscenze del ciclo della vite e del vino diventano fertile fonte di materiale poetico, arricchite da espressioni di buon senso comune ed accorti motti di spirito: “Se t’impacci con Amore, / Impazzisci a tutte l’ore; / Quei che gioca, presto perde / E ridotto è presto al verde; / Chi studia intisichisce; / Il mercante fallisce, / E quel bravo guerriero / Ha presto il cimitero; / Ma colui che assai bene / Di vin s’empie le vene, / Colorito e giulivo / D’ogni tristezza è privo” (p. 4). Nel baccanale riemergono i luoghi di una geografia del buon bere, cara all’autore, cui egli guarda con complice affinità: “Ma fra tante terre e tante, / Ogni vin mi sarà caro / Che è tra Secchia e Panaro, / Di Sassuolo, di Fiorano, / Di Spezzano, / Montegibbio, di Nirano, / Ed ancor di Maranello, / Della Torre e di Gorzano, / Sanvenanzo e Rimaldello; / Pur ne manda, o Levizzano, / Ei sia bianco o sia vermiglio, / Castelvetro, e tu Campiglio, / Tu Marano, / Savignano, / E tu ancor Campogagliano; / Venga pur, venga Formigine / Là da Fossa e da Stradella / S’hai di ber qualche prurigine; / E Castelnovo, / Pur anco approvo / Verso l’aria Rimaldella, / Né voglio male / Perciò al Montale, / Né a Corlo il voglio, / E non mi doglio / Di Casinalbo, / O di Cor166


Dissertazioni leto; / E ancor m’accheto / Al bruno e albo / Vino, onde lieta / Sen va Macreta. / Venga Sanprospero, / Venga Nonantola, / E con Sorbara / Vi sia Solara” (p. 8-9). E con i luoghi, anche le uve vengono passate in rassegna: dai versi del Vicini si ricostruisce una sorta di catalogo settecentesco dei vitigni coltivati e delle caratteristiche dei relativi vini; ecco alcuni esempi: “Chi la delicatezza, / Chi la piena dolcezza / Darmi adesso destina / Di quella marzolina / Figlia sì bene avvezza? / La berzemina ancora / Molto da me s’onora, / Quand’abbia per marito / Il lambruscone ardito, / non delicato sposo, / Ma forte e saporoso /[…]./ Anco la sua sorella / Lambrusca è buona e bella, / ma della donna più / Sempre il maschio ha virtù” (p. 13); “La gentil montanarina / sì gustosa, / Saporosa / È l’onor de’ una cantina. / Né da me già si maltratta / Quel lucente occhidigatta, / Che se un poco si disamina, / Nel suo lucido / E traslucido / Vi si vede intera l’anima. / Ov’è l’ambra potabile / Di quell’albana amabile? / Albana soavissima, / Ninfa saportissima; / Ma l’umor suo dorato / Da fresco acin sia nato” (p. 21). L’apparato di note, posto in fondo al volume, appartiene ad un altro studioso, pressoché sconosciuto: Niccolò Caula (che Girolamo Tiraboschi annovera tra i botanici estensi); le sue minuziose osservazioni accompagnano la lettura del lavoro del Vicini, corredandolo di informazioni preziose per la storia della produzione vinicola; ecco un esempio: “Di due sorte è la rossetta: altra ha il picciuol rosso, le grane lunghette e non così grosse; questa non è tanto cattiva, benché il suo vino non sia tanto di durata; non ha però molto colore e riesce insipido, ma ubbriaca però più di tutte le uve. L’altra ha grane rotonde, grosse ed è meno colorita, né ha picciuol rosso. Questa più propriamente è detta rossuta; il suo vino è senza colore, insipido ed inebria inavvedutemente [sic], ma non dura” (p. 38). (ac) Tiraboschi, II, 49;V, 384-387

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Giulio Bramieri (Piacenza, 17.. – 1811)

Della coltivazione delle viti. Opuscoli di Giulio Bramieri piacentino. Parma, dalla stamperia Carmignani, 1818. VIII, 256 p. ; 8°. – Segn.: [a]12 b-q8. Piacenza, BC Passerini Landi (L – A/5.1.3. Prov.: Ubertino Landi)

Uomo d’arme, ingegnere e patrizio, il piacentino Giulio Bramieri fu colonnello al servizio del duca di Parma. Padre del letterato Luigi, ebbe importanti compiti anche internazionali e fu, tra l’altro, incaricato di lavorare alla delimitazione dei confini, in America, dei possedimenti della Spagna e del Portogallo. Tuttavia egli è noto anche per aver lasciato degli scritti sulla coltivazione della vite. L’origine di questo lavoro è tuttavia curiosa: la Società Patriottica di Milano, nel 1788, bandì un concorso per il miglior saggio sulla viticoltura, organizzato in risposta ad otto quesiti, proposti dal sodalizio, che riguardavano: il magliolo ossia la talea; la vite di radice o piantone; la piantumazione della vite in rapporto al terreno e alla stagione; le varietà dei maglioli e relative caratteristiche; la tecnica di sostegno della vite agli alberi; le misure da adottare in caso di infecondità della vite; le misure da adottare in caso di grandinate devastanti; l’uso di sotterrare la vite durante l’inverno. Il Bramieri concorse con il proprio saggio intitolato Discorso intorno alla coltivazione delle viti, che fu decretato vincitore, a pari merito con quello di Pietro de’ Caronelli di Conegliano. Lo studio, pubblicato pochi anni dopo, suscitò un certo interesse e fu apprezzato, tra l’altro, dall’agronomo Filippo Re. Bramieri decise poi di rielaborare ed integrare il proprio lavoro dando forma ad una nuova opera, dal titolo Della coltivazione della vite libri quattro, che tuttavia, alla morte dell’autore, rimase incompiuta ed inedita. Finalmente, nel 1818, uscì per i tipi di Carmignani in Parma, una nuova pubblicazione che raccoglieva ambedue gli opuscoli; il libro si apre proprio con il testo vincitore del concorso che, rispetto alla prima edizione, veniva edito in forma integrale, con il corredo delle note dell’autore. Il minuzioso saggio evidenzia una conoscenza della materia maturata anche sulla letteratura scientifica internazionale (espressamente citati gli Elementi d’agricoltura di Lodovico Mitterpacher, La fisica degli alberi di Duhamel, I principi dell’agricoltura, e della vegetazione di Francis Home ecc.) associata ad una buona osservazione e ad una pratica della campagna, non soltanto piacentina. I contenuti del Discorso appaiono riorganizzati nel secondo saggio, lacunoso in alcune parti, i cui libri sono dedicati rispettivamente: il primo, alla valutazione del sito e del terreno in rapporto alle varietà di vite presenti nel Piacentino; il secondo, alla piantumazione e alla disposizione delle viti, alle potature e manutenzioni e agli accorgimenti per la piantumazione nei terreni meno fecondi; il terzo, alle alberature cui sono legate le viti; l’ultimo alle malattie e ai danni causati da agenti atmosferici e animali. Segue un’appendice dedicata ad argomenti vari, quali la semina e la vendemmia. 168


Dissertazioni Le due opere, integrandosi reciprocamente, offrono un interessante spaccato delle tecniche agrarie in essere a fine Settecento in area piacentina e forniscono altresì una ricca messe di dati anche relativi a fatti ed episodi specifici colti dall’occhio attento dell’autore, che non esita a fornire apprezzamenti e proposte sulla base dei suoi riscontri. Importante il catalogo di vitigni piacentini, autoctoni o comunque coltivati nell’area, presente nel secondo saggio: otto sono i bianchi (malvagìa; mosadello; greco; verdea; trebbiano; piolo; coda di volpe; altrugo) e quattordici i rossi (moscadel rosso; crova, detta corbara dai Milanesi; brianzo; pignolo gentile; pignolo grappolato, detto grigio ne’ colli di San Colombano; galluzzone, detto sul Milanese belsemina; berzemino; berbesino – la miglior uva dopo pignolo! -, cravarino, cerberina de’ Milanesi; fruttano; fruttano di San Secondo; besigano; ormione; crovarino). (ac) Mensi 1899

Uva pignola di S. Colombano, in Giorgio Gallesio, Pomona italiana, Pisa, co' caratteri de' FF. Amoretti. Presso Niccolò Capurro, 1817-1839, vol. I. Tavola disegnata nel 1831 dal pavese Mauro Rusconi e incisa nel 1832 dal fiorentino Giuseppe Pera. (Piacenza, BC Passerini Landi)

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Luigi Maini

(Carpi, 1823 – 1892) Catalogo alfabetico di quasi tutte le uve o viti conosciute e coltivate nelle provincie di Modena e Reggio secondo i loro nomi volgari con altre notizie relative. Modena, tipi Moneti e Pelloni, 1851. 32 p. ; 19 cm. Modena, BAccademia SLA (Opuscoli CXXVI 2 54. Prov.: Giorgio Ferrari Moreni)

Francesco Aggazzotti

(Colombaro di Formigine, 1811 – Modena, 1890) Sulla fabbricazione del vino lambrusco modenese. «L’economia rurale e il repertorio d’agricoltura riuniti. Giornale dell’associazione agraria del Regno. Organo della R. Accademia d’agricoltura di Torino», n. 6,1863, p. 538-543 Modena, BAccademia SLA (AC XVII 5 16)

Luigi Maini, L’acqua ridotta a vino pei bisogni del povero, ossia Vino senza uva simile a quello d'uva con ogni economia e salubrità, Modena, Eredi Soliani, 1854. (Modena, BAccademia SLA)

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Pressoché contemporanei, i due opuscoli contribuiscono, integrandosi reciprocamente, ad inquadrare la produzione enologica tradizionale dell’area emiliana centrale nella seconda metà dell’Ottocento. Luigi Maini fu principalmente cultore di storia locale: esponente di un genere di erudizione di stampo municipale tipicamente ottocentesco, si cimentò tuttavia anche con lo studio dei vini: nel 1854 pubblicò un curioso saggio: L’ acqua ridotta a vino pei bisogni del povero, ossia Vino senza uva simile a quello d’uva con ogni economia e salubrità (ma per la questione della produzione del vino con sistemi ‘alternativi’ (v. scheda n. 56). Tre anni prima aveva redatto questo suo Catalogo delle uve coltivate nelle province padane del ducato estense: Modena e Reggio Emilia. Era stato questo un genere di impresa assai coraggioso, già auspicato da scienziati come Filippo Re e Giorgio Gallesio; tuttavia fino a quel momento non era stato portato a termine anche per le difficoltà di isolare con certezza le varietà a causa delle nomenclature locali spesso confusive. Il catalogo, ricco di ben 81 cultivar presenti nelle terre del ducato, contempla viti di lunga tradizione, sia autoctone, sia provenienti da altre zone geografiche: tra questi il lambrusco, il lambruscone, la salamina, il trebbiano, ma anche il sangiovese, la vernaccia, lo zibibo; altri nomi rinviano a varietà ormai rare o non più identificabili, come bedollo, ciocchella, pisotta, spargoletta, e così via. Per ogni vitigno, il Maini indicava le principali caratteristiche morfologiche ed organolettiche dell’uva e le qualità del vino che ne veniva prodotto. Di grande rilievo è la figura di Francesco Aggazzotti, autore del trattato sulla produzione dei vini nel Modenese. Figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri, animato da ideali liberali e sostenitore dell’unità d’Italia (ebbe un ruolo attivo nei moti del 1848), dopo la caduta degli Este rivestì im-


Dissertazioni portanti cariche pubbliche, tra cui quella di sindaco di Formigine e di consigliere comunale a Modena. La dimensione pubblica della sua biografia è tuttavia evidente anche nella attività di conduttore delle tenute di famiglia: produttore di vino e di aceto balsamico (per i quali ricevette diversi riconoscimenti in esposizioni nazionali ed internazionali), si adoperò tuttavia per il progresso delle tecniche di produzione agraria e per la diffusione delle conoscenze: fu esponente di spicco del Comizio agrario di Modena e scrisse diversi saggi sulla coltivazione della vite e sulla produzione dell’aceto balsamico. Il testo in esame (e di cui è stato recentemente edito il manoscritto originale) corrisponde a quello che Aggazzotti preparò per il congresso dell’Associazione Agraria Italiana. L’autore era mosso dal bisogno di qualificare la produzione vinicola, sia per far fronte ai problemi legati alla diffusione delle malattie delle viti, sia per migliorare il prodotto. Con grande cura di particolari ed evidenti finalità didattiche, l’autore definiva le fasi del ciclo del vino, codificando una sorta di disciplinare, che rispettasse le migliori prassi messe a punto dalla tradizione modenese: dalla messa a dimora, preferibilmente non in vigna ma in piantata, su olmo, alla raccolta del grappolo (da staccare coll’unghia), alla pigiatura e via via fino alla svinatura e all’assaggio. (ac) Tavernari-Guerra 2014

Augusto Majani, Il lambrusco di Sorbara. Poemetto di Luigi Bertelli da Castelfranco, lettura di Ostilio Lucarini, Terni, [1915?], cartolina postale. Luigi Bertelli, conosciuto con lo pseudonimo di Vamba, oltre al Giornalino di Gian Burrasca e a molte altre cose, nel febbraio del 1888 scrisse un poemetto dedicato al lambrusco di Sorbara, cittadina della provincia modenese. (Budrio, BC Majani)

La scienza della vite Nel corso dell’Ottocento, lo sviluppo di una qualificata attenzione scientifica alla viticoltura è esemplificato da lavori come quelli di Augusto Pizzi; esperto di chimica degli alimenti (si occupò, tra l’altro, del latte e del burro), dal 1891 al 1893 analizzò un significativo campione di mosti, rilevando e mettendo a confronto la loro acidità ed il grado di glucosio. Tale campione proveniva da oltre cento fondi, con coltura sia a vigneto che a piantata, ripartiti tra la montagna, la collina e la pianura della provincia di Reggio: esso era esteso ad una importante varietà di cultivar, alcune delle quali ora rare o scomparse. Questi studi, editi annualmente, furono poi riediti nel 1893 (Piacenza, Tip. Marchesotti e L. Porta) in un saggio riassuntivo dal titolo Studi sulle uve e sui mosti della provincia di Reggio nell’Emilia. Campa‑ gne enologiche 1891-92-93. Recentemente anche grazie allo studio del Pizzi, è stato possibile isolare una varietà di lambrusco di cui si erano perse le tracce, il cosiddetto Lambrusco di Rivalta o Lambrusco Corbelli (dal nome dei Conti Ferrari Corbelli, che nell’Ottocento impiantarono a Rivalta di Reggio queste viti).

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Lodovico Malavasi (Modena, sec. XIX)

Contributo all’ampelografia modenese. Modena, Cesare Olivari, 1879. XVI, 72 p. ; 19 cm. Modena, BAccademia SLA (Opuscoli CXXVI.2.116)

Uva barbera, in Giorgio Gallesio, Pomona italiana, Pisa, co' caratteri de' FF. Amoretti. Presso Niccolò Capurro, 18171839, vol. I. Tavola disegnata dal genovese Domenico Del Pino e incisa nel 1833 dal fiorentino Giuseppe Pera. (Piacenza, BC Passerini Landi)

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Nel 1879 esce questo studio del professore di fisica Lodovico Malavasi, che sette anni prima aveva già dato alle stampe un libretto Intorno all’elettrizzazione del vino: l’ampelografia è la disciplina che studia, riconosce e classifica le varietà di uva attraverso schede descrittive che contengono le caratteristiche dei vari organi della pianta nel corso delle diverse fasi di crescita. Il termine ha origine dalla mitologia classica: infatti Ampelo era il giovane satiro amato dal dio Dioniso-Bacco e con questa parola il greco antico definiva il vitigno. L’interessante lavoro di Malavasi descrive una serie di uve tipiche del territorio, come la ‘Pellegrina’ o la ‘Termarina bianca’, indicandone poi subito i sinonimi: “Tramarina, Passerina, Passeretta, Uva di Corinto”. Di essa precisa infine che è un “vitigno pochissimo coltivato e, può dirsi, rarissimo. Matura sulla fine di settembre”. Anche la Romagna annovera importanti studi in questo settore: l’agronomo forlivese Tito Pasqui e il professor Alessandro Pasqualini, direttore della regia Stazione agraria di Forlì (istituita tre anni prima e destinata a diventare un punto di riferimento imprescindibile del settore), in occasione della mostra tenutasi a Forlì nel 1876 (il resoconto si può leggere nel bollettino «Comizio agrario» del ‘77) pubblicarono i Saggi ampelografici ed analitici intorno a dieci vitigni romagnoli, nei quali vengono descritte uve come l’albana rossa “Grappolo oblungo; acinelli sferici, rossi, di media grossezza, sostenuti da corti peduncoli: porzione libera dell’asse primario verde e breve. Foglia media, cuoriforme, trilobata a lobi poco distinti, raramente quinquelobata; pagina superiore verde; pagina inferiore a ragnatela, cioè a peli rari ed incrociati; bordo seghettato-dentato con denti rosseggianti. Tralcio di mediocre grossezza; rossastro, a brevi internodi; lievemente rigato. Maturazione sollecita”. Ma l’am-


Dissertazioni

pelografo italiano forse più importante è il modenese Domizio Cavazza, che fu direttore della cattedra ambulante di agronomia di Bologna dal 1893 (data della sua fondazione) al 1907. Nel 1894 aveva acquistato un’ubertosa tenuta – con castello – a Barbaresco (Cuneo) dove intendeva ritirarsi al termine dei suoi vari impegni professionali, cosa che non gli fu possibile perché la morte lo colse improvvisamente, impedendogli anche di vedere la pubblicazione della sua opera più importante, delle tante prodotte, la Viticoltura (Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1914), suddivisa in tre sezioni: l’ampelografia vera e propria, l’ampelotecnica (sulle pratiche di coltivazione) e l’ampelopatia (sulle malattie della vite). Domizio Cavazza è considerato il ‘padre’ del vino barbaresco – da lui sempre difeso perché sottovalutato – come ricorda la lapide posta dalla città in sua memoria. Infine due parole merita la prima importante raccolta illustrata di frutta e alberi da frutto realizzata in Italia, la Pomona italiana di Giorgio Gallesio (pubblicata in fascicoli tra il 1817 e il 1839), che contiene una sostanziosa sezione ampelografica. L’altissimo livello delle illustrazioni, seguite e curate puntigliosamente dall’autore, è dovuto alla bravura degli artisti coinvolti – pittori e incisori – fra i quali sono da annoverare i bolognesi Antonio Basoli e Giuseppe Bazoli, il veneziano (ma bolognese di formazione) Bernardino Rosaspina. (zz)

Uva trebbiana fiorentina, in Giorgio Gallesio, Pomona italiana, Pisa, co’ caratteri de’ FF. Amoretti. Presso Niccolò Capurro, 1817-1839, vol. I. Tavola disegnata nel 1829 dalla fiorentina Isabella Bozzolini e incisa nel 1831 da Giuseppe Pera. (Piacenza, BC Passerini Landi)

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Luigi Dalla Fabra (Ferrara 1655 – 1723)

Dissertatio physico-medica de vita naturali termino, de ingeniorum varietate, de cocholata, caphe, herba the, &c. de spiritu vini, seu aqua vitæ, et rosoli. Ferrariæ, typis Bernardini Pomatelli impress. episcopalis, 1710. 162, [2] p. ; 4º. – Segn.: A-T4 V8. Bologna, BC Archiginnasio (10.S.III.23)

Luigi Dalla Fabra nacque a Ferrara nel 1655. Dopo essersi dedicato allo studio della retorica e della filosofia si rivolse alla medicina, seguendo le orme del padre, noto chirurgo. Suo maestro fu il concittadino Girolamo Nigrisoli, medico di chiara fama a quel tempo. Si laureò nel 1678. Iniziata la professione di medico, dopo sei anni fu ammesso all’Università di Ferrara come lettore pubblico e in seguito andò a ricoprire la cattedra di lettore primario di medicina, ruolo che mantenne per trentacinque anni. Nel 1698 fu eletto deputato per l’Università e da quel momento si occupò in particolar modo della storia dell’Università stessa. Ricoprì poi anche alcune cariche politico-amministrative nella sua città. E fu in questo periodo che produsse la maggior parte delle sue pubblicazioni, particolarmente dissertazioni e memorie. Nell’opera che qui si considera sono raccolte quattro dissertazioni in un unico volume. Nella prima viene trattato il tema della lunghezza della vita umana, prendendo in esame e comparando testi classici e la Bibbia. Nella seconda si parla dell’anatomia del cervello, basandosi sugli studi del medico britannico Thomas Willis e di Marcello Malpighi, e si cerca poi di stabilire la possibile localizzazione cerebrale dei pensieri e delle emozioni. Nella terza sono trattati il caffè, il cioccolato, il the, la salvia, il rosmarino e l’acquavite: viene descritta la loro provenienza e gli usi che se ne possono fare; del cioccolato vengono indicati i diversi tipi di preparazione – anche coi chiodi di garofano, col pepe, con la cannella e con la vaniglia – e le sue proprietà mediche e nutrizionali; si descrivono poi in maniera particolareggiata i fenomeni di abuso del the e del caffè e i danni cronici o acuti che tali abusi possono provocare. Nella quarta dissertazione viene affrontato il tema degli effetti dell’acquavite e di altri liquori sull’organismo umano, insieme ai modi di distillazione di questi. In quel periodo l’uso di droghe e alcolici aveva subito un incremento notevole e una diffusione in tutti i ceti sociali suscitando preoccupazione per le conseguenze negative che venivano arrecate alla salute e al benessere fisico, anche se i governi europei a motivo dei vantaggi economici e fiscali che tali consumi comportavano, non avevano messo in atto nessuna contromisura idonea alla prevenzione dei danni che l’abuso di queste sostanze poteva provocare. Queste ‘dissertationes’, possiamo dire, obbedivano ad un intento didascalico, contenevano regole di vita con le riflessioni sull’alimentazione 174


Dissertazioni e sulle più importanti norme igieniche, esercitavano una sorta di tutela sul benessere psicofisico dell’individuo, come si deduce anche dalla frase usata dal Dalla Fabra per chiudere la sua opera: “Hoc est Seneca monitum servare […] vivere tota vita discendum est, et quod magis miraris, tota vita discendum est mori”. (acm) DBI, XXXI, 783-794

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Agostino Paradisi

(Civita Castellana, 1655 ca. – Modena, 1734 ca.) Due lettere dell’illustrissimo sig. Agostino Paradisi consigliere del sereniss. sig. Rinaldo I d’Este duca di Modena, Reggio, Mirandola &c. Scritte all’illustrissimo sig. commendatore fr. Cappone Capponi cavaliere Gerosolimitano, Cavallerizzo maggiore della sereniss. Signora duchessa di Bronswich. E dedicate dallo stampatore al serenissimo sig. principe Gian-Federigo d’Este. Nella prima di dette due lettere si discorre della natura, delle proprietà, e della virtù del cioccolato. Nell’altra si cerca se il cioccolato in bevanda rompa il digiuno ecclesiastico. In Modena, per il Soliani stampatore ducale, 1715. XV, [1], 48 p. ; 4°. – Segn.: †8, A-C8. Modena, BEU (E.54.E.61.2)

Attivo tra Ferrara, Parma, Bologna e soprattutto Modena, l’abate Agostino, membro di un’antica famiglia d’origine veneziana, era un giurista ed erudito di fama internazionale. Laureatosi nel 1677 in utroque iure a Roma, aveva esercitato per diversi anni presso la curia pontificia, poi era stato scelto prima come uditore della Rota nel tribunale di Ferrara (1688) e quindi come giudice della Rota nel tribunale di Bologna (1703), organo di cui era anche diventato presidente nel 1705. Tre anni dopo, il duca Rinaldo d’Este lo aveva nominato consigliere di giustizia a Modena, ufficio ricoperto poi per un quarto di secolo. La notorietà di Agostino fuori dallo Stato estense era legata soprattutto alla pubblicazione dell’Ateneo dell’uomo nobile, una sterminata opera in fieri, rimasta incompiuta (ne erano infatti usciti – tra il 1704 e il 1731 – soltanto i primi cinque tomi sui dieci previsti) e che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto affrontare tutte le questioni concernenti la storia, l’etica, le funzioni, le prerogative e i segni di riconoscimento del patriziato. Il volume qui descritto contiene l’unica altra opera sicuramente sua che sia stata stampata: riporta il testo di due lettere, scritte da Reggio Emilia l’8 e il 22 ottobre 1714 a Capponi, che trattavano della cioccolata, se abbia davvero la proprietà di “riscaldare oltre il bisogno” e se il suo uso non infrange il “precetto ecclesiastico del digiuno”. I semi del cacao provenivano dalle Americhe ed erano prodotti dall’albero che una leggenda locale raccontava fosse stato portato sulla terra direttamente dal dio Quetzalcoatl che ne era il giardiniere. Pietro Verri, nel suo Il caffè o sia brevi e varj discorsi già distribuiti in fogli periodici (vol. 1 p. 341 dell’edizione 175


stampata a Venezia nel 1766) definisce così questa pianta: “Il Cacaotiere, ossia l’albero del Cacao, è una pianta di mediocre grandezza, le di cui foglie cadono a vicenda, e si riproducono per modo ch’egli è sempre coperto di foglie, e sempre schiude, produce, e matura il suo frutto. Con tutto ciò la principale raccolta fassi due volte l’anno, cioè verso la fine di Dicembre, e circa la fine di Giugno, e la prima è sempre più abbondante. Il prodotto, che deriva dalla coltivazione di quest’albero delicatissimo è molto ragguardevole, poiché la fatica di venti soli schiavi Mori può rendere cento mila libbre di Caccao all’anno, le quali valutandole al prezzo che colà corre a circa dieci soldi Milanesi la libbra, danno il prodotto di quasi cinquanta mila annue lire Milanesi, ossia tremila trecento trentatré gigliati [carlini d’argento] all’anno”. I medici la adottarono subito come ricostituente e nel Settecento su iniziativa degli speziali sorsero diversi laboratori artigianali per la fabbricazione del cioccolato medicinale. Anche da ciò derivò la diffusione della sostanza. Il suo consumo finì però per sollevare, già nel ‘500 e ‘600, molti interrogativi e perplessità che, ancora nel XVIII secolo, saranno l’oggetto delle due lettere di Paradisi. Si dissero e si scrissero commenti positivi e negativi: così se da un lato il medico e naturalista svedese Linneo classifica la pianta con il nome “Theobroma cacao”, che significa “cacao cibo degli dei”, dall’altro il milanese Girolamo Benzoni nella sua Historia del mondo nuovo (1565) così la descrive (a c. 102v): “il cacauate, ch’è la lor moneta, & la produce un’albero non troppo grande, & non vive senon in luogo calido, & ombroso, & se fosse toccato dal Sole morirebbe [...] Il frutto è a modo di mandorle, & nasce in certe zucche di grossezza, & larghezza quasi come un cocumero, matura in termine d’un anno, & essendo di stagione lo cogliono, & cacciatovi il frutto sopra certe stuore, lo mettono al Sole a sciugare, & quando lo vogliono bevere, in un testo lo fanno seccare al fuoco, & poi con le pietre, che fanno il pane lo macinano, & messolo nelle sue tazze, le quali sono a modo di zucche, […] & a poco a poco distemperatolo con acqua, & alle volte con un poco del suo pepe, lo beono, il quale più pare beveraggio da porci che da huomini”. Per quanto riguarda Paradisi, nella prima delle sue lettere si affretta a rassicurare l’illustre Capponi precisando che “La confezione usata ordinariamente in Italia consiste in una libra di caccao, ott’once di zucchero, due dramme di cannella, altrettanto di vainiglia; io vi faccio aggiugner due grani d’ambra grigia, ed un grano di muschio” (p. 4). Sottolinea inoltre che:”Il cioccolato, dico ancora una volta, non solo nutrisce, ma raddolcisce altresì egregiamente l’acredine de’ nostri umori”. E dopo aver precisato che: “Il cioccolato non ha forza d’introdurre nelle particelle sulfuree del corpo umano un moto sì rapido, com’Ella teme, che riscaldi eccedentemente” conclude: “Si disponga pure Ella a bere allegramente il cioccolato, senza il menomo scrupolo, che riscaldi”. Con la seconda delle sue lettere Paradisi affronta l’altro problema, se bere la cioccolata rompe o no il digiuno ecclesiastico; i religiosi che la consumavano per sopportare meglio l’astinenza prescritta si erano posti da tempo la domanda. L’autore sviluppa un lungo ragionamento col quale cerca di illustrare i diversi contrastanti pareri. Finisce poi per richiamare anzitutto l’opuscolo del cardinale Francesco Maria Brancaccio De Chocolatis potu (pubblicato a Roma nel 1664) nel quale l’alto prelato dichiarò 176


Dissertazioni che siccome “liquida non frangunt jejunum” – i liquidi non interrompono il digiuno – così nemmeno la cioccolata e si rifà poi a tutti coloro che, pur non potendo negare le caratteristiche nutritive della cioccolata, la permettevano purché si osservasse la “parvità della materia”, e cioè non più di due once (60 grammi). E se poi l’espediente del carattere liquido e della poca quantità non fosse sufficiente a cancellare gli scrupoli del cavaliere gerosolimitano, Paradisi lo informa di essere egli stesso un assiduo consumatore, insieme al marchese Orsi “che prendendone due chicchere al giorno ne prova giovamento: così posso dire di me, che (sebbene non ne prendo che una chicchera; ma questa […] è indispensabile) ho un calore naturale sì veemente, che, come ognun vede, sarebbe capace, per così dire, di fare l’effetto dello specchio ustorio. I Gesuiti, religiosi tanto regolati nel vitto, quanto degni d’imitazione ne’ costumi, generalmente parlando, ne prendono anch’essi ogni giorno” (p. 2). (zz)

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Angelo Rambaldi (Bologna, sec. XVII)

Ambrosia arabica, ouero Della salutare beuanda cafè, discorso del dottore Angelo Rambaldi. Dedicato all’illustrissimo signor Gio. Francesco Bergomi. In Bologna, per il Longhi, 1691. 69, [3] p. ; 12º. – Segn.: A-C¹². Bologna, BC Archiginnasio (10. Medicina.Igiene.Dietetica. Caps.II, n.18)

Medico bolognese nato nella prima metà del Seicento, nel 1691 pubblicò presso lo stampatore Giuseppe Longhi questo libretto, grazie al quale sappiamo che considerava il caffè una bevanda quasi miracolosa in virtù dei suoi benefici effetti sulla salute. Per sostenere la sua tesi si avvalse di testimonianze di viaggiatori, come quello che gli narrò l’abate di un convento nello Yemen (p. 15-16): “In Iamen, ò sij Ayman, che vuol dire Arabia Felice, querelandosi un giorno un Guardiano di capre, e cameli con certi monaci christiani chiamati in quell’idioma uno Sciadli, e l’altro Aydrus, perché i suoi armenti in quella contrada tutta la notte vigilando, e saltando strepitassero, svegliò la curiosità dell’Abbate ad investigare la causa, & osservato, che giunti a certi pascoli con tutta avidità correvano à divorare certo frutto d’arboriscelli dà loro, che scrivono senza vocali, chiamato Bnn, che noi diressimo Bun per veder se havesse indovinata la causa, ne fece la decottione, quale data à bevere à suoi monaci osservò, che li teneva tutta la notte desti, e pronti ad assistere a divini uffizi, onde divulgato tale effetto, e da molti posti in uso, trovatosi, che non solo teneva svegliato senza alcuna diminuzione di forze, ma che à tutti corroborava lo stomaco, asciugava le catarratte”. Il caffè, scrive Rambaldi, fa dimagrire (argomento cui de177


Augusto Majani, XIII° Varie, [1917-1918], disegno (a matita di grafite, inchiostro di china, acquarello bianco) preparatorio per la testatina del 13° capitolo di L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa di Olindo Guerrini, v. scheda 93. (Budrio, BC Majani)

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dica un capitolo intero da p. 31 “Se il cafè nutrisca, o smagrisca il corpo”) e “bevuto caldo non abbruggia elevando vessiche, & imbianca i denti” (p. 58). E prosegue dichiarando che, quando scrive il libro, è “più che settuagenario” (p. 17), afferma di bere caffè da trentasei anni con piena soddisfazione e di aver sentito il bisogno di spiegare non solo le virtù della “ambrosia arabica”, ma anche “la preparazione, o sia torrefattione, conservazione, dose e modo della decottione”. Una delle tesi che confuta decisamente è l’affermazione secondo la quale il caffè “smorzi i sensi di Venere e che perciò molto ne bevano quei Turchi soli, quali non vogliono caricarsi di prole” (p. 68): scrive anzi che il caffè è un potente afrodisiaco e che egli stesso ne è testimonianza vivente poiché “con la prima moglie son sempre stato fecondo e con la seconda, dopo gli anni settanta di mia vita, ho già avuti due figli maschi e fra quattro mesi aspetto il terzo” (p. 69). Il dedicatario dell’opera è il conte Giovanni Francesco Bergomi, diplomatico della corte Estense. (zz)


Dissertazioni

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Ovidio Montalbani (Bologna, 1601 – 1671)

Il Pane souuentiuo spontenascente succedaneo intero del pane ordinario, ouero aumentante l’istesso pane di biade, breue discorso teorico e prattico del dottor Ouidio Montalbani. In Bologna, presso Gio. Battista Ferroni, 1648. 24 p. ; 4°. – Segn.: A-C4. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Ambrosini. Op.5.451. Prov.: Raimondo Ambrosini)

Formolario economico cibario, e medicinale di materie più facili, e di minor costo altretanto buone, e valeuoli, quanto le più pretiose. Da teoriche, e prattiche ragioni de’ più saggi antichi, e moderni scrittori. Raccolto per opra, e studio di D. Gio. Antonio Bumaldi bolognese. Dedicato all’illustrissima Congregatione sopra il Gouerno dell’Opera Misericordiosissima de’ Poueri Mendicanti di Bologna. (In Bologna, per Giacomo Monti, 1654). 40 p. ; 4º. – Segn.: A-B8 C4. – Giovanni Antonio Bumaldi è lo pseudonimo di Ovidio Montalbani. Bologna, BC Archiginnasio (A.V. I. VIII. 8 op. 09)

Hortus botanographicus herbarum ideas, et facies supra bis mille Aytotatas Perpetuam, & facillimam immense cognitionis botanicarum differentiarum ad memoriam In paruo trium tomorum octaui folij concludens spatio; quem sibi, genioque suo construxit, coluit, & perennauit D, Ovidius Montalbanus... cui singularum plantarum sequens praecessit index. Bononiae, typis Iacobi Montij, 1660. Ms. cartaceo ; 3 voll. (Pars prima: 41 c. n.n., 309 c., 1 c. n.n.; Pars secunda: 3 c. n.n., 316 c., 1 c.n.n.; Pars tertia: 3 c. n.n., VIII, 334 c.) + indice a stampa (110, [2] p.) : ill. ; 8°. – Segn.: A-G8 – I 3 voll. ms. hanno frontespizio a stampa; sono presenti 2 esemplari dell’indice a stampa. Bologna, BUB (Raro B 20/1-5. Prov.: legato di Ferdinando Bassi. 1774)

Appartenente ad una agiata famiglia bolognese, scrive Serafino Mazzetti nel suo Repertorio di tutti i professori “Venne laureato in filososfia e medicina li 21 marzo 1622, ascritto al Collegio medico li 13 luglio dello stesso anno, ed al filosofico li 23 novembre 1626. Li 21 aprile 1625 ottenne dal Senato una cattedra di logica, nella quale diede la sua prima lezione li 23 ottobre dello stesso anno”, dopo di che passò alla lettura di medicina teorica per tutto il 1632. La stima che la sua vasta cultura gli aveva procurato presso il Senato bolognese gli permise, alla morte di Bartolomeo Ambrosini nel 1657, di occupare il posto di custode dell’Orto botanico, durante il quale si dedicò alla pubblicazione della Dendrologia aldrovandiana. Ai molteplici impegni accademici, affiancò diverse cariche pubbliche: fu giudice del Foro dei Mercanti, tribuno della plebe e priore 179


Ovidio Montalbani, Hortus botanographicus herbarum ideas, c. 1r. Nel verso della c. precedente è stata incollata una incisione raffigurante la stessa pianta disegnata (la passiflora).

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della gabella grossa. Questi incarichi, uniti ai suoi studi e ai molteplici interessi personali, lo resero particolarmente attento ai problemi legati all’annona, il settore della vita economica cittadina che si occupava (e si occupa) delle scorte di cereali e delle altre derrate alimentari. Frutto di queste sue esperienze furono alcuni scritti, come Il pane sovventivo, in cui esamina tutte le possibili alternative al pane di frumento in tempo di carestia. Si domanda infatti, all’inizio di questo opuscoletto “di quante cose empie i suoi granari la provida formica, quando gli manca il miglior grano?”; avrebbe fatto, si risponde, come si sarebbero comportati i popoli antichi in caso di mancanza delle materie fondamentali: “Così avrebbero fatto i Tirintij antichi s’havessero veduto d’esser privi de i soliti suoi balani [crostacei]; gli Argivi, se gli fossero mancati i peri; gli Arpei le bacche; gli Arabi i loti; gli Ateniesi e i Carij i fichi; quei della Libia le silique [frutti secchi]; i Sarmati il miglio; i Persiani il cardamomo, terebinto e nasturtio; i Medi le amandole; gli Etiopi le canne; e i Carmani le palmole, com’anche i moderni Asiatici cercarebbono nuovi soccorsi in diffetto del loro malitz, o mayz [mais]; i Messicani, e quei della Cuba della yuca; gl’Isolani di Ternate dell’albero farinifero, detto Elonimma Zagù; quei di Malacca della radice batata; i Maniconghei della radice Igname, o Inhame; e i Peruviani finalmente della radice papas”. È vero, considera Montalbani, che il frumento è “l’ottimo di tutti i grani”, ma è altrettanto vero che non tutti gli anni possono essere come il 135 avanti Cristo, al tempo dei consoli Servio Flacco e Quinto Calpurnio, “quando insin gli alberi produssero biade nel territorio nostro; siche poté sin dall’hora ori-


Dissertazioni

Giuseppe Maria Mitelli, Il gioco importantissimo del fornaro, banco che mai falisce, particolare, v. scheda 127 (Bologna, BC Archiginnasio)

Il pane succedaneo: quando l’ingegno soccorre la pancia Secondo Ovidio Montalbani un pane ‘sovventivo’ accettabile è quello fatto con il loglio, purché trattato convenientemente in modo che risulti “senza nocumento alcuno”. In realtà il ‘pane alloiato’ poteva produrre gravi danni. L’espressione è del cantimbanco Giulio Cesare Croce che lo definisce così nel Contrasto del pane di formento con quello di fava per la precedenza con un sonetto in dialogo frà un maestro et un garzone sopra il pane alloiato (Biblioteca Universitaria di Bologna, ms. 3878 XVIII/7, oppure l’edizione del 1617 in Archiginnasio, 17. IX.59), in cui viene sottolineato l’effetto devastante che provocava stati di confusione e stordimento, con atti inconsulti e incontrollati: “E sai del loglio la professione, / E quanto egli è maligno, che pe’ muri / Batter fa spesso il capo alle persone […] E chi ti mangia poi, talmente offeso / Resta, che ben’ è spesso va balordo, / Qual chi da un’accidente è soprapreso”. Ancora nel XIX secolo la paura della fame spinge a trovare alternative adeguate alla necessità, soprattutto per quanto riguardava il pane. Nel Modenese il medico condotto Geminiano Grimelli, uomo dai molti interessi (per esempio pubblicò anche Caffè in conserva saluberrima ed economica ad uso comune specialmente militare, in cui fornisce indicazioni sul corretto consumo della gustosa bevanda) nel 1854 scrive i Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino con ogni economia e salubrità nelle circostanze specialmente di carestie (Modena, Tip. Andrea Rossi) in cui ricompare il pane di mistura (p. 41): “Però le farine, così dei cereali come dei legumi, commiste a non poche fecole si prestano in fornire panificio succedaneo a quello di frumento. Riscontrasi infatti che i cereali e legumi, in loro farine, combinati alle polpe fecolenti, come delle patate, riescono alla confezione di pasta succedanea a quella del pane migliore. Le farine specialmente dei cereali minori, dall’orzo e dalla segala al formentone e alla saggina, commiste alle patate fresche o lessate sono acconcie ed opportune alla idratazione ed impastatura, alla fermentazione e cottura di pane confacevole a buon commestibile alimentare”. E più avanti aggiunge (p. 43): “A confezionare pane succedaneo ne soccorre eziandio la farina delle ghiande di castagne combinata alla farina delle ghiande di quercia, rovere, cerro, o simili. Egli è invero notevole che la farina di castagne quanto mal si combina con ogni altra di cereali o legumi altrettanto riesce combinabile alle farine delle ghiande quercine per una buona panificazione. Così è infatti che la farina di castagne sia cruda o cotta, e quella di ghianda secca o tostata, combinate in proporzioni convenienti riescono alla idratazione e all’impasto, alla fermentazione e cottura di un pane nel quale si contemperano gustevolmente e salutarmente le qualità speciali e distinte delle prefate ghiande fecolenti e farinacee”.

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ginare il proverbio Bolognese, Sono belle biade al Borgo, ma non vi è chi le mieta, perché in tempo d’abbondanza s’infingardixono i pover’huomini, i quali pensano tutti d’essere diventati ricchi, e che il pane habbi a correre dietro ad essi e non essi dietro al pane”. Secondo l’autore un’alternativa accettabile potrebbe essere il loglio “se prima d’incorporarlo al formento, fermentarassi solo nell’acqua, e cotto ben bene, perché diverrà piacevole, e senza nocumento alcuno entrerà nel pane di formento”, oppure il pane di zucche “Le zucche hanno ben sì le foglie, e le radici inutili, per esser esca dell’huomo (detratte le cime per l’insalata) ma i loro frutti, e per la grandezza, e per l’attitudine a ricever’ogni buon sapore sono commendabilissimi, alle quali zucche si fanno compagne le rape, o navoni, che ambiscono d’essere anch’essi fatti in pane, e conditi alla foggia communale delle radici, e la più breve strada di far giungere quelle radici, & ogni sorte di frutti in pane è, che bollita che sia a perfetta cottura la sostanza della radica preparata, o del frutto, detratte le parti da detrahere, si pesti, e si passi per stamigna, e a modo di pien di torta se gli vada aggiungendo a poco a poco farina di biade, sin che si possono formar pagnotte da cuocersi”. E poi ancora il pane di ginocchielli di gramigna, di foglie di olmo, di luppoli, di sarmenti di vite “ma ci dovessimo anche ridere di coloro, che adoperano i più teneri sarmenti delle viti per fabbricarne in qualche modo del pane, più da capri veramente, che da huomini”; pane di ghianda e molti altri ancora. Anche nel Formolario economico Montalbani affronta il problema della mancanza di cibo, concentrando la sua attenzione sempre su modi alternativi per ottenere il pane, ma a questo aggiunge una consistente parte dedicata ai ‘medicamenti’ ottenuti dalle erbe e destinati a chi non può permettersi medicine costose. Così si può leggere la ricetta per preparare il “Mele iuniperino, overo triaca picciola dei poveri” [la triaca, o teriaca, era un preparato farmaceutico ritenuto miracoloso di origine antichissima]: succo di bacche di ginepro mature lasciato ad asciugare al sole fino alla consistenza del miele; fiori di rosmarino secchi, e fatti in polvere; anice polverizzato; miele schiumato quanto basta, si mescoli il tutto e sarà “utilissimo in tutti i mali dello stomaco e del petto, contro i flati, i tormini del ventre, contro la pestilenza ed ogni maligna qualità ne i visceri esistente, espurga, e netta il fegato, le reni, estenua i grossi e viscidi humori, muove i menstrui, soccorre alle rotture, alle convulsioni de nervi, alle prefocationi uterine, e si può andar meschiando con altri medicamenti specifici ne i mali chronici”. L’Hortus botanographicus è costituito di 4 volumi: uno solo è a stampa, l’indice, gli altri tre sono manoscritti e rappresentano e descrivono tutte le piante che il medico-scienziato bolognese studiò nel corso della sua vita, soprattutto durante gli anni che dedicò all’Orto universitario. È quindi un unicum di particolare importanza. (zz)

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Dissertazioni

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Giuseppe Sangiorgi

(Massa Lombarda, 1850 – 1928) Per la Casa del pane. Con prefazione di Giovanni Pascoli. Roma, Unione cooperativa editrice, 1904. X, 75 p. : ill. ; 25 cm. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Opuscoli 6.60 F.G.)

“Eppure gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe, e ogni spiga ha tanti chicchi, i quali, tostati (da principio) e macinati, danno una polvere così bianca, così molle; e questa intrisa e rimenata e cotta dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è il farmaco vero per le tante volte millenaria malattia del genere umano; la divina vivanda che si sostituì alle polpe e al sangue dei primi banchetti feroci; il mite pasto che temprò, se non altro, la crudezza delle prese antiche; è la vittima incruenta che ci fa vivere senza bisogno d’uccidere”. Questo passo fa parte dell’introduzione, le cui prime parole sono “Quanta fame ha patito il genere degli uomini!”: l’autore è Giovanni Pascoli e non è un caso che proprio lui presenti Per la casa del pane, poiché il tema e soprattutto il sentimento che il poeta esprime è lo stesso che spinse Giuseppe Sangiorgi a scrivere l’opuscolo e, soprattutto, a volere l’istituzione di questo ente. Figlio di un calzolaio di Massa Lombarda, rimasto orfano a soli sedici anni, dovette affrontare subito il problema della sopravvivenza e così, trasferitosi a Milano armato di coraggio e intraprendenza, unite forse a un pizzico di fortuna – divenne infatti l’unico rappresentante in Italia della macchina per cucire Singer – riuscì a trasformarsi nel tempo in imprenditore e poi in antiquario e collezionista. E questo “solitario egoista”, “ribelle ma non rivoluzionario” come amava definirsi, progettò l’istituzione di una serie di Case del pane, comunali ma gestite da capitale privato, nelle quali potesse trovare il ‘frutto della spiga’ chi non aveva il denaro per comprarselo. Scrive Sangiorgi:“Ogni uomo raggiunge un relativo benessere allorquando col frutto del proprio lavoro guadagni il necessario per sostentare sé e la famiglia” e aggiunge: “Il pane, che in altri paesi costa 17 centesimi al chilogramma, in Italia ne costa oltre 28, specialmente per i dazi protettori dei quali da noi è gravato il grano: e ciò a danno comple183


to di chi ha maggiore bisogno di pane e minori mezzi per acquistarlo: ma purtroppo si deve riconoscere che la maggior parte delle leggi sono state fatte dai forti per favorire i loro interessi a non per tutelare quelli più deboli […] Far pagare al povero, che non ha da nutrirsi, una tassa rappresentante il terzo del costo del pane è cosa oggi talmente enorme, che non par vera. In questo modo tutti i poveri pagano ogni giorno una tassa indiretta di 10 a 50 centesimi al governo, e questa tassa sale in proporzione diretta della miseria loro, in proporzione cioè della più o meno numerosa famiglia che hanno, difatti un povero più ha figli da mantenere e maggior tassa ha da pagare”. La prima Casa del pane sorse proprio a Massa Lombarda, dove Sangiorgi aveva messo a disposizione la propria casa natale e un primo contributo economico, ma fu anche l’unica che funzionò per qualche anno, dal 1903 al 1910. Quella di Roma, pur progettata e aperta, riuscì solo a incominciare la propria attività. Le iniziative culturali di sostegno furono diverse: fu coniato un francobollo e il pittore faentino Domenico Baccarini realizzò una serie di sei disegni – con scene di mietitura e panificazione – che furono riprodotti su cartoline promozionali, molte delle quali ora conservate nella Biblioteca Saffi di Forlì.Tra i finanziatori figurarono anche Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio. Di fatto il progetto fallì, per una serie di motivi di carattere sia economico che politico, non ultima forse la difficoltà di stabilire, soprattutto in grandi città come Roma, chi avesse veramente diritto di ricevere gratuitamente il pane. (zz) Testi 2010

La prima Casa del pane, Massa Lombarda, Istituzione Sangiorgi, Gennaio 1903, Cartolina postale non viaggiata (Massa Lombarda, CP Panighi) 184


Dissertazioni

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Girolamo Baruffaldi (Ferrara, 1675 – Cento, 1755)

Volume primo [- terzo] de’ Baccanali di Girolamo Baruffaldi. In Bologna, nella stamperia di Lelio Dalla Volpe, 1758. 3 voll. (XVI, 272 p., [1] c. di tav : antip. calcogr.; [8], 291, [1] p.; [8], 289, [3] p.) ill. 8° ; – Segn.: a8 A-R8; a4 A-R8 S10; a4 A-R8 S-T4 V2. Bologna, BA Archiginnasio (Sorbelli. B.64 /1-2-3)

Sacerdote, uomo di cultura di rilievo nella Ferrara del XVIII secolo, Baruffaldi aderì all’Accademia degli Intrepidi e fu autore di diverse opere di carattere erudito, come una Dissertatio de poetis Ferrariensibus (Faenza, 1698), una Istoria di Ferrara (Ferrara, 1700) e le Vite dei pittori e scultori ferraresi (uscite postume nel 1844). Fu tuttavia dotato di una estrosa e poliedrica vena poetica e narrativa, che gli consentì di scrivere, tra l’altro, dei falsi attribuiti a importanti autori del passato, ma anche delle tragedie, come Giocasta (Faenza, 1725) e La Diofebe (Pavia,1727), oppure il ditirambo La tabaccheide (Ferrara, 1714) e i Baccanali: essi uscirono a Venezia nel 1722; tuttavia l’edizione definitiva è quella ampliata, stampata postuma nel 1758 a Bologna, da Lelio dalla Volpe. Si tratta di un genere di componimento ispirato alla rielaborazione di un modello narrativo classico legato al culto di Bacco e delle Baccanti; secondo le parole dello stesso Baruffaldi (p. IX, XI), il baccanale “è un poema fantastico, d’astrazione e di commovimento; non eroico, ma che partecipa di tutti i caratteri, e fino del popolare carnevalesco […]; è componimento che da uno stile salta in un altro e in uno stesso tempo s’alza e s’abbassa. È eroico, è amoroso, è giocoso, è satirico, e s’accomuna con tutti i caratteri che da una maschera su d’una scena e in un corso si possano rappresentare […]”. I 26 baccanali che si susseguono nei primi due libri dell’edizione definitiva (il terzo è dedicato alla ristampa della Tabaccheide) sono connotati da una sensibile rapidità compositiva e da una metrica veloce, accompagnata da un virtuosistico gioco di rime. E Baruffaldi nell’invenzione di questi suoi componimenti, sa associare una sapida capacità di osservazione ad una gradevole vena ironica, approdando ad un risultato narrativo di piacevole lettura. In diversi baccanali l’autore incrocia temi legati all’alimentazione: nel libro primo, il V componimento è dedicato ai sughi: Baruffaldi immagina qui di rispondere ad un letterato toscano che vuol sapere quale sia l’origine ed il significato di quella parola; il componimento diventa così l’occasione per un dettagliato excursus sulle modalità di produzione dei sughi di mosto e si conclude con questi versi: “[…] Ne farai quel cibo degno, / Che per esser sì sugoso, / Ha di sughi il 185


nome preso, / E alle mense omai s’è reso / Il pospasto più famoso, / Che il fruttifero Vertunno / Porti, al tempo d’Autunno, / A imbandire per due mesi, / I convitti ferraresi. / Che rosoglio o pelacchina / Zambonina? / Che anesina o insulso thè? / Che l’amaro e rio cafè? / O tante altre dose rare, / O altro mai manicaretto / Sul finire del banchetto? / Nulla più v’hanno che fare. / Tutto è poltiglia, / Tutto è scoviglia / A paragon di questo beverone […]”. Anche il baccanale XXV, nel secondo libro, trae ispirazione da una questione linguistica: intitolato “Arringheria del frumentone”, in esso il poeta immagina che il Granoturco si rivolga agli Accademici della Crusca perché questi accolgano il nome col quale è più comunemente chiamato: “Il mio nome è derivato / Da chi è già accreditato / Ed è nome sustantivo / Accrescitivo / Che nasce come / Da nome a nome: / Da galera galeone, / Da battaglia battaglione, / Da formica formicone, / Da farfalla farfallone, / E così via via cantando, / E impinguando / Altri nomi positivi, / Divenuti accrescitivi, / Finché giunga la versione / da frumento a frumentone”; e in un altro passo: “Fatemi omai ragione, / Inserendo ed innestando, / per favor, non per comando, / né per natura ma per adozione / Nella tramoggia vostra il frumentone”, laddove la tramoggia è la cassetta del grano posta sopra la macina, che però è anche presente nell’impresa degli Accademici della Crusca. Ed ancora, curiosa la descrizione della pannocchia: “La mia spica ella è un tesoro / Tutto d’oro, / Dentro cui, come in tanti alveari / Circolari, / Stanno in guisa di pietre d’anelli / I granelli / Tutti simili a i piselli”. Il baccanale III, nel libro primo, si intitola “Le nozze saccheggiate”: il poeta vi immagina un banchetto nuziale saccheggiato dalle divinità scese dall’Olimpo perché invidiose degli uomini: ecco una descrizione delle imbandigioni: “Vengano i piatti / Non liquefatti, / Ma carchi a cumulo, / A pira, a tumulo / piramidale, / In foggia trionfale. / Ecco armellini / E confettini, / Mostacciuoli e cannellati, / Coriandoli e cedrati; / Gl’incristalliti / Frutti conditi, / E pinocchiati, / E pistacchi inzuccherati; / Mandorle arsicce / E bruciaticce; / Ciocolatte in rotoletti, / E bacini un po’ amaretti”. (ac) DBI,VII, 6

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Dissertazioni

Il Canapaio di Baruffaldi Il poema Il canapaio uscì a Bologna nel 1741 nella stamperia di Lelio dalla Volpe; l’opera, esempio di virtuosismo poetico ricco di riferimenti eruditi, ripercorre nei suoi otto libri le fasi della lavorazione della canapa: si va dalla scelta del luogo dove seminare – elezione del terreno e dell’aria – (I libro) alle operazioni di aratura e vangatura (II); dalla scelta dei concimi – colombina e polline – e delle sementi (III) alla semina (IV); dalla sarchiatura (V) al taglio (VI); dalla macerazione (VII) allo scavezzamento e alla gramolatura (VIII). L’utilizzo dei prodotti ricavati dalle varietà della Cannabis sativa ammesse per scopi alimentari, è una scoperta recente (l’olio e la farina ricavata dai semi vantano importanti proprietà mediche); mentre fino al Novecento la canapa era utilizzata principalmente per la produzione di fibre tessili e ad essa era legato un fiorente commercio. Il Baruffaldi con il suo poema rende conto di una significativa presenza di coltivazioni nella pianura tra Bologna e il Centese: E canterò la canape e la vera cultura d’un sì nobile virgulto, che ne’ campi d’Italia e, piucché altrove, nel felsineo terreno e nel vicino centese floridissimo recinto (dov’è una terra che città può dirsi, tanto in se stessa e ne’ suoi degni e illustri abitatiri oggi è pregiata al mondo) s’alza e verdeggia e selve forma ombrose (Libro I, vv. 14 ss.) La composizione risente, da un lato dell’urgenza di un realismo connaturato con la descrizione dei riti della vita agricola; con i frequenti riferimenti alla geografia dei luoghi; con una attenta osservazione dei cicli della natura. Ma Baruffaldi, contestualmente, non rinuncia a esibire la complessità della propria cultura fondata su robuste radici scientifiche e classiche; e il ricco apparato di note esplicative, dell’autore stesso, restituisce il senso di questa ricchezza di riferimenti. Evidente traccia di un bisogno didascalico sono le Instruzioni di tre pratici centesi, ossia tre saggi redatti da alcuni esperti sulla coltivazione della canapa accolti alla fine del volume e preceduti, a loro volta, da alcune tavole recanti gli strumenti di lavoro e le piante di canapa. Un esemplare di questa edizione è posseduto dalla Biblioteca Malatestiana di Cesena (collocazione: Nori A 983). L’antica porta Asia, a est della cittadina di Pieve di Cento, ospita oggi il Museo della canapa, che costituiva qui la fonte locale di reddito più significativa e che era una delle coltivazioni più importanti di tutto il Bolognese. Vi sono esposti esempi concreti di tutto quanto contribuiva alla sua produzione e lavorazione.

Frontespizio e tavole 1 e 2, in Girolamo Baruffaldi, Il canapaio, Bologna 1741 (Cesena, BMalatestiana)

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Luigi Maini

(Carpi, 1823 – 1892) La mostarda di Carpi. Modena, pei tipi Camerali, 1844 20 p. ; 14 cm. – Estratto da «Strenna Carpense», 1845. Modena, BAccademia SLA (Opuscoli CXXVI 2 48. Prov.: Dono di Giorgio Ferrari Moreni; dono dell’autore a Giovanni Francesco Ferrari Moreni)

L’articolo del Maini, redatto in uno stile forbito – coerente con il genere di pubblicazione -, è dedicato ad un prodotto tipico della tradizione culinaria storica carpigiana, la mostarda; un tempo radicata nella città tanto da aver ispirato l’antica maschera locale, Mostardino. L’autore, da divertito osservatore, passa velocemente in rassegna le citazioni letterarie, gli aneddoti e le curiosità che hanno accompagnato la secolare storia dell’alimento; ma egli ci restituisce anche una significativa testimonianza diretta di una produzione ancora in essere alla metà dell’Ottocento. Per quanto riguarda le fonti scritte, il Maini richiama: La secchia rapita del Tassoni (XI, 38, 5-6); di Quirico Rossi La cucagna (XVIII, 5); del gesuita Sebastiano Chiesa il Capitolo fratesco; testi nei quali al prezioso alimento vengono associati aggettivi quali fino, esquisitissimo, e che ne attestano una diffusione significativa. Tuttavia, avverte l’autore, chi legge non potrà trovare ricette nel suo saggio: solo alcuni dettagli sugli ingredienti (come l’uso di una varietà locale di mela dolcissima); infatti il segreto è rigorosamente custodito da chi fabbrica questo pregiato alimento, e al riguardo, cita un’antica famiglia di produttori, i Sebellini detti appunto “della Mostarda”. Dichiara il Maini, rivolgendosi alle lettrici: “Se foste desiderose di conoscere il metodo di preparazione, vi dirò che questo è propriamente un mistero che passa in retaggio dal padre al figlio, il quale stendendo la mano sulla caldaia della mostarda pronuncia solenne giuramento di non isvelarlo a chicchessia”. Al di là del curioso rito del giuramento, appaiono gradevoli le pagine dedicate alla descrizione di uno dei laboratori, esistenti nella Carpi dei tempi del Maini: “Inchiniamoci dapprima a quel vecchio speziale che stassi colà seduto sopra uno sgabello di legno col suo berretto greco in testa e colle mani conserte al petto in attitudine di conquistatore, ed esaminiamo da vicino la tanto prelibata confezione. Questa che noi abbiamo sott’occhio è stata or or riversata nell’olla che la rinchiude: vedetene l’aspetto pressoché diafano, e la tinta rosso-cremisina che somiglia al granato, esteriori caratteri che la rendono pregevolissima. Ecco intanto una mano di giovani ciascuno dei quali è intento a compiere la propria attribuzione. Altri ne ricolma alberelli [o albarelli: vasi da farmacia] di finissima argilla, altri la superficie ne asperge con polve di odoroso cinnamomo; altri con somma cura coprendoli vi sovrappone l’insegna della fabbrica a garantirne agli estranei la genuina derivazione; altri infine esperto nelle leggi della simmetria tutti questi alberelli dispone in bell’ordinanza come esercito di militari pronti ad un colpo di tamburo a marciare oltremare e oltremonte. Recasi difatto la nostra mostarda in lontani paesi a servigio delle mense de’ grandi”. (ac) Rossini 2011 188


Dissertazioni

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Alessandro Giuseppe Spinelli (Modena, 1843 – 1909)

Le spongate di Brescello. (Note currenti calamo). Modena, Tipo-Lit. della Provincia di Modena di L. Rossi, [1904]. 20 p. ; 21 cm. Ravenna, BC Classense (Fondo Rava. Busta 111.24. Prov.: Luigi Rava)

Il comune di Brescello, adagiato nella pianura reggiana lungo la riva del “Grande Fiume”, non è famoso solo per i personaggi di don Camillo e Peppone, nati dalla penna di Giovannino Guareschi, ma anche per la produzione della spongata. In questo opuscoletto l’autore ne ricostruisce l’origine antica e l’importanza, che giustificano l’esistenza stessa di questo libretto: “Ne sono sicuro: a molti spunterà sul labbro un sorriso compassionevole nel leggere questo titolo, perché troveranno che sia tempo perduto quello occupato in argomento per essi di nessuna importanza. E sia: nessuno però vorrà togliere a questo scritto il merito della novità e dell’attualità e, come tale, non trovarlo un fuori luogo, e tanto più se io lo svolgerò appoggiato a scarse ma sicure notizie, che mi risultano dal mare magnum di notizie amorosamente, sebbene inutilmente adunate, per il corso di un quarto di secolo, intorno a Brescello”. E in fatto di ricerche di biblioteca e d’archivio Alessandro Giuseppe Spinelli sapeva il fatto suo: conclusa una carriera militare che lo aveva condotto anche alla presa di Roma nel 1870, si era occupato per alcuni anni delle carte e dei libri della famiglia Sola-Brusca di Milano. Nel 1886 donò alla Biblioteca Braidense la collezione di oltre novecento edizioni bodoniane formata da Anton Enrico Mortara e da lui acquisita. Dopo diverse esperienze nel settore, divenne addetto straordinario ai manoscritti e all’epistolario muratoriani della Biblioteca Estense, raccogliendo lettere dello storico modenese e promuovendone la pubblicazione; inoltre catalogò i manoscritti musicali della Biblioteca. È quindi con legittima sicurezza che Spinelli non considera “affatto logico il ritenere indegne delle fatiche di uno indagatore delle patrie memorie, la ricerca di quanto spetta alle industrie che tra noi vissero e sono superstiti, e lo ravviso invece tanto nobile quanto gli altri studi che ci hanno conservato gli annali dei rivolgimenti politici, e dei fatti sanguinosi che travagliarono la patria”. Per quanto riguarda l’origine del nome ‘spongata’, l’erudito modenese avverte che, nonostante l’assenza del termine dai vocabolari più qualificati, come quello della Crusca, esso è però citato in quello di Giuseppe Riguttini e Pietro Fanfani e nel Nuovo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze avviato dalla commissione istituita nel 1867 dall’allora Ministro della pubblica istruzione Emilio Broglio. In entrambi si dice che con ‘spongata’ si intende “specie di sorbetto dove entra rhum e riesce spungoso quale panna montata certamente per aggiunta di ova e di zucchero. Può ritenersi questa essere l’origine del nome spongata, cioè l’uso della spuma di zucchero colla quale esse vengono ricoperte: spuma che asciugandosi cristallizza, e con essa si formano anche decorazioni spesso abilissime e di buon gusto”. Pellegrino Loschi, “un carpigiano acuto”, nel commentare la Secchia ra189


Annibale Carracci, 72 Ciambellaro, Roma, 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

pita di Tassoni in cui si fa cenno a questo dolce, nota che “La Spongata è un composto di miele, pane e biscotto, noci, pignoli, uva passa, spezie etc. La pasta su cui viene disteso il medesimo composto è fatta di fior di farina, burro e zucchero. La torta di cui parla Petronio Arbitro e nella quale entravano noci, l’uva passa etc. potrebbe essere un simbolo della nostra spongata”. A parte questa supposizione, forse solo immaginata, il vero primo documento che cita la specialità è datato 1454, si trova all’Archivio di Stato di Milano e fa parte del carteggio sforzesco: il fatto che una spongata fosse stata mandata in dono al duca Francesco conferma l’importanza del prodotto “giacchè se fosse altrimenti, non si potrebbe intendere come tal dono venisse offerto allo Sforza”. Ancora l’anno seguente, secondo un “Registro della Masseria Estense di Modena” veniva inviato in dono al duca ferrarese Borso “un carico di vino, capponi, pernici, fagiani etc. etc. e fra questi etc. trovansi anche spongate di Brescello”. All’Archivio di Stato di Modena Spinelli trovò, “frugando in un fascio miscellaneo […] spettante alle monache Benedettine”, una carta senza data che testimoniava l’invio di spongate al duca estense per il Natale del 1552. “Il foglio lacero – continua Spinelli – era segnato Suor Eleonora d’Este badessa. Questa monaca Estense non figura nelle genealogie del Litta e nemmeno in quelle connesse nell’Archivio modenese; – però dalle mie ricerche risulterebbe che essa doveva essere zia di Ercole II.° e di conseguenza figlia di Ercole I.° e di Eleonora d’Aragona, tenesse le redini del suddetto monastero per molti anni e fosse «vecchierella assai quasi in decrepitanza» nel 1553; […] Così le spongate fecero rinvenire una Estense dispersa”. Sempre fra le carte delle monache Spinelli trovò anche la “formola circa la composizione delle spongate” datata 10 dicembre 1681 ed essendo una lista della spesa sostenuta, indica anche le lire per ogni ingrediente: zucchero raffinato, 7 soldi per 4 libre; fioretto (specie di zucchero assai bianco), a soldi 28 la libra e poi pignoli, cannella, uva passa, muschio, “butirro” e così via. Nel rimandare alla lettura di questo opuscolo, breve quanto godibile e ricco di informazioni, si chiude con le parole dell’autore “Mi si perdoni il lirismo senile e si gradisca l’augurio di un anno quale si brama. Modena, 1.° gennaio 1904”. (zz)

La torta di san Michele

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Se l’emiliana Brescello possiede la spongata, la romagnola Bagnacavallo può annoverare fra le ‘glorie cittadine’ un dolce che, secondo la tradizione, è legato alla festa del patrono s. Michele arcangelo che si celebra il 29 settembre. Tra le ricette di Cristoforo Messisbugo (di cui la biblioteca Taroni possiede una copia dell’edizione 1559) se ne trova una – chiamata ‘torta marchesana’ – che ne può essere considerata l’anticipatrice: “Piglia libra una e meza di mandole ambrosine, e brustolate, e poi fregale con una peza di lino, e piglia oncie otto d’uva passa monda, e pista bene ogni cosa insieme, con libra una di formaggio duro, e poi aggiungili dieci torli d’uova, e mezo bicchiero d’acqua rosata, et una scutella di buon brodo grasso, et oncie 9 di zuccharo, e si stempera ogni cosa insieme, e passa per lo setazzo, poi ponili una oncia di canella pista, et di buttiero libra meza, e oncie quattro di pignuoli mondi, e incorpora bene ogni cosa insieme, et ongi bene la tiella, poi poneli sopra una spoglia, e poi il battuto, e disopra li farai reticelle, o gelosie, e li porrai del buttiero, poi la porrai a cuocere, e quasi cotta, li darai oncie tre di zuccharo, poi la finirai di cuocere”.


Dissertazioni

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La torta degli Ebrei di Finale Emilia Le comunità ebraiche di Ferrara e Modena risalgono all’esodo di spagnoli e portoghesi costretti a fuggire dai loro paesi a causa delle persecuzioni religiose attuate dai rispettivi sovrani, tra la fine del ‘400 e l’inizio del secolo successivo. Furono accolti dall’ospitale stato estense e con le persone si installarono nel territorio anche le loro tradizioni, comprese quelle gastronomiche. Ancora oggi a Finale Emilia, comune della pianura modenese, si mangia la torta degli Ebrei (tibùia), uno dei piatti tipici della cucina locale. Consiste di una sfogliata (impasto di farina, burro, strutto e formaggio che richiede una laboriosa preparazione) vanto della numerosa comunità israelitica locale insieme al salame d’oca e ai pasquali zuccherini di Pesach. A cedere la ricetta ai cristiani sembra essere stato un certo Mandolino Rimini, figlio d’Aronne, che nel 1861 si convertì assumendo il nome di Giuseppe Maria Alfonso Alinovi e per ribattere al palese disprezzo degli ex correligionari cominciò a produrre la torta aggiungendovi lo strutto, proibito dal Kosher (l’insieme di regole religiose che governano l’alimentazione degli Ebrei osservanti) come tutto ciò che proviene dal maiale. Il 2 novembre viene consumata tradizionalmente con l’anicione, un liquore locale, successivamente l’8 dicembre le viene dedicata una sagra. Lo scrittore finalese Piero Gigli le ha intitolato una poesia, che firma con lo pseudonimo dialettale di Pirin dal Final: La torta d’Abrèi [La torta degli Ebrei] Cus duvivi far i abrèi / Quand calàva zo la sìra. / Incadnà dentr’in dal ghèt? / Povra zènt! In Sinagoga, / po in cusina avsin al fogh, / chi studiava la leziòn, / chi do ciàcar da la finèstra, / chi pianziva in tun cantòn. / E la mama: “Vliv la torta?” / Al papà c’al fièva i cont. / “sa fus vèra. Fala granda”. / Su la tavla, ròsa, alvàda, / la sfuiada la s’avriva, / “o che udòr, infurmaiada / e la fièva dasmingàr / la cadèna ach srava al ghètt. / Cus duvivi far i abrèi / Quand calava zo la sìra? / Tutt cuntènt magnàr la torta / E po dòp, sòta ai linzò, / dasmingàr d’èssar abrèi / e la vecia far di fiò. Il Modenese da gustare 2008; Bellei 2013

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Pietro Antonio Zanoni (Reggio Emilia, 1723 – 1786)

De salinis Cerviensibus carminum libri tres quos amplissimo viro Jo. Baptistae Donato episcopo Cerviensi D.D.D. Petrus Antonius Zanonius Regiensis inter Hypocondriacos Logisticus. Caesenae, apud Gregorium Blasinium sub signo Palladis, 1786. 278, [2] p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. calcogr. ; 8°. – Segn.: A-Q8 R12. – A c. A4r intitolazione con l’indicazione del nome del traduttore, Ideseo Adrasto accademico filopatrido, pseudonimo di Adeodato Ressi. Cesena, BMalatestiana (Trovanelli 11.233. Prov.: Nazzareno Trovanelli)

Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia (Lib. XXXI, cap. IX) scrive che “nihil esse sale et sole utilius”, niente è più utile del sale e del sole: e c’è da crederci, se si considera che fin dall’antichità l’‘oro bianco’ veniva utilizzato sia per la salatura e la conservazione dei cibi che come moneta di scambio. L’Italia, grazie alla sua configurazione costiera, possiede diverse saline quasi tutte dislocate nella parte meridionale e insulare. Secondo una poetica ipotesi raccontata da Pietro Antonio Zanoni, le saline di Cervia sarebbero 192


Dissertazioni nate “Là dove usava di lasciar le mandre / Fuor delle stalle a satollarsi; allora / Fu, che in buon punto le cader sott’occhio / L’orme de’buoi sul terren molle impresse. / Abbarbicata a quelle peste intorno, / Come una brina lucicante, ed aspra / Vede bianca lanugine, e nel fondo / Stese riverberar candide croste, / Riflette, e china ne scorteccia tanto, / Quanto sia duopo a darne saggio al labbro”. (p. 25) L’opera è divisa in tre libri e, nonostante la forma poetica, contiene la storia delle saline: il primo libro tratta della “Origine, forma, coltivatori, e preparazione delle medesime” partendo dall’antico nome della città, che era Ficocle poiché “se Fama non mentisce, il primo / Nome sortì dalla marittim’Alga” (p. 19). Il nome deriva infatti dalle parole greche φῦκος (fücos) che significa ‘alga’ e κλέος (cleos) ‘fama’, cioè luogo celebre per l’alga marina che nasce spontaneamente ed in abbondanza lungo tutti i canali e specialmente in quelli del complesso salifero, in mezzo al quale sorgeva Ficocle. Gli abitanti chiamano volgarmente ‘biso’ quest’erba che è simile al fieno e viene periodicamente rimossa dai canali delle saline perché sia libero il flusso dell’acqua. Il secondo libro parla della “Natura, separazione e formazione dei sali” (p. 100), il terzo e ultimo della “Raccolta, reposizione, commercio, e dedizione de’ sali”.

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La lettura del testo, redatto in latino dall’autore – che apparteneva all’Accademia degli Ipocondriaci di Reggio Emilia – è piacevole e istruttiva ed è facilitata dalla traduzione eseguita dall’economista e patriota cervese Adeodato Ressi. Attualmente, della struttura originale resta la salina Camillone, parte integrante del Museo del sale, dove si continua la lavorazione artigianale con l’antico sistema definito ‘metodo cervese’. Al museo è stato da poco donato un manoscritto sulla Istoria della città di Cervia dello studioso settecentesco locale Giuseppe Maria Pignocchi che redasse anche un Catalogo delle notizie sin ora rilevate da’ libri storici, da varj archivj, e da manoscritti sopra le saline di Cervia e loro sali, li dominanti suoi, ed i loro appaltatori, di cui la Biblioteca Classense di Ravenna possiede l’interessante edizione, in forma di manifesto, stampata a Ravenna nel 1750. Dal 2004 il sale marino artigianale di Cervia è ‘presidio slow food’. (zz)

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Medardo Bassi

(Sala Bolognese, 1840 – Bologna, 1905) Breve relazione ed allegati concernenti il premiato Stabilimento a vapore di Medardo Bassi in Bologna per la fabbricazione dei salumi suini. Bologna, Azzoguidi, 1884. 18 p. ; 23 cm. – In testa al front.: Esposizione generale italiana di Torino, 1884. Bologna, BC Archiginnasio (17.Artistica L.2, 1)

Medardo Bassi è un nome ormai sconosciuto ai bolognesi, ma questo personaggio ha avuto, alla fine dell’800, una fondamentale importanza nell’ambito dell’industria alimentare della città felsinea, essendo fondatore di un importante stabilimento di produzione di insaccati e salumi e, in particolare, delle mortadelle. Nato a Sala Bolognese nel 1840 fu permeato dalla vita politica del tempo. Convinto patriota, partecipò alla spedizione dei mille con Garibaldi, venne gravemente ferito durante la battaglia di Milazzo e in seguito a ciò gli venne amputata la gamba sinistra. Rientrato a Bologna iniziò a lavorare nel campo della salsamenteria. In quegli anni la città, pur mantenendo il primato economico e industriale sugli altri centri emiliani, rimane esclusa dal rapido processo di industrializzazione che coinvolge l’Europa e le grandi città dell’Italia settentrionale ed il motore principale dell’economia bolognese resta l’agricoltura. Per tale motivo è ancor più da apprezzare la capacità del Bassi e di altri imprenditori del suo stampo di impiantare stabilimenti industriali in un territorio ancora molto arretrato, e che li ha messi in grado in pochi anni, di svilupparsi in maniera tale da riuscire ad esportare i propri prodotti in Italia e nel resto del mondo, anche oltreoceano. Il salto di qualità dell’industria bolognese del tempo avviene nel 1884 con l’Esposizione generale italiana di Torino in cui la città petroniana si propone come centro produttivo di importanza nazionale. In quel periodo, appunto, accanto al settore alimentare, prevalentemente nei rami caseario, molitorio, di bril194


Dissertazioni latura del riso e delle carni insaccate, in Emilia Romagna prospera anche l’industria meccanica, famose le aziende Calzoni e Barbieri nel campo di impianti idroelettrici, turbine, pompe e compressori, le Officine Maccaferri impegnate nella costruzione di gabbie di ferro, la ditta Zamboni che realizza le prime macchine per la fabbricazione di paste alimentari, soprattutto tortellini. Medardo Bassi viene invitato all’Esposizione di Torino, e in tale occasione pubblica questa Breve relazione in cui dapprima esprime la riconoscenza verso la città piemontese per l’invito ricevuto, poi la esalta per il suo rapido e splendido progresso industriale e, per ultimo, la loda per il suo patriottismo, la pervicace volontà di giungere all’unità d’Italia e per essere stata per lunghi anni asilo pietoso degli esuli. Passa successivamente ad illustrare, con giustificata soddisfazione, i suoi inizi di piccolo industriale. Dice infatti Bassi: “dopo sforzi e sacrifici infiniti e combattuto e vinto gli ostacoli che si opponevano, ebbi finalmente il dolce compenso di vedere il mio stabilimento riscuotere il non facile plauso dei concittadini, di svegliare e incitare altri a seguirmi, di confondere l’invidia e l’incredulità e la cieca affezione ai vecchi imperfetti sistemi di fabbricazione che la stessa mia casa teneva nel suo nascere”. Poi elenca i riconoscimenti ottenuti nelle varie esposizioni “come apparisce dagli allegati” che seguono alla relazione, tra cui ricordiamo la medaglia d’argento all’esposizione nazionale di Milano del 1881 e la prima medaglia ottenuta a Melbourne nell’ambito di una mostra internazionale. È interessante notare, anche, come una parte della relazione descriva gli affanni e le ansie di un imprenditore del tempo nei confronti delle tasse. Egli lamenta come la sua industria sia “troppo colpita ed inceppata dai pubblici aggravi” e “io debba principalmente dolermi della misura eccessiva assegnatami nel canone di Dazio Consumo Comunale”. Ma nonostante quelle che il Bassi definisce ingiustizie, accomunate anche ad alcune sventure familiari – la malattia della madre e della sorella, sue solerti collaboratrici – egli dichiara che non cesserà mai di prestare le maggiori cure possibili alla sua industria che egli annovera fra le più celebri ed antiche di Bologna.Tra gli allegati, che come già accennato, celebrano riconoscimenti e premi ricevuti dalla ditta e testimoniati da articoli dei giornali dell’epoca se ne trova uno molto particolare: nel giornale «La patria» (n. 91 anno IV) si riporta di una visita fatta nel magazzino e nel negozio adiacente di Medardo Bassi situato in via Saragozza a Bologna.Trattasi di una descrizione accurata del vasto salone

Grande Stabilimento a vapore per la lavorazione della carne suina Fratelli Nanni, Bologna, cartolina postale, sec. XX (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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ornato di bandiere tricolori e di iscrizioni patriottiche. Si dice “tutt’intorno appeso al soffitto v’è una gran quantità di mortadelle e di salumi diversi […] così a occhio e croce il numero delle mortadelle si valuta al migliaio, il che tradotto in peso dà la bellezza di circa 60 e più quintali. Disposte in bell’ordine su due file e brillanti di nettezza, vi sono ben nove macchine: fra le quali sono degne di menzione quelle inventate ed eseguite dal meccanico Giusti per tritare le cotiche ed i lardelli e per affettare la mortadella [...] Quella mostra è un inno al lavoro ed all’amor patrio […]”. E questo afferma anche una lettera dell’eroe di Caprera appesa in un quadretto fra due vessilli nazionali che recita: Caprera 2 gennaio 1877 “Mio caro Bassi, fu una calda zuffa quella di Milazzo ed ai valorosi come voi dovemmo il trionfo a caro prezzo – di cui portate il segno – seminando una gamba in quei campi di cactus. È cotesta una croce al valore militare indistruttibile. Grazie per gli eccellenti salumi e tortlin Sempre vostro Giuseppe Garibaldi. Qui e pagina seguente: F.lli Nanni, Bologna, cartolina postale, sec. XX (Bologna, BAS S. Giorgio in P.). La cartolina mostra la fabbrica dei F.lli Nanni e pubblicizza le scatole di metallo inventate da Alessandro Forni per conservare e spedire gli insaccati (soprattutto mortadella) in tutto il mondo.

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È doveroso ricordare anche altri illustri imprenditori nel campo della salsamenteria petroniana contemporanei del Bassi, per esempio i fratelli Zappoli e Ulisse Colombini. Tutte queste imprese beneficiarono per il loro sviluppo di un metodo di inscatolamento inventato da Alessandro Forni; tale metodo rivoluzionario consentiva una lunga conservazione della mortadella (normalmente tagliata in grosse fette da 250-500 grammi) e di conseguenza favoriva in maniera massiva l’esportazione; è interessante considerare che già nel 1881 il 65% della produzione è destinata al mercato italiano extra-emiliano ed estero. A tal proposito il sopraccitato stabilimento Colombini negli anni ’80 e ’90 del XIX secolo estenderà la vendita di mortadelle in tutto il mondo: dal Nord America al Brasile e Perù, dall’India all’Estremo Oriente. E fu così che il più famoso insaccato bolognese poté essere apprezzato in ogni angolo del mondo. (acm) Pedrocco 2013


Dissertazioni

Le “vere e proprie fabbriche” della mortadella La statistica industriale promossa dal Ministero di industria agricoltura e commercio nel 1898 (fasc. V-A, p. 60-61) rilevò che la lavorazione dei salumi aveva “una notevole importanza nella provincia di Bologna sia pel numero degli operai che tiene occupati, sia pel commercio d’esportazione a cui dà luogo specialmente della mortadella della quale si spediscono annualmente circa un milione di scatole contenenti da 125 a 250 fino a 500 grammi ognuna. Non tenendo conto delle piccole fabbriche e dei pizzicagnoli i quali si occupano della lavorazione delle carni suine in misura più o meno rilevante, si hanno nella provincia 9 ditte le quali attendono a questa industria in vere e proprie fabbriche fornite di motori meccanici. Di queste fabbriche, 5 si trovano a Bologna, 3 ad Imola e l’ultima nel comune di Borgo Panigale. Le fabbriche di Bologna sono proprietà delle seguenti Ditte: Zappoli Fratelli, con un motore a vapore della forza di 8 cavalli e uno a gas di 2 cavalli e 54 operai; Lanzarini Fratelli, con un motore a gas di 6 cavalli di forza e 40 operai; questa ditta tiene inoltre occupati 30 operai nella fabbricazione delle scatole di latta per salumi; Colombini Ulisse, con 15 operai e un motore a gas di 4 cavalli di forza; finalmente Romagnoli Giuseppe e Forni Alessandro, con 7 operai per ciascuno e 2 motori a gas della forza complessiva di 5 cavalli. Ad Imola la ditta Baroncini Aristide ha un motore a gas della forza di 2 cavalli e, insieme ad altri 2 produttori del luogo, che non fanno uso di motori meccanici, occupa 14 operai. Finalmente la fabbrica di Borgo Panigale di proprietà della ditta Nanni Fratelli, dispone di un motore a vapore della forza di 6 cavalli ed occupa 20 operai […]I principali articoli di produzione sono lardi e strutti, mortadelle e salumi che si smerciano in tutta Italia e anche all’estero, in Europa, America, Asia, Africa ed Australia. In complesso queste varie fabbriche occupano 187 operai […]” A Castelnuovo Rangone (Mo) l’azienda Villani cominciò la fabbricazione di salumi nel 1886, anche se il suo fondatore li produceva già vent’anni prima. 197


La cucina è l’arte più antica, perché Adamo è nato a digiuno. Jean-Anthelme Brillat-Savarin Fisiologia del gusto

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Dopo le sporadiche, seppur significative, attestazioni di ricettari medievali (v. scheda n. 96), le raccolte di istruzioni per la preparazione di pietanze compaiono prepotentemente sulla scena emiliano-romagnola nell’età delle grandi corti rinascimentali. E non è un caso: le arti della cucina appartengono al complesso e sontuoso rituale che si consuma in quei contesti, dove anche la munificenza del signore, la sua capacità di accogliere e di stupire con sontuose mense costituiscono strumenti di manifestazione e, quindi, di gestione del potere. Né è un caso che sopra si sia parlato di arti della cucina al plurale: l’organizzazione dei banchetti coinvolgeva una sequenza di distinte discipline e competenze: oltre alla preparazione delle vivande, comportava infatti l’allestimento scenografico delle tavole con stoviglie e tessuti pregiati; la predisposizione di trofei – ossia vere e proprie sculture – e scenografie architettoniche; per arrivare fino alle eleganti e composte gestualità del personale di servizio e di chi era addetto a trinciare, ossia tagliare e porgere le vivande. E così gli autori dei manuali di cucina non appartengono soltanto al novero dei cuochi e capo-cuochi (come è il caso di Bartolomeo Scappi, Bartolomeo Stefani, Giuseppe Lamma, Carlo Nascia, Antonio Maria Dalli), ma anche a quello di altri professionisti di corte: si tratta di scalchi (come Cristoforo Messisbugo, Giovanni Battista Rossetti, Antonio Latini); credenzieri (come Giovanni Francesco Vasselli) e trincianti (come Giovan Francesco Colle). Tutti questi sono ben più che semplici artefici della cucina, ma importanti, ambiziosi e non di rado dotti funzionari di corte: essenziali in-


Ricettari e “libri di casa” granaggi di quella raffinatissima macchina dello splendore, capaci di valorizzare le migliori tradizioni locali e, all’occorrenza, di contaminarle con esperienze culinarie straniere. Il progressivo tramonto delle corti padane, tra la fine del Cinquecento ed il Seicento, decreta la fine di questo tipo di opere: già si avvertono i segni di una involuzione nel testo del Dalli, nel diario – più che ricettario – dell’anonimo cuoco di casa Pico e, ancor di più, nel lavoro dello Stefani: specie in quest’ultimo, alla celebrazione barocca dello sfarzo e della sontuosità della mensa si affianca progressivamente un nuovo approccio più pratico ed ‘economico’ alla cucina, anche se non manca pure in questo periodo l’attenzione per una ricerca internazionale (ne è tra l’altro testimone Il cuoco francese). Ma quella evoluzione, di fatto, si compie pienamente col Settecento: allorquando i ricettari sono improntati ad una nuova sobrietà, dove le testimonianze dello sfarzo, pur non censurate, non di rado vengono contenute all’interno di raccolte in cui le ricette per gli alimenti sono accostate ai consigli, alle formule e ai prontuari per le attività della vita quotidiana: dalla preparazione di rimedi curativi alla fabbricazione di colori e pigmenti; dalla doratura dei metalli ai modi per smacchiare e lavare con efficacia. Ma vi è anche un’altra novità: accanto ai ricettari scritti dai grandi cuochi al servizio di personalità (è il caso di Alberto Alvisi), si affacciano quelli di tradizione familiare: opere anonime, nate nell’ambito di grandi casate (come i Cassoli di Reggio Emilia o i Valdrighi di Modena) e frutto di una sapiente sedimentazione plurigenerazio-

nale, ispirata ad un sobrio pragmatismo. Proprio l’ambito delle grandi famiglie è il nuovo contesto capace di alimentare la riflessione e l’elaborazione dei trattati sull’arte della cucina. Con l’Ottocento, tuttavia, si assiste ad un’ulteriore evoluzione: accanto a lavori elaborati dalle grandi casate (come i manoscritti di Luigi Naldi, al servizio in Piacenza dei conti Scotti Douglas) o delle restanti corti (come, per certi versi, il trattato di Vincenzo Agnoletti), si affacciano nuove espressioni della letteratura culinaria: si tratta da una parte di edizioni di gusto popolare, anche anonime, che esaltano le tradizioni gastronomiche locali, non di rado con sapida vivacità narrativa (v. schede 90-91) e, d’altra parte, di lavori scritti da grandi firme, appartenenti alla classe intellettuale e borghese, come Pellegrino Artusi (che non ha certo bisogno di presentazioni!) ed il geniale Olindo Guerrini (capace anche di misurarsi con gli strumenti della filologia nel recupero di antichi ricettari). Le opere dell’Artusi e del Guerrini, in definitiva, ci narrano di una cucina sobria, dove all’esaltazione dei sapori della tradizione si associano i valori dell’economia e, perché no, della frugalità. Il Novecento saprà ancora fare tesoro della vivacità di cui è stato capace il secolo precedente: ne sono testimonianza opere come quella del versatile Majani, amico di Olindo ed erede della sua lezione, o di altri cuochi come il riminese Salvatore Ghinelli, detto Gnaf. Ma questi due esempi ci attestano, per la letteratura culinaria, anche un orizzonte d’attesa dominato ormai da un pubblico di massa. (ac) 199


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Giovan Francesco Colle (Napoli, fl. prima metà del sec. XVI)

Refugio de poufro [sic] gentilhuomo composto per Io. Francisco Colle. In Ferrara, per Laurentio di Russi da Valentia, 1520. 4], XLIIII c. ill. ; 4°. – Segn.: ¶4, A-L4. Ferrara, BC Ariostea (E 8.5.26)

Nel rituale del banchetto che si celebrava presso le corti del rinascimento padano, il ruolo del trinciante era tutt’altro che secondario: lo testimonia Giovan Francesco Colle nel suo Refugio. Gentiluomo di origini napoletane in servizio a Ferrara presso Alfonso I d’Este (che governò il ducato dal 1505 al 1534), dopo insoddisfacenti tentativi letterari, si cimentò in un’opera dedicata appunto all’arte che egli esercitava, quella del tagliare le carni e le pietanze da porgere ai commensali. Ma in realtà il lavoro è ben di più di un trattato di natura tecnica, perché qui emerge prima di tutto la dignità di un funzionario di corte: il trinciante, afferma Colle, non è da confondere con i beccai e i trincioni: “beccai sono quelli che ogni cosa tagliano a pezzi e contrapelo, e asperamente con la mano facendo moto or del volto or de li occhi or del corpo or de la testa or de la bocca, or delle gambe”, mentre al trinciante spetta “de star su la vital vita e tenere il corpo dritto, de non far gesti col volto, de non movere la labia né bocca, perché li incommodati gesti sono infamia de li atti corporali; de nettar spesse volte dianzi a lui al suo signore, che el trinciante netto è a tutti accetto e grato”. Eleganza, sontuosità, sfarzo, nobiltà e solennità dei gesti sono le dominanti del portamento del trinciante, che con lame e forchettoni ghermisce e sminuzza le carni e la frutta da porgere ai commensali; ed i primi due libri sono dedicati proprio alle istruzioni che questi deve osservare nel suo lavoro (v. box). Tuttavia in questa operazione letteraria, Colle ha un antecedente, che è il Libro de Cozina, opera composta in catalano da Roberto di Nola, in servizio a Napoli presso il re Ferdinando d’Aragona, dove già erano state compiutamente descritte le competenze del trinciante. E questo libro doveva essere noto a Colle, e con ogni probabilità costituì un significativo motivo di ispirazione; nondimeno il nostro trinciante non rinuncia a fare sfoggio di competenze poetiche e di una accurata conoscenza scientifica: i contenuti del terzo libro, infatti, evidenziano come, secondo Colle, il trinciante non debba essere solo in possesso di abilità pratiche, pur sempre agite in forme convenienti al rango, ma anche di competenze medico-filosofiche, utili a decidere la quantità, la qualità e la forma delle pietanze da servire ai suoi signori ed ospiti. Il terzo libro si apre così con una sequenza di rime (in particolare terzine) sulle qualità dei cibi; ecco alcuni esempi: De li galli. Carne di gallo nel padir si è dura / e grossa più che non è la gallina / e nutrimento men ogor procura. La natura de l’occa. Umida e calda è la carne de l’occa / e molto nutrimento dà il suo pasto, / e duro da padir dove trabocca. De la uva. El ventre mollifica e il corpo ingrazza / l’uva dolce, che calda 200


Ricettari e “libri di casa”

Il trinciante cortigiano: l’eleganza nel tagliare le carni e la sapienza del servire Dal Libro primo “Come se debbe tagliare el capretto o agnello” El capretto o agnello se debbe tagliare de una medesima maniera: messa la tenace forcina apresso de la dritta spalla, disgiuntata quella taglierai la carne minuta se doni a magnare a molti, e se sono persone assai la taglierai come te consentirà el successo tempo: dissi la tagli minuta, perché ogni carne silvatica si debbe tagliare minuta quanto che possibile sia; dappoi taglierai la coscia dritta, ed il simile dèi fare de la sinistra parte, e poi la testa, poi il petto fina al fianco. De quelle farai pezzi largi diti duo, poi le coste de due in due partirai; e mescolate con le cose che dentro a quello serano darai a magnare, e dappoi disgiunterai la carne e osse insieme che sono nelli lumbi; e si vorai aprire la testa la potrai aprire in due modi, l’uno per la bocca e l’altro per la corona, tagliate le orecchie e cavati gli occhi, sutilmente messi inanzi al tuo signore. Messa la forcina nello mostaccio trovarai appresso la volta del cerebro una parvoletta sfessa, dove metrai uno piccolo coltello destramente, e quella bene aperta se aprirano due, talvolta più o manco, e tolti quelli ossi lasserai el cervello nello suo loco, e messo sopra un puoco de sale e pevere con la punta del coltello netto, tolta lui con la testa insieme e messa in un tondo la donarai al tuo signore o signora; e se vorai aprire per la bocca gli torai via le mascelle e la lingua e poi, tolto uno cortelluzo e messo in quello buso de la bocca – dico che sta in dritto la bocca – se aprirà in quatro parte, e aperta farai el simile de l’altra parte; ma avvertisce ch’el coltello vada destramente che non tocca el cervello, perché ogni cosa guasterebbe. Dal Libro terzo “Como il silvatico porco è più laudabile ch’el domestico”

El porco, essendo pigro e gravoso, è ancora grave la carne sua umida, qual umiditade più temperata è megliore, e como il porco domestico sia in continuo riposo e chiuso nel luteo loco, et il salvatico in secchi lochi e in magior esercizio, è sua carne più temperata e difficile a patire, ma quando è ben digesta è di buon nutrimento. E qualonca voglia cognoscere la natura de ogni animale, questa universale regula con diligenza notar deve: de che complessione lu’sia, el luoco dove lui abita, el cibo del qual si pasce, la etade in qual se trova, lo inquieto suo esercizio, el trascorrente tempo e il mutabil e successo anno suo. “Dubio XXIIII, del vino. Qual ebrietà è pegiore da curare, la causata dal vino puro o dal temperato”

È da considerare che la ebrietà del vino adacquato è pegiore e più difficile da curare, e la probabil cagion è questa: el vino adacquato ha questo, che è leve e penetrabile, como già è stato detto, e comprende più li angusti e lati luochi, però la eminente natura non il può così facilmente espellere fuora per le vie de la urina o per altri luochi deputati. El più sottil va più per ogni parte, e quello ha più luoco in ogni luoco, e avendo più luoco è molto difficile de tore quello via; e como el vino temperato più ch’el puro sottil sia, è adonca el vino temperato e pegiore e più difficile de curar ch’el puro, e più presto digerito ch’el adacquato. E ogni cosa ch’è più calda è più atta e disposta alla digestione, e pertanto el vino temperato alquanto è più difficile da medicare e curare la fumosa ebrietade che quello ch’è in tutto puro. Corradini-Trenti 1994 201


e ancor ventosa / restringe l’urina e lussuria abassa. De la persica. Al stomaco caldo molto supplice / persica, di natura è grossa e fredda, / genera flemma e tarde digerisce. Alle rime fanno seguito delle massime in prosa e la sequenza di 25 dubii ossia questioni cui fanno seguito risposte (alcuni esempi nel box) dove sono ancora espresse le conoscenze sui cibi: e qui Colle fa sfoggio di un sapere aristotelico, le cui fonti sono tuttavia da individuare nel Liber de homine del medico bolognese Girolamo Manfredi ed in altre opere (quali il Libreto del padovano Michele Savonarola), ben note negli ambienti della corte estense del primo Cinquecento. L’opera del Colle ha quindi l’ambizione di descrivere ben più di un semplice ruolo di “refugio” – quasi un’estrema opportunità per il “povero gentilhuomo” che intende distinguersi agli occhi dei suoi signori! – ma di delineare le fondamenta di un ruolo di rappresentanza nelle complesse dinamiche di corte. (ac) Bentini Chiappini 1988; Corradini-Trenti 1994

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Bartolomeo Scappi

(Dumenza, 1500 ca. – Roma, dopo il 1571) Opera di m. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio quinto, diuisa in sei libri.... Con il discorso funerale che fu fatto nelle essequie di papa Paulo III. Con le figure che fanno bisogno nella cucina & alli reuerendissimi nel conclaue. [Venezia, Michele Tramezzino, 1570?] [6], 369, [7] c. + [28] c. di tav. calcogr. ; 4°. – Segn.: a6 A-Z8, Aa-Zz8, Aaa8, 2Aa4. Bologna, BUB (A.4. Q.9. 32)

Ritratto inciso di Bartolomeo Scappi in un’altra edizione dell’Opera: Venezia, presso Alessandro Vecchi, 1605, c. a4v. (Ravenna, BC Classense) 202

Risolto definitivamente il mistero relativo alla ‘patria’ di Bartolomeo Scappi – che risulta nato a Dumenza (ora in provincia di Varese) – e dovendo quindi rinunciare anche solo all’ipotesi che potesse essere bolognese, è possibile però addurre qualche argomento a favore di un suo legame con la terra emiliano-romagnola. Senza indugiare su quanto scrive Terence Scully nel suo studio (2011) in cui sostiene che il grande cuoco rinascimentale avrebbe subito indiscutibilmente l’influsso della scuola gastronomica felsinea, il circostanziato lavoro pubblicato su di lui nel 2007 richiama l’attenzione su alcuni fatti tanto incontrovertibili quanto interessanti in proposito: gli unici luoghi, oltre Roma e Venezia, che Scappi cita nel suo trattato sono la città di Ravenna, le valli di Comacchio (dove ha veduto molte gru) e il paese di Argenta (ora in provincia di Ferrara) con le due frazioni di Consandolo e Boccaleone. Inoltre


Ricettari e “libri di casa”

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Ricettari e “libri di casa” a p. 103, parlando dello storione, scrive che “se ne pigliano molti nella Stellata presso Ferrara, nel qual loco il Po fa due rami, un de quali va a Francolino, et l’altro intorno le mura di Ferrara” dimostrando una notevole conoscenza della zona. A questo si aggiunge il servizio prestato per il cardinale Lorenzo Campeggi, per il quale nell’aprile del 1536 dovette organizzare a Roma un banchetto in onore dell’imperatore Carlo V. L’alto prelato, dopo essersi addottorato in legge a Bologna nel 1500, aveva sposato una Guastavillani, di cui era rimasto vedovo dopo pochi anni. Intrapresa solo a questo punto la carriera ecclesiastica, divenne vescovo della città dal 1523 al 1525 (gli successe poi il figlio Alessandro). I due fatti insieme suggeriscono l’ipotesi concreta che Scappi abbia soggiornato a Bologna, come conferma anche – nel 1613 – il poeta fiorentino Girolamo Leopardi che nei suoi Capitoli e canzoni piacevoli (Capitolo in lode della minestra, p. 32) afferma a proposito di una ‘sbardellatissima minestra’ che “Lo Scappi, anch’egli, quella buona testa, / Che ne lesse in Bologna, e tenne scuola / In quel suo libro ce lo manifesta”. Ancora, l’allievo col quale Bartolomeo intrattiene il ‘Ragionamento’ iniziale – e che sarà anche nominato nel testamento – è Giovanni Valfredo da Meldola, un piccolo centro alle porte di Forlì. Finito il suo impegno con il cardinale Campeggi, Scappi lavorò per altri prelati – fra i quali anche il cardinale Rodolfo Pio figlio di Leonello II signore di Carpi, Meldola e Sarsina – fino a diventare il cuoco segreto (cioè personale) del pontefice Pio V, per il quale il 17 gennaio 1567 organizzò il banchetto celebrativo per il primo anno di pontificato. Quando morì venne sepolto nella chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio alla Regola appartenuta, fino alla sua demolizione nel 1888, alla Confraternita dei cuochi e pasticceri. La sua monumentale Opera contiene più di mille ricette ed è suddivisa in sei libri: il primo è impostato in forma di ‘lezione’ impartita da un cuoco al suo apprendista Giovanni che deve imparare l’arte in tutti i suoi aspetti tecnici e organizzativi, compreso l’uso dei vari attrezzi e il modo migliore per conservare i cibi; nel secondo sono 205


trattate le diverse vivande di carne di tutti i tipi di animali – mammiferi e uccelli domestici e selvatici – e la maniera di elaborare salse e sapori; nel terzo si parla dei pesci, delle loro caratteristiche, della maniera di cucinarli e di conservarli, e ancora dei vari modi di cuocere verdure e uova e di fare minestre; il quarto libro elenca liste di vivande, distribuite secondo le stagioni; il quinto tratta della maniera di confezionare pasticci, crostate, torte, frittelle e dolci di ogni specie; il sesto e ultimo libro parla delle vivande più adatte per gli infermi e i convalescenti ed è la prima volta che questo argomento venne affrontato in un trattato della gastronomia italiana, aggiungendo quindi all’Opera un enorme valore storico-sociale. Il libro deve buona parte della sua fama anche alle numerose e belle incisioni che, oltre a rappresentare scene di cucina, riproducono fedelmente tutta l’attrezzatura necessaria per cucinare, dalle pentole ai coltelli, schiumarole, grattugie, colini, setacci, mestoli, persino la speronella per tagliare la pasta (ancora adesso viene usata per i tortellini). Compare qui la prima ricetta del sorbetto italiano (cap. CCLXXX, Per accommodar marasche in gelo): “Piglinosi dieci libre di marasche fresche overo visciole colte di quel giorno, che non siano ammaccate, et lascisi loro la mità del picollo, et faccianosene mazzuoli a diece per mazzuolo, et habbiasi una cazzuola con una libra d’acqua chiara, & ponganovisi dentro le dette marasche, & come comincierà a scaldarsi, ponganovisi dentro dieci libre di zuccaro fino pesto setacciato, & facciasi bollire pian piano, schiumando con il cocchiaro & come le marasche saranno crepate, & saranno tutte d’un colore, cavinosi, & ponganosi in un piatto, & lascinosi scolare, & facciasi bollire la decottione da se fin’ a tanto che venga alla cottura, non mancando però di schiumare, & far la prova sopra il piatto, & se farà boccula che toccandola non si spanda cavisi dal foco, e sciolganosi li mazzuoli delle marasche, & accommodinosi in bicchieri, o in piatti d’argento, con la dicottione sopra, laqual sia tepida, & mettanosi in loco fresco a congelare. In questo modo si possono accommodar le viscio206


Ricettari e “libri di casa” le, & nella medesima decottione si possono cuocere delle prugne damascene fresche”. A questa prima edizione ne seguirono altre, sempre veneziane, fino a quella stampata nella tipografia Combiana nel 1643; l’esemplare posseduto dalla Biblioteca Universitaria di Bologna, senza data di stampa dichiarata ma probabilmente del 1570, è l’unico della regione a possedere quasi tutte le incisioni di corredo. Le edizioni seicentesche dell’Opera sono arricchite dal trattato del Trinciante di Vincenzo Cervio che era stato al servizio del cardinale Alessandro Farnese e nella sua opera descrive in modo divulgativo come si deve tagliare carne, in particolare gli uccelli ma anche pesci, frutta, pasticci o un semplice uovo. La tecnica deve essere quella definita ‘in aria’ e si effettua in modo quasi teatrale con la mano sinistra che tiene il forchettone con la vivanda sollevato in alto, mentre la destra taglia secondo regole anatomiche ben precise. I pezzi tagliati sono lasciati cadere sul piatto senza essere toccati, poi salati e presentati ai commensali. Di Cervio non si sa quasi niente, se non che fu attivo nella seconda metà del ‘500. La lettera introduttiva che dedica al cardinale Farnese è firmata ‘Reale Fusoritto da Narni’ che qualcuno identifica con lo stesso Cervio e che è anche autore dell’ampliamento del testo originale. (zz) Di Schino-Luccichenti 2007

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Cristoforo Messisbugo (Ferrara?, m. 1548)

Banchetti compositioni di viuande, et apparecchio generale, di Christoforo di Messisbugo. In Ferrara, per Giouanni De Buglhat et Antonio Hucher compagni, 1549. [8], 22, [2], 71, [9] c. : ill. ; 4°. – Segn.: ♣-♣♣4, A-Z4 &4, a-b² c4 Ferrara, BC Ariostea (S 16.3.1)

Ritratto di Cristoforo da Messisbugo nel verso del frontespizio

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Probabilmente il principale erede della lezione del Colle (v. scheda n. 73) fu Cristoforo Messisbugo (noto anche con i cognomi Messi e Sbugo). Discendente di una importante famiglia ferrarese di antiche origini nordiche, anche Cristoforo, come il suo maestro, fu attivo presso la corte estense, al servizio dapprima del duca Alfonso I e poi di Ercole II; rivestì diversi uffici, tra i quali quelli di sottospenditore, scalco, fino a ricoprire il potente ruolo di provveditore ducale, ossia di economo-tesoriere di corte. Dell’attività amministrativa di Messisbugo esistono tuttora dei documenti, tra cui un registro contabile, il Compendio generale, insolitamente adorno di incisioni ed acquerelli (Modena Archivio di Stato, Archivio Segreto Estense, Camera, Amministrazione dei principi, 58); il manoscritto fu interrotto per la morte dello stesso Cristoforo. Egli ci è tuttavia noto per la sua opera Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale, uscita postuma (1549), e riedita più volte, della quale esiste, peraltro, anche un manoscritto (conservato presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara). L’opera, contraddistinta da una prosa maggiormente accattivante rispetto a quella di Colle, è divisa in tre libri; nel primo l’autore esordisce con una minuziosa elencazione dei corredi che erano necessari per allestire ed imbandire una tavola di corte, gli ingredienti e materie prime, le spetiarie, ed ancora le masseritie da cucina; e poi gli offitiali, ossia il personale di servizio: siniscalchi e scalchi, credenzieri, imbanditori, bottiglieri, panatieri e canevari, portatori e garzoni. Ed ancora tutto il necessario per le andate in villa o altrove: personale, masserizie, animali e strumenti per la caccia ed il divertimento: tele, rete, balestre balottare, zarabottane e schioppi, ma anche carte e dadi, tavolieri e scacchieri, balloni con i braccialetti, palle da vento, pallette piccole con le racchette. Messisbugo restituisce così l’immagine degli sfarzi di corte, con una sorta di sorprendente e minuzioso “catalogo” che manifesta la perizia del buon cortigiano. Immagine che viene pienamente integrata dalla descrizione, nel secondo libro, di diversi conviti effettuati sotto la sua cura, tra i quali memorabile fu quello in onore del cardinale Ippolito II d’Este del maggio 1529, doverosamente accompagnato da danze e musiche, o quello organizzato per Ercole, il gennaio dello stesso


Ricettari e “libri di casa” anno, che fu preceduto dalla rappresentazione della Cassaria di Ariosto. La stessa magnificenza viene espressa nel terzo libro, dedicato alle ricette. Esse sono organizzate sotto le seguenti voci: compositione delle più importanti vivande; torte di varie sorti; minestre diverse; minestre per dì di quaresima; sapori da grasso e da magro; potacci, brodi e robba in tiella e in pignatta; per accarpionare ogni pesce; latticini di più sorti; a fare composte. Colpisce l’attenzione nei confronti di ricette che tradiscono, almeno nel nome, la ricerca di sapori europei o esotici: abbondano piatti qualificati con l’aggettivo francese o con l’espressione alla francese, tedescho o alla tedescha, o alla alemana; attestato anche qualche piatto alla catellana, inglese o englese, alla ongarescha; né mancano più ricercate proposte culinarie, come il riso o faro alla turchesca e la vivanda alla Hebraica di carne (quest’ultimo piatto a testimonianza di una presenza socio-culturale assai importante nella Ferrara rinascimentale). Ma dominanti sono i piatti della tradizione italiana e, in particolare, padana e ferrarese: al riguardo è significativo che la sequenza delle ricette si apra appunto con le brazzatelle, parola tuttora in uso a Ferrara per indicare un tipo di ciambella; e poi diversi piatti di tortelletti (o tortellini), che potevano essere utilizzati per guarnire o ricoprire le carni. Significative sono, tuttavia, le pietanze legate alla presenza dominante delle acque nel ducato estense: troneggia, tra i pesci, l’anguilla, regina del delta del Po e del Comacchiese, proposta in diverse ricette – tra cui quella di una torta! – e sono attestati anche i gamberi, un tempo ben presenti nelle acque dolci del Ferrarese. Così come il caviale, prezioso ingrediente di un paio di ricette (frittade di caviaro e caviaro per mangiare frescho e per salare), prodotto dallo storione (pur esso richiamato in varie pietanze) diffuso fino almeno alla metà del ’900 nelle acque del Po. A corredo del volume, pregevoli sono le due vivaci incisioni raffiguranti rispettivamente un banchetto e un’animata cucina in piena attività. (ac) Bentini-Chiappini 1988; Cremonini 2014

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Il caviaro di Messisbugo nel cuore del ghetto ebraico di Ferrara La comunità ebraica ha costituito per secoli una componente significativa della società ferrarese, anche se il lungo periodo di emarginazione della comunità imposto dalla fine del ‘500 – quando la città passò al dominio pontificio – incoraggiò la tendenza alla conservazione della propria autonomia etnica. Nella zona del ghetto (via Mazzini, via Vignatagliata, via Vittoria), isolata da cancelli che venivano chiusi ogni sera, gli ebrei elaboravano usi, riti e ricette gastronomiche, come il salame e il prosciutto d’oca, il caviale di uova di storione, il polpettone di tacchino, le burriche (fagotti di pasta sfoglia riempiti con farcie sia salate che dolci), i cedrini di Purin (dolci di crema cotta di mandorle, zucchero e vaniglia spalmata su savoiardi bagnati di alkermes), la minestra di Farro, gli zuccherini di Pesach, i ricciolini per il Kippur. E proprio in via Mazzini, nel cuore del ghetto ebraico, il negozio di Benvenuta (Nuta) Ascoli era conosciuto per il salame d’oca e per il caviale di storione – che veniva preparato con lo stesso procedimento seguito da Messisbugo – in una cassettina di legno particolare, ereditata insieme alla ricetta da suo padre Laudadio. La Nuta dovette cedere l’attività nel 1938 a causa delle leggi razziali. Ecco qui la ricetta del caviale, anzi del ‘caviaro’ secondo Cristoforo Messisbugo, seguita dalla preparazione di una ‘vivanda alla hebraica’ a base di carne di vitello. Caviaro, per mangianre [sic]. Frescho, e per salare (c. 66v) Piglia l’uova dello sturione, e come più sono nere, sono migliori, e distrigale su una tavola colla costa del coltello, nettandole bene da quelle pellegatte, e pesale, e per ogni libre vinticinque d’uova, li ponerai oncie dodeci e meza di sale, cioè oncia meza per libra d’uova. Poi le ponerai in un vaso con il sale, e le lasciarai così per una notte. Poi haverai una asse nuova polita longa piedi tre, e larga piedi uno, colle sponde di legno intorno inchiodate, alte tre buona dita. Poi pigliarai le dette uova, e le ponerai su la detta asse, e le ponerai nel forno che sia onestamente caldo per spacio di due Pater nostri. Poi le cavarai fuori e le mescolarai molto bene con una palletina di legno, e le riponerai un’altra volta nel forno lasciandogliele come è detto disopra, et andarai così facendo sino che seran cotte, e questo serà quando le uova non schiapparano sotto il dente, e che serano mancate quasi il terzo, e bisogna bene avvertire a questa cottura perché per conservarlo uno anno, o due farai di questa maniera. Lo porrai in vasi di pietra bene invetriati con un poco d’olio disopra, in loco frescho, et quando serà gran caldo per ogni vinti giorni bisognarà levarli quella tellarina che farà disopra, e gli aggiungerai un poco d’olio, e come non serà caldo, bastarà riguardarlo ogni due mesi.

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A fare vivanda alla hebraica, di carne (c. 70v) Pigliarai di carne di vitello nella polpa libre tre, e nettala bene dalle pellegatte, e nervi, e pestala minutamente. Poi habbi una pistata d’herbe oliose, et uva passa, et un poco di specie d’ogni sorte, e metti ogni cosa insieme. Poi piglia i torli ai quattro ove dure, cioè il torlo solo integro. Poi piglia la metà della compositione sopradetta in forma di meze balle da vento, e mettili fra mezzo i quattro torli sopradetti, et serale poi insieme in forma de una balla integra, e ponila a cuocere nel buon brodo con una pestata d’herbe oliose, e un poco di noce moscata, e tanto zaffrano che li dia colore. Poi le imbandirai una, o due per piatello secondo la grandezza di che le farai col detto brodo, con fette di pan sotto se ge ne vorrai. (zz) Toaff 2000; Marziani 2013


Ricettari e “libri di casa�

Annibale Carracci, 23 Sguattero con i Regaglie di Cocina, Roma 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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Giovanni Battista Rossetti (Ferrara, sec. XVI)

Dello scalco del sig. Gio. Battista Rossetti, scalco della serenissima madama Lucretia da Este duchessa d’Vrbino, nel quale si contengono le qualità di vno scalco perfetto, & tutti i carichi suoi, con diuersi vfficiali à lui sottoposti:... Con gran numero di banchetti alla italiana, & alla alemana, di varie, e bellissime inuentioni, e desinari. In Ferrara, appresso Domenico Mammarello, 1584. [16], 268, [4], 269-547 [i.e. 549], [3] p. ; 4º. – Segn.: a-b4 A-Z4, Aa-Kk4 Ll6 Mm-Zz4, Aaa-Zzz4. Ferrara, BC Ariostea (E 15.5.6)

Giovanni Battista Rossetti fu scalco di Lucrezia d’Este, figlia di Ercole II e moglie di Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino; questo matrimonio, rivelatosi ben presto infelice durò dal 1570 al 1578 e si concluse con la separazione ed il ritorno a Ferrara della duchessa. Il libro Dello scalco uscì sei anni dopo e fece tesoro dell’esperienza maturata da Giovanni Battista in 27 anni di carriera presso la corte ferrarese, al servizio sia di Lucrezia che di suo fratello Alfonso II. Frutto di un lungo percorso di consolidamento e canonizzazione dei ruoli e delle fisionomie dei cortigiani nella Ferrara del tardo Cinquecento, l’opera ci restituisce come poche altre un’immagine definita e chiara delle funzioni degli alti ufficiali estensi, con un approccio talora quasi manualistico; connotazione che emerge soprattutto nel libro primo, dove vengono minuziosamente descritti i profili dello scalco come pure degli altri collaboratori: lo spenditore, il dispensiero, il panatiero, l’ufficiale delle farine e l’ufficiale delle legna, il canovaro, addetto alla gestione della cantina, il sottoscalco, vicario dello scalco, il maestro di tinello, il credenziero, il bottigliero, il sopracuoco ed il cuoco. Figure cui erano assegnati ruoli precisi nella complessa macchina della corte, dove il regista, tuttavia, restava lo scalco; di questi il Rossetti descrive compiutamente qualità, competenze, abilità, compiti, senza lesinare consigli e pareri desunti dal proprio bagaglio esperienziale, tanto che l’autore finisce per delinearne a tratti un profilo, per così dire, psicologico, fatto di discrezione, maniera, buon gusto, rispetto delle forme: “Dee [lo scalco] conoscere gli humori di coloro con quali conversa, et specialmente del suo signore, et de forestieri col farli servire a lor modo […]. È di bisogno che lo scalco habbia buon gusto e sia molto goloso per chi serve e niente per sé: perché per l’autorità che tiene potria valersene per lui, ma daria continuamente cattivi essempi e mostraria che la sua virtù non fosse vera, ma allettata, anzi violentata dal vitio della gola solo per proprio interesse […]. Si ricerca in lui gran giudicio per conoscere quando ei debba caminare per la strada larga dello splendore et liberalità, et quando per l’angustia della parsimonia, et quando et per lo più per quella come per più lata et lodata della mediocrità, ove può meno errare, benché anco ella talhora secondo i tempi può et gravemente traviare. Sia vigilante e sollecito, e inimicissimo dell’otio, né 212


Ricettari e “libri di casa” si lasci venir a noia l’ufficio suo; ogni cosa difficile e faticosa gli paia facile e piana. Sia risoluto, né si perda mai d’animo, perché sbigottendo egli viene a nuocere a sé et a suoi ufficiali, et quando egli havrà fatto quel che si può far per lui, sarà da ogni huomo scusato”. Ancora ispirato al vissuto personale del Rossetti, il secondo libro reca un lungo elenco di banchetti organizzati da questi, con l’indicazione delle pietanze servite: una sorta di diario di oltre 400 pagine nel quale l’autore può ostentare un invidiabile catalogo curricolare dove si ripercorrono cene, pranzi, banchetti. Qui tuttavia l’analisi degli eventi viene sacrificata ad una certa urgenza, che al lettore appare aridità elencatoria, mentre le circostanze e gli umori che hanno accompagnato il banchetto sono sottaciuti o per lo più rapidamente risolti. Anche il terzo libro, dedicato alle vivande, ossia alle pietanze, si risolve in buona parte in un lungo elenco, che comprende, tra i piatti della tradizione storica ferrarese, lo storione ed il caviale, l’anguilla, le confetture e i tortelli di zucche. Tuttavia l’elenco è privo dell’illustrazione delle ricette: e d’altra parte, come dichiara l’autore, la dignità dello scalco non può permettere la confusione del suo ruolo con quello del cuoco. Semmai allo scalco spetta l’organizzazione di eventi di particolare rilievo, critici o eccezionali, come la partenza del signore per una guerra: per questo non deve stupire la presenza, sempre nel terzo libro, di una dettagliata Memoria delle provigioni che bisognano fare per un prencipe che andasse alla guerra. (ac) Benporat 1991; Bentini-Chiappini 1988; Ughi, II, 143

Gli splendori della corte estense visti da un antiquario dell’Ottocento Luigi Alberto Gandini (Modena, 1827-1906) fu collezionista di tessuti antichi, raccogliendo in particolare abiti storici appartenuti agli Este. Frutto anche di questa passione per le antichità estensi è la sua opera dal titolo Tavola, cantina e cucina della Corte di Ferrara nel Quattrocento. Saggio storico (Modena, Soc. Tipografica Modenese, 1889), pubblicata in occasione delle nozze Agazzotti-Testi (12 gennaio 1889). L’autore, grazie ai suoi studi condotti sulla documentazione archivistica e sulla letteratura, ripercorre con cura la composizione della corte estense, elencando le figure di ufficiali e le relative funzioni: sescalco, apparecchiadori, credenzieri, deputati agli arzenti, spendidori, panatieri, chanovari; cuochi, mastri di confectioni ecc. Ripropone inoltre un catalogo dei corredi per gli apparati, restituendo l’immagine degli splendori del primo rinascimento estense: biancherie, tovaglie, manipoli, strozabochi, argenterie, perfumatori, stoviglie di terra(cotta), di vetro e oggetti di legno ecc. Non di rado si sofferma nel narrare e descrivere le curiosità della vita di corte, come l’uso di ricoprire, in occasione dei banchetti, le carni – soprattutto se arrostite – con lamine d’oro e d’argento: in occasione delle nozze di Ercole I, per esempio, si consumarono “peze d’oro 2100”; oppure l’uso di aromatizzare lo zucchero con il muschio.

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77.

Giovanni Francesco Vasselli (Bologna, ? – Mirandola, 1648)

L’Apicio ouero il Maestro de’ conuiti di Gio. Francesco Vasselli dedicato all’Illustrissimo Senato di Bologna. In Bologna, per gli HH. del Dozza, 1647. [16], 117, [15] p. ; 4°. – Segn.: [a]-b4 A-P4 R2. Mirandola, BC Garin (FA 54 E 31)

Apicio, De re coquinaria, Milano, Guillermus Le Signerre, ed. Johannes de Legnano, 20 Jan. 1498. (Ferrara, BC Ariostea)

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Ben più di un semplice ricettario, l’Apicio di Giovanni Francesco Vasselli costituisce il “consuntivo di un trentennio di vita cortigiana, filtrata attraverso la descrizione dei banchetti offerti o presenziati da Alessandro I” (Longo-Michelassi 2001, p. 36). Di famiglia bolognese, fu egli un alto funzionario e credenziere alla corte della Mirandola, in una stagione connotata dai fasti e dal mecenatismo di uno dei più accorti e potenti duchi che ressero il piccolo stato padano. Figura ben inserita nelle dinamiche di quella corte, ma anche degli ambienti culturali dell’area padana di età barocca, Vasselli fu capace di sviluppare uno stile forbito e di manifestare una significativa erudizione nelle pagine del suo Apicio (che uscì con la dedica al Senato di Bologna); fu altresì un esponente di rilievo della locale Accademia degli Incolti, ed una raccolta di rime composte in seno a quel sodalizio, a lui stesso dedicata, venne stampata a Mantova nel 1644. L’opera in quanto ad organizzazione, per certi aspetti costituisce il modello del successivo lavoro di Stefani: capitoli di ricette si alternano alla descrizione di banchetti. Tuttavia il Vasselli tiene a sottolineare la magnificenza delle proprie qualità e abilità con diversi accorgimenti. Innanzitutto il libro si apre con una sequenza di componimenti scritti da altri verseggiatori in sua lode, cui seguono dodici trattati di cucina, contenenti le ricette, che si alternano alle descrizioni di dodici banchetti. I primi si aprono con un Breve trattato del vitello lattante e suoi condimenti a parte per parte (speculare al primo dei Discorsi dello Stefani); seguono capitoli dedicati alle minestre reali; alle torte reali; ai vari e gustosi sapori; alle insalate cotte; crude; di pesci, di carne; alle conserve di frutta; tuttavia nel rituale barocco del banchetto non potevano mancare anche ricette che avevano lo scopo di celebrare lo sfarzo della corte, di suscitare stupore ed ammirazione: ecco allora alcuni capitoli dedicati alle insalate di vari fiori;


Ricettari e “libri di casa” ai modi diversi per aromatizzare varie sorti d’aceto; ai fummi (o profumi); ecco una ricetta: “Per fare un profummo odoroso da metter nelle profummiere d’argento, piglierai mezz’oncia di storace, tre ottave di belgiovino, un quarto di legno d’aloe, un ottavo di cannella, uno di garofani et un altro di scorze di cedro, due di boccie di rose, tre di pastella di levante e gli darai una pestata mettendogli nel vaso con acqua rosa, dandogli fuoco a poco a poco, acciò getti maggior fummo e più soave odore” (p. 102). Né il Vasselli lesina le proprie conoscenze scientifico-filosofiche, all’altezza di un accorto cortigiano, arricchendo le ricette con indicazioni mediche e ricorrendo all’autorità di filosofi e naturalisti quali Avicenna, Galeno, Dioscoride. Vanto dell’autore sono tuttavia i banchetti, organizzati in onore dei Pico o di altri notabili, in particolare tra Mirandola e Bologna: curiosamente il Vasselli non indica le date, tuttavia descrive minuziosamente la macchina dei festeggiamenti, elenca i principali attori, i coreografici corredi ed i trionfi, ossia le sculture composte anche con ingredienti alimentari, posti sulle tavole. L’ultimo dei banchetti, celebrato per le nozze di un non meglio precisato “gran signore”, rappresenta un interessante gioco di rispecchiamenti, poiché si conclude con una sorta di processo dove oggetto del giudizio è lo stesso libro, l’Apicio, e le parti, l’accusa e la difesa, sono rappresentate da due cortigiani al pari del Vasselli, mentre il giudice è nientedimeno che la Maestà d’Apollo. Scontato il giudizio finale della divinità: “Udite con molta attenzione dalla Maestà d’Apollo tutte le sopradette proposte e risposte, lasciossi intendere che tanto bastava dichiarando che passasse alla notizia del mondo questo libro; […] che s’udissero in Parnaso le consuete allegrezze e si facessero i soliti trionfi in onore di questo autore, mentre egli in guiderdone d’opra sì nobile e laboriosa, gli consegnava per custodia del suo volume l’Eternità”. Davvero una chiusa magistrale per una ben congegnata macchina barocca. (ac) Longo-Michelassi 2001

Apicio, chi era costui? La domanda è d’obbligo per chi si accosta alla lettura dell’opera di Vasselli: Marco Gavio Apicio, il personaggio che ispirò il titolo del nostro libro, visse tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C.; fu un patrizio noto tra l’altro ad autori quali Plinio e Seneca, che di lui descrissero la ricchezza e la vita sfarzosa e dissoluta: a lui è attribuito il De re coquinaria, trattato di cucina risalente, nella sua forma nota, al III-IV secolo d.C., con pesanti rimaneggiamenti sofferti nel corso dei secoli. Di questo testo esistono due edizioni del XV secolo: una milanese del 1498, stampata da Guilermus Signerre (IGI 750), ed un’altra veneziana (IGI 751), databile 1498-1500 e stampata da Bernardinus Venetus (Bernardino Vitali). Nel corso del Cinquecento il libro ebbe una discreta fortuna, con diverse edizioni, tra cui una a Venezia (Iohannes de Cereto de Tridino, 1503), una a Basilea (Johann Herwagen, 1541), una a Lione (Sebastianus Gryphius, 1541) ed una a Zurigo (Christoph Froschauer, 1542).

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Un sontuoso banchetto del Signor Duca Alessandro I della Mirandola L’incipit della descrizione di questo banchetto costituisce un’esemplare ostentazione di ampollosità barocca, sospesa tra l’esigenza di celebrare una immagine magnanima e solenne del signore e la manifestazione di un virtuosismo esasperato – a tratti vanaglorioso – del cortigiano. “Cena fatta nel fine di luglio [1620 ca.] per l’Eccellentiss[imo] Signor Duca Alessandro primo della Mirandola, mio Signore, alla Concordia nel passaggio che fece la Sereniss[ima] Madama Catterina Medici Duchessa di Mantova, servita a due piatti reali”. Splendidissima et infinitamente generosa fu sempre, come è di presente, l’eccellentissima Casa Pica; ma il Sig. Duca Alessandro primo (di gloriosa memoria) mio sempre riverito Signore, superò di gran longa tutti i suoi antenati, lasciando nelle lodevoli sue azioni la meta alla quale saggiamente pretese che giungessero i suoi posteri colla generosità dell’animo, con la prudenza, colla benignità e col saper politico; virtù tutte che, lasciate per eredità nell’eccellentissima sua Casa, volle ch’in questa più si godessero che de’ beni di fortuna, a mille vicendevolezze purtroppo soggetti. Tralascio ch’egli fosse il padre de’ virtuosi, il paragone de’ litterati, il mecenate de’ suoi tempi, l’oracolo de’ principi, l’amore de’ suoi sudditi, e solo dirò ch’egli amò così vivamente la splendidezza che la sua Casa non invidiava alle maggiori d’Europa, avendo fornimenti d’adobbi per li suoi quarti così ricchi e superbi che non v’entrò principe quale non restasse ammirato, credenze così piene e ricche d’argenteria, e bianca e dorata, che venivano alle occasioni richieste da i più grandi di Lombardia; gioie tanto famose e superbe che nelle maggiori occasioni erano da tutti desiderate; e che oltre l’aver servidori de’ più prattici e consumati in ogni genere a’ quali con larga e prodiga mano dispensava continuamente e doni e richezze, professava ancora di tenere alla sua persona et al suo servigio cavalieri di prima classe e baroni romani […]. Nell’alloggio dunque di questa Serenissima, volle questo generoso principe fare al mondo più che mai conoscere i tratti della sua natura, e dopo aver fatto preparare il suo palagio della Concordia di maniera che in simile occasione saria stato convenevole alla dignità d’ognuno de’ maggiori potentati del mondo, commandò a me gli ordini delle cucine e credenze, che furono esequiti nell’infrascritto modo. […] Da Vasselli, L’Apicio, p. 29 Merlotti 2013 216


Ricettari e “libri di casa”

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Bartolomeo Stefani (Bologna, ? – Mantova, 1666)

L’arte di ben cucinare ed instruire i meno periti in questa lodevole professione: dove anche s’insegna a far pasticci, sapori, salse, gelatine, torte, ed altro; di Bartolomeo Stefani. In Bologna, nella stamperia del Longhi, 1748. 264 p. ; 12º. – Segn.: A-L12. Faenza, BC Manfrediana (Z.N. 025 006 015. Prov.: Luigi Zauli Naldi)

Bolognese di origine, mantovano di adozione, il cuoco Bartolomeo Stefani fu nipote di Giulio Cesare Tirelli, pure egli cuoco al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia e la cui notorietà andò ben oltre le Alpi. Anche lo Stefani acquisì grande fama: dopo varie esperienze nella sua terra natale, approdò alla corte dei Gonzaga-Nevers a Mantova, dove pubblicò nel 1662 L’arte di ben cucinare, facendo tesoro di una pluriennale esperienza nelle cucine di corte, di cui andò fiero; nella premessa Ai cortesissimi e discreti lettori afferma infatti: “La corte de’ grandi è scuola, ove alla pratica si riduce quanto si può apprendere, ove gl’intelletti si raffinano, ove in fine colla virtù risplende l’honore. Aviso […] che questo libretto non esce da una Accademia, ma ben sì da una cucina”. Ed in questa dichiarazione ben si riassume il senso di una sobrietà – anche stilistica – sconosciuta al pressoché contemporaneo Giovanni Francesco Vasselli (v. scheda n. 77). Il ricettario fu ristampato più volte, fino a metà del XVIII secolo (ne è un esempio il volume qui descritto); ma probabilmente la traccia più curiosa di una notorietà plurisecolare, è la ricetta denominata zuppa allo Stefani, contenuta nientedimeno che nel ricettario dell’Artusi. Se pur è vero che quest’ultimo si prende gioco del cuoco di casa Gonzaga, deprecandone i gusti troppo lontani dalla cucina ottocentesca, è comunque un dato interessante che fosse lo stesso Olindo Guerrini, celebre bibliotecario dell’Universitaria di Bologna, a segnalare all’Artusi il manuale di Bartolomeo, da cui proviene quella zuppa. Lo Stefani è un testimone esemplare delle contraddizioni della sua epoca: vive nella corte dei Gonzaga-Nevers, dove i segni della decadenza economica e culturale sono ormai irreversibili, ma dove, tuttavia, a tratti riemergono gli splendori della cultura barocca. Così egli è capace di narrare, accanto alle forme e ai rituali di una cucina sfarzosa, anche le pratiche di una più semplice arte culinaria: nella premessa ai lettori infatti afferma: “Qui con soavi maniere haverete instruttioni per distinguere ordini, disporre vivande, regalare et adornare piatti, e con generosa spesa e con mediocre, sì che ad ogni occorrenza et ad ogni genio sodisfar potrete”. Una professione di pragmatismo ben lontano dai modelli cinquecenteschi, ad esempio, di Messisbugo. Ma dello Stefani colpisce anche la vastità della cultura gastronomica rapportata alle zone di produzione ed alle stagionalità di ingredienti e alimenti: negli Avvertimenti posti in conclusione del volume, fornisce un lungo elenco, una sorta di catalogo delle specialità peculiari di ogni area

Annibale Carracci 7 Il bicchieraro, Roma, 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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italiana: così di Bologna, sua patria, ricorda i finocchi invernali, i cardi, le uve, le olive di grossezza e perfettione al par di quelle di Spagna (!) e le mortadelle; di Modena ricorda la salsiccia; di Ferrara ricorda i delicati pesci, i cinghiali e il caviale; di Piacenza il formaggio, al pari di quello lodigiano: “il formaggio di Lodi non si può nominar che non si lodi, né quello di Piacenza si può gustare che non piaccia”. Per quanto riguarda l’organizzazione del libro, esso si apre come di consueto con le raccomandazioni al capocuoco e al restante personale di cucina, cui seguono le ricette e le istruzioni organizzate in cinque Discorsi dedicati alle carni (sopra il vitello; sopra gli animali quadrupedi; degli animali volatili; de’ pesci) e al comporre biscottini (che secondo gli usi dell’epoca spesso si accompagnavano proprio alle carni); due Trattati (dedicati alle minestre e alle salse) ed altri capitoli sul comporre torte; sapori; gelatine; bianchi mangiari et altre simili compositioni; vivande… di varii erbaggi; conserve di varii fiori. La sezione si conclude con il Modo gentilissimo per condire varie sorti di frutti. Segue un Trattato nobilissimo per fare in diversi tempi dell’anno, tanto di grasso quanto di magro, banchetti esquisiti, dove Stefani presenta sei progetti di banchetto, ordinati con ingredienti riferiti ai vari periodi dell’anno, e organizzati su più servizi di cucina e di credenza. Ed è qui che l’arte culinaria barocca trova la propria apoteosi: nella descrizione dei magnifici apparati che adornavano le tavole dei banchetti, tra i quali in particolare

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Ricettari e “libri di casa” spiccavano i trionfi, ossia ricostruzioni di statue fatte anche di ingredienti commestibili, come il marzapane, raffiguranti animali, personaggi mitologici, architetture. Esemplare, al riguardo, è il sontuoso banchetto per Cristina di Svezia, che fu ospite nel 1655 di Carlo II, e che con orgoglio dell’autore occupa la parte finale del trattato: “Fu preparata la tavola nella solita camera regia, detta la camera delle Virtù con ricchissimo tappeto e tovaglie doppie, stuccate dal credentiere gentilmente. La credenza ricchissima di bacine e vasi dorati e le bottiglierie cariche di vasi di christallo legato in oro, fabricati con tanto magistero che, chi li rimirava, restava pieno di meraviglia. Nel mezo della tavola s’ergeva un trionfo fatto di zuccaro, ed era il monte Olimpo con l’altar della Fede, nella sommità del quale erano due puttini che sostenevano una corona reale sopra l’arma di Sua Maestà; d’ambedue le parti della tavola vi erano compartiti quattro vasi di naranci con l’albero, frutti e frondi fatti di gelatina, quali havevano apparenza naturale. Fra un vaso e l’altro era una galeria fatta tutta di zuccaro in buon disegno d’architettura, e nella prospettiva d’ambe le parti da una parte dodici colonne corinthie, e dall’altra dodici di ionico. Et in una di queste galerie erano le statue de’ primi guerrieri, che nell’arte militare fatto hanno opere di meraviglia, et anco con varie bizzarrie d’animali, come in tali galerie soglionsi vedere. Nell’altra galeria vi erano li più virtuosi huomini che siano stati al mondo; et ambedue le galerie erano simili d’architettura. Furono le panatiere d’oro coperte con un copertore di sottilissime piegature: quello di Sua Maestà era in forma d’un bellissimo giglio, quello della Serenissima Arciduchessa formava un’aquila, e quello del Serenissimo nostro era in forma d’un elmo con le piume fatte di detta piegatura. Avanti ogni posata di Sua Maestà e Serenissimi, duoi puttini fatti di zuccaro con una canestra traforata, una era piena di biscottini fatti alla savoiarda e l’altra di biscotti di zuccaro”. (ed. Mantova 1662, p. 135-135). Tra le curiosità va segnalata nel libro dello Stefani quella che potrebbe essere la più antica attestazione della ricetta dello zabaione, contenuta in un’appendice presente tuttavia solo nelle edizioni successive alla prima. (ac) La cucina 2002

Disegni del convito fatto dall'illustrissimo signor senatore Francesco Ratta all'illustrissimo publico, eccelsi signori anziani, & altra nobiltà. Terminando il suo confalonierato li 28 febraro 1693, In Bologna, per li Peri All'Angelo Custode, [1693] (Bologna, BC Archiginnasio). Per iI banchetto, offerto a 66 ospiti, i trionfi di zucchero furono realizzati dal pasticcere bolognese Giovanni Battista Zaccarini 219


La torta, anzi… le torte bolognesi Sfogliando i ricettari scritti tra la fine del medioevo e l’età barocca, può capitare di imbattersi in pietanze che si ripropongono da un autore all’altro; talora però non mancano le sorprese. Un caso è quello della cosiddetta “torta bolognese”: questa pietanza è già nota nel Libro de arte coquinaria di Maestro Martino de’ Rossi (n. 1430 ca.), opera che ci è stata tramandata da quattro manoscritti (di cui due conservati in Italia, alla Biblioteca Apostolica Vaticana e alla Biblioteca Comunale di Riva del Garda). La ricetta descrive una torta salata, il cui interno è formato da un impasto a base di formaggio, erbe aromatiche, uova. “Pigliarai altretanto cascio [...] et grattalo. Et nota che quanto è più grasso il cascio tanto è meglio; poi habi de le vietole, petrosillo et maiorana; et nettate et lavate che l’avrai, battile molto bene con un coltello, et mittirale inseme con questo cascio, menandole et mescolandole con le mani tanto che siano bene incorporate, agiongendovi quattro ova, et del pepe quanto basti, et un pocho di zafrano, item di bono strutto overo botiro frescho, mescolando et incorporando tutte queste cose molto bene inseme como ho ditto. Et questo pieno mettirai in una padella con una crosta di sotto et una di sopra, dandoli il focho temperatamente; et quando ti pare che sia meza cotta, perché para più bella, con un roscio d’ovo battuto con un pocho di zafrano la farai gialla. Et acconoscere quando ella è cotta ponerai mente quando la crosta di sopra si levarà et alzarà in suso, che allora starà bene et poterala levare dal focho”. La stessa ricetta, con poche varianti, si legge anche nel De honesta voluptate et valitudine vulgare di Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina; l’opera, in latino, fu stampata per la prima volta a metà degli anni ‘70 del Quattrocento (Roma? ca. 1475; Venezia 1475) e venne successivamente volgarizzata; ecco il testo della nostra torta desunto dall’edizione, in italiano, di Venezia del 1508 (c. 70r): Torta bolognese. Tanto de grasso caso quanto nela biancha habiamo dicto [nella ricetta della torta biancha, sempre a c. 70r, si legge: “optimo caso una libra e megia che sia fresco”] tagliarai et pisterai; tridato che tu l’averai, herbete, petresemoli, maiorana et menta, tutti lavadi et minuti tagliati; ovi quatro bene dibatuti; pevere trito; poco giaffrano; molta assungia onvero butiro frescho agiungerà; et cum le mane messederai insieme modo che quasi si faci un corpo. Questa etiam in la padella cum il foglio al fuoco meterai; et quando la sia megia cocta, aciò la sia più colorita, butali de sopra uno ovo ben aroto cum un pocho de giaffrano. Cocta potrai pensare che la sia quando l’averà levata la crosta de la parte de sopra […]”. Due secoli dopo, lo Stefani, nel suo ricettario, propone una Torta bianca alla bolognese (ed. Mantova 1662, p. 61), ma questa volta si tratta di una torta dolce a base di ricotta: “Pigliarai quattro libre di ricotta grassa pesta nel mortaro spruzzata con acqua rosa muschiata, aggiongendovi dodici ova fresche, ott’oncie di zuccaro, mez’oncia di canella, pestandola sin tanto che diverrà gonfia, et a portione cresciuta ontarai un tegame con butiro senza foglio, vi porrai la compositione, ma che sia ben onta, e la cucinarai nel forno a fuoco lento, e la servirai calda con zuccaro sopra; et havendo bianco mangiare ve ne potrai aggiongere, che sarà buono. Faccioli 1966, p. 159

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Il cuoco francese oue è insegnata la maniera di condire ogni sorte di viuande, e di fare ogni sorte di pasticcierie, e di confetti. Conforme le quattro stagioni dell’anno. Per il signor De La Varenne cuoco maggiore del sig. marchese d’Vxelles. Trasportato nuouamente dalla francese nell’italiana fauella. In Bologna, appresso Giuseppe Antonio Dauico Turrini, 1682. [8], 598, [2] p. ; 12º. – Segn.: π4, A-Z12, Aa-Bb12. Faenza, BC Manfrediana (Z.N. 25.6.11. Prov. Luigi Zauli Naldi)

Nel 1682 viene pubblicata a Bologna quest’opera, in cui si insegna la maniera di condire ogni tipo di vivanda, ufficialmente traduzione italiana dei ricettari di François de La Varenne, il più importante cuoco francese del secolo, profondamente innovatore per il risalto dato alle tecniche di cottura dei cibi più che alla scenografia della preparazione. In realtà questa versione italiana non ha alcun rapporto con il Cuisinier françois di La Varenne, come non ne ha il testo pubblicato nella stamperia di Lelio Dalla Volpe, sempre a Bologna nel 1724 – intitolato Il cuoco reale e cittadino (un esemplare è posseduto dalla Biblioteca Gambalunga di Rimini) – con il Cuisinier royal et bourgeois di François Massialot: rientrano tutti semplicemente nella serie dei rimaneggiamenti di ricettari di ispirazione transalpina che vengono proposti al pubblico italiano e che influenzeranno sensibilmente la cucina locale. François de La Varenne, nobile scudiero del marchese d’Uxelles, maresciallo di Francia, era un cuoco geniale ma anche un collezionista di ricette: il suo libro, pubblicato per la prima volta nel 1651 (nell’arco di una settantina d’anni conobbe più di trenta riedizioni anche in altre lingue) è considerata la prima opera fondamentale della cucina francese. Era un sostenitore dei cibi leggeri e nelle ricette – famose le sue salse – si riproponeva di conservare il sapore originario degli alimenti: niente piatti compilati e snaturati, basta sapori sepolti sotto quintali di spezie esotiche, che si potevano utilizzare, ma con moderazione. Per preparare un’omelette impiegava poche erbe aromatiche fresche, cui aggiungeva pezzetti di carne e di pancetta.Tagliava la carne con precisione e ne arrostiva solo le parti migliori, facendo bollire o stufare le altre. Vietò l’uso dell’aglio in abbondanza, come facevano invece i francesi, permettendone solo l’odore. Morì nel 1678, paradossalmente ridotto in miseria e amareggiato dalle critiche degli altri famosi chef, che non vollero capire l’importanza storica della sua pubblicazione. L’introduzione al ricettario nella versione ‘bolognese’ è dell’editore che dedica il suo lavoro ad Antonio Tiarini, figlio del più famoso Alessandro. L’indice finale del volume è suddiviso in tre argomenti: “Per ogni sorte di vivande, tanto da grasso quanto da magro”, “Del confetturiere”

Incipit della seconda parte de Il cuoco francese, intitolata Il pasticciere francese

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e “Per piegare ogni sorte di panni da tavola, e formarli in più sorti di figure”. La seconda parte è l’unica preceduta da un “Aviso al lettore” molto particolareggiato: “Se voi volete cavare l’utile vostro da questo libro, osservate bene tutte le cucciture del zucchero, e quando io dico a lissa grossa, a lissa minuta, a perla grossa, a perla minuta, il minuto è il men cotto, il grosso è il più cotto. Quando io dico in gelatina questo è quando il zucchero è mischiato con delli decotti, overo con del succo di frutto. La gelatina è perfetta all’hora, quando si piglia del siroppo con un cucchiaro, e versandolo giù egli casca a goccie grosse, e non cola più come fa il siroppo ordinario. Avertite che gli fiaschi ove mettete i vostri beveraggi suavi siano ben politi, e ben turati” e ancora un po’ più avanti “La scopettina di cui vi parlo per le vostre panne, e laticinij, à da esser di betula ben scielta, overo di ramicelli d’olmo pelati, fatela grossa quant’il dito grosso, e legatela bene, e tagliatene le punte. L’insalate nelle quali io non metto condimento, si servono con del zucchero. Potete dar l’ambra, & il muschio preparati a tutte le vostre praline. Potete anche dar l’istesso muschio, e ambra a li vostri marzapani, & anche darli la vernice. Potete colorir le conserve con li colori preparati quando non si trovano frutti, […] in vece di pistacchi adoprarete del succo di bieta, & in vece di granato voi potrete adoprare dell’uva spina, e potete anco darli l’ambra, & il muschio […] Netate bene la paglia sopra della quale voi metterete i vostri melangoli, e limoni e potete anche metterli sopra delle stuore, overo sopra del filo di ferro” e così via sul “modo di fare ogni sorte di confetti, liquori, e beveraggi soavi”. (zz) Peterson 1994

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Antonio Latini

(Fabriano, 1642 – Napoli, 1696) Lo scalco alla moderna ouero l’arte di ben disporre li conuiti… Impressione seconda. In Nap., 1693-1694 (In Napoli, nella nuova stampa delli soci Dom. Ant. Parrino, e Michele Luigi Mutii, 1692). 2 voll. ([12], 606, [10] p.; [4], 256, [4] p.) 4°. – Segn.: π2 a4 A-Z4, Aa-Zz4, Aaa-Zzz4, Aaaa-Hhhh4; π2 A-Z4, Aa-Ii4 Kk2. Piacenza, BC Passerini Landi (L – F3.VIII.36. Prov.: Ubertino Landi)*

Annibale Carracci, 74 Merangoli e Limoni, Roma 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) 222

Marchigiano di nascita e napoletano di adozione, questo singolare personaggio poco conosciuto ma determinante nella storia della gastronomia italiana, durante la sua movimentata e sicuramente avventurosa vita in giro per la penisola, collezionò tra i vari suoi datori di lavoro anche il vescovo di Faenza Carlo Rossetti: per lui organizzò un sontuoso banchetto “nell’occasione che l’eminentiss. sig. cardinal D’Etré [César d’Estrées] venne in Italia, con il sig. duca di Villarsi, ed altri prencipi, al numero di nove” (vol. II, p. 591 segg.). Così Latini racconta dei preparativi: “[…] chiamò me, all’hora stando al suo servitio, ordinandomi di provedere tutto quello, che bisognava, per ricevere tali ospiti, e trattarli magnificamente […] Ed essendone arrivato detto sig. cardinal, con le sue camerate,


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Ritratto di Antonio Latini disegnato da Vincenzo Noletti e inciso da Francesco de Grado. Si trova nel verso del frontespizio del I volume de Lo scalco alla moderna Antiporta incisa, in Antonio Latini, Lo scalco alla moderna

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a Faenza, il giorno di domenica, nel mese di gennaro [1681] furono serviti, dieci a tavola con il mio sig. cardinal Rossetti, a due piatti reali, & era ripiena la tavola de’ seguenti trionfi, e rifreddi”. Segue la descrizione dettagliata dei ‘trionfi’: “1. Un carro tirato da quattro cigni bianchi, di pasta di zuccaro, profilati d’oro, e d’argento col suo cocchiero, con redini in mano, di fettuccie d’argento e d’oro. 2. Il triregno pontificio, sostentato da tre puttini, uno delli quali, in una mano, teneva le chiavi di san Pietro, il tutto di pasta di zuccaro, profilati come di sopra”. Per quanto riguarda i ‘primi rifreddi’: “1. Pasticci in arme, del sig. card. D’Etré, fatti di basso rilievo, con cornacopia in banda, fatti di pasta di zuccaro, ripieni di pezzetti di vitella, quarti di capponi, prosciutto, & altri ingredienti, ritocchi d’oro, et d’argento. 2. Bianco mangiare, in piatti reali, di mezzo rilievo, guarniti intorno, con gugliette di gelo, e tra un raggio e l’altro lavori di zuccaro, ritocchi d’oro. 3. Capponi coperti di gelatina, con ghiaccio sotto, tramezzati con statuette di gelatina di diversi colori, ogni cosa ritocca d’oro e d’argento” e così via per un totale di dieci portate ognuna delle quali “haveva tre tondini, uno ripieno di sapre di ribes, con lavori intorno d’anasini di varii colori; un altro di mostarda del paese, e l’altro con una insalatina fatta d’olive, cappari, erbette selvaggiole, muscimano [salume fatto con carne di tonno], ova larghe, passarina, pignoli, & altri ingredienti”. Si passa poi ai piatti ‘caldi di cucina’: “Una minestrina per signore, fatta con fegatini di polli, polpettine di polpa di vitella, torzi di lattuga, prugnoli, tartufali, bocconcini d’animelle, sotto fette di pane, sopra pistacchi mondi, & il suo copertorino a gelosia, di pasta di zuccaro. 2. Capponi bolliti, tramezzati con prosciutto sfilato, fette di salami, regalati di diverse cassettine di pasta, ripiene di sapori. 3. Un fritto fatto d’animelle, e cervella di vitella, fegatelli intieri di polli, quarti di carciofali, tettarelle di prosciutto e di pane, zinna di vacca in fette, prima bollita, tramezzate con tordi arrostiti allo spiedo, regalato il piatto di paste fritte e fette di limone” per un totale di diciassette portate. Seguono le portate di credenza, cioè quelle fredde – dodici in tutto – precedute da una indispensabile operazione: “Si levò la prima tovaglia e se ne scoprì un’altra, fatta di sottilissime piegature, con altre posate spruzzate d’acque odorose, e si misero in tavola li seguenti frutti: tartufali tartufolati, con fette di pane abbrustato sotto e sugo di merangoli, un piatto per sig.; cardoni tartufolati; prugnoli con zuppa sotto; pera bergamotte; pera fiorentine; cascio parmiggiano; castagne con salvietta, sale e pepe; pasticcetti di cotogni; finocchi freschi; sorbe e nespole; uva; cotognate di Portogallo e di Bologna”. E finché il cardinale d’Estrées si trattenne a Faenza fu sempre servito lautamente “con grande loro sodistattione e gusto, e con il medesimo ordine, mutate solamente le invenzioni”. Con il termine scalco (dal latino scalcus, servitore) in età rinascimentale si intendeva non tanto un capocuoco, quanto piuttosto un sovrintendente alle cucine aristocratiche addetto all’organizzazione della mensa


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quotidiana e dei banchetti speciali in tutti i minimi particolari. Era spesso un gentiluomo, autorizzato a vestire elegantemente: il livello raggiunto quindi da Antonio Latini che – di umili origini e rimasto orfano prestissimo – divenne scalco del reggente spagnolo Esteban Carillo Salsedo, è segnale chiaro delle sue capacità. Nella storia della gastronomia italiana ricoprirono la stessa carica Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina (dal paese di nascita, Piadena), al servizio di papa Sisto IV; Cristoforo Messisbugo, alla corte estense come Giovan Battista Rossetti; Bartolomeo Scappi, il cuoco dei papi e Carlo Antonio Corradi da Cagli, che servì il cardinale Cesare Rasponi, per citare solo gli italiani. L’innovazione più significativa introdotta da Latini nella sua opera è data dall’uso del pomodoro come ingrediente di cucina e non più solo come elemento decorativo. Basti leggere la sua ricetta della ‘salsa alla spagnola’ (II volume, p. 162) “Piglierai due poma d’oro, & un pezzetto di cipolla, ogni cosa tritata minuta, con un poco di peparolo pur trito, e di piperna simile, col suo sale & oglio; mescolerai ogni cosa insieme e te ne potrai servire i tondini tanto in giorno di magro, quanto di grasso”; a p. 55 dello stesso volume è spiegato il modo per fare la ‘minestra di molignane’ (melanzane): “Le taglierai in pezzetti con cipolle tritate minute, e cocuzze fresce [sic] pur tagliate minute, e pezzetti di poma d’oro; farai soffrigere ogni cosa insieme con le sue erbette odorifere, con vachi d’agresta [conserva di uva acerba] al suo tempo & con le solite spezierie, che riuscirà una minestra alla spagnola assai buona”. Mentre nel primo volume è descritta la ricetta della cassuola (p. 390): “Si formerà la sudetta cassuola con pezzi di piccioni, petto di vitella e polli di polli ripieni; si faranno stufar bene, dentro un buon brodo con sue erbette odorifere e spetierie confacevoli, insieme con creste e granelli di polli; quando sarà giunta alla debita cottura, si piglino le pomadoro e si mettano ad abbruscare su le brage; dapoi si mondino e se ne facciano quattro parti, mettendole dentro con le sopradette robbe, con avvertenza che non si facciano cuocere troppo, perché queste vogliono poca cottura; si piglino poi ova fresche, con un poco di sugo di limone e si facciano quagliare coprendosi con un testato, con fuoco sotto e sopra”. Un altro esemplare di questa opera è posseduto dalla Biblioteca comunale di Forlì, con il primo volume stampato dallo stesso tipografo ma recante la data 1692 (collocazione: Pianc. Sala P.4.37). (ZZ)

Tavola imbandita (p. 468-469) disegnata da Philipp Shor e incisa da Carlo Benigni 226


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Giuseppe Lamma (Bologna, sec. XVII)

Libro di cucina di Giuseppe Lamma. Diviso in otto volumetti ridotti in trè segnati A.B.C. Ms. cartaceo; sec. XVII 2a metà; in folio; le ricette sono numerate progressivamente da 1 e nel Repertorio si fa riferimento a tale numerazione. A. 65 c., numerazione moderna; in folio; l’ultima c. bianca; mm 295x212 B. manca C. 42 c., numerazione moderna; mm 220x155; a c. 27v è annotata la data P.o [primo] marzo 1695, a c. 32v la data 15 ottobre 1699. [indice:] Repertorio delli libri di Cucina di Giuseppe Lamma divisi in otto Volumi ridotti in trè segnati A.B.C. Rubrica alfabetica A-Z, senza le lettere H,K,W,X.Y. Bologna, BC Archiginnasio (Fondo speciale Bentivoglio)

Di Giuseppe Lamma, delle sue origini e della sua famiglia si sa poco per non dire nulla. Testimonianza tangibile della sua esistenza è ‘solo’ questo manoscritto, conservato nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio e facente parte del fondo speciale Bentivoglio, cognome celebre a Bologna anche se in questo caso si tratta di un ramo secondario della famiglia che rimase in città quando quello principale, che tanta parte aveva avuto nella storia locale, si rifugiò a Ferrara. Grazie a Lamma, il capoluogo emiliano può fregiarsi di un importante testo di cucina dal quale, oltre alle ricette, ricaviamo anche notizie sull’attività dell’autore, che evidentemente prestava i suoi ‘servigi’ alle varie famiglie locali che all’occorrenza si rivolgevano a lui. Originariamente costituito da otto volumetti – come si evince dal titolo – il lavoro, probabilmente frutto di frettolosi appunti quotidiani, venne riorganizzato e ridotto alle ricette e ai menu di maggior successo, comprendente non soltanto le procedure di preparazione, ma anche le modalità per un perfetto inserimento delle diverse vivande al posto giusto nello svolgimento dei banchetti. Nel volume indicato “C”, alla carta 3r, è descritto per esempio il pranzo organizzato in casa di Cesare Riguzzi in occasione del matrimonio della cognata, con una dettagliata sequenza delle portate e un occhio di attenzione anche per i ‘decori’: “Servitio di credenza / Un baccile in mezo alla tavola tonda di cedrati regalato di fiori di seta. Due piatti di fighi / Due di mortadella con salame fiorentino / Uno di biscotini di Savoia serviti in salvieta / Uno di cassettine piene di saporetti con una cotogna siropata nel mezo trapunta di pignoli confetti” il tutto adornato di fiori di seta e fogliami di amido e zucchero. Servizio di cucina / Minestra di indivia con latti a dadini brodettata con rossi d’ova e sugo di limone fiorita di

Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Lorenzo: Di Cottogne fan Gelo delicato / Da Dame, e Cavaglieri assai stimato, v. scheda 126. (Bologna, BC Archiginnasio)

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Ricettari e “libri di casa” pistacchi mondi / Un piatto di latti di vitello arosti, fegatelli di vitello rivolti nella rete con pasta sfogliata attorno coperta di quaglie e uccelletti grassi regalati di pastizetti genovesi, paste sfogliate e limoni con salsa sopra / Una suppa alla francese con una piccata di capone arostito, e latticini piccati con un polpetone in mezo di vitello con dentro canditi, e pilastrini attorno regalati di fette di pressutto, e uvro [mammella, in altri autori definita ‘zinna’] fritto in butiro con brasadolina […] di scorza di cedro candita con un brodetto di rossi d’ova, e sugo di limone spolverizzato di canella. / Un pastizzo di banda di vitello, polastri disfatti, latti, cervelline […] in bocconi […] prugnoli, tartufi, e sue spezie con il copertone sfogliato regalato di pastizetti con zuchero sopra”. Nello stesso volume sono poi inseriti alcuni fogli volanti con annotazioni come l’occorrente per “far ogni sorte d’acque”: acqua di cannella, di coriandoli, di violette, di limoni, di visciole e poi ancora acque odorifere di gelsomino, di rose, di garofani, di pimpinella e mortella. Fra i piatti che Lamma stesso definisce ‘tipici della città’ troviamo la “torta di erbe alla bolognese”, la “minestra di piselli fresca cioè di rovilia all’uso di Bologna”, la “fiolata overo tortilione di monache di Bologna” e i “macabei che li genovesi chiamano crecette et in lingua bolognese si chiamano lasagne” nella doppia versione con il formaggio, o con la carne. Nel suo trattato è presente anche il pesce, obbligatorio per tutti i ceti sociali nei periodi di quaresima, come attestano le varie ‘provvisioni’ sui banchetti emanate in tutte le epoche dalle autorità cittadine: e così troviamo l’anguilla delle valli comacchiesi, ma anche lo storione “il più astimato nelli nostri paesi per la sua rarità” e le famose trote dei Bagni della Porretta. Nel fondo speciale Bentivoglio sono inoltre custoditi, accanto ai volumi di Lamma, altri tre manoscritti di uno sconosciuto autore – apparentemente coevo – definiti “Ricettari culinari e libri di segreti” che contengono varie informazioni utili e curiose.Vi si trova per esempio la ricetta della famosa gelatina delle monache di S. Lorenzo a base di ‘buon’ brodo (obbligatorio il cappone!) con zucchero, cannella, chiodi di garofano e pepe quanto basta, che, una volta bollito e raffreddato, deve essere filtrato tante volte quante sono necessarie per ottenere la densità voluta. Ma la parte prevalente è costituita dai ‘segreti’ per risolvere le piccole grandi necessità quotidiane, come la lucidatura dell’argento, o il mal di denti, o il rossetto per il viso. Interessante è anche la presenza di una ‘lista della spesa’ che ci informa su cosa deve essere comprato dal lardarolo (strutto, lardo, formaggio da grattugiare, formaggio marzolino, sale, burro, prosciutto), dallo speziale (cannella, acqua rosa, pistacchi, pignoli, cedro, uva passa), o dalla ‘piazza’ (cavoli fiori, lattuga, fiori di più sorti, pere, mele, tartufi, limoni, uova, pome granate, ricotte, marroni, farina, cipolle) e così via. (pb-zz) Roversi 1988

Annibale Carracci, 16. Cuoco, Roma, 1776, v. anche scheda 127. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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Carlo Nascia (Palermo, sec. XVII)

Li quattro banchetti destinati per le quattro staggioni dell’anno appropriate ciascheduna di esse al tempo, che si desia nell’anno. Opra del sig.r Carlo Nascia Palermitano, cuoco maggiore dell’A. Ser.ma di Parma. Ossequiosamente dedicata all’ill.mo & ecc.mo sig.r co. Alessandro Sanvitali, conte di Fontanellato, e di Noceto, & marchese di Belforte & da Carlo Giovanelli Parmegiano. Ms. cartaceo ; sec. XVII (1680) ; III, 203 (le ultime 2 bianche), III c. [numeraz. moderna] ; [21], 180, [2] c. [numeraz. antica] ; mm 206x150. Parma, BPalatina (Ms. Parm. 3818)

Anche Carlo Nascia appartiene al novero dei cuochi di corte: la sorte ha voluto che tra le poche notizie conosciute di lui vi fosse proprio la data di ingresso in servizio presso la corte di Parma: 4 agosto 1659: così si legge a c. 114 del registro 21 del fondo “Casa e corte Farnese” (Archivio di Stato di Parma). Né deve stupire che un cuoco di origini palermitane e con esperienza in Lombardia venisse assunto presso una corte padana: anche lo Stefani (v. scheda n. 78) veniva da luoghi lontani dalla corte dei Gonzaga. E le pregresse esperienze consentivano al nostro cuoco di arricchire con significative contaminazioni gastronomiche le tavole dei suoi signori. È questa, almeno, l’impressione che si ha scorrendo le centinaia di ricette raccolte nel suo libro, organizzate a seconda delle quattro stagioni, e ripartite “in piatti freddi, caldi, e d’arosti”, cui si aggiungono sezioni dedicate ai pastizzi, alle torte, ai sapori, alle salse, alle conserve; ed ancora alla preparazione delle carni de quadrupedi e de volatili; delle minestrine da magro per farne piatelline; dei pesci di mare, d’acqua dolce e sotto sale; delle uova; dei biscotti; della colatione d’erbe e dei fonghi. A dispetto della ricchezza dei contenuti, il ricettario ebbe, peraltro, una sorte singolare: non fu mai dato alle stampe, ma restò manoscritto: di esso si conoscono solo tre esemplari: uno conservato alla Biblioteca Universitaria di Palermo, uno presso il castello di Soragna; uno (quello cui si fa riferimento per la presente scheda), alla Biblioteca Palatina di Parma. Contaminazioni gastronomiche, si diceva, che riguardano innanzitutto la presenza di piatti, di terminologie e di sapori di provenienza iberica (frutto dell’apprendistato giovanile presso la spagnola Milano): è verosimilmente questo il senso dei piatti definiti “alla catalana”, “alla spagnola” – come ricorda Massimo Alberini nell’introduzione all’edizione del 1981 – oppure di parole come piccatiglio, sombrero, zapado, garbusi, o, ancora, della presenza del cioccolato in alcune ricette (i leprotti in salsa di mandorle e la zuppa di biscottini al cioccolato): tale ingrediente si era diffuso sulle tavole 230


Ricettari e “libri di casa” più ricche d’Europa proprio grazie alla spinta dell’alta cucina di origine iberica. Né mancano riferimenti alla cucina ligure, come la ricetta dei pasticcini detti govoletti, o della “pasta di Gli anolini di Nascia Genova con prugne pure di Genova candite”. O ancora le significative incursioni della cucina siciliana e mediterranea, come l’arcuscoso all’africana, ossia il cuscus. Di tre o quattro caponi conforme il Una varietà certamente sorprendente, frutto, va detto, oltre piatto con sopra delli anollini farai la che delle proprie esperienze pregresse, anche dell’apprendipasta con entrovi due o tre torli d’ostato sui testi dei maestri: molte ricette, per esempio, sono va e la tirerai sotile; doppo piglierai riprese, tali e quali, dallo Stefani. Tuttavia non mancano le della midola et un puocco di rognosorprese, come ricorda ancora Alberini: nessuna menzione nata di manzo, con buon formaggio per il locale formaggio vaccino a pasta dura, il Parmigiano, di Lodi e quattro torli d’ova, suo sale al quale Nascia preferisce il formaggio lodigiano; una sola et speciarie sufficienti e farai li anolimenzione di un’altra gloria della cucina parmigiana: gli anoni; quali farai cuocere in brodo buolini (v. ricetta nel box); nessuna ricetta relativa ai gelati, che no e di poi con li medesimi coprirai li era una delle prelibatezze della terra di origine del nostro caponi, e del buon formaggio sopra cuoco. Questione di gusti personali? Tendenza a preferire l’equanto basti e li coprirai a mo’ non sotico all’identitario, a dare per scontato il locale a favore di paiano anolini con fette di provatuciò che appare lontano? A preferire ciò che stupisce a ciò che ra fresca et all’intorno del brodo del appartiene alla quotidianità? Forse una risposta univoca non piatto guernirai tutto d’anolini. c’è. Ma di fatto il patrimonio culturale e gastronomico di Nascia non avrà eredi e si disperderà ben presto: nell’Ottocento,Vincenzo Agnoletti, credenziere, confetturiere e liquorista della corte di Parma, nel suo Manuale testimonia gusti nuovi nelle ricette, improntati ad influenze francesi e austriache e l’introduzione dominante di nuovi ingredienti, quali il pomodoro. Nuove tendenze che cancellano la memoria di tanta parte dell’eredità del Nascia. E con essa, scompaiono senza rimpianti anche ghiottonerie che sarebbero assolutamente inaccettabili per i palati moderni, come la torta di tetina di troia o la torta di pelle di caponi (peraltro nota anche a Vasselli e a Stefani). (ac) Alberini 1981

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Antonio Maria Dalli

(Bologna, 16.. – Parma?, 1710) Piciol Lume di Cucina, col quale ognuno dar potrà molto splendore ad ogni pranso ordinario. Ms. cartaceo ; sec. XVIII in. ; [1] c., [5], 50, [1] c. ; mm 202x130. – La prima e l’ultima c. sono bianche. Parma, BPalatina (ms. 233 Parmense)

Il bolognese Antonio Maria Dalli subentrò a Carlo Nascia nel ruolo di cuoco presso la corte di Parma; i documenti lo attestano con certezza dal 1692. Sebbene la permanenza in quell’ufficio non durasse molto, poiché ne chiese l’esonero l’anno 1703, Dalli non rinunciò tuttavia a lasciare un tangibile segno del suo servizio attraverso un ricettario, rimasto mano231


La ricetta dei Biscotti Savoiardi, in Antonio Maria Dalli, Piciol Lume di Cucina, c. 49r

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scritto, fino a pochi anni fa, in un’unica copia conservata presso la Biblioteca Palatina. Il volume, nella dedicatoria, reca la data 1° dicembre 1701 (P.mo Xmbre 1701) e, fatto importante, fu esemplato in scrittura calligrafica ed adornato di ricchi fregi dal copista Carlo Giovanelli, di cui si era già avvalso Nascia. Ma la differenza sostanziale di questo libro rispetto al lavoro del predecessore sta in una certa semplicità compositiva: una selezione quantitativamente molto inferiore di ricette e la dichiarazione, già palese dal titolo, di proporre una cucina volta ad una sobria quotidianità, lontana dagli sfarzi delle grandi composizioni barocche. Probabilmente l’orientamento del Dalli risente del clima della corte di Francesco Farnese, avviata ad un lento declino dopo i fasti del predecessore, il duca Ranuccio II: così questo ricettario sembra anticipare una nuova sensibilità nella cucina, maggiormente orientata ad un pragmatismo per così dire borghese, che si affermerà tra Sette ed Ottocento. Di certo è ancora ben attestato il gusto per l’uso delle spezie, retaggio di usi invalsi fino almeno all’epoca barocca; né manca l’attenzione per una cucina che evochi sapori lontani, e lo attestano i nomi di pietanze, quali la minestra di pasta alla siciliana, o quella di orzo todesco; tuttavia vengono privilegiate le ricette che richiedono ingredienti facilmente reperibili sul mercato del Ducato. Una curiosità riguarda la pasticceria: il Dalli, oltre che cuoco, ricoprì l’incarico di pasticcere per il duca; ruolo al quale rinunciò ben presto, già nel 1694. Di fatto, però non smise questa attività, ma continuò ad esercitarla privatamente: dapprima come fornitore di dolci per la corte; poi, dopo aver ricevuto specifica autorizzazione, come produttore di dolciumi al di fuori della corte. Ecco una delle sue ricette: “[c. 47r] Torta di bocca di dama Piglierai due libre di pistacchi mondi, una libra di marciapano, due libre di siroppo di zucaro e li farai cuocere assieme, ponendovi un grano di muschio e un puoco d’ambra con acqua di cedro. Piglierai poscia una [47v] libra e mezzo di farina, una libra di buttiro, nov’oncie di zuccaro e un pocco d’acqua d’odore con quattro torli d’ovi freschi e l’impasterai; e come è impastata farai due fogli; e prima di mettere quello da basso onterai la tortiera e sopra vi porrai detta composi-


Ricettari e “libri di casa” zione, et sopra l’altro foglio lavorato; e come sarà cotta vi farai un giacio di zucaro sopra; e prima di levarla fuori la lascierai raffreddare, perché essendo calda si specerebbe, e all’intorno del piatto guernirai con rame di moniaghe, con li frutti fatti al naturale e le servirai”. (ac) Dall’Acqua 1987

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Memorie di un cuoco di casa Pico. Ms. cartaceo ; sec. XIX ; descrizione non completata in quanto il codice è al momento inaccessibile. Mirandola, BC Garin (Fondo antico 44.A.6)

L’opera è contenuta alle p. 1-26 del manoscritto, che prosegue con una raccolta miscellanea di testi di carattere locale o di autori locali. Non è stato possibile procedere ad un esame diretto poiché, alla data di stesura della presente scheda, esso è conservato presso una struttura di ricovero a seguito degli eventi sismici del 2012. Una descrizione del contenuto è fornita in Andreolli-Tusini 2002, p. 13-14, che propone l’edizione integrale del testo. I brani citati nella scheda si riferiscono a tale edizione. Il manoscritto attualmente noto è copia ottocentesca realizzata dal canonico Felice Ceretti, storico mirandolese, da un originale perduto, recante un testo realizzato tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. L’autore è un cuoco al servizio dei Pico: la sua identità è ignota, poiché non ha lasciato firme sul suo lavoro, né è possibile ricavare il suo nome da altra fonte: di certo, però, si doveva trattare di una figura di riguardo all’interno della gerarchia della corte mirandolese: ben più, insomma, di un ‘semplice’ cuoco. Le sue memorie costituiscono un’importante testimonianza della vita e dei riti all’interno del castello dei Pico, osservati dal punto di vista privilegiato di chi era addetto a preparare le pietanze, elemento di primaria importanza nel cerimoniale di corte. Il cuoco descrive fatti accaduti dal 7 ottobre 1690 al 1° febbraio 1702, con diversi rinvii ad avvenimenti precedenti, che risalgono fino al 1687. Furono questi anni cruciali per la storia del minuscolo ma strategico ducato padano, segnati dal passaggio tra gli splendori della reggenza del munifico e potente Alessandro II e i grigi anni di reggenza di Brigida, tutrice del giovanissimo erede, il ‘duchino’ Francesco Maria: donna, questa, di mediocri qualità politiche ed umane e per di più preda delle manipolazioni dei Gesuiti presenti a corte. Il lettore, scorrendo le non molte pagine di questa cronaca, non leggerà tanto di ricette o di pietanze; le note dominanti della narrazione (come sottolineato in Andreolli-Tusini 2002, particolarmente alle p. 25 ss.) sono piuttosto le categorie dell’ospitalità, del cerimoniale, della suggestione. Infatti presso la reggia, le sue pertinenze o nei conventi cittadini, transitano personaggi di ogni condizione e per i più svariati motivi: signori, ambasciatori, prelati, nobildonne, medici, artigiani, artisti, soldati (persino spie!); essi arrivano nelle ore più svariate della giornata e della notte, e sempre sono accolti con i dovuti riguardi ed ospitati secondo le modalità più consone alla loro condizione; ma ciò, di riflesso, attesta la grandezza dei signori (e di Alessandro in particolare). E il cuoco annota 233


con diligenza notarile l’accoglienza che viene loro riservata. Tutto è calibrato secondo precisi equilibri ed attenzioni del cerimoniale barocco di corte: il numero e la qualità dei piatti con cui gli ospiti vengono rifocillati, il numero ed il grado dei servitori e degli accompagnatori cui erano affidati gli ospiti, i benefici di cui godevano durante la loro permanenza, l’alloggio loro riservato. Nulla sfugge all’etichetta. Ma anche la suggestione dei piatti e degli apparati è evidente: una corte degna di tal nome deve saper stupire i propri ospiti, ed uno dei modi per destare meraviglia è proprio il banchetto. Ecco allora che sulle tavole, arricchite con sontuosi tovagliati e stoviglie, sono imbanditi i trionfi, ossia ricostruzioni plastiche, vere e proprie statue commestibili: memorabili quelle del banchetto matrimoniale della principessa Fulvia Pico (29 novembre 1687); ecco alcuni passaggi della cronaca: “Butiro passato fatto con un trionfo che era Amore con l’arco in mano sotto un piedestallo sostenuto da varie figure nude, et il botiro le attorniava per il piato, erano tutte di strazzi vestite con botiro tocco d’oro, bianco mangiare; il trionfo era Giove a cavallo d’un’aquila con un piedestallo bellissimo con l’arma Pica sostenuto da Giganti con sopra figure con trombe fatte tutte di pasta di marzapane, Giove aveva il scetro e corona, et era della medema pasta ritoccata con oro e con altri colori al naturale”. La lezione del Vasselli (v. scheda n. 77) non poteva non aver lasciato il proprio segno nella corte dei Pico. (ac) Andreolli-Tusini 2002

I rituali dell’accoglienza “Adì 23 dicembre 1693. Il Signor Massimigliano Bergami andò con una muta a levare il Signor Dottor Manzi di Bologna per la Signora Principessa Maria Isabella febricitante; arrivato alla Mirandola fu servito nell’appartamento del Salotto, e gli tenne compagnia il Signor dottor Amadei. Per Città fu servito con la carrozza et un Stafiero, et alla sera con la torcia da un appartamento all’altro, alla tavola con otto piati mezani, et altretanti di frutta, con sua credenza et botigliaria: lo servirono li Guardarobieri senza scalco e trinzante; la sera haveva in tavola le candele di cera, ma non nella camera a diferenza de’ Cavaglieri, ai quali se le dano anche alla camera. La mattina che volle partire lo accompagnò fino a Bologna il Signor Bergami con sedia della Padrona”. “Adì 8 novembre 1689. Ad un Protomedico romano venuto da Roma di passaggio dipendente dalla casa Borghesi che andava medico in Polonia, Sua Altezza lo fece trattare da Cavaliero: fu alloggiato nelle Psiche da basso, gli tenne compagnia il Signor Dottor Ferraresi, fu servito con la carrozza e duoi Stafieri, e dalla cucina con dodeci piati grandi, e tra questi lepre insfillata, pizachare ed ortolani, alla tavola dallo scalco della foresteria con huomini civili, e dalla credenza con altretanti di frutta con anesi, codognate e girelle all’uso de’ Cavalieri, e con vino di zuche bianco e nero; et alla tavola candele di cera”.

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Nelle notizie sono descritte le visite di due medici a Mirandola, avvenute a distanza di quattro anni; entrambi i dottori godono di una significativa ospitalità: vengono generosamente rifocillati, hanno un alloggio, godono del privilegio della carrozza e della compagnia di un medico loro pari; tuttavia sono anche evidenti le differenze nelle forme dell’accoglienza: nel numero di piatti, nel trattamento a tavola e nel personale di servizio dedicato, nella qualità delle stanze dove soggiornano (l’appartamento delle Psiche, con dipinti di Sante Peranda raffiguranti il mito di Amore e Psiche era una delle più sontuose parti della reggia di Mirandola), persino nella quantità delle candele da illuminazione. Il protomedico di casa Borghesi, a differenza del Manzi, viene equiparato ad un nobile, e questo è anche un evidente segnale della generosa munificenza di Alessandro II (cfr. Andreolli-Tusini 2002, pp. 28-29). Ceretti 1907-1913


Ricettari e “libri di casa”

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Cassoli (famiglia)

Libro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malatie et altro. Ms. cartaceo ; sec. XVIII ; 438 p. parzialmente numerate, 9 c. sciolte e 1 tav. f.t.; mm 270x190. Reggio Emilia, BPanizzi (Mss. Vari E 177).

Il manoscritto della famiglia Cassoli (pubblicato a stampa solo nel 1986) costituisce un significativo esempio di ricettario di tradizione familiare o ‘libro di casa’. Esemplato nel corso del Settecento, verosimilmente da un membro della famiglia, il libro è frutto di una riorganizzazione di materiali in uso presso la casa, probabilmente anche tramandati, sebbene l’impostazione, il tipo di pietanze ed una loro certa qual sobrietà facciano pensare a materiali in buona parte coevi. Il Libro costituisce una raccolta di istruzioni pratiche per la vita quotidiana e l’economia domestica, dove accanto alle ricette culinarie, non mancano anche quelle mediche, o le istruzioni per lavori domestici. Esso si apre con un capitolo dedicato alle Materie per uso di cocina, dove viene fornito un elenco di piatti: appare qui una cucina scevra da eccessi, dalle antiche ridondanze di spezie ed aromi, ma pur ricca e dignitosa, basata in buona parte su alimenti locali: sono molto diffuse le carni bovine e degli animali da cortile, assieme alle verdure proprie della tradizione di pianura. Poche ma significative concessioni a ingredienti di provenienza più lontana, come alcuni tipi di pesce di mare (quali le razze), mentre l’uso di agrumi o di alcuni ingredienti pregiati, come il caffè e il cacao, appare già consolidato; né manca un accenno ad un frutto esotico: l’ananas.Tra le ricette, quella dei Cappelletti di grasso: “Si fa prima la pasta con farina et acqua e qualche ovo e si stende sottile, e si taglia in tondo e vi si mette dentro il seguente pieno: salsiccia gialla [v. scheda e box n. 133] o cervellata, midolli, si struggano e vi si lega formaggio grana grattugiato, due ova, spezie e cannella; si cuocino nel brodo di cappone e serve per sei persone circa”. Appartengono invece ai Segreti e rimedi, che seguono le pietanze, delle curiose istruzioni di vita quotidiana dei più svariati generi: vi sono elencate delle ricette per preparare rimedi, cerotti e unguenti per le più diverse malattie: dalle febbri terzane e quartane al mal di denti, dalla tigna alla rogna; oppure formule per preparare cosmetici, vernici e coloranti; per dorare o argentare i metalli, per fare la scagliola o le colle; per lavare le calze di seta o per togliere le macchie d’inchiostro o la cera dai panni. Un catalogo di istruzioni per tutta la famiglia e per la servitù, per gli uomini e

La ricetta del ‘bianco mangiare’, in Cassoli, Libro contenente la maniera di cucinare, bifoglio inserito tra le p. 173 e 174

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per le donne, dove buon senso, esperienza e pragmatico empirismo talora si mescolano ad un sapere carico di remoti echi di magia e superstizione. Ecco alcuni esempi: “Denti, modo di cavarli senza dolore. Prendere un ramarro vivo, si metta in pentola chiusa e si ponga in forno e morto che sia e affreddato, vi si fa un buco per introdurvi 1 oncia acqua forte, acqua vite once ½; turato il buco e rimesso al foco, si consumi tutto l’umido e si polverizzi il ramarro e si freghi la gingiva del dente e in un momento sparerà la carne dalla gingiva e il dente” (p. 132 dell’edizione a stampa). “Rubino, modo di farlo e provato. Semola di grano minuto del migliore 1 libra, zolfo vivo 6 once, sangue di drago in polvere 6 once e impastali con rossi d’ovo e farai un pane; coprilo bene e lascialo levare alquanto, dopo fallo cuocere nel forno, dopo cotto involtalo in tela di lino a tre doppi e ponilo sotto il letame di cavallo per quaranta giorni, dopo cavalo fori e foralo, che uscirà olio rosso quale serva in un vaso di vetro; prende argento vivo alla metà del detto olio e metti assieme in boccia di collo longo e mettila nelle ceneri calde per otto giorni a foco temperato e, compito il tempo, troverai il mercurio a foggia di cristallo rosso, il quale pesta sottile e ponilo in boccia di collo longo con altrettanta acqua di marchesita aurea e ponila al foco per otto giorni come sopra et appresso bisogna avere apparecchiato ambra limata sottile e mettila insieme con i coralli et acqua di marchesana come sopra; finito questo troverai un bel rubino perfetto” (Bizzarri-Bronzoni, p. 159-160). Il libro si chiude con un capitolo dedicato ad altre ricette di Robe per uso di credenza, ossia di pietanze da servire fredde, ed un’appendice conclusiva contenente, in prevalenza, altre pietanze. (ac) Bizzarri-Bronzoni 1986

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Alberto Alvisi (Imola, sec. XVIII)

Serie di cinquanta pietanze secondo l’ordine del servizio della tavola detate dall’egregio e dotto professore signor Alberto Alvisi stipendiato da nostro Signore Papa Pio VII per il fedele ed ottimo servizio di cuoco prestatogli al tempo ch’era Cardinale Vescovo d’Imola coll’aggiunta di vari altri piatti senza verun ordine del medesimo autore. Ms. cartaceo ; sec. XVIII; 153 p. ; mm 203x140. Bologna, AGA (K.2 ms. 58. Prov.: Luigi Breventani)

Verosimilmente di origine romagnola, il cuoco Alberto Alvisi è qui ricordato in quanto autore di questo manoscritto che contiene le ricette da lui utilizzate per la tavola del vescovo di Imola Gregorio Barnaba Chiaramonti, nel periodo in cui fu al suo servizio cioè dal 1785, quando l’alto prelato venne nominato vescovo di Imola, al 1799, anno in cui il vescovo partì per il conclave dove risultò poi eletto papa con il nome di Pio VII. 236


Ricettari e “libri di casa” Gregorio Chiaramonti era nato a Cesena nel 1742 e aveva iniziato la sua educazione religiosa nel monastero benedettino di S. Maria del Monte di Cesena. A quarant’anni era stato poi nominato vescovo di Tivoli e solo tre anni dopo era diventato vescovo di Imola. E qui sceglie l’Alvisi “egregio e dotto professore” per “ il fedele e ottimo servizio di cuoco” in questa città che in un periodo storico così variegato e mutevole accoglie tra le sue mura anche le truppe francesi di Napoleone. Null’altro sappiamo di questo cuoco che verosimilmente sceglie di dettare le sue specialità dopo che il suo datore di lavoro è salito al soglio pontificio, fors’anche per stigmatizzare l’onore che gli era toccato nel servire tale personaggio. Questo manoscritto poi deve aver seguito itinerari vari, non facilmente rintracciabili, se lo troviamo oggi a Bologna nell’Archivio Generale Arcivescovile, all’interno del Fondo Breventani. E di questa raccolta faceva sicuramente già parte dal 1909 – anno del catalogo compilato dei manoscritti di tale raccolta che già lo cita – dopo essere stato sicuramente in possesso anche della contessa Lodovica Savioli vedova Consolini a Bologna come si legge in un’annotazione dell’11 dicembre 1872, posta accanto alla ricetta n. 75 “per fare le giambele” da lei inserita nel testo. Come sarà stata la tavola di questo vescovo, che per la sua storia, compendiava in sé le tradizioni signorili della grande cucina con la disciplina monastica più legata alla temperanza e alla sobrietà? Seguendo il manoscritto dell’Alvisi vediamo che questo è articolato in tre diverse parti: la prima contiene la descrizione dettagliata e numerata delle “cinquanta pietanze” preparate dal cuoco per il suo vescovo, la seconda comprende ricette di vario genere probabilmente non specificatamente riferibili al periodo trascorso dal cuoco col Chiaramonti e la terza parte è costituita da alcuni consigli pratici utili a gestire alcune necessità o problemi della vita quotidiana come la “maniera di fare il sapone” oppure le “ricette per i cani rabbiosi”. Tornando al nucleo più corposo del manoscritto – le cinquanta pietanze – risulta evidente che vengono rispettati in pieno i principi della tradizione romagnola, con la profusione delle sue spezie: chiodi di garofano, cannella, noce moscata, in particolare gli anici e soprattutto il pepe, elemento fondamentale della maggior parte dei piatti. Mancano i prodotti ‘nuovi’: le patate e i pomodori ma questa omissione è ancora molto comune in tante opere culinarie coeve. Anche il modo di citare i vari elementi usati in cucina risente della cultura dialettale della Romagna: troviamo spoglia per sfoglia, presemoli per prezzemoli, sardelle per acciughe, pavarazze per vongole (ad esempio nella ricetta n. 49 “grostini di pavarazze”) tra i condimenti la forma per formaggio grana, che domina incontrastata e il buttiro per burro.

“Dose per far le giambele”, foglio inserito dalla contessa Lodovica Savioli, in Alberto Alvisi, Serie di cinquanta pietanze, p. 88,

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Quindi profumo di casa per il vescovo con il vino, rigorosamente Sangiovese, a dar sapore al “cottichino” o alla zuppa di visciole, ma con un occhio anche alle novità d’oltralpe con l’uso ad esempio, della classica ‘balsamella’ integrata ai piatti della tradizione (si veda la ricetta n. 18 “maccheroni appasticciati colla balsamella di latte, col ragù e senza ragù”; e la n. 27 “umido di cardo colla balsamella”) o dei bignè (ricetta n. 4 “fritto di bignè” ) o dei canapè (n. 56 “fritto di canapè di pagnotta”). (acm) Bassani-Roversi 1984

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Luigi Naldi

(Imola, ? – Piacenza, 1878) Opera di L. Naldi amministratore maggiordomo dei Conti Douglas Scotti. Ms. cartaceo; sec. XIX; 5 v. (59 c.; 152 c.; 172 c.; 168 c.); mm 285x175; mm 275x185; mm 295x210; mm 295x210 – Manca il 1° vol.; Il 2° vol. è mutilo di alcune c. – Il titolo è tratto da annotazione ms. di Emilio Nasalli Rocca nel risguardo del 2° vol. – Ogni vol. ha intitolazione propria: Seguito delle Minute 1848-1849; Seguito delle Minute dall’anno 1850 al 1853; Lui[...] 1854 al 1858; Minute dal 1859 al 1863. – Segn.: 1-216, 318, 416; 128, 220, 3-624, 76; 1-1412, 152; 1-1212, 1320, 146. – I fasc. non sono segnati. Piacenza, BC Passerini Landi (Ms. Com. 524. Manca il 1° vol.)*

Di Luigi Naldi restano ben poche notizie biografiche: di lui si sa che visse gran parte della sua vita a Piacenza, al servizio dei conti Scotti di Vigoleno, la cui residenza cittadina era il palazzo attuale sede della prefettura della città emiliana. Più che semplice maggiordomo, il Naldi fu fiduciario della famiglia, e la dedizione ai suoi signori è ben evidenziata dal lavoro, pubblicato nel 1859 presso la tipografia Tedeschi, intitolato “Notizie genealogiche relative alle famiglie dei nobili signori conti Scotti Douglas di Vigoleno, Sarmato e Fombio”. Ma la testimonianza più importante che ci resta del Naldi sono i quattro volumi manoscritti (forse alcuni altri sono andati perduti), conservati presso la Passerini-Landi, da lui compilati tra il 1848 ed il 1863, dove annotava con scrupolosa metodicità i menù che, quotidianamente, preparava per i suoi signori. In realtà si tratta di scarne indicazioni: non una ricetta, ma solo elenchi notarili di pietanze servite giorno dopo giorno; normalmente si trattava di piatti che denotavano agio economico (era sempre presente la carne) ma pur semplici e, comunque, appartenenti ad una tradizione gastronomica d’altri tempi; solo raramente, in occasione di importanti visite o festività, il menù era più ricco ed articolato. Tuttavia ciò che colpisce sono le annotazioni “diaristiche” che si alternano ai menù: eventi politici, avvenimenti riguardanti la famiglia dove prestava servizio, talora proprie considerazioni o fatti riguardanti la sua vita privata. E da queste pagine emerge uno spaccato di vita cittadina piacentina, in anni travagliati dai moti risorgimentali e dalle guerre di indipendenza. Non mancano infatti accenti drammatici, come quelli che appaiono dalle 238


Ricettari e “libri di casa” annotazioni in corrispondenza delle giornate tra la fine di luglio e l’agosto del 1848 (v. box): pochi mesi prima, Piacenza, con un plebiscito, aveva espresso la volontà di annettersi allo stato sabaudo, guadagnandosi il titolo di primogenita d’Italia, ed in quelle giornate d’estate, all’indomani della battaglia di Custoza, la città veniva presidiata dalle truppe piemontesi, rinforzate da volontari toscani e di altri stati italiani: di lì a poco i sabaudi avrebbero però ripiegato su Milano e Piacenza sarebbe stata invasa dagli Austriaci. Cattolico fervente, conservatore di indole, Naldi non nasconde le sue idee politiche e la sua attenzione per i movimenti sociali in corso: fervente sostenitore dell’indipendenza italiana, non lesina ora le proprie ironie nei confronti dei liberali, ora le proprie rampogne nei confronti di certi atteggiamenti delle gerarchie ecclesiastiche. Dal suo osservatorio privilegiato, nel cuore della vita sociale e politica piacentina, non sfuggono anche i semplici fatti della vita quotidiana di Piacenza, letti talora con spirito burbero o ironico, a volte con animo ed occhi semplici, come a capodanno: Il 31. dicembre 1863 1. Salcicia, crochetti, fegatelli e polastri 2. Manzo con patate 3. Pasticcio di maccheroni 4. Pollo arosto Zuppa Spaghetti e verze Ringrazio Iddio che mi ha conservato in questo santo anno; prego Iddio, la B.V. Addolorata, i miei santi avvocati e protettori che mi diano la sua santa benedizione a me e tutta la mia famiglia e i miei nemici anche nell’anno che viene 1864. Laus Deo. (ac-mb) Artocchini 2011

Augusto Majani, [III° Minestre, 1917-1918], disegno (matita di grafite, china e acquarello) preparatorio per la testatina del terzo capitolo di L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa di Olindo Guerrini (Roma, A.F. Formiggini, 1918), v. scheda 93. (Budrio, BC Majani) 239


Vita da maggiordomo nell’anno 1848, tra truppe piemontesi, riso e facioli [31 luglio?] Fugire. I Tedeschi s’avanzano, e alle ore 9. del matino sono entrati in Cremona; il Re si trova a Codogno, chi si può salvare si salvi, tutto è perduto; le Sig.re Dame si prestano negli ospedali ad assistere i feriti, e dalle ore cinque [h]a cominciato a partire i convogli; erano i cariaggi al Tofreno [Rottofreno] e la coda era ancora in Piacenza; cosa desolante il vederne la fuga precipitosa che fasino… Il primo agosto 1848. 1. canefe / 2. manzo al bollito / 3. polastri in umido / 4. cotolette al limone / Zuppa: Riso e facioli Continua tutta la giornata la truppa a ritirarsi, la popolazione in grande tristezza; i liberali senza libertà vorebbero tenere forte ma le redini sono rotte, i cavalli vanno al suo genio; la truppa in parte è tornata indietro per Piacenza e si è accampato sulla sponda del Po circa 6 milla uomini ed è rotto il ponte, e fasino fortini per difesa; questa matina è partito tutti i feriti, a tre ore tutti i cariaggi con i cavalli dei proprietari per Stradella; noi abbiamo il commissariato toscano in casa e il quartiere sotto l’atrio del portone; grande tristezza regna fra noi, i tedeschi s’avanzano ed [h]anno preso Pizighitone [Pizzighettone]; il re si trova a Lodi; il talegrafo lavora ma inutile, il campo è perduto. […] Lì 13 agosto 1848 1. Caneffe / 2. Manzo al bolito / 3. Verdolini / 4. Polastri arosto / Zuppa: Spaghetti e verze Questa matina continuava il fanatismo di non volere lasciare entrare le truppe tedesche in città, alle ore 11. il generale Bricherasio e il generale Lamarmora con i due ajutanti sono andati al fiume Po a parlamento con i Tedeschi ed è stato concluso il tutto; doppo mezzo giorno è sortito una notificazione del sindaco il quale averte tutti i cittadini che domani la nostra città sarà occupata dalle truppe imperiali pregandoli di rispettarli che sarano rispetati…; verso l’Ave Maria è sortio un proclama delle convenzioni fatte e che le truppe austriaca [sic] saranno padrone in quanto al militare ed al civile come era per il passato e continua ancora sotto il Piemonte

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Ricettari e “libri di casa”

Pagine del I vol. dell’Opera di Luigi Naldi con i menu rispettivamente del giorno dell’Antivigilia del 1848 e del giorno di Natale 1849

Lì 14 agosto 1848 1. Fritata con salsa tomatis / 2. Tonno all’oglio / 3. Cornetti alla Dore / 4. Sfoglia frita / Zuppa: Riso e facioli Questa matina alle ore 3 è partita tutta la truppa piemontese; alle ore 3 1/2 è entrato un pichetto di tedeschi di nove soldati i quali sono andati alla piazza; si trovava la guardia civica la quale avendo veduti questi Tedeschi, i forti difensori della patria [h]anno abbandonato la piazza: chi è fuggito da una parte, chi dall’altra, chi [h]a lasciato il fucile, chi ne aveva due, tutti erano persi dallo spavento e dalla paura presa per soli 9. Tedeschi; queste sono le prodezze di chi volevano soggiogare l’Austria e mettere la corona e trono sotto i piedi; ralegrati o Piacenza di prodi tuoi difensori che questa matina li [h]a dato prova del suo coraggio: viva l’Italia, viva l’unione, viva il re; Piacenza è libera; alle ore 4 1/2 è entrato circa un 1300 uomini tra fanteria e cavalleria; alle ore 8 1/2 è arrivato il corpo: fra cavalleria e fanteria sono 8500 uomini; doppo del quale è stato fissato il presente proclama: Amnistia generale, le truppe rispetterano i cittadini, ma guai a quello che non rispetterà la truppa, sarà ponito severamente quanto a potere, firmato: maresiallo comandante generale Thurn.

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88.

Vincenzo Agnoletti

(Roma, 1780 ca. – dopo il 1834) La nuova cucina economica in cui s’insegna la più facile, e precisa maniera d’imbandire con raffinato gusto ed economia, qualunque delicata mensa di ogni sorte di vivande si’ di grasso, che di magro. Disposta per ordine alfabetico. Tomo I [-V]. In Roma, presso Vincenzo Poggioli, 1803. 5 voll. (240 p.; 243, [1] p.; 221, [3] p.; 239, [1] p.; 198, [2] p.). 8°. – Segn.: a8 B-P8; A-O8 P10; A-O8; A-P8; A-M8 N4. – Titolo del vol. 5:

Il credenziere perfetto opera annessa alla nuova cucina economica in cui s’insegna a lavorare con tutta perfezione ogni sorte di biscotti, biscottinaria, candidature, composte, confetture, cioccolata, sorbetti, rosolj, e qualunque altra cosa, che possa occorrere in detta professione. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Ambrosini 813.1-5. Prov.: Raimondo Ambrosini)

Cuoco, credenziere e liquorista, si avvicina all’arte gastronomica affiancando il padre, capo credenziere per più di trent’anni presso la famiglia Doria Pamphili a Roma; sembra avere viaggiato a lungo in Italia ed in Europa apprendendo i segreti di cuochi italiani e francesi; per vent’anni esercitò la professione di cuoco prima di passare all’attività specifica di credenziere e liquorista alla corte di Maria Luigia d’Asburgo, già moglie di Napoleone, ora duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, dove rimase fino al 1830; ma di lui in realtà si sa ben poco. II suo primo ricettario, La nuova cucina economica, pubblicato a Roma nel 1803 e ristampato nel 1814 con il titolo di Nuovissima cucina economica, è un poderoso lavoro in cui elenca in ordine alfabetico alimenti, preparazioni e ricette che rivelano la sua vastissima cultura. Nell’edizione di Pesaro del 1832-34, Agnoletti cercò di riorganizzare gli argomenti trattati secondo un ordine più tradizionale che li rendesse maggiormente fruibili, aggiungendovi una Osservazione sopra i forni e fornelli economici, che offriva utili chiarimenti riguardanti questa innovazione dell’attrezzatura di cucina. Quando nel 1821 giunge alla corte parmense, gli viene dapprima affidato l’incarico di aiutante di canditeria, agli ordini del capo canditiere. Si perfeziona così in questa raffinata arte che gli permetterà poi di registrare nel suo Credenziere preparazioni come quella dei “fiori canditi ai liquori”: per farli “metterete tanto i fiori freschi, che sciroppati in fusione per un’ora dentro il rum o dentro lo spirito di cannella, di maraschino, o di vainiglia, o con altro odore che vorrete; indi si faranno ben scolare, e dopo averli polverizzati di zucchero, si fanno asciuttare in istufa; se non arrivassero bene la prima volta, si torna di nuovo a bagnarli leggermente con lo spirito, e spolverizzarli di zucchero, e si fanno asciuttare nella stufa”. Ben presto Agnoletti si guadagnò il favore della duchessa con la preparazione dei suoi gelati, specialità di cui Maria Luigia era particolarmente golosa. Il “modo di gelare qualunque sorbetto” adottato da Agnoletti era il seguente: “Tagliate una grossa rotella di neve, e ponetela nel fondo della mastella con un poco di sale sotto, e sopra; indi posateci sopra la sorbettiera ottu242


Ricettari e “libri di casa” rata, ed all’intorno mettetevi della neve sminuzzata, e mescolata con del sale; girate di continuo la sorbettiera, e quando vedrete, che la neve ha fatto un poco d’acqua, scoprite la sorbettiera, e seguitate a girarla, staccando ogni tanto il sorbetto con la staccatura. Allorché sarà bene asciutto, ed indurito, coprite la sorbettiera, levate l’acqua sturando la mastella, e metteteci l’altra neve. Finite poscia di mantecare il sorbetto, e quando sarà al suo punto servitelo dentro le giare di cristallo”. I sorbetti cotti di latte si preparano così: “Prima si devono ben sbattere l’uova dentro uno stagnato, e quindi vi si mescola il zucchero, ed il latte, o acqua e l’odore che vorrete, poi si mette lo stagnato sopra un fuoco moderato, e con una cucchiaja di legno si maneggia di continuo finchè il sorbetto sarà stretto, che conoscerete allorché tingerà bene la cucchiaja. Passatelo allora per setaccio, e quando sarà freddo gelatelo”. Invece per il sorbetto di agrumi: “Levate le scorze a sette, o otto limoni, quindi spremeteli, e passate il sugo per setaccio dentro una catinella bianca, mescolateci per ogni boccale circa due libbre, e mezza di zucchero chiarito, e cotto a lisa, ed un bicchiere circa d’acqua fresca; indi poneteci dentro alcune zeste [scorze] finissime dell’agrume con il quale vorrete fare il sorbetto, e lasciatele in fusione per mezz’ora; passate poscia per setaccio, e gelate come il solito”. Agnoletti pubblicò in seguito altri volumi sull’arte del credenziere, che si occupava delle portate (tutte fredde) che si intervallavano alle portate di cucina. Il termine deriva dal mobile (la credenza) dentro il quale venivano disposti i piatti da servire. Ma compito del credenziere era anche quello di apparecchiare e allestire la tavola. All’edizione del 1803 seguirono quindi Le arti del credenziere confetturiere e liquorista ridotte all’ultima perfezione per uso de’ professori e dilettanti (Firenze, presso Giuseppe Pagani, 1822 e poi 1826), redatto durante il suo soggiorno a Parma, il Manuale del credenziere, confetturiere e liquorista di raffinato gusto moderno (Roma, Ajani, 1831), il Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno (Pesaro, Tipografia Nobili, 1832-1834). In questi manuali basati sulla sua grande esperienza Agnoletti spiega le tecniche di lavorazione per colorare le paste, cosa è o non è di moda. In particolare disapprova l’uso seicentesco – ancora abbastanza comune nel suo secolo – di fare sculture in zucchero con le quali ornare la tavola, a cui preferisce composizioni di frutta o fiori o oggetti in porcellana. Ma Agnoletti si distinse anche come cuoco: nei quattro volumi della sua Nuova cucina economica si possono trovare ricette della cucina internazionale, come gli asfindaker alla svedese, le mele alla Bayeruth o il luccio alla kaisor, ma soprattutto la cucina italiana, come il cosciotto di castrato alla genovese, le ostriche alla veneziana, i mondiotti alla bergamasca. (zz)

Augusto Majani, Esordio, [1917-1918], disegno (matita di grafite e china) preparatorio per la testatina dell’introduzione di L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa di Olindo Guerrini (Roma, A. F. Formiggini,1918), v. scheda 93 (Budrio, BC Majani)

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Tortelli e tortellini alla bolognese secondo Vincenzo Agnoletti Si danno due nomi a questa vivanda, abbenché si prepari con l’istessa pasta, e coi medesimi ripieni: siccome fatti di una forma piccola, si servono per lo più in minestra col nome di Tortellini, così anche fatti nell’istessa maniera, ma di forma più grande, si chiamano Tortelli e si apprestano in tutte le precise maniere che li Ravioli. Il modo di preparare tanto li Tortelli, che li Tortellini è il seguente. Tirate una sfoglia sottile di pasta fatta come quella delle lasagne, indi con un taglia pasta grande, o piccolo, secondo che vorrete, la tagliarete in tanti tondi; ponete sopra ciascun tondo qualsivoglia ripieno, che voi trovarete descritto nell’articolo dei ravioli, e ripiegateli nell’istessa maniera dei ravioli; unite poi le due estremità saldandole bene insieme con le dita. A questa vivanda si dà pure il nome di Cappelletti, quando si copre la composizione con un altro tondo dell’istessa pasta, formando nel mezzo una specie di cupola di cappello. Alcuni nella pasta vi mettono un poco d’acqua tinta con zafferano, ed altri riempiono li Tortelli, o Tortellini ec. con una farsa fatta con petto di pollo cotto, altrettanto midollo di manzo passato per setaccio, parmigiano grattato, sale, pepe pesto, canella in polvere, o noce moscata, e vi aggiungono alcune volte un poco di ricotta, ed anche qualche rosso d’uovo ma tutto ciò dipende da chi lavora per variare secondo il suo talento. (v. II, p. 50)

89.

Valdrighi (famiglia)

Ricette: cioè formule per confezionare vivande, dolci, colori, conservare frutti ecc. appartenenti ai secoli XVIII e XIX. Ms. cartaceo ; sec. XVIII-XIX ; 397 c. num. ; dimensioni varie. Modena, BEU (IT 1529 = α.N.4.4. Prov.: Luigi Francesco Valdrighi)

Si tratta prevalentemente di una imponente raccolta di fogli sparsi (tranne qualche raro gruppo raccolto) per un totale di 44 fascicoli (397 fogli numerati) riordinati dal conte Luigi Francesco Valdrighi, figlio di Carlotta Berardi Delatour alla cui mano si deve la maggior parte delle 440 ricette riportate. Sempre lui, uomo di grande cultura e di molti interessi che nel 1867 fu nominato segretario della Biblioteca Estense, provvide a donare questa preziosa raccolta alla Biblioteca stessa. I fascicoli sono ordinati per argomenti e trattano nell’ordine di aceti, acque di frutti, bibite, budini, caffè, ciccolatte, colla, conserve, creme, dolci da tavola, fritti, frutti secchi, gnocco modenese, latte, liquori, minestre, mostarda, ova, pane dolce, paste dolci, pasticci, persicate, pietanze varie, salse, salumeria, siroppi-giulebbi, sorbetti, torte, unguenti, vini. C’è un ‘quaderno’ che contiene ‘memorie estratte da vari giornali’ (il n. 39), il 40 e il 43 sono senza titolo e contengono annotazioni varie, il 41, il 42 e il 44 (di 91, 85 e 96 carte rispettivamente) con ricette e ‘segreti’ diversi, più alcune serie di fogli con i classici consigli per la soluzione dei piccoli problemi quotidiani: vari tipi di inchiostri (n. 14), come preparare la colla (n. 7), la ‘lavanderia’ (n. 16), 244


Ricettari e “libri di casa” come pulire perfettamente le mani (n. 18), come togliere le macchie di petrolio (n. 26), la preparazione dei profumi (n. 28) e delle tinture (n. 34), gli unguenti (n. 36) e le vernici (n.37). Si ritiene doveroso riportare la ricetta del ‘gnocco modenese’ tanto popolare in Emilia quanto lo è la piada in Romagna: “6 libbre di fiore di farina, 8 oncie di burro, 8 oncie di strutto, 1 ½ libbra di girasoli, 2 oncie di sale. Otto o dieci ore prima di fare il gnocco bisogna prendere 7 centesimi di lievito, e si stempera nell’acqua quanto ne abbisogna per impastare con certa sodezza il fiore; questo pastone si copre con farina, e passate le otto ore o dieci si leva la coperta di farina, si uniscono gli ingredienti sudetti, e si fa il gnocco, impastando il tutto assieme con molta forza per circa mezz’ora di tempo”. Steso l’impasto con il mattarello si taglia in quadri che si friggono e si servono ben caldi in genere con formaggi e salumi. È riportata anche la ricetta del biscione di Reggio Emilia, dolce tipico natalizio: “Libbre 1 mandorle dolci ben peste, libbre 1 zucchero biondo, 2 ovi col bianco, odore canella regina. N.B. Pestate le mandorle, unite allo zucchero, e quando sarà il tutto pesto bene mettete in un catino unito a due uova, e maneggiatelo bene, fateci la sua pasta frola sotto, e poi distendeteci sopra il biscione, e quando sarà fatto, dateci sopra con una palla d’ovo ed un penello, e mettetelo a cuocere nel forno, e quando sarà cotto date sopra la glassa”. Per fare poi l’aceto balsamico “si prende della saba [mosto d’uva cotto], e poi dei peri d’inverno gustosi, si radono, e con un torchio si spreme il sucho, e poi si prende del suco di liquirizia, del zibibo, e canella, e si fa bolire nell’acceto forte, e poi si colla, e così calda si pone entro il vascello”. La ricetta n. 35.7 spiega il procedimento per realizzare la torta di cioccolata: “Libretti di ciocolata n. 5, ova torli n. 12, chiari n. 6, zuchero libbre 1 e oncie 4, panna oncie 6. La ciocolata si distempera sopra il fuoco con latte oppure acqua, indi si mescola il tutto assieme quando le ova si sieno battute, come si farebbe la torta di marzapane; l’ultima ad unirsi è la panna. Si mescola sempre fin che il fuoco sia preparato. Poi si colora la padella sopra il tripiede nella quale vi era già la pasta distesa, quivi si versa la torta. Quando il testo [coperchio o disco di terracotta] già provato col solfanello si è levato dal fuoco si lascia un momento raffreddare per tempo di un credo, quindi si coloca sopra con bornice [cenere con brace]. Quando la torta incomincia ad aprendersi si soprapone un foglio di carta, poi si ricopre col testo, e si lascia cuocere lentamente. Si prova la cottura col ferro o col solfanello”. (zz) Ronzoni 2001; Ronzoni 2009

Augusto Majani, II° [Pane, Polenta ecc.,19171918], disegno (matita di grafite, china e acquarello) preparatorio per la testatina del 2° capitolo di L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa di Olindo Guerrini, (Roma, A. F. Formiggini, 1918), v. scheda 93. (Budrio, BC Majani)

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Le ‘cerase brusche’ di Modena Costituiscono da secoli la materia prima per uno dei tanti prodotti tipici di questo territorio, la confettura. Si coltivano nella zona pianeggiante e pedecollinare tra Modena e Bologna, dove il terreno permeabile, drenato e fresco è più indicato per tale coltura. La lavorazione per ottenere la conserva di amarene affonda le sue radici in tempi lontani, basti leggere la ricetta riportata nell’opera del cuoco – bolognese di nascita ma mantovano di adozione – Bartolomeo Stefani. Ma, a conferma della tradizione, ritroviamo le indicazioni per la preparazione anche in diversi ricettari, primo fra tutti quello della contessa Delatour Valdrighi, ma anche i quattro quaderni – scritti a partire dal 1860 e conosciuti come Centonovan‑ tadue ricette dell’800 padano – che trattano le ‘cerase brusche’. Da dove provengono? “[…] se li tramandavano di madre in figlia; questi sono arrivati da Gonzaga a Modena insieme alle federe, alle lenzuola ed alle stoviglie del corredo” (Giusti, p. [1]). E infine nel ricettario di Ferdinando Cavazzoni (collezione privata modenese), che svolse tale incarico, dal 1860 circa per un quarto di secolo presso l’antica famiglia Molza, è presente la ricetta della confettura. Riportiamo la ricetta ‘ispiratrice’ del cuoco dei Gonzaga: Le Cerase acide, chiamate agriote da’ Francesi di Bartolomeo Stefani Piglia cerase mature di sapor acido, mondale da suoi gamboli, & ossi, e da queste ne spremerai il sugo, ponendolo in vaso di terra ben vitriato, con oncie 8. d’acqua comune, libre 2 di zuccaro fino, e bollito il tutto alla densità di siropo, aggiongi 3. libre delle cerase predette, mondate da’ suoi gamboli, non da gl’ossi, e continuerà la cottura pian piano, sino alla vera consistenza di siropo, e sarà perfettionato in condito, che si può concedere in qual si sia tempo, e morbo, per il sapore acetto al palato, e per la sanità, perché tempera l’estremo calore, e fortifica il fegato.

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Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Vitale. Fanno queste Marene siroppate, / Dalli poveri Infermi sì bramate, v. scheda 126. (Bologna, BC Archiginnasio)


Ricettari e “libri di casa”

Qualche curiosità in più dalle Centonovantadue ricette: i grandi classici reggiani e modenesi Nota per fare la bomba [piatto tradizionale di Reggio Emilia] Si prende ½ chilo di riso cotto nel brodo e poi si mette in una zuppiera e poi si prende il ragù già fatto eguale a quello del pasticcio si mette dentro metà con un ovo e del formaggio in abbondanza e si mescola tutto assieme indi si prende lo stampo che prima avrete unto col burro e impanato col pane e si accomoda dentro metà del riso e poi il rimanente del ragù e poscia l’altra metà del riso e poi coprasi bene e s’impolveri col pane e poi si cuoce. Gli Amaretti di Spilamberto [specialità di questo comune della provincia modenese] Una libbra di mandorle dolci compreso due once di mandorle amare una libbra di zucchero bianco molto raffinato. Le mandorle dopo averle bollite e pelate è bene metterle nell’acqua fredda perché non facciano l’olio, poi si asciugano per bene in un tovagliolo; si pestano nel mortaio ben fine e con esse sempre un po’ di zucchero. Poi si deve fare una bella fiocca con 5 chiare d’ovo e poi poco per volta si deve unire collo zucchero e mando[r]le finché sia riescita una poltiglia piuttosto consistente. Poi devesi preparare parecchie liste di carta larghe 3 dita che poi su queste si formano gli amaretti che vi si pongono con un cucchiaio. Le liste di carta si mettono sopra una padella di ferro non unta e prima di mandarli al forno si spolverano di zucchero che questo però non è della dose. Levato il pane dal forno e con calore non troppo ardente. Dal ricettario di Ferdinando Cavazzoni Fritto così detto arbazone [alla modenese] Si prende 3 oncie di lardo, si batte con dell’ajo e prezemolo, si passa al catino con 8 oncie di ricotta o puina, 1 uova con chiaro, formaggio, sale, mezzo bicchiere di late, acqua o brodo, 3 cucchiari di fiore, delle biette erbe ben cunate [tritate con la mezzaluna], e poi si lasciano che facciano l’acqua stringendole bene (deve venire una composizione alquanto soda), di poi si stira in una padella con strutto, si lascia cuocere adagio volgendole con un piatto. Con il medesimo composto si possono fare tante fritelline. Zampone alla modenese Si piglia un zampone, si lascia in un bagno d’acqua fresca la sera prima di cuocerlo, la mattina si trafora con un ago, si avolge in un tovagliolo, si lega, si mette in pignatta appositamente o pesciera con dell’acqua tiepida, con sale; si lascia cuocere adagio per circa 3 ore. Cotto si prendono 2 libbre di lenticchie, si cuoceno in soffritto preparato come al n. 97, si lasciano cuocere per bene, si mettono in piatto con dentro il zampone; caldo si serve. [Stessa cosa per i cotteghini alla modenese]. Il soffritto della ricetta n. 97 si prepara così: con della cipolla tagliata in tanti pezzettini, burro, del prosciutto in fettine, droghe, canella o spezie; si lascia il tutto abrostolire, quando è ben arostito si versa dentro una mescola di brodo, indi si mette quello che si a da cuocere. Stefani 1748, p. 127; Giusti 1970, p. 14, p. 48; Ronzoni 2009

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90.

Zibaldone di un gastronomo modenese. Modena, tip. di C. Vincenzi, [1850]. 80 p. ill. ; 16 cm. – Titolo dell’occhietto: Strenna pel giovedì grasso del 1850. – In fine: I gnocchi, dell’ab. Giovanni Moreali modenese. Faenza, BC Manfrediana (R.7.4.26)

Si tratta di un’operetta anonima che contiene un excursus di diverse specialità prevalentemente modenesi ma anche di altre città, della regione e non. L’originalità dell’autore affiora già dalle prime pagine, infatti egli finge che la dedicatoria “Al benigno lettore” sia stata scritta dai suoi eredi i quali “Appena spirato, si corse allo scrigno e / Con quel furore e con quella tempesta / Ch’escono i cani addosso al poverello, / si frugò per ogni dove in cerca delle promesse ricchezze”, che non esistevano, poiché “Egli è morto pieno di debiti col pizzicagnolo, col droghiere, col lattivendolo, coll’ortolanina, e persino collo speziale, lasciando noi eredi delle sue future ricchezze e de’ suoi debiti passati”. In realtà il tesoro c’è, anche se molto lontano dalle aspettative: “Si rinvenne di fatto un fascio di carte su cui stava scritto: – Tesoretto pei miei eredi – Dapprincipio le credemmo cambiali, e non sapevamo darci pace come il buon gastronomo avesse voluto per amore di noi privare la sua gola di tante dolcezze. Ma cessarono le nostre meraviglie quando, svolto il fascicolo, altro non si trovò che […] il Zibaldone del Gastronomo Modenese, che ora ti offriamo, o cortese lettore, diviso in tre parti, cioè: Specialità gastronomiche modenesi – Varietà gastronomiche – Poesie gastronomiche. Se tu lo convertirai davvero in cambiali pagabili a vista, sarà stabilita la nostra fortuna; altrimenti saremo costretti a buttarci falliti, e, sta sicuro, senza il privilegio di andare in carrozza dopo il fallimento”. Si comincia con la ricetta del cotechino, per la quale viene chiamato in causa l’abate Giuseppe Ferrari, “segretario di casa Rangone” che, con lo pseudonimo di Tigrinto Bistonio, “in un pranzo dato in Modena dalla nobil casa Marchisio” sente risvegliarsi l’estro poetico e compone gli Elogi del porco. Si prosegue poi con lo zampone “che io credo posteriore in origine al cotechino” ma “lo ha già di gran lunga superato in celebrità”: esso costituisce infatti il prodotto distintivo di Modena: “Bisogna parlare con chi ha viaggiato e si udirà non esservi in Europa una città alquanto ricca e popolata in cui non vi sia almeno una bottega ove a caratteri da speziale non si annunzi ai passeggeri che vi si fabbricano zamponi di Modena. Ed io conosco chi le ha vendute a Parigi, a Londra, a Vienna e persino a Costantinopoli. […] Per questo le città d’Italia, quantunque sì facili a gareggiar fra di loro nel vanto delle invenzioni, si guardano bene dal contrastare a Modena una gloria sì grande e lungi dall’osar di proporre i loro zamponi come degni di competer coi nostri”. E passando dalla “salciccia” all’erbazzone (“spezie di torta d’erbe e ricotta”) di Reggio si arriva alla ricetta n. 8, quella della mostarda di Carpi: “L’appetito è il miglior condimento delle vivande, che senza di esso per quanto siano squisite riescono nauseose. Benemerite quindi sovr’ogni altro della gastronomia si avranno a riputare quelle salse che associate ai cibi li rendono più pruriginosi al palato, e meno gravi allo stomaco. E fra queste è meritamente rinomata la Mostarda di Carpi”. 248


Ricettari e “libri di casa” Lo storico locale Luca Tornini, terziario dei frati minori osservanti presso il convento di S. Nicolò, “credette quindi che il primo fabbricatore della mostarda di Carpi fosse della Carpigiana famiglia dei Sebellini alias della Nave o dei Passoni, che poscia, appunto forse per questo, nel 1500 furono detti Sebellini della Mostarda”. Quale sia il metodo di preparazione, è un segreto, ma il frate Tornini “sa dir con franchezza che ella è composta principalmente d’una qualità di pomi particolari che per lo più nascono solo nel nostro suolo, e di una dolcezza pari a quella del miele: quindi è che almeno la prima loro cottura si fa nell’acqua semplice, lo che rende sempre più stimabile la sua invenzione. La mostarda sotto il nome di Carpi è assai rinomata, e se non altro considerasi la più semplice, la meno dispendiosa e la migliore di tutto lo Stato di Modena”. L’interessante libretto reca in fine il poemetto I gnocchi dell’abate modenese Giovanni Moreali. Una nota al testo spiega che il manoscritto di queste “stanze inedite” pervenne al Gastronomo modenese per mano del conte Mario Valdrighi: esse furono lette dall’autore nel corso di una riunione dell’Accademia dei Dissonanti, dove fu declamato anche un poemetto intitolato Le fritelle, dell’avvocato Giancosimo Medici, che “recitò con giocondissimo plauso”, poemetto che “si desidera pubblicato colle stampe”. Ma al momento non risulta che sia stato fatto. (zz)

Il poemetto I gnocchi a p. 75 dello Zibaldone.

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91.

Cuciniera bolognese ossia modo semplice e facile di cucinare ogni sorta di vivande e delle diverse salse tirate ad uso italiano con la descrizione dei prodotti d’ogni genere nelle quattro stagioni dell’anno. Bologna, presso L. Priori, banco di giornali sotto le Loggie del Pavaglione, 1874. 100 p. ; 14 cm. – In 4a di copertina: Cent. 50. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sassoli Op.200.1100. Prov.: Tommaso Sassoli)

La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, frontespizio dell’edizione fiorentina del 1908. (Parma, Academia Barilla)

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Sfogliando questo minuscolo e dimesso libretto, appena ingentilito dall’immagine di copertina in cui la ‘cuciniera’ è già indaffarata tra pentole e fornelli, si legge subito nella prefazione che all’inizio del mondo la cucina “fu cosa tutta naturale e semplicissima, poiché il numero e la qualità delle vivande erano regolate dall’appetito, ed il miglior condimento di esse era la fame. Ma col decorrere dei tempi divenne un’arte positiva e meccanica”. La ‘cuciniera’ – ammesso che si tratti veramente di una donna – prosegue sottolineando i progressi che hanno compiuto ‘le scienze e le arti’ negli ultimi anni permettendo alla pratica culinaria, specialmente italiana, di giungere alla perfezione. “Quindi non intendo io qui di volere estendermi nella ardua descrizione della infinita serie di vivande, spesse volte superflue ed anco insalubri, che l’attuale gusto del presente secolo ha introdotte per l’uso delle mense di grande portata e di molto lusso […] ma bensì il presente mio libretto s’agirerà soltanto intorno al modo di preparare e condire alcune poche vivande, che oltre essere assai gustose, riusciranno nel tempo stesso salubri e di non grave spesa” e questo forse per giustificare l’assenza di lasagne, tortellini e tagliatelle; inoltre “siccome dalla qualità di cibi che prendiamo dipende tante volte la diuturnità della vita nostra, e la conservazione della sanità del corpo; così io reputo necessario che chi si applica alla dilettevole arte della cucina, debba curare con ogni studio di conoscere appieno la qualità de’ commestibili, e degli ingredienti che pongonsi in opera”. Fra le circa settanta ricette riportate, si nota subito quella delle “Crescentine ripiene: prendete fior di farina, impastatelo con vino buono, aggiungetevi sale e un poco di canella ed un tantino di burro; formatene pasta, tiratela alla grossezza giusta, poi con speronella o altro stampo tagliate li pezzi, riempiteli con ragù, ovvero marmellata buona, e sovra poneteli un altro pezzo di pasta e stringeteli bene attorno acciò non esca il pieno, poi friggeteli e serviteli con zucchero”. Alcune ricette riguardano anche il riutilizzo degli avanzi, per esempio di pollo (p. 71): “se poi questa polleria fosse allesso, o in umido, allora bisogna montarlo bene in un piatto ben guernito con cipolline, o asparagi, o finocchietti, od altro secondo la stagione perché il tutto sia ben nutrito; indi coprire questi pezzetti con una liason [addensante di solito a base di panna e uovo] e si servono come un fricassè ben bollente”. Per finire con le ‘cotolette di vitello o tortigliè’ (p. 47): “prendete le cotolette ben battute, e bene tagliate coll’osso corto, piccatele di minuto lardo, e cotte al ristretto glassatele col proprio fondo e versateci sopra una salsa qualunque e servitele”. (zz)


Ricettari e “libri di casa”

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Pellegrino Artusi

(Forlimpopoli, 1820 – Firenze, 1911) La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. 15.a edizione e in appendice: “La cucina per gli stomachi deboli”. Si vende in Firenze, presso l’autore; presso R. Bemporad & figlio, Tipografia di Salvadore Landi, 1911. 615 p., [1] c. di tav. : ritr. ; 21 cm. Forlimpopoli, BC Artusi (CasaArtusi G.01 Artup 1911)

Di questo caposaldo della scienza gastronomica e del suo autore è già stato detto tanto, ma probabilmente ancora si dirà. La Biblioteca comunale di Forlimpopoli, dedicata ad Artusi, possiede la quindicesima edizione pubblicata nel 1911 (anno della sua morte) nella forma cartacea e tutte le precedenti su supporto digitale. L’attualità di questo ricettario, che in realtà è molto di più, è provata dalle innumerevoli ristampe – grazie anche all’edizione critica di Piero Camporesi (1970) – e dalla quantità impressionante di copie vendute. Per un quadro esatto della situazione “bibliografica” e dell’interesse ancora vivo, si rimanda all’Edizione progressiva curata da Alberto Capatti (Bologna, Compositori, 2012) nella collana «Emilia Romagna Biblioteche Archivi» della Soprintendenza per i beni librari e documentari. Il volume è corredato di una versione digitale (su CD) nella quale sono registrate tutte le edi-

I tortellini bolognesi secondo Pellegrino Artusi Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, che se la merita. E’ un modo di cucinare un po’ grave, se vogliamo, perchè il clima così richiede; ma succulento, di buon gusto e salubre, tanto è vero che colà le longevità di ottanta e novant’anni sono più comuni che altrove. I seguenti tortellini, benchè più semplici e meno dispendiosi degli antecedenti, non sono per bontà inferiori, e ve ne convincerete alla prova. Presciutto grasso e magro, grammi 30. Mortadella di Bologna, grammi 20. Midollo di bue, grammi 60. Parmigiano grattato, grammi 60. Uova, N. 1. Odore di noce moscata. Sale e pepe niente. Tritate ben fini colla lunetta il presciutto e la mortadella, tritate egualmente il midollo senza disfarlo al fuoco, aggiungetelo agli altri ingredienti ed intridete il tutto coll’uovo mescolando bene. Si chiudono nella sfoglia d’uovo come gli altri, tagliandola col piccolo stampo del N. 7 [ricetta precedente: Tortellini all’italiana (Agnellotti)]. Non patiscono conservandoli per giorni ed anche per qualche settimana. Con questa dose ne farete poco meno di 300, e ci vorrà una sfoglia di tre uova. 251

Dall’edizione fiorentina di Adriano Salani, 1908


zioni pubblicate dalla prima (del 1891) a questa, comprese le varianti che si sono succedute dal 1895 in poi. A queste è stata aggiunta la versione di 112 pagine, pubblicata nel 1908 come risposta all’edizione ‘pirata’ stampata l’anno precedente dall’editore Salani. Le modalità di consultazione sono due: all’interno dei testi integrali si può cercare per titolo o numero della ricetta, oppure per singole parole. Non a caso ancora oggi si può parlare di Pellegrino Artusi come di un autore incluso a pieno titolo nel palcoscenico della letteratura italiana tout court: nel 2011 lo scrittore pisano Marco Malvaldi ha pubblicato con Sellerio un romanzo giallo – Odore di chiuso – in cui ha inserito fra i protagonisti proprio il gastronomo romagnolo; nel 2014 il fiorentino Paolo Poli (che rivela di aver imparato a leggere, bambino, proprio con questo libro) ci ha donato, come strenna natalizia, un audio-book in cui interpreta le 790 ricette artusiane in una sequenza di antipasti, minestre, paste e pastelle, umidi, fritti, dolci e molto altro ancora. L’editore fiorentino Salvadore Landi fu uno dei maggiori studiosi dei problemi tecnici insiti nell’arte tipografica, che esemplificò nella sua rivista L’arte della stampa, avviata nel 1869 e nel manuale della Tipografia, in due volumi (Milano, Hoepli, 1896). (zz) Capatti 2012

Il gusto al museo

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Casa Artusi a Forlimpopoli (Forlì-Cesena) rappresenta il primo luogo dedicato alla cultura gastronomica domestica: esso è parte di un complesso, interamente dedicato all’enogastronomia, che ospita anche una ricca biblioteca, una scuola di cucina e un ristorante. La Casa Artusi fa inoltre parte del circuito dei Musei del gusto dell’Emilia-Romagna, insieme con Il Museo del parmigiano-reggiano a Soragna (Parma), il Museo del pomodoro a Collecchio (Parma), il Museo del salame a Felino (Parma), il Museo del prosciutto di Parma a Langhirano, il Museo del vino a Montecchio (Reggio Emilia), il Museo dell’aceto balsamico tradizionale di Modena a Spilamberto, il Museo della tigella e laboratorio del borlengo a Samone di Guiglia e il Museo-laboratorio del borlengo a Lame di Zocca (Modena), l’Istituto nazionale di apicoltura a Bologna, il Museo della patata a Budrio (Bologna), l’Enoteca regionale a Dozza (Bologna), il Museo del castagno a Castel del Rio (Bologna), il Museo del pane Mulino sul Po a Ro Ferrarese, il Museo dell’anguilla Manifattura dei Marinati a Comacchio, il Museo della frutticoltura A. Bonvicini di Massa Lombarda (Ravenna), il Museo all’aperto dell’olio di Brisighella (Ravenna), il Museo del sale di Cervia (Ravenna) e il Museo del formaggio di Fossa a Sogliano al Rubicone (Forlì-Cesena). Il percorso dettagliato dei Musei del gusto è visibile all’indirizzo: http://ibc.regione.emilia-romagna.it/servizi-online/musei/allegati-musei/Musei%20del%20Gusto%20Emilia-Romagna.pdf


Ricettari e “libri di casa”

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Olindo Guerrini

(Forlì, 1845 – Bologna, 1916) La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV: conferenza tenuta all’Esposizione di Torino il 21 giugno 1884. Firenze, G. Barbera, 1884. 67 p. ; 20 cm. Bologna, BC Archiginnasio (Trebbi. Cart. 23, 74. Prov.: Oreste Trebbi)

L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa raccolta da Olindo Guerrini. Roma, Formiggini, [1918]. XVI, 334 p. ; 19 cm. Bologna, BC Archiginnasio (Bussolari A.468. Prov.: Gaetano Bussolari)

Lorenzo Stecchetti, Marco Balossardi, Giovanni Dareni, Argia Sbolenfi, Pulinera, Bepi, Mercutio: con tali psudonimi era solito firmarsi di volta in volta questo eclettico, ironico poeta, scrittore, bibliofilo, studioso della letteratura italiana nato in terra di Romagna. Trascorse la maggior parte della propria vita nel capoluogo emiliano, prima come dipendente e poi come direttore della Biblioteca Universitaria. Personaggio decisamente irriverente, ‘fuori dalle righe’ come dimostra da subito nel pubblicare la raccolta di poesie Postuma (così intitolata perché spacciata inizialmente come opera di un parente deceduto), Guerrini in realtà svela in ogni suo scritto una profonda e vasta cultura e una ancor più vasta curiosità per ogni aspetto del sapere, unite a una non comune capacità di espressione, sia in prosa che in poesia e persino in dialetto. Il suo contributo al mondo della gastronomia si esplicita in questi due scritti: la relazione da lui letta all’Esposizione di Torino del 1884 (pubblicata lo stesso anno dall’editore Barbera e firmata Lorenzo Stecchetti) in cui, attraverso la descrizione di un banchetto medievale in tutti i suoi particolari (apparecchiatura e decorazione, successione delle varie portate) sostiene una serie di tesi sul momento e sul modo di formarsi della sensibilità alimentare nel nostro Paese, frutto dei suoi studi sulle ‘carte gastronomiche’ custodite nella biblioteca di cui è direttore. Dichiara fra l’altro in questa occasione (p. 4): “È necessario che cessi il pregiudizio che accusa di volgarità la cucina, poiché non è volgare quel che serve ad una voluttà intelligente ed elegante. Un produttore di vini che manipola l’uva e qualche volta il campeggio per cavarne una bevanda grata, è accarezzato, invidiato e fatto commendatore. Un cuoco che manipola anch’esso la materia prima per ottenerne un cibo piacevole, nonché onorato e stimato, non è nemmeno ammesso in anticamera. Bacco è figlio di Giove, Como (il Dio delle mense) di ignoti genitori. Eppure il savio dice: Dimmi quel che tu mangi e ti dirò chi sei. Eppure i popoli stessi hanno una indole loro, forte o vile, grande o miserabile, in gran parte dagli alimenti che usano.

Ritratto di Olindo Guerrini realizzato da A. Majani nel frontespizio de L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa

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Olindo Guerrini, L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa, incipit del 6° capitolo dedicato al maiale.

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Non c’è dunque giustizia distributiva. Bisogna riabilitare la cucina”. E ancora (p. 5): “I popoli civili mangiano bene, i barbari bestialmente”. L’opuscolo si conclude con la descrizione di una serie di piante aromatiche comunemente usate proprio nel periodo studiato, cogliendone anche l’aspetto medicinale e terapeutico. L’altra opera (pubblicata dopo la sua morte) è un godibile libretto, piacevolmente illustrato da Augusto Majani, in cui Guerrini illustra la cucina ‘povera’ sperimentata più volte personalmente nel corso della sua vita di bibliotecario e scrittore. Spiega nel presentarlo: “Veramente, data l’indole del libro, dovrei dire Antipasto e non Esordio, ma preferisco di attenermi all’uso vecchio perché, se c’è un’arte refrattaria al futurismo, è l’arte del cucinare. Cercano, è vero, i cuochi di illudere il palato con vari condimenti, salse e nomenclature stravaganti, delicatezze lusingatrici e aromi stimolatori, ma la materia da trattare è sempre quella. Sono sempre le stesse carni, gli stessi ortaggi sia lessati, sia arrostiti, sia in umido, mascherati, sì, con gusto industrioso, ma, in fondo, sempre quelli. L’arte della cucina è conservatrice e passatista”. Come sia nata in lui questa passione è spiegato subito dopo: “Quando dunque, avendo addosso minor numero d’anni, giravo in bicicletta con maggior fierezza che non in queste stanche giornate, capitai in un paesello nel quale, per levarmi d’intorno l’insistenza di un venditore ambulante, comprai un libretto di cucina. Il libro dell’Artusi già l’avevo, ma dopo questa compra quasi coatta, seguitai, per curiosità e non per proposito, a fare altri piccoli acquisti. Così, a poco a poco, senza avvedermene, mi trovai ad avere una discreta collezione. Allora ci posi amore, l’accrebbi ed ora credo che in Italia ce ne siano poche di uguali”. Notando poi che l’arte di cucinare gli avanzi “non era trattata a sé, ma dispersa qua e là in poche e laconiche ricette” considera che sarebbe stata cosa “buona e utile raccogliere le ricette italiane sparse pei libri” senza però pensare di farlo personalmente.Trovandosi un giorno a Firenze con Pellegrino Artusi, gli parlò del “caso degli avanzi e del libro che se ne poteva fare” e il celebre gastronomo lo incoraggiò in tal senso, “Dissi: Chi sa? Ma per allora non mi decisi”. Dovrà arrivare alla fine del suo incarico professionale (“dopo averlo tenuto con lode 38 anni”), ingannare il tempo “con non pochi epigrammi i quali, per ora, stanno sotto chiave”, affrontare una guerra non direttamente come il figlio – data l’età – ma nell’unico modo che conosceva, offrendosi al Ministro anche come usciere e venendo nominato bibliotecario all’Università di Genova: “Ah, quell’inverno passato a Genova lo gustai come uno spicchio di Paradiso terrestre e mi sembrò di ringiovanire! La Biblioteca ed il mio appartamento erano un po’ alti sul livello del mare. Contavo 300 scalini precisi


Ricettari e “libri di casa” ed io li salivo e li scendevo due volte al giorno (600 in salita e altrettanti in discesa, quanti sono?) disinvolto, fiero e dimentico de’ miei settant’un anni. Aggiungete le salite e le discese di cui Genova non è avara e vedete se avevo ragione di vantarmi”. In quella serenità di spirito è contenuta la genesi del libro. Prima di consigliarne caldamente la lettura, è doveroso riportare almeno una delle ricette in esso contenuta: Balsamella con le cipolle. Tagliate le cipolle in fette, mettetele in casseruola con un pezzo di burro, passate a fuoco leggero, badando che la cipolla non prenda colore. Aggiungete un po’ di farina, sale e pepe bianco, rimestate e bagnate con brodo. Cotte quasi le cipolle, ma non arrossite, aggiungete panna o buon latte già bollito a parte, e quando la salsa è legata, servitevene. (zz)

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Salvatore Ghinelli (Rimini, 1873 – 1939)

L’apprendista cuciniere. Manuale pratico per famiglie, ristoranti, alberghi, pensioni. Milano, Bietti, 1928. 335 p. ; 21 cm. Rimini, CP

Augusto Majani (Nasica), Dalla Bocca Mia Saprai Quel Che Adesso Mangerai, Bologna, s.n., 1932. Menu realizzato in occasione della cena organizzata dalla Società Cuochi di Bologna presso il Ristorante Foro Boario il 7 dicembre 1932; l'elenco delle portate è stampato su di un cartoncino in parte estraibile (v. pagina seguente), corrispondente alla lingua della caricatura del cuoco. (Budrio, BC Majani)

Salvatore Ghinelli, conosciuto a Rimini come e’ Gnaf (il Camuso), pubblicò questo volume nel 1928, presso la casa editrice milanese Bietti, fondata nel 1870 dallo stampatore Angelo. Il titolo indica chiaramente i contenuti del volume: non un capolavoro sull’arte culinaria, come precisa lo stesso autore nell’introduzione, ma semplicemente un aiuto per chi vuole cimentarsi tra pentole e fornelli, sia in maniera professionale che per diletto. Le sue 630 ricette sono infatti rivolte indifferentemente, come specifica il sottotitolo, a ristoranti, alberghi, pensioni ma anche a famiglie. Aveva mosso giovanissimo i primi passi del suo percorso professionale presso l’albergo-ristorante Leon d’oro, in piazza Cavour, poi dopo alcune esperienze sulle navi da crociera, era entrato al servizio della principessa di Venosa, Teresa Marescotti, amica di Gabriele D’Annunzio che ebbe così modo di assaggiare i piatti del Gnaf. Infine, tornato a Rimini negli anni Venti, Ghinelli aprì dapprima una piccola trattoria nel vicolo Valloni e poi finalmente il ristorante San Michele (nell’omonima via dietro piazza Tre Martiri, che a quel tempo si chiamava Giulio Cesare), che gestì fino al 1939, anno della sua morte. Pur con i decisi tratti della cucina romagnola, le 255


sue ricette rivelano anche l’influsso nazionale e internazionale, soprattutto francese, a cominciare dall’uso dei termini spesso ‘riadattati’ alla lingua locale: così la mousse di prosciutto diventa ‘mossarella al giambone’ e altre ricette ricevono nomi un po’ più discutibili, come il nasello alla bourgeoise, che si trasforma in ‘nasello alla buona donna’. Ma proprio per il pesce Ghinelli era famoso, anche se nel suo ristorante si poteva mangiare di tutto; così per esempio consigliava di eseguire il brodetto alla marinara: “Scegliete quattro o cinque qualità di pesce come: sogliole, triglie, palombo, rombo ecc. e pulitelo bene dalle spine, dalle squame, dalle branchie, indi lavatelo bene in acqua fresca. Fate un pesto di cipolla e ponetela a rosolare nell’olio d’oliva; quando colora unitevi aglio e prezzemoli poi spruzzate con aceto di vino bianco, versare un po’ di salsa di pomodoro, condite con pepe e sale e fate bollire perché si restringa: buttate poi giù il vostro pesce, il grosso tagliato in due pezzi sotto ed il piccolo sopra, fatelo bollire per quasi mezz’ora adagio adagio adagio. Preparate dei crostini: abbrustoliteli o fateli seccare al forno, non troppo però, metteteli nel fondo della fiamminga con sopra il brodetto. Esso va servito subito fumante altrimenti perde assai di gusto e sapore”. Molte delle sue ricette sono dedicate a personaggi famosi, come il sandwich all’Orsini, la zuppa alla Carducci, gli spaghetti alla Caruso, l’aragosta alla Pompadour, il pollo alla Napoleone I, il filetto di manzo poi si poteva fare in diversi modi: alla Puccini o alla Mascagni, alla Tamagno (in onore del famoso tenore) o alla Rossini, alla D’Annunzio, alla Toscanini o addirittura alla Mussolini. Anche questa abitudine era mutuata dalla cucina d’oltralpe, specialmente da Auguste Escoffier che nel 1920 fu anche insignito della Legion d’onore. Sua, per esempio, la famosa ‘pesca Melba’ dedicata alla cantante lirica australiana Nellie Melba. Ghinelli fornisce anche la ricetta dei suoi ‘tortellini’: “Prendete un pezzo di vitello o pollo arrosto, pestatelo assieme a della mortadella di Bologna, a un poco di ricotta romana, parmigiano, noce moscata e uova a seconda del bisogno, rimestate tutto finché avrete ridotto una pasta giusta. Fate poi la vostra sfoglia spenta con sole uova: manipolatela bene e tiratela fine fine 256


Ricettari e “libri di casa” col matterello, indi tagliatela a piccoli quadri di cm 3 per 3, e con la punta di un coltello mettete un po’ del composto preparato in mezzo ad ogni quadro: unite poscia le due punte opposte, poi le altre due dell’estremità passandole dietro e avrete il così detto: cappelletto. Se dovete servirli in brodo, fateli così piccoli, se asciutti fateli più grandi”. (zz) Meldini 1997

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Augusto Majani

(Budrio, 1867 – Buttrio, 1959) Nei regni della gastronomia: spigolature storiche e considerazioni … filosofiche di un malnutrito. Bologna, Zanichelli, stampa 1925. 69 p., X c. di tav. : ill. ; 19 cm. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sala 641.509. MAJ NEI)

Augusto Majani nato a Budrio, alle porte della città felsinea, nel 1867, è stato un pittore bolognese multiforme e versatile che si è cimentato con diversi temi pittorici, dal paesaggistico al sacro, dalla ritrattistica alla rappresentazione di problematiche sociali. Suoi sono i paesaggi, spesso notturni e con venature tardo romantiche, della campagna romana; suo il dipinto ‘I disoccupati’ esposto alla Galleria d’Arte moderna di Bologna; sua è la ritrovata pala ‘Sacra famiglia e S. Giuseppe’ per l’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Budrio. Tale pala, oltre ad essere oggetto di una misteriosa scomparsa e un successivo rocambolesco ritrovamento in un mercato antiquario, fu da subito criticato perché il volto della Madonna, a detta dei fedeli, rappresentava in maniera troppo veristica il viso della fidanzata, e successivamente moglie, del Majani, la modella budriese Olga Veronesi. Oltre che per i numerosi dipinti, il nostro artista, divenne famoso e apprezzato dal grande pubblico soprattutto per le indubbie doti di caricaturista. Fu un apprezzato autore di vignette satiriche e di numerosi manifesti pubblicitari e collaborò con le maggiori riviste italiane e con numerosi periodici umoristici bolognesi. È da sottolineare come nella sua vita professionale seppe sempre mantenere una netta distinzione tra il pittore ed il caricaturista, non mescolando mai le due professioni, financo a firmarsi, per la sua seconda attività, con uno pseudonimo, ‘Nasica’ (ispirato ad un antico generale romano, accampatosi nei pressi di Budrio), che lo rese molto popolare e famoso.

Autoritratto-caricatura di Augusto Majani (Nasica) e frontespizio di Nei regni della gastronomia

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Gioachino Rossini visto da Augusto Majani davanti a un piatto di tagliatelle fumanti. In alto, pentagramma con alcune battute dell’aria Dal tuo stellato soglio del Mosè in Egitto, in Augusto Majani, Nei regni della gastronomia, p. 46

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Trattenne rapporti intensi con grandi rappresentanti della cultura italiana, poeti e scrittori come Carducci, Pascoli, Oriani, Trilussa, Testoni, D’Annunzio; scultori come Carlo Fontana, pittori, illustratori e fotografi come Adolfo de Carolis. Personaggio di carattere estremamente allegro e gioviale, amava la compagnia e la gioiosa baldoria e inevitabilmente, questi aspetti e tratti peculiari della sua personalità ne facevano un estimatore della buona tavola, dei ‘grassi’, golosi, piatti della gastronomia emiliana e romagnola. A tal proposito pubblicò, nel 1925, il ‘gustoso’ volume Nei regni della gastronomia. Spigolature storiche e considerazioni…filosofiche di un malnutrito, corredato da sue illustrazioni e tavole. All’inizio della trattazione l’autore spiega che “se l’arte della pittura mi diede molto poco da mangiare, volli ingannare il mio stomaco coll’occuparmi della storia dell’arte […] del mangiare: dovetti cioè contentarmi del fumo in mancanza dell’arrosto. Per giustificare maggiormente il mio amore a questo genere di studio, – continua Majani – farò pure considerare che vi fui spinto anche da ragioni di sangue, o, come dicono gli scienziati, per atavismo, perché mio bisnonno fu cuoco per 40 anni della famiglia Bolognesi, alla Riccardina, i miei nonni materni pasticceri, mio padre fabbricante di paste alimentari e anche mia madre si occupò di pasticceria al punto di dare alla luce un pasticcione del mio stampo”. In questo libro egli descrive, con l’arguzia e la vivacità squisitamente petroniane, diversi aspetti della cucina, partendo dalla mitologia, per passare poi a un veloce compendio della letteratura gastronomica da Apicio a Brillat-Savarin per concludere con Olindo Guerrini, il popolare letterato che non disdegnò di occuparsi di culinaria con L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa volume pubblicato dopo la sua morte. Passa poi alla descrizione della cucina dei popoli antichi: egiziani, greci, romani, ebrei; poi con un excursus attraverso i secoli fino ai giorni nostri, commenta gli aspetti culinari, i gusti e le preferenze alimentari dei popoli europei, per finire con la ghiotta documentazione dei piatti caratteristicamente locali, che sentiva come propri, perché patrimonio della ‘grassa’ Bologna. Curiosa l’annotazione in cui spiega che verso la fine del XIV secolo nell’alta società ci fu una sorta di ribellione all’uso di certi condimenti, in particolare della cipolla e dell’aglio, e nel 1332 Alfonso XI di Castiglia istituì un ordine cavalleresco i cui membri si obbligavano a non mangiarne o a star lontani dalla corte per un mese, in caso di infrazione alla regola. L’opera si chiude con un elogio particolare per i tortellini, la mortadella e le tagliatelle collocati ai posti d’onore della gastronomia bolognese, considerata ai vertici nel mondo: “Bononia alma mater studiorum… et manducorum!!!”. (acm) Dizionario storico 1792, p. 133; Rampoldi 1828


Ricettari e “libri di casa”

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Libro di cucina del secolo XIV. Ms. membranaceo composito; sec. XIV ; 106 c. [numeraz. recente a matita, in basso a destra al recto; precedenti numerazioni manoscritte in alto a destra]; mm 280x220 ; scrittura a due colonne, rubricato. Bologna, BUB (Ms. 158)

Il manoscritto, miscellaneo, presenta nella parte conclusiva due ricettari trecenteschi; uno alle c. 86-91 e l’altro alle c. 93-103; i due testi sono organizzati su due colonne, rubricati, verosimilmente della stessa mano; il secondo, denominato Libro de la cocina, propone una selezione di piatti a base di verdure, ma anche di carni, e diverse ricette per gli infermi; il primo, visibilmente incompleto, propone ricette elaborate: torte dolci e salate, salse e savori, gelatine ed altre pietanze da cui emerge un ricco apparato di sapori, spezie ed aromi. La scoperta di questi due ricettari coincise con una curiosa vicenda filologica, tutta ottocentesca, che interessò diversi studiosi dell’epoca. Nel 1863, il filologo Francesco Zambrini, preso in esame il codice della Biblioteca Universitaria di Bologna, decise di pubblicare solo il secondo ricettario, in quanto integro (Il libro della cucina del sec. XIV. Testo di lingua non mai fin qui stampato, Bologna, G. Romagnoli, 1863). Anni dopo, il bibliofilo e studioso Olindo Guerrini riesaminò il manoscritto; ingegno poliedrico, cultore di letteratura, questi si era già occupato di storia della cucina antica pubblicando La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV (Firenze, Barbèra, 1884); così decise di pubblicare l’altro ricettario: Frammento di un libro di cucina del secolo XIV. Edito nel dì delle nozze Carducci-Gnaccarini, Bologna, Tip. Nicola Zanichelli, 1887. Tre anni dopo entrò nel dibattito il filologo e bibliotecario triestino Salomone Morpurgo, che pubblicò un ricettario desunto dal ms. Riccardiano 1071: LVII Ricette d’un libro di cucina del buon secolo della lingua. Al Prof. Augusto Franchetti nel giorno delle nozze della sua Luisa col dott. Vittorio Enriquez offrono bene augurando Domenico, Cesare e Giacomo Zanichelli, Bologna, Tip. della Ditta Nicola Zanichelli, 1895. Morpurgo nel pubblicare il codice fiorentino, aveva tuttavia notato la prossimità del ricettario riccardiano a quello bolognese edito dal Guerrini. Pochi anni dopo si inserì nel dibattito anche Lodovico Frati; figlio di

Libro di cucina del secolo XIV, a cura di Ludovico Frati, Livorno, 1899. Frontespizio (Bologna, BC Archiginnasio)

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Luigi, storico direttore della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, entrò nei ruoli delle Biblioteche governative e prestò servizio soprattutto alla Universitaria della sua città. Animato da interessi filologici e bibliologici, si occupò soprattutto di letteratura italiana delle origini (i suoi studi riguardano, tra l’altro, le questioni dantesche ed i rimatori volgari dei sec. XIII-XV). Nel 1899 egli nel suo Libro di cucina del secolo XIV (Livorno, R. Giusti), pubblicava un’altra versione dello stesso testo, già edito da Guerrini e Morpurgo, desunto però da un codice romano, il Casanatense 225. Il quadro veniva così arricchito di ulteriori elementi conoscitivi che portarono il Frati a concludere che i tre testi derivavano da un archetipo comune, con modifiche, lacune, rielaborazioni e adattamenti anche dovuti alla presenza di patine dialettali diverse (venete e toscane). Ecco alcuni esempi di ricette (come da edizione del Frati): (p. 61-62) CXIV. torta de Romania. Affare torta de Romania per xij persone, togli vi polastri e 4 caxi freschi o passi e xij ova e xxx datali e una libra de uva passa e una de sosina e meza onza de cinamo intriego e meza onza de zenzevro e mezo quarto di garofalli e mezo de zafarano e do onze de pignoli mondi e quatro onze de specie dolze ben zalle; toy questi polastri ben lavati e smembrati e mitili a sofrigere in lardo distruto e colato e la prima volta che tu li meti con li polastri sea specie dolze, e toy lo caxo fresco che tu ay e fa rafioli quanti ne pol ensier e lessali in aqua. Quando sono cocti polverizage de spesie fine e quando li polastri sono sofriti assay mitige uno meiole d’aqua, e quando sono apresso cocti, metige uno caxo strito e colato e viij rossi d’ova e cinamo e zenzevro rosso; toy garofalli e pignoli mondi e uva passa bene lavate e di specie e zafarano assay e guarda queste cosse del tropo foco tanto che siano ben cocte e mitige de la crosta sutille in lo testo, e meti queste cosse dentro e rafioli e ogni cossa dentro a solo; e poni una crosta de sopra sotille e ben zalo. Questa torta vuol poco foco e sono a coxere may le croste a incorporare lo batuto […]. CXV. Tortelli a modo de frittelle bianche per Quaressema bone. Affare tortelli bianchi per xij persone, toy una libra de mandole e una quarta de nociuole e de noxe, e togli meza libra de zucharo e toy le mandole ben monde e le nociuole ben monde e pestala insiema e mitige arquanto zucharo a pestare, e de questo batuto fai le fritelle e falle piccole. Togli farina e zafarano e tridalla con aqua e fay che sia molle e zalla e involzi entro li tortelli e frizili in bono olio e polverizage del zucharo e dali dreto le altre vivande. (ac) Sorbelli 1942

Frammento di un libro di cucina del secolo XIV. Manoscritto, c. 90r (Bologna, BUB) 260


Ricettari e “libri di casa”

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Le leggi, come le salsicce, cessano di ispirare rispetto quando sappiamo come sono fatte. John Godfrey Saxe «McKean Miner» 29 marzo 1869

L’Emilia-Romagna è una regione con un ricco e variegato patrimonio storico che sarebbe impossibile, oltre che assurdo, tentare di riassumere in poche righe o attraverso qualche documento: lo testimonia la sua stessa struttura politica, frazionata per secoli tra Stato pontificio, signorie e ducati (tra cui i principali furono Parma, Piacenza e Guastalla e lo Stato estense) per passare poi al dominio napoleonico con le repubbliche e approdare, attraverso il Risorgimento, all’unità nazionale e più oltre – limitando il discorso al periodo preso in esame – alla fine della prima guerra mondiale e all’origine e sviluppo della dittatura fascista. Comune a tutto questo appare però la preoccupazione per il cibo: il rifornimento delle città, soprattutto per quanto riguardava il frumento, venne regolamentato da una politica annonaria che definiva le sue regole attraverso l’emanazione di ‘editti’, ‘grida’ e ‘bandi’ la cui ripetizione, a volte giornaliera, dimostra quanto difficile e tormentato fosse assicurare ‘pane e companatico’ alla collettività. L’attività delle corporazioni d’arti e mestieri (molto efficienti quelle dei fornai e dei beccai o ‘macellari’) contribuiva a mantenere uno stretto controllo sul commercio dei beni annonari. E ufficio dell’annona era denominata la sezione


Leggi, regolamenti, inchieste amministrativa che si occupava dell’approvvigionamento delle derrate e del controllo dei prezzi: Annona era l’antica dea che presiedeva al raccolto delle messi e il nome ha la stessa radice di annus (anno) e annuus (annuale, che avviene ogni anno). La circolazione delle derrate alimentari era resa più difficile dalle ricorrenti carestie, con picchi altissimi in periodi particolari: chi non ricorda la terribile pestilenza del 1630 raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, dove viene descritta la rivolta popolare provocata dalla scarsità del grano, soprattutto per l’incapacità del magistrato responsabile. Un efficace riassunto della tradizione annonaria nel corso dei secoli – tra il Medioevo e l’inizio dell’età moderna – fu tracciato dallo storico vignolese Ludovico Antonio Muratori nel suo trattato Della pubblica felicità, apparso nel 1749, in cui si legge: “Ognun sa, che a i ministri, e a chiunque dee regolar l’annona, troppo è vietato l’avere una zampa nel traffico o smaltimento delle biade, e ne’ pubblici forni. Guai se l’interesse privato entra ne’ consigli, e massimamente se in questo. S’hanno a ricordare questi deputati, che il principal loro guardo ha da essere in difesa del povero popolo, perché i benestanti per lo più non comperano pane: lo comperano i poveri. Ora qui

è sempre gran battaglia. I mercatanti di grano, e i benestanti non pensano che a vendere il più caro, che possono, le loro derrate. I fornai anch’essi nulla più cercano, che d’ingrassarsi nel loro mestiere. Chi proteggerà la povera gente, se non son coloro, che per ordine del principe soprintendono all’annona?” (p. 253). Tra la fine del ‘700 e l’inizio del secolo successivo i progressi delle tecniche agricole e i nuovi mezzi di trasporto resero le carestie meno frequenti: comparvero anche le prime importanti inchieste agrarie, finalizzate a far emergere i gravi problemi che affliggevano il settore primario, come l’indagine promossa nel 1771 prima dal ministro francese Guillaume Du Tillot – che fu ministro del ducato di Parma e Piacenza – e poi dall’abate Giambattista Guatteri (titolare tra l’altro della cattedra di botanica all’Università di Parma e fondatore del relativo Orto nel 1770), circa la situazione dell’agricoltura nei territori del ducato stesso. Fino ad arrivare alle grandi inchieste postunitarie, come quella promossa dal ministro Stefano Jacini sulle condizioni dell’agricoltura italiana e lo studio sulla navigazione del Po. (zz)

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97.

Modena

Statuta Artis salciciariorum et lardariolorum civitatis Mutine. Ms. membranaceo; sec. XVI-XVII (1/1/1598-31/12/1642); 26 c. ; mm 260x190. Modena, ASC (Camera Segreta, Lucchi, IV, XVI, 1)

Statuta Artis salciciariorum et lardariolorum civitatis Mutine, c. [2]r con l’incipit del Capitolo primo. Del modo dell’entrare nell’arte de lardaruoli et salzitiari del pagar l’ubedienza et delli figliuoli di quelli sono nella detta arte.

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Il manoscritto membranaceo, rilegato in pelle impressa con fregi su piatti di legno, riunisce in realtà una serie di documenti: gli statuti veri e propri (c. 1-8), composti di otto capitoli e approvati dai Conservatori (i membri del Consiglio cittadino) il 22 settembre 1598 e dal duca Cesare d’Este (che cacciato da Ferrara si era rifugiato a Modena facendone la sua capitale) con decreto del 4 febbraio 1599; seguono le matricole (cioè l’elenco degli iscritti) degli uomini dell’Arte dal 1601 al 1642. Negli Statuti più antichi della città, quelli del 1327, l’Arte non è citata, probabilmente perché doveva obbedire a quella più potente dei beccai. Compare invece in quelli riformati del 1547, mentre acquista una fisionomia precisa in questi. Nel capitolo V si legge: “Et perché la salssizza di Modona porta vanto di esser la meglio et più eccelente che si trova et vadi a torno (come è in effetto), per ciò, per mantenere et più tosto augumentare questo buon nome, si determina che per l’avenire non si accetta, o se sarà accetato non si lascia fare salssizza, alcuno che non sia nato, o lui o la moglie, di salssizzaro, o almeno sia stato gargione di salssizzaro per anni tre continui, overo habbia fatto per altri tempi della salscizza e fatto fare, et accetando alcuno che non habbia tal qualitadi si accetti sì, ma con patto esspresso di non poter fare né far fare salscizza a modo alcuno; et avendo le dette qualità possa fare o far fare salscizza pubblicamente gialla et rossa, la quale si dovrà per essi fare con budelle ben purgate, che non habbino sentore alcuno, né di carne fettida o marza, ancorché fosse de’ porci predetti, et secondo l’ordine et modo espresso nelle provvigioni delli signori Giudici delle vettovaglie […] i quali habbino da curare che se li metta sana e buona carne, formazi non guasti, spetierie fine, sale purgato, non con terra, né altra materie, la qual nocesse, o pottesse nocere, a persona alcuna […]”. Nel VI capitolo troviamo l’elenco delle merci che gli uomini dell’Arte possono vendere: carne salata di porco; candele di sevo; salami di porco; ogni sorte di salumi che non spettano alla serenissima Camera; burro; noci da fare olio e da vendere al minuto; olio d’oliva; miglio; formaggio d’ogni tipo; lonza di porco; solfarini; ogni sorte d’uccelli volatili; galline; piccioni; pollastri; capponi; conigli, fagiani, quaglie e pernici; e poi riso, farro, vezza, fave, spelta e ogni sorta di legumi; cipolle, agli, limoni, aranci, marroni e castagne verdi, secchi e in farina; e anche pesce, sgombri, lucci sardelle e ogni altra sorte di pesce salato e uova. L’Archivio storico conserva anche un codice, sempre in pergamena, composto di 83 c. e contenente gli Statuti dell’arte dei salsicciai e lardaroli datati 1763 (Camera Segreta, Lucchi, IV, XVI, 2). Il primo capitolo stabilisce che “l’Arte de’ lardaroli e salsicciari di questa città sarà composta di venti sogetti, i quali abbiano i requisiti infrascritti, e questi rappresentaranno tutto il corpo dell’Arte sudetta, cioè: che siano persone di buona vita, e fama, in età almeno di anni venticinque. Che siano cittadini cioè a dire che abbiano abitato almeno per dieci anni continui in


Leggi, regolamenti, inchieste questa città. Che siano esercenti dell’Arte predetta, e che per lo meno l’abbiano esercitata cinque anni continui con le proprie mani, dandone ancor prova all’Arte occorrendo. Che siano capi, e padroni proprii di bottega, e di professione di lardarolo. Che non siano aggregati ad alcun’altr’Arte, alla quale s’intendono aver ceduto coll’aggregazione a questa, ed in caso diverso si abbiano per non aggregati alla presente. Che abbiano almeno un valore in capitale vivo di zecchini cinquanta, e che debbano tenere aperta la bottega, e questa sortita di quei più principali spettanti all’Arte. Dovendo in oltre dai 15 di novembre a tutto Carnovale essere tenuti di servare, salare, e custodire per ogni animale che faranno macellare per la provista del rimanente dell’anno un lardo, una panzetta, mezzo peso di salame, e mezzo peso di distrutto, quali generi per sicurezza verranno bilanciati, e riconosciuti dalli signori Giudici delle vettovaglie, i quali avranno seco loro i Massari dell’Arte, otto giorni avanti Pasqua di Risurrezione, con la penale di £ 25 applicabili alla Cassa dell’Arte da levarsi a chi trovassero mancante nella sopradetta obbligazione”. (zz) Cattini-Biondi 1995

Salsicciari e salsicce secondo Tommaso Garzoni Il canonico lateranense Tommaso Garzoni (Bagnacavallo, 1549-1589) nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), dedica un capitolo ai “Lardaruoli, overo Pizzigaruoli, et Salsicciari e Pollaruoli” (Discorso cxxii) nel quale, condannando le frodi dei manipolatori della carne porcina, sostiene che: “da popoli Lucani trassero la prima origine loro, onde la salsiccia si dimanda Lucanica in latino, mondano nespole, perchè se ben la salsiccia modenese gli dà qualche nome, et così le mortadelle Cremonesi e i salami Piacentini, con tutto ciò le frodi e le magagne che usano in queste compositioni talhora, commendano l’arte per ghiotta, l’inventione per furba, la compositione per trista e i professori per cattivelli” e rincarando la dose aggiunge che “se possono anco ataccarsi un butiro vecchio, una soppressada rancia, una mortadella guasta, un formaggio marzo, un lardo da hebreo, una salsiccia di cane, non restano di far la botta”. Ma nel capitolo “De’ cuoghi, et altri ministri simili come scalchi, guatari, credenzieri, trincianti, canevari o bottiglieri, servitori da tavola, convivanti &c.” (Discorso xciii), tra i commestibili più squisiti e appetitosi “da eccitar l’appetito per fino a i morti” enumera “le mortadelle da Cremona, il cervelato fino da Milano, il formaggio da Piacenza, le trippe da Trevigi, la lamprede dal Binasco, lo storione Ferrarese, la salciccia Modonese, i bulbari Mantoani, i pignoli da Ravenna, i casetti da Rimino, il gelo da Bologna, le paste da Genoa, i tordi da Perugia, le ocche di Romagna, le quaglie di Lombardia […]”. 265


98.

Bologna

[Bando sulla fabbricazione della salsiccia fina, Bologna 4 febbraio 1647]. In Bologna, per l’herede di Vittorio Benacci, [1647]. 1 manifesto ½. – Incipit: Havendo conosciuto gl’Illustrissimi Signori Tribuni... – Sottoscrittore: Paolo Zani giudice e priore. Bologna, BC Archiginnasio (R.M. XIX/2 180)

Il provvedimento è stato emanato dalle autorità cittadine con l’intento di risolvere il problema della contraffazione della ‘salcizza fina’ bolognese con “grave danno & pregiudicio de’ compratori”; per questa ragione se ne dà la ricetta precisa con l’obbligo, da parte di chi possiede la licenza per fabbricarla, di attenersi alla ‘forma infrascritta’, cioè: “che detta salcizza fina si debba fare di buona carne di porco, e non di

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Leggi, regolamenti, inchieste

Ancora salsicce … Il padre domenicano Jean-Baptiste Labat fu botanico, scrittore, viaggiatore, cartografo e molto altro. Nel 1706 si fermò a Bologna per un ‘capitolo’ del suo ordine. In quella occasione scrisse: “Tra le manifatture di Bologna non è certo la minore quella delle salsicce: si sa che cosa sono perché note e diffuse in tutti i luoghi. Io ne ho mangiato in America! Mi pare tuttavia che siano migliori sul luogo dove si fanno. Mi sono informato esattamente di cosa son composte e dove si fanno; e mi hanno detto delle cose così diverse, che non oso dirle qua per paura di passare per un mentitore, pur non dicendo che la verità; ma forse mi hanno ingannato. Gli uni dicono che le migliori sono composte di carne di piccoli asini, gli altri vogliono che si tratti della carne del cinghiale, altri pretendono che vi si impieghi la carne del maiale domestico e altri infine sostengono che si mescola la carne di maiale con quella di bue o di vitello in porzioni uguali: da tutto ciò risulta che tutti cercano di avvolgere in un mistero questi loro prodotti. E fanno bene perché tutti vorrebbero imitarli, e allora il commercio che essi fanno di queste carni cadrebbe del tutto. Quanto a me credo che quello della carne di asini sia un racconto fatto per divertire: è vero che il paese e i dintorni producono molti asinelli, ma la razza si sarebbe già estinta dato che si facessero sempre delle salsicce! Convengo che la carne di cinghiale deve avere più gusto e un certo sapore che non ha la carne del porco domestico, ma dove andare a trovare tanti cinghiali? L’America, che ne è piena, a stento potrebbe produrne a sufficienza. Io concludo dunque che si adopera come di maiale domestico e che vi si può mescolare quella di bue o di vitello. Quanto alle dosi non dirò niente, perché io posso essere stato ingannato e io non voglio ingannare gli altri. I salumi grossi e piccoli sono della medesima carne e son preparati alla stessa maniera; non differiscono che per il loro volume. Si taglia in fette sottili la carne che vi si vuol impiegare, sia maiale, sia vitello o bue, si mette a macerare in una tinozza con del buon aceto, del sale, del pepe, del garofano, delle scorze di legno d’India, che in Italia si chiama canella garofanata, e delle foglie di lauro. Quando la carne è stata un certo tempo in tale liquido, si trita più minutamente che sia possibile e la si riduce in pasta: si mescola allora tutto questo complesso salato con le spezierie che son giudicate a proposito e necessarie per dare il gusto e l’odore che esso deve avere, e si insacca nelle budelle o nelle vesciche del maiale che son già state disposte per contenerlo e si fa seccare moderatamente e a piacere. Il consumo che si fa di queste carni nel paese è quasi incredibile; nonostante ciò se ne manda in tutte parti; e quantunque se ne manipoli in tutta la Lombardia, si fanno sempre passare sotto il nome di ‘salsiccie di Bologna’ e se ne trae un ottimo commercio. Si contraffà inoltre a Bologna e nei dintorni il formaggio di Parma, e quantunque i parmigiani pretendano che la Lombardia tutta intera non abbia mai potuto arrivare a quel punto di perfezione a cui essi han saputo portare il loro formaggio, a Bologna se ne ride e anche in molti altri luoghi, e si fanno dei formaggi di Parma come quelli di Parma fanno delle salsiccie di Bologna”. Da Albano Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, sec. XVIII, 1, Bologna, Zanichelli, 1933, p. 137-138

Giuseppe Maria Mitelli, Gioco Della Cucagna Che Mai Si Perde, E Sempre Si Guadagna, [Bologna, s.n., 1691], v. anche scheda 127. (Bologna, BC Archiginnasio)

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altro animale, nettandola bene da nervi, sbroze, e speletiche, si come si fa nel fare li salami fini, e per ogni peso di magro purgato porvi dentro un peso di buon lardo del sodo della schena del porco, ponendovi per peso nel pistarla onze una di buon pevere pesto, meza onza di canella buona pesta, meza onza di noce moscata, una libra di buon formaggio di forma, con alquanto acqua rosa, et onze tredici per peso di sale buono trito, e quella ben pesta, et incorporata bene la pasta, investirla in buone budelle, legandola in rochetti, e stuandola come si conviene, et essendo fatta nel modo come nel presente editto, si concede poterla vendere per il prezzo del quale nelle licenze di già ottenute”. (zz)

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Bologna

Bando, e provisione sopra la fabbrica delle mortadelle, e salami. Publicato in Bologna il dì 24 Ottobre 1661. In Bologna, per l’herede del Benacci, [1661]. 1 manifesto ½. – Sottoscrittori: Girolamo Farnese legato, Lelio Bonfioli gonfaloniere, Vincenzo Casarenghi priore degli Anziani, Pietro Francesco Castelli priore dei Massari, Ovidio Montalbani vicepriore e giudice dei Tribuni della plebe. Bologna, BC Archiginnasio (R.M. XXIII antica 340)

Nel 1661 viene pubblicato un bando che impedisce la produzione di mortadella con carni diverse da quelle di maiale, anche perché tale reato era “con poner in esse qualche parte di carne di manzo contro la forma de’ bandi, ordini e provisioni di detta città, & in grave pregiudicio del pubblico, e particolarmente della dote che gode ab antiquo detta città di fabbricar mortadelle d’isquisita perfettione”. Questo provvedimento è considerato il primo emanato a tutela di una specialità gastronomica che è diventata sinonimo della città, tanto è vero che spesso al momento dell’acquisto i termini ‘mortadella’ e ‘Bologna’ sono indifferentemente usati. Le sue origini sono antichissime: al Museo archeologico di Bologna è conservata la prima testimonianza della presenza di un produttore di mortadella, una stele di epoca romana imperiale raffigura infatti sette maialini condotti al pascolo e un mortaio (da qui il nome) con pestelle in cui avveniva la lavorazione della carne e delle spezie occorrenti per la preparazione del salume. Ma la prima ricetta scritta della mortadella si trova nel trattato del marchese Vincenzo Tanara L’economia del cittadino in villa, pubblicato per la prima volta nel 1644. A p. 188 l’autore fornisce la quantità e il tipo di spezie da utilizzare (sale, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, muschio, pepe in grani, zucchero e vino malvasia) nonché le dosi della carne. (ZZ)

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Leggi, regolamenti, inchieste

La ‘bologna’ Il medico britannico Ellis Veryard ha pubblicato nel 1701 il resoconto dei suoi viaggi, compiuti tra il 1682 e il 1695. Tra le altre cose scrive che “i bolognesi commerciano molto in sete, velluti, canapa, lino e cagnolini. L’intera regione circostante è assai fertile in ogni genere di cereali, ma le sue olive poi e il suo vino bianco sono molto rinomati e ricercati in ogni parte d’Italia. Essi fanno pure una specie di salsiccia, chiamata ‘mortadella di Bologna’ che viene mandata in ogni parte d’Europa. Tagliano la carne dei maiali in piccoli pezzi e dopo averla condita con sale comune, pepe, aglio e un po’ di salnitro, con essa riempiono budelle di manzi, pecore o maiali – e dopo aver lasciato queste mortadelle per circa due giorni in salamoia le fanno bollire in acqua avendo cura di cuocerle piuttosto poco che troppo – poi le appendono alla cappa del camino fino a che siano asciutte. Così confezionate si conservano per un anno o due”. Da Albano Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, sec. XVIII, 4, Bologna, Zanichelli, 1933, p. 279

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Rimini

Bando sopra il sossidio di vn quattrino per foglietta del vino, che si venderà dalli hosti: & altri à minuto, per tutto lo Stato Ecclesiastico, eccetto Roma, & Bologna. In Roma, nella Stamperia della Reu. Camera Apost., 1588 & in Rimini, [s.n., 1588?]. [6] c. ; 4º. – Segn.: A6. – Data di emanazione: Roma, 23 aprile 1587. – Sottoscrittore: Filippo Guastavillani camerario. Faenza, BC Manfrediana (M. 222.4)

Il provvedimento, emanato prima a Roma e poi ristampato appositamente per la città di Rimini, riguarda la tassazione di un quattrino per ogni ‘foglietta di vino’ applicata agli osti “per tutto il vino che si venderà a minuto da tutte le hosterie, bettole, poste, capanne, tende, frascate & case de particolari di qualsivoglia qualità & qualunque altro luogo dove si venderà o beverà vino a pasto o altrimenti a minor misura d’un barile, la qual foglietta dichiara esser la quarta parte d’un boccale […]”. Sono escluse dall’applicazione Roma e Bologna le quali, essendo le due città più importanti dello Stato pontificio, erano soggette a provvedimenti specifici. Le misure utilizzate per servire il vino nelle osterie erano il congio (da cui bigoncio, il secchio di legno utilizzato per la vendemmia), il mezzo congio, il boccale, il mezzo boccale o foglietta: solo nel 1580 fu introdotta, senza molto successo, la mezza foglietta dal pontefice Gregorio XIII Boncompagni nel tentativo di regolare il consumo eccessivo di vino. Pri269


ma del 1588 questi recipienti erano di terraglia o di metallo. Il papa Sisto V Peretti decise di far applicare la disposizione che introduceva l’utilizzo della mezza foglietta, fino a quel momento disattesa e di porre fine ai contenitori nei quali il vino non fosse visibile al fine di evitare frodi da parte degli osti, abituati a raggirare i clienti con la pratica della ‘sfogliettatura’ cioè il riempimento parziale del contenitore. Il pontefice quindi – ‘francescano di ferro’ – commissionò la fabbricazione di contenitori di vetro che permettessero il controllo del liquido versato. Fu poi pubblicato un bando che obbligava gli osti ad usare le nuove misure, in sostituzione dei vecchi boccali di ferro o coccio: “chiaro et trasparente, e dar loro altra forma di quello che oggi si costuma, cioè con il collo alquanto longo e stretto […] et col sigillo della camera […] col quale modo si provveda alle fraudi, che ci commettono dalli hosti et altri, et alli abusi de vasi di hoggi, perché avendo questi la bocca larghissima, ne segue, per ogni poco che manca della debita misura, assai danni al pubblico.” (Bando sopra le caraffe et misure di christallo da tenersi dalli hosti et altri che venderanno vino, oglio, et altri liquori a minuto in tutte le città, terre, et luoghi mediate et immediate soggetti alla Santa Sede Apostolica, Roma, eredi di Antonio Blado, 1589). Per quanto riguarda l’etimologia del termine ‘foglietta’ il linguista e filologo francese Charles Du Cange suppone che derivi da un’alterazione della parola ‘fialetta’ per indicare quindi un piccolo contenitore per liquidi, specialmente il vino. (zz)

101.

Bologna

[Divieto a chiunque di fare paste crude d’ogni sorte e venderle, stante il privilegio concesso a Giovanni dall’Aglio e ai suoi sostituti.] In Bologna, per Alessandro Benacci, [1587]. 1 manifesto ½. – Incipit.: Per parte, e comandamento dell’illustriss. & reuerendiss. Legato di Bologna … – Data di emanazione: Bologna, 4 aprile 1587. – Sottoscrittori: Enrico Caetani legato, Raffaele Riario gonfaloniere. Bologna, BC Archiginnasio (Bandi Merlani, I, c. 442)

Nel testo del provvedimento si legge che “si notifica ad ogni & qualunque persona di qual si voglia stato, grado, e conditione si sia non ardisca, ne presuma per se, ne per altri sotto qual si voglia pretesto o colore, così nella città, come nel contà, o suo distretto fare, over far fare vermiceli, macaroni, & paste crude di qual si voglia sorte per vendere, stante il privilegio, & partito sopra ciò concesso a Giovanni dall’Aglio & suoi substituti dall’illustre Regimento di Bologna, sotto le pene contenute in esso”. Nel novembre del 1586 Giovanni dall’Aglio aveva ottenuto il privilegio per la preparazione delle tagliatelle fresche con macchine e persone specializzate, seguendo i metodi in uso a Venezia, Roma e Napoli. In pratica era l’inizio dell’industria pastaria a Bologna. (zz) Bononia manifesta, n. 1806; Inkster 2014

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Leggi, regolamenti, inchieste

102.

Bologna

Notificazione e tariffa sopra le paste, che si fabbricheranno all’uso di Puglia, e Genova. In Bologna, per Gio. Battista Sassi, 1778. 1 manifesto ½ Bologna, BC Archiginnasio (R.M. LXI antica 148)

Il titolo del documento è motivato dalla caratteristica particolare propria della pasta fabbricata in alcune zone dell’Italia: si sta facendo riferimento, infatti alla ‘pasta secca’ proveniente dalla Sicilia musulmana che con l’invenzione dell’essiccazione aveva risolto il problema del commercio verso popoli nomadi del deserto, bisognosi di alimenti a lunga conservazione. Grazie agli scambi via mare promossi dai mercanti soprattutto genovesi questo prodotto raggiunse presto il nord, sia dell’Italia che del continente, ancora fedele alla tradizione della pasta fresca, mentre le regioni del sud, fra cui la Puglia, grande produttrice di grano, erano da tempo specializzate nella nuova produzione. Questo spiega la qualità superiore della pasta, a cui era ovviamente proporzionato il costo. Per consentire quindi ad una fascia più larga di popolazione il consumo dei nuovi formati di pasta (fra cui i fidelli, termine con cui venivano chiamati gli spaghetti nel Genovese e fidellari erano definiti i commercianti) le autorità bolognesi autorizzarono i fornai locali a produrli, ovviamente a prezzo minore e con regole ben precise, prima fra tutte quella di utilizzare ‘grano acciarino’ cioè grano duro, più adatto a questo tipo di produzione. Il documento contiene anche la tabella dei prezzi: per i “vermicellini sottilissimi soprafini” si dovevano “baj 4 o sia quatt[rini] 20” per ogni libra; stesso prezzo per “fidellini e lavori qualunque di pasta fina bianca e gialla” e “semoletta fina bianca” mentre per la “semoletta mezza fina” si dovevano “baj 2 e quattrini 1 o sia quattrini 11”, per la “semoletta ordinaria baj 1 e quattrini 2 o sia quattrini 7”, infine per la “pasta fabbricata con li cascami di semoletta ordinarj baj 1”. Si dispone inoltre che “li fabbricatori di tali paste dovranno sempre tenere in mostra esposto alla vendita nelle loro botteghe fiore di farina in cartocci, e tridello di detta farina, vendendolo al prezzo stabilito nella tariffa ultimamente pubblicata”. Il tritello è la crusca ottenuta da una seconda setacciatura del grano. (ZZ)

Giuseppe Maria Mitelli, Concia grano // Non si può già col piede, e con la mano / Essercitar più bel mestiere al mondo; / Scuoto la destra a crivellare il grano, / Godo col piè a calpestare il Mondo. / 26 (Bologna, BC Archiginnasio)

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Parma

Nuovo regolamento della tariffa del pan venale stabilito nell’anno 1782 per la città di Parma e suo territorio colle tabelle, avvertenze e tutt’altro necessario all’intelligenza ed esecuzione del medesimo. Parma, dalla Stamperia reale, [1782]. VIII, 117, [11] p. ; fol. – Segn.: 14 2-512 610 76. Parma, BPalatina (Galleria W**.4.21426.2)

Nel 1782 la città faceva parte del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, condotto da Ferdinando I di Borbone-Parma. È quindi questa l’autorità che emana il provvedimento, attraverso l’ufficio competente: l’espressione ‘pan venale’ indica quello destinato al pubblico commercio: i ‘fornai da pan venale’ impastano e cuociono, poi vendono tramite i loro rivenditori (i postieri) rifornendo così la fascia più vasta della popolazione. Questa nuova tariffa sostituisce la precedente del 1633, che ovviamente non poteva più essere adeguata al rincaro dei prezzi del frumento. Dopo avere quindi valutato tutti gli elementi che concorrono alla elaborazione di un ‘calmiere’ aggiornato ai tempi, si deve procedere a una stima della resa effettiva della farina nel momento in cui si trasforma in pane. Risulta così che da uno staio di grano macinato si possono ottenere cento libbre di pane, pur con un margine di tolleranza dipendente dalla qualità del cereale usato. Nell’ottica della ‘tutela del consumatore’ viene stabilito anche l’obbligo di produrre i due tipi più usuali (il pane bruno e il pane bianco tagliato) in modo che per ogni staio di farina si ricavino “cavallotti [monete locali] tredici di pan bruno, che dovrà essere di un peso superiore, per due once, del cavallotto del pan bianco”. Il pane bruno, venduto ai meno abbienti, era fatto con la farina più scadente, con la migliore veniva invece prodotto “il pane bianco ben lavorato, e tutto di pasta dura, in cornetti, pagnotte, berrette, fili e filetti, di giusto peso e qualità perfetta” mentre veniva vietata “la fabbricazione del pane detto cornetto grosso reggiano, introdotto di recente, perché riconosciuto danno all’interesse del pubblico, cosicché sarà permesso solo il cornetto piccolo da soldi due cadauno”. Chiude la tariffa una tabella che descrive dettagliatamente le singole spese relative alla panificazione. (zz)

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Leggi, regolamenti, inchieste

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Ravenna

Bando sopra la pesca del canal Pamphilio. Gio. Stefano cardinal Donghi della prouincia di Romagna legato a latere. In Rauenna, nella Stamperia Camerale, 1653. 1 manifesto ; atl. – Data di emanazione: Ravenna, 25 settembre 1653. – Data di affissione: Ravenna, 26 settembre 1653. – Stemma del cardinale Giovanni Stefano Donghi stampato in rosso e nero. Ravenna, BC Classense (F.A. Mob. 3.1.Y.41)

Lo scavo del canale Panfilio che collegava Pontelagoscuro a Ferrara – permettendo il trasporto delle merci – fu importantissimo per il piccolo borgo adagiato nella pianura ferrarese, in quanto lo trasformò in un porto fluviale di primaria importanza inserendolo nel percorso che univa Bologna a Venezia attraverso le vie dell’acqua. Il suo scavo era già stato ordinato nel 1598 da papa Clemente VIII Aldobrandini che quell’anno si era recato a Ferrara per entrare in possesso della città, essendosi estinta la casa d’Este. Il 22 ottobre 1601 iniziò lo scavo del canale che fu terminato in fretta ma, siccome intersecava il canal Bianco e il canale Nicolino (detto anche Fossa Lavezzola) che si trovano a un livello molto più basso, nel 1617 furono costruite due ‘botti’ o ‘ponti canale’ (strutture idrauliche che permettono di superare i dislivelli). Le barche che provenivano da Pontelagoscuro, giunte a Ferrara si fermavano a porta S. Benedetto in quanto il preesistente canale dei Giardini che arrivava alla fossa del Castello non era più navigabile. Solo nel 1645 furono eseguiti i lavori che permettevano alle barche di entrare in Ferrara. In seguito a questi lavori il canale, prima chiamato semplicemente canale di Ponte, divenne il canale Panfilio dal nome del patrocinatore, il pontefice Innocenzo X Pamphili. Il provvedimento mira a difendere le prerogative dell’autorità pontificia sul diritto di pesca e a tentare di combattere le frequenti attività illegali. La pesca nelle acque del Po fino alla foce e nei suoi affluenti è sempre stata fondamentale nell’economia delle popolazioni che abitavano i paesi lungo le rive ed è rimasta per lungo tempo fonte di reddito e di alimentazione. I pesci che trovavano nelle acque stagnanti e di lento corso il loro habitat naturale, come le anguille, le tinche e le carpe venivano assiduamente ricercati. Gli stessi ‘maceri’- i laghetti artificiali che servivano

Editto concernente alcune provisioni particolari sopra le valli camerali di Comacchio, in Roma ed in Ravenna, nella Stamperia camerale, [1749]. (Ravenna, BC Classense)

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per l’operazione di ‘ammorbidimento’ della canapa – fungevano spesso da peschiere e non è un caso che molti degli agronomi emiliani, primo fra tutti il bolognese Pietro de’ Crescenzi, abbiano rivolto la loro attenzione alla pesca e alla creazione di vivai che producessero alimento e introito, oltre che divertimento per i signori della’villa’ (basti pensare al ravennate Marco Bussato o al piacentino Giuseppe Falcone). Quasi tutti gli statuti dei comuni medievali contengono disposizioni circa il commercio del pesce e le relative attività, con particolare attenzione all’approvvigionamento nei periodi di quaresima. In alcune zone era praticata anche la pesca dello storione, del quale si faceva un intenso commercio; a Stellata era tradizionalmente effettuata la produzione di caviale, destinato ovviamente alle mense ricche. Secondo Ludovico Antonio Muratori (Antiquitates Italicae, Milano, 1742, vol. 6) proprio nel Ravennate, lungo il corso del Badareno (l’antico Patorenus, il braccio più meridionale del ‘Grande Fiume’), operava una ‘Schola piscatorum’ (conosciuta in seguito come Casa Matha, una delle più importanti corporazioni di mestiere della zona) cui era concesso il diritto di pesca addirittura dal 943 tramite la ‘Carta piscatoria’ (Ravenna, Archivio Arcivescovile, perg. B.363). (zz) Cultura popolare nell’Emilia Romagna 1979

105.

Piacenza

Bando et ordini sopra la caccia. Piacenza, Stampa ducale Gio. Bazachi, [1697]. 8 p. ; fol. – Segn.: A4. Piacenza, BC Passerini Landi (C – B’.4.34.9)

Annibale Carracci, 67 Pescatore, Roma, 1776, v. anche scheda 127 (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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Il provvedimento, emanato il 23 novembre 1697, stabilisce e conferma quelli precedenti circa il divieto di praticare qualunque tipo di caccia nei possedimenti di ‘Sua Altezza Serenissima’ il duca di Parma e Piacenza – per la precisione il settimo – che all’epoca era Francesco Farnese, subentrato da tre anni al padre Ranuccio II. Il testo comanda “a qualsivoglia persona di qualsiasi sesso, stato, grado, e condizione, ancorché privilegiata di qualunque privilegio, […] che in avvenire non ardisca, o presuma andare, o mandare, né mandi o vada a fare qualsivoglia sorte di caccia d’animali quadrupedi, o terrestri, e volatili nelle riservate di S.A.S. tanto con archibugi, quanto con reti, lacci, vischio, o in qualsivoglia altro modo, in maniera, che resti proibito in dette riservate il cacciare, uccellare, o prendere, anche senza strumento alcuno, qualsivoglia sorte d’animale, sì terrestre come volatile, comprendendo ancora quegli animali, che stanno alle volte nell’acqua, & alle volte in terra; sotto pena di cinquanta scudi d’oro per ciascheduna volta […] e di tre tratti di corda, da esser dati in pubblico, e d’altre pene maggiori sì pecuniarie, come corporali, da arbitrarsi da S.A.S.”. Il supplizio dei tratti di corda era molto doloroso: si appendeva il colpevole per le braccia, precedentemente legate dietro la schiena e lo si sollevava tante volte quante imponeva la sentenza, con quale risultato per le giunture si può immaginare. Il bando entra poi nel particolare specificando che tra i modi proibiti per cacciare è compreso l’uso dei ‘richiami’


Leggi, regolamenti, inchieste

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con altri animali “comprese le coturnici, pernici e quagli cantarelle delle quali niuno potrà valersi”. La presenza di cani nelle ‘riservate’ è sottoposta a rigide regole: “Potranno ritenersi […] i cani mastini per guardia de’ cortili, o de’ bestiami, con collare di ferro, c’habbia le punte lunghe, e con bastone attaccato con catena di ferro a detto collare, qual bastone sia lungo oncie dieci, e grosso un’oncia ugualmente quadro. E se vi fossero cani atti ad ammazzar lepri, e che il bastone poco gl’impedisse, sarà il padrone tenuto metterli fuori della riservata, altrimenti sarà lecito a chi si sia ammazzarli, & in qualsivoglia caso di trasgressione di tener simili cani mastini senza collare, e bastone attaccato, o cani che non restino impediti col bastone, che non ammazzino lepri, incorreranno i padroni nella pena di sei lire per ciaschedun cane per la prima e seconda volta, e del doppio dalle due volte in su […]”. Il testo termina con il lungo elenco delle ‘ville’ comprese nella ‘riservata’. (zz)

106.

Bologna

Bando sopra le rose, e viole. Publicato in Bologna alli 20 aprile 1663. In Bologna, per l’herede del Benacci, [1663]. 1 manifesto ½. – Sottoscrittori: Pietro Vidoni legato, Filiberto Vizzani gonfaloniere. Bologna, BC Archiginnasio (R.M. XXIV antica 113)

“Volendo […] provedere che le rose e viole, che sono solite condursi a questa città da’ patroni di esse, non siano comprate da diverse persone, così nel territorio, come in essa città, per rivenderle, in gran danno, & pregiudicio delle medicine da farsi da essi speciali, che non le possono poi havere, se non guaste e bagnate, di modo che non possono far infusioni, e conserve, zuccari rosati, e violati, & altri condimenti a beneficio universale de gl’infermi; & volendo anco provedere, che non siano esportate fuori di esso territorio di Bologna”. Rose e viole erano usate sia come base per confetture e rosolii (specialità anche dei monasteri) sia per preparare infusi, zuccheri e conserve, secondo le indicazioni della farmacopea del tempo. Lo zucchero rosato “conforta lo stomacho, il cuore & le viscere, & conferisce molto alla loro mollificatione, & alla melanconia. Si fa così: prendesi di foglie di rose rosse, over bianche, che non sieno troppo acerbe né troppo mature, la quantità che si vuole, & si span276


Leggi, regolamenti, inchieste dono in luogo ombroso per tanto spatio che comincino a smoscirse, & perdere l’humidità loro escrementosa. Poi si pestano benissimo in mortaio di marmo, & se gli aggiunge sovra di zuccharo bianco più tre volte a peso, che sieno esse rose. & così fatto il zuccharo rosato si pone in vaso di vetro, overo di terra ben vitriato coprendolo con carta di pecora, & si lascia al sole per tre mesi agitandolo ogni giorno spesse volte”. Invece lo zucchero violato “estingue l’infiammatione della cholera, & la sete, & seduce il ventre. Vale al pleuresi, all’asperità & siccità della gola, & della canna del pulmone, & alla schirantia [angina] & simili passioni. Si fa al modo stesso che si fa il rosato: ma è però bisogno che s’impassiscano le viole più delle rose all’ombra, & stieno più anchora al sole confettate col zuccharo”. (Dalle Osservationi nel comporre gli antidoti e medicamenti del 1562, dello speziale parmigiano Girolamo Calestani) (zz)

Anonimo Bolognese, [Monastero] La Concezione // Fanno salda gradita ad’ ogni gente, / E dell’unguento per il mal nascente. (Bologna, BC Archiginnasio), v. scheda 126: la salda d’amido era un preparato che serviva per unguenti rinfrescanti. Con il termine ‘mal nascente’ o ‘nascenza’ si indicavano i gonfiori della pelle.

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Gli speziali a Modena L’Archivio storico comunale di Modena conserva la Cronaca modenese manoscritta dello storico locale Giovanni Battista Spaccini. A venticinque anni prese visione del precedente lavoro di Jacopino de’ Bianchi detto dei Lancellotti e del figlio Tommasino, di cui iniziò una trascrizione – rielaborazione. Si fece così continuatore dei due Lancillotti per farsi ‘voce della città’. Spaccini iniziò la stesura delle sue note verso il 1588, ma la registrazione puntuale parte solo dal 1595. Fra i molti fatti riportati c’è una pagina che descrive bene le molteplici funzioni degli speziali, qui nella loro veste di ‘pasticceri’: “Adì 22 lunedì [dicembre 1598], li speciali fecero le loro solite mostre molto sontuose, mentre che il signor duca [Cesare d’Este] andava a messa passò sotto la volta del palazzo dove sta il Lombardo che aveva una bellissima mostra, et fra le altre cose vi aveva bellissimi fruti di zuchero che a uno a uno li volse vedere, sì come fece il signor don Alessandro insieme con quelli cortigiani, parendovi cosa meravigliosa che qui si faccia così belli fruti, cosa che a Venezia non si fanno; più inanzi appo la scala del palazzo vi sta messer Ruberto Cati che ancor lui aveva una bella mostra, et fra le altre cose vi aveva un naviglio adornato di ogni cosa minutamente come sono li naturali et ogni cosa di zuchero, con le arme della casa d’Este su le bandiere; piacè tanto al signor duca questo che la comperò. Passando più inanzi sotto il palazzo, venero sotto il portico dov’è le botteghe da panno, dove sta messer Francesco Melato alias del Nome, che aveva fatto due gran tavole chariche di zuchero, dove che, pensando il conte Enea Montecucoli governator di Carpi che fosse vera et non finta, la volse pigliare in mano, ma per la nebia che era si lasciò [si sciolse], et volendo pagare il speciale non volse. […] Et dopo la messa che la sentirono in San Francesco fecero la istessa via vedendo minutamente ogni cosa, anzi che alla botega del Melato si cacciò di certe confetture in bocca […] restando molto sodisfatto di questi belli ordine, benché a Ferrara non si usasse simili ordini di mostre come qui si fanno; essendo sparto la fama per la città, non vi restò forastieri che non vedessero simili adobi”. Da: G. B. Spaccini, Cronaca di Modena, anni 1588-1602, a cura di Albano Biondi, Rolando Bussi, Carlo Giovannini, Modena, Franco Cosimo Panini, 1993, p. 194.

107.

Bologna

Riforma de’ statuti dell’onoranda Compagnia de’ Speziali di Bologna. (In Bologna, per Giuseppe Longhi, 1690). 43, [1] p., [1] c. di tav. ; fol. – Segn: A-I2 K4. – Antiporta incisa da Pietro Todeschi. Bologna, BC Archiginnasio (17. N. III. 03 op. 5)

Lo speziale fu, durante il Medioevo e fino al Rinascimento inoltrato, una figura tutto sommato sfaccettata nelle sue varie competenze: egli era al tempo stesso droghiere, commerciante, studioso, cuoco e, in caso di necessità, anche chirurgo. Gli speziali si distinguevano sostanzialmente in due categorie, i ‘medicinalisti’ o ‘aromatari’ (erano i veri e propri farmacisti) e i ‘non medicinalisti’ o speziali semplici: i primi avevano il compito di comporre materialmente i rimedi medicinali e il mortaio – raffigurato nel loro stemma – costituiva uno strumento di lavoro fondamentale. Nelle loro botteghe veniva mandata la prescrizione del medico 278


Leggi, regolamenti, inchieste le cui indicazioni spesso non erano abbastanza precise e quindi era compito loro conoscere la qualità e la quantità degli ingredienti necessari per la corretta esecuzione. Anche per loro era quindi necessaria la padronanza del maggior numero possibile di ‘secreti’ per eseguire nel migliore dei modi il compito ad essi affidato, che andava dal reperimento dei componenti alla vera e propria preparazione. I secondi invece si occupavano della produzione di dolci e canditi ed erano grandi maestri nella preparazione dello zucchero. Il ‘pan speziale’ nasce proprio nelle loro botteghe, dalle loro mani. Sugli scaffali delle spezierie l’assortimento era estremamente variegato, oltre alle rare e costose spezie orientali vi si potevano trovare erbe aromatiche, dolciumi, profumi, frutta secca, liquori, vernici e coloranti, sapone, pece, candele e colla. (zz) Cultura popolare nell’Emilia Romagna 1981

108.

Cesenatico

Capitoli della fiera del porto Cesenatico fatti per ordine dell’illustriss. conseglio della città di Cesena approuati, & confirmati dall’eminentiss. e reuerendiss. sig. cardinal Cybo legato di Romagna. In Cesena, nella stamperia dell’illustriss. Communità, 1650. 17, [1] p. ; 4°. – Segn.: A10 (A9v-10 bianche) Forlì, BC Saffi (Pianc. Sala P.3.125. Prov.: Carlo Piancastelli)

Della fiera del porto Cesenatico si parla fin dal 1526 in un libretto scritto dal frate Cornelio Guasconi – dell’ordine eremitano di s. Agostino – e dedicato al Diluuio successo in Cesena del 1525 a di 10 de luglio, & croniche della detta città di Cesena in ottaua rima (In Vinegia, per Nicolo di Aristotile detto il Zoppino) dove vengono descritti i giochi che si tenevano in occasione della sagra in onore di s. Giacomo maggiore e che vedevano le barche correre sull’acqua. Anche Scipione Chiaramonti nella sua Cesenae historia racconta che la festa veniva ancora celebrata alla presenza del Magistrato della città, con spettacoli di danzatori, corse di cavalli e di barche e con l’introduzione del ‘gioco della cuccagna’ dove persino le oche venivano legate in cima all’albero di una barca e date in premio a chi riusciva a salire. Questi Capitoli sono approvati e confermati dal cardinale Alderano Cybo, allora legato pontificio per la Romagna: in essi si stabilisce che “si farà una fiera nel porto Cesenatico cominciando il giorno venticinque del mese prossimo di luglio inclusive, e da durare per tutto il dì trentuno di detto mese inclusive, nel luogo descritto ne’ capitoli di detta fiera”. E più oltre si precisa che il luogo “della fiera sudetta incominci dal Ponte di S. Gioseffo inclusive, sino alla marina pur inclusive, di modo tale, che tutto il canale principiando dal detto Ponte di S. Gioseffo e l’una, e l’altra strada, che è dalle bande di detto canale, con tutte le case,

Bando che li speciali non possano fare pan spiciale; & altre simil manifatture. [Bologna, 15 novembre 1590]. In Bologna, per Alessandro Benacci. (Bologna, BC Archiginnasio) 279


e botteghe, che sono dell’una, e l’altra banda di detto canale, e l’una, e l’altra palata, assieme con tutto quel lito, ch’è intorno alla torre nova della communità s’intende solamente luogo della fiera, volendo anco, che la piazza del Porto Cesenatico sia compresa nel distretto di detta fiera, e non altri luoghi, e quanto al luogo per li bestiami dovrà esser eletto dalli signori soprastanti, e podestà”. (ZZ)

109.

Cervia

Catalogo delle notizie sin ora rilevate da’ libri storici, da varj archivj, e da manoscritti sopra le saline di Cervia e loro sali, li dominanti suoi, ed i loro appaltatori, e con tutto l’ossequio dedicate all’illustrissimo signor Pietro Antonio Odorici meritissimo signor tesoriere di Romagna da Giuseppe Maria Pignocchi cerviense. In Ravenna, per Antonmaria Landi, 1750.

1 manifesto (3 fogli) ; atl. Ravenna, BC Classense (F.A. 83.16.O.5)

Questo lavoro dello storico cervese Giuseppe Maria Pignocchi è uno dei pochi che siano stati pubblicati e su un supporto particolare: si tratta infatti di tre fogli incollati e stampati su un solo lato con l’evidente intento di essere affissi, come se si trattasse di un bando, cioè un provvedimento destinato alla lettura in pubblico. Contiene in pratica tutta le cronistoria delle saline fino all’anno corrente 1750. Vi sono riportate notizie come quelle relative all’origine stessa delle saline: “Il tempo preciso, in cui ebbero principio le saline, ove fruttano lo stesso sale, sino ad ora rimane occulto, non essendosi potuto né dagli antichi, né da moderni istorici, penetrare, ed essendo gli archivi di Cervia privi di scritture e di memorie sino all’anno di nostro Signore 1500 in circa; onde per sodisfare al desiderio di chi brama saperlo non si può se non indicare le più probabili congetture, almeno d’un tempo più vicino al vero”. Racconta poi brevemente di come gli antichi popoli lì abitanti “procurarono di rendere disseccata quanto mai fosse possibile questa palude, alzando argini e incanalando l’acque de’ fiumi; per iscaricarli ben dentro al mare, e principalmente quelle del fiume Po […] Quindi fatto un taglio anche vicino a Ravenna, chiamato poi del Vecchio Candiano, l’acque pure del fiume Savio s’avviarono coll’altre della palude Ficoclense verso a Tramontana, e si scaricarono per esso taglio, formando un porto sì amplo, e sprofondo, che sino al tempo di Ottaviano Augusto fu capace di un’armata navale. In tal guisa rimanendo incanalate l’acque de’ fiumi, e portando in ristretto con più veemenza l’arene e le torbie nel mare, dovette questo andar formando li staggi colle ripulse, su quali forse allora ebbero principio le pinete di Ravenna, e di Cervia, e dovette certamente la palude Ficoclense restar quasi affatto diseccata, e sì disposta d’aver l’acque salse del mare, e nelle sue massime decrescenze d’estate lasciare in qualche sito a proposito granito il sale”. Secondo Pignocchi quindi, che utilizza un tipo di datazione che fa riferimento al ‘Diluvio universale’ le saline “sarebbero antiche d’anni 2339 a tutto l’anno corrente di nostra 280


Leggi, regolamenti, inchieste salute 1750”. Segue l’elenco di tutti i ‘dominati’ sulle saline, vale a dire coloro – popoli, famiglie, persone – che nel corso dei secoli hanno avuto il controllo della zona e il conseguente diritto di sfruttamento delle saline, redigendo così i punti salienti della storia cervese. Pietro Antonio Odorici bolognese, a cui Pignocchi dedica il suo lavoro, ha ricevuto il rinnovo dell’appalto per altri nove anni e questo fa ben sperare allo storico cervese che con la sua ‘paterna munificenza’ permetta alla città di interrompere un periodo di difficoltà dovute al fatto che le piogge che “stagnano dentro li fondamenti delle case cominciate e da finirsi rendevano esalazioni e vapori cattivi; onde tre benefizj si riceveranno – il miglioramento dell’aria, il comodo delle abitazioni e il decoro della città”. (zz)

110.

Scandiano

Capitoli, provigioni, e constituzioni del giudice delle vettovaglie di Scandiano, con altri ordini, proclami, e statuti sopra tale materia, aggiuntovi il privilegio del mercato... e con alcuni capi dello statuto della città di Reggio. In Reggio, per Ippolito Vedrotti, 1713. 132; xxxx, [8] p. ; fol. – Segn.: π² A-Q4; AaEe4 *4. – Pt.2: Statutorum civitatis Regii liber quintus super victualibus... Reggio Emilia, BCappuccini (398. G. 9)

Il giudice delle vettovaglie – chiamato anche giudice della piazza – era l’ufficiale preposto al controllo e all’organizzazione dell’approvvigionamento delle derrate alimentari, cioè le ‘vettovaglie’. In questo documento sono raccolti numerosi provvedimenti riguardanti le varie corporazioni d’arti e mestieri: modi leciti e illeciti sulla macellazione del bestiame per i beccai, le ‘mercedi’ per facchini, maniscalchi, legnaioli, falciatori, fornaciari, pescatori, fabbri ferrai, muratori, merciai, tessitori e così via.Tale magistratura, insomma, vigilava soprattutto sui generi di prima necessità e su chi li maneggiava, control281


landone quindi la vendita, la qualità, il peso e il relativo prezzo. A p. 112, per esempio, si legge nel capitolo LIII il testo della “Grida che non si possa pescare nelle fosse di Scandiano, & Arceto”, una piccola frazione vicina, nella campagna reggiana. Vi si proibisce “il pescare nelle sudette fosse […] o far pescare con reti, ami, o in qualsivoglia altra maniera senza nostra licenza in iscritto, sotto pena di scudi 50 per ciascuna volta, e per ciascuna persona […] E chi getterà in dette fosse pietre, legni, o altra materia per ammazzare pesci, o riempire e guastare dette fosse, cada per ciascuna volta in pena di uno scudo a lir. 5.3 per la qual pena dichiariamo che il padre sia tenuto per il figliuolo, & il padrone per il servitore”. Il capitolo successivo si occupa invece della ‘vendemia’ stabilendo che “perché la nostra vigna non resti danneggiata e per ogni bisogno della nostra cantina proibiamo sotto la sudetta pena [lir. 10 per ogni persona] il vendemmiare ne’ soliti luoghi vietati, & a noi riservati, sino al S. Michele del medesimo mese di settembre; passato il qual giorno sarà in libertà di ciascuno il vendemmiare a suo piacere; che, piacendo a noi aver maggior quantità d’uve per il bisogno, s’avvisaranno, e si pagheranno loro prontamente la quantità avuta a prezzo corrente”. (ZZ)

111.

Bologna

Chirografo di nostro signore papa Pio VI col quale si ordina, e stabilisce il regolamento della publica economia di Bologna diretto per l’esecuzione all’eminentissimo, e reverendissimo signor cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi legato di detta città. In Bologna, per Gio. Battista Sassi, per la stamperia camerale, [1780]. 30, [2] p. ; fol. – Segn.: a-d4. – Data di stampa presunta ricavata dalla data di emanazione a p. 30: Dato dal nostro palazzo apostolico Quirinale questo dì 25 Ottobre 1780. Bologna, BMR (MR Cart. T. 78. bis)

Il documento è conosciuto come ‘catasto Boncompagni’ dal nome del cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi che venne inviato a Bologna nel 1780 come legato in rappresentanza dell’autorità pontificia. Discendente del pontefice bolognese Gregorio XIII, consapevole delle problematiche della città in quanto aveva già ricoperto le cariche di commissario delle acque e di vicelegato per un ventennio, appena arrivato si dedicò alla realizzazione di questo progetto di riforma economica che si poneva innanzi tutto l’obiettivo di migliorare le finanze dello Stato della Chiesa, ma anche quello di incentivare e sviluppare le attività produttive, dallo ‘sfruttamento’ migliore del territorio al commercio. Esso prevedeva la sostituzione di una trentina di imposte come quella del sale, del macinato, del tabacco e includeva inoltre l’aspetto forse più ‘inquietante’, l’applicazione cioè di un nuovo tipo di imposta fondiaria derivante dal 282


Leggi, regolamenti, inchieste censimento di tutte le terre della legazione, comprese quelle tradizionalmente esentate grazie a privilegi, come quelle dei nobili e del clero. La valutazione mirava soprattutto ad effettuare un approfondito esame della natura della terra e quindi alla conoscenza del suo potenziale in termini di produttività. Occorre pertanto, precisa Boncompagni nella Istruzione alli periti revisori ed estimatori “esaminare la feracità de’ terreni specialmente in que’ luoghi ove per una patente incuria dannosa al pubblico bene lasciarono andare a bedosto [terreno che non lavora] o a prato terreni che per la loro feracità sarebbero atti a qualche coltura, tenendo sempre presente che la gravezza del territorio di cui si tratta dovendo essere fondata sul valore del fondo nudo, questo valore deve perciò essere proporzionato alla feracità del terreno medesimo, e questa deve risultare dalla qualità de’ frutti che è atto a produrre”. Nonostante le opposizioni di chi si riteneva danneggiato, l’operazione fu avviata, con il rilievo dei terreni di pianura e di montagna – questi per la prima volta soggetti a stima capillare. Il primo risultato si concretizzò con l’opera di bonifica conseguente l’inalveo del fiume Reno e il raddrizzamento dell’Idice immesso nel Savena. Il secondo risultato sarebbe stato il profondo mutamento del paesaggio agrario sulla base della ‘feracità del terreno medesimo’ che presupponeva una visione molto moderna dell’assetto territoriale. Ma Boncompagni Ludovisi fu nominato Segretario di Stato e allontanato così dal suo incarico, per cui la seconda parte del suo progetto fu attuata, anche se per motivi diversi, solo nel 1797 – sette anni dopo la sua morte – con l’arrivo di Napoleone che azzerò i contrasti decretando la fine del Senato bolognese e liquidando il cardinal legato Ippolito Vincenti Mareri. (zz) Cultura popolare nell’Emilia Romagna 1977

112.

Villa Fontana di Medicina

All’eminentissimo, e reverendissimo principe il signor cardinale Giuseppe Albani risposta all’ultima stampa pubblicata a favore di varie famiglie che chieggono di essere aggregate alla medicinese partecipanza con sommario. Bologna, dalla tipografia Nobili e comp., 1826.

19, [1] p. ; 4°. – Segn.: [1]4 24 32. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sassoli. Op. 300.4510. Prov.: Tommaso Sassoli)

Figlio di un avvocato, Vincenzo Berni degli Antoni seguì gli studi del padre laureandosi in diritto civile e canonico nel 1769. Divenuto professore, insegnò nello Studio bolognese fino al 1798, anno in cui perse il lavoro per essersi rifiutato di prestare il giuramento repubblicano. Con la restaurazione riacquistò i suoi incarichi e ne acquisì altri di grande importanza, divenendo uno degli avvocati più famosi del suo tempo. Scrisse anche alcune commedie. Per capire il senso del suo scritto, occorre conoscere il significato del termine ‘partecipanza’: oscuro oggi alla maggioranza, rappresenta una forma di proprietà collettiva – piuttosto diffusa dal Medioevo in poi nella bassa pianura padana – il cui patrimonio fondiario viene suddiviso fra tutti 283


gli aventi diritto, cioè i discendenti “maschi maggiori d’anni quattordici, delle famiglie però soltanto sino ad ora ammesse alla partecipanza”: alla loro base stanno una serie di concessioni enfiteutiche (sostanzialmente un diritto di godimento di un fondo di proprietà altrui, urbano o rustico) di vasti terreni da bonificare, fatte a partire dalla fine dell’XI secolo dall’abate del monastero di Nonantola o, successivamente, dal vescovo di Bologna alle comunità che già abitavano in quei luoghi e che accettavano di insediarsi in aree paludose e spesso disabitate che presentavano esigenze di bonifiche di vasta portata, per le quali era necessaria la disponibilità di molte ‘braccia’. Erano patti collettivi perché le concessioni venivano rilasciate alle comunità e non alle singole famiglie. Le partecipanze agrarie emiliane costituiscono una delle ultime forme di proprietà collettiva ancora esistente in Italia: attualmente sono sei, localizzate nella striscia compresa tra Modena, Bologna e Ferrara, nei comuni di Sant’Agata Bolognese,Villa Fontana di Medicina, San Giovanni in Persiceto, Pieve di Cento, Cento e Nonantola. Ogni partecipanza costituisce il risultato della storia della comunità e del territorio dai quali ha preso origine, per cui ognuna ha un proprio statuto nel quale sono raccolte le regole consuetudinarie che hanno consentito principalmente la separazione dei beni della partecipanza da quelli del comune di riferimento, l’esclusione dei nuovi venuti dal godimento delle terre, la bonifica dei territori, nonché l’amministrazione e la spartizione dei beni. Il cardinale Giuseppe Albani, cui è rivolta la Risposta di Berni, nel 1826 era legato pontificio – cioè rappresentante ufficiale – a Bologna, che faceva ancora parte dello Stato della Chiesa, di cui il papa era il sovrano. Il documento è sottoscritto anche dagli avvocati Giuseppe Bolognesi e Giuseppe Mezzetti. (zz) Cultura popolare nell’Emilia Romagna, 1977

113.

Regno d’Italia. Camera dei Deputati

Relazione del commissario, marchese Luigi Tanari, senatore del Regno, sulla sesta Circoscrizione (provincie di Forlì, Ravenna, Ferrara, Modena, Reggio-Emilia e Parma). Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato, 1881. 752 p. ; 31 cm. – Fa parte di: Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, presidente della commissione Stefano Jacini, vol. II composto di 3 fasc. Parma, BA Bizzozero (BIZ 11.2.5/2. Prov.: Podere sperimentale Stuard)

Uomo politico italiano, ma anche agronomo, Luigi Tanari prese parte attiva alla storia di quegli anni, partecipando ai moti del 1848 e organizzando quelli del ’59. Ricoprì diverse cariche fino a diventare senatore nel gennaio del 1861. Nel ’79 subentrò a Berti Pichat come commissario nella Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della classe agricola istituita nel 1877 e nota con il nome di ‘Inchiesta agraria Jacini’. Alla fine dell’indagine ebbe il compito di stilare questa relazione. Il conte Stefano Jacini, appartenente ad una delle famiglie più antiche e facoltose della bassa 284


Leggi, regolamenti, inchieste Lombardia, è noto soprattutto per questa inchiesta: liberista, sostenitore della riduzione delle spese militari e dell’incentivazione dell’agricoltura attraverso forme di sgravio fiscale, negò però sempre la natura sociale della pellagra, la terribile malattia causata dalla carenza di vitamine del gruppo B, frequente tra le popolazioni che facevano esclusivo uso della polenta di sorgo o di mais. L’inchiesta, protrattasi dal 1877 al 1886, indagò sulle condizioni dell’agricoltura (ma anche il tipo di abitazione, il vestiario, il livello di alfabetizzazione ecc.) nel paese portando alla luce in modo ‘ufficiale’ situazioni di malnutrizione e di sofferenza soprattutto in alcune fasce della popolazione, ma non produsse alcun risultato concreto. Dall’indagine, fra l’altro, emergevano nette differenze soprattutto tra gli abitanti della pianura, quelli della collina e i ‘montanari’: nella provincia di Reggio (p. 360) “le risposte in generale non suonano brillanti, benché forse appariscono più gravi che in verità non sono. Il granturco prevale sotto forma di polenta; al monte si aggiunge con vantaggio dell’igiene, la polenta di castagna, ma il pane è per lo più di mistura. La carne da per tutto è poca: pecorina e suina al monte; suina e bovina al piano; e non è abbondante il vino, o piuttosto il vinello [acqua fatta passare per le vinacce] che in generale lo sostituisce. Le minestre di pasta sono indicate a Montecchio. I legumi, il latte, il lardo, il formaggio come condimenti od alimenti accessorî, benché d’ordinario non accennati, debbono essere più o meno d’uso generale. L’uso dei liquori cresce, massime al monte, dove il vino fa più difetto. Del resto, com’è naturale, grande o almeno sensibile è la differenza tra il piccolo possidente, il contadino, ed il bracciante”. Nella provincia di Modena (p. 395-96) “è evidente che in formola succinta male si può spiegare la vera e completa alimentazione. Il vinello, per esempio, non deve quasi mai mancare, benché non se ne faccia cenno, e così anche le carni ogni tanto e i latticini. Ma per certo tre cose si debbono desumere dal complesso delle risposte: 1. che l’alimentazione, massime l’invernale, è prevalentemente di granturco in polenta; 2. che in generale è buona e sufficiente per il mezzadro e anche per il boario; 3. insufficiente o di peggiore qualità per l’operante giornaliero, che qui chiamasi camerante”. Nel Parmense poi (p. 303) per quanto riguarda la pianura “in generale sembra sufficiente per qualità e per quantità in riguardo ai coloni; non ugualmente per i braccianti […] granturco in polenta e in quantità prevalente; pane di frumento puro o di mistura; minestra, erbaggi e legumi; poca carne e poco vino. Condimenti: lardo, olio, burro, formaggio, salati”; per la collina non si notano sostanziali differenze, mentre per la montagna “cresce il legume; la castagna e la patata si introducono nell’alimentazione, ma il pane puro sparisce, restando di mistura. Il vino anche scompare. Un poco più di latticini, ma un poco meno di carne e anche di minestra. In compenso maggior varietà, ma minore abbondanza”. Per quanto riguarda Bologna e la sua provincia (p. 443-44) in pianura “l’alimentazione in generale è sufficiente e salubre pel mezzadro; non altrettanto pel giornaliero. Borgo Panigale dice rispetto ai braccianti, che in gran parte si nutrono con granturco e acqua. Questa risposta è esagerata. Qui la consuetudine porta che i padroni somministrano ai braccianti il vinello, come complemento di salario, e se è pur troppo verissimo che questo non crebbe in proporzione delle nuove esigenze economiche o civili dei lavoratori, crebbero essi per compenso nella mala abitudine di 285


profittare con poco riguardo di tutto che si trova alla mano e faccia loro comodo. Passando al dettaglio dell’alimentazione, il consumo del pane e le minestre, qui relativamente abbondano, e la qualità ne è ottima; non pertanto il granturco in polenta prevale sempre nel complesso e di gran lunga, agli altri farinacei di qualità superiore. Non fa poi troppo difetto la carne, il vino e il condimento. Insomma non è questa la plaga dove la gente di campagna, nell’insieme, possa dirsi mal nutrita. Colle e monte: verso l’alto non sembra buona né sufficiente l’alimentazione, massime pei giornalieri; a Monteveglio la formola caratteristica sarebbe questa: quasi sempre granturco e acqua.Verso il basso colle, diventa migliore”. Nel Ferrarese assistiamo ad un netto peggioramento perché (p. 504) “all’infuori dell’epoca dei raccolti in cui per lo più consumano il frumento, e mangiano anche pasta e carne, nel rimanente dell’annata il loro cibo si riduce a polenta, legumi, e qualche poco di carne suina. I semplici lavoratori poi si alimentano in genere con polenta, riso e legumi; pochissima pasta e meno carne.Tutti poi indistintamente fanno uso quasi sempre di acqua, la quale per di più è pregna di principî eterogenei” non solo non bevevano vino, ma l’acqua era di pessima qualità, impura e di sapore disgustoso. Di uso comune, come si vede, il riso poiché il terreno si prestava a questa coltivazione, come anche in piccola parte del Ravennate dove (p. 584) “il colono ha per base di sua alimentazione i farinacei […] ed i legumi. Pochissima carne e meno latticini. Beve vino e mezzo vino, se abita in luoghi alberati e vitati, altrimenti per la maggior parte dell’anno beve acqua. Il grano viene consumato sotto forma di pane e di minestra; col frumentone si fa polenta o focaccia, mescolandolo al grano nella proporzione di 1 a 3 per panificarlo. In media il consumo dei farinacei per ciascun individuo e per anno, può calcolarsi in ettari 5 circa. Poco uso di riso, e nella stagione invernale quasi sempre frumentone. La carne usata è la bovina, pecorina, suina e poco pollame […] i lavoratori minuti consumano molti legumi, ma poca carne e bevono per lo più vinuccio od acqua”. Il Forlivese parla con la voce di Civitella e Fiumana che dichiarano l’alimentazione essere “non troppo buona né abbondante; quasi tutta di granturco, che poi al monte matura male”. Cesena si allinea, qui “la proporzione del granturco e del frumento che si consuma, è forse come 3 ad 1”. Per quanto riguarda infine il circondario di Rimini “questo capitolo riesce davvero doloroso; il vitto è spesso insufficiente e quasi sempre per qualità difettivo. Meno l’estate, cioè nel momento dei lavori più faticosi, dove apparisce il pane, il vino e un poco di companatico, negli altri mesi granturco in polenta e legumi, vinello o acqua e aceto. Naturalmente non è questo il cibo esclusivo, qualche poco di salato, di formaggio e di carne vi si mescola, ma la nota fondamentale è sempre quella”. (zz)

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Leggi, regolamenti, inchieste

114.

Regno d’Italia. Ministero dei lavori pubblici

Atti della Commissione per lo studio della navigazione interna nella valle del Po. Relazione 4: Il Po da Torino al mare. Roma, Tip. della Camera dei deputati, 1903. 137 p., 7 c. di tav. ripieg. : ill. ; 34 cm. Bologna, BA Goidanich (Fondo Zuc. 218.4. Prov.: Dino Zucchini)

Nel 1902 la Commissione del Ministero delegata all’indagine registrò nei suoi atti (pubblicati l’anno seguente) 266 mulini: 25 nel pavese, 1 nel piacentino, 13 nel cremonese, 10 nel parmense, 4 nel reggiano, 92 nel mantovano, 30 nel ferrarese e 91 nel rodigino, che funzionarono fino agli anni ‘40 del XX secolo. Questo stesso documento, che costituisce l’unica statistica ufficiale e completa, consente di conoscere anche le loro varie disposizioni, a corrente, a pettine, a schiera, a scalare e a sfalso. L’ultimo mulino del Po, localizzato sulle sponde del fiume nei pressi di Bergantino, comune della provincia di Rovigo, fu distrutto da un bombardamento aereo il 2 gennaio 1945. I mulini natanti (o fluviali) sono impianti di macinazione che, a differenza del mulino tradizionale ad acqua (tipico della parte alta della pianura padana, quella ai piedi dei rilievi) galleggiano perché costruiti sull’acqua. Nascono in stretta relazione – quasi una simbiosi – con la figura del mugnaio, professionista dell’arte della macina dei cereali. Situati lungo i grandi fiumi, i mulini natanti erano caratteristici soprattutto della pianura padana, anche se si ha notizia della loro presenza fin dal Medioevo lungo il corso dei grandi fiumi europei. I mulini del Po, resi famosi dal romanzo di Riccardo Bacchelli, cui presero ispirazione il film del 1949 di Alberto Lattuada e lo sceneggiato (1963)

Mulini natanti sul Po fra Gualtieri e Boretto (Reggio Emilia), fine del XIX sec. (Ferrara, ACEC). Copia da albumina.

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di Sandro Bolchi, non stavano fermi perché, pur essendo ancorati alla riva, potevano spostarsi per posizionarsi a seconda della corrente. Questi mulini, chiamati mulinèle (da cui deriva con molta probabilità il nome di centri come Molinella) erano costituiti da due barche affiancate unite da un piano di legno e sovrastate da una o due casette con struttura sempre di legno ma coperte con canne, fronde o giunchi. I due scafi reggevano la ruota a pale, le mole e la tramoggia. L’indagine della Commissione fornì molte altre informazioni circa la situazione della viabilità fluviale. Le acque del ‘Grande Fiume’ e degli altri corsi d’acqua padani con i loro immensi acquitrini e bacini costituirono per secoli l’ambiente abitativo di molte popolazioni che da esso trassero le principali risorse per la loro sopravvivenza. Dalla foce fino a Piacenza e oltre, il Po ha rappresentato la principale via di comunicazione interna, almeno fino all’avvento della ferrovia, essendo le strade molto spesso impraticabili per motivi diversi, a cominciare dalle condizioni atmosferiche. Pescatori, cacciatori e soprattutto barcaioli svolgevano una basilare funzione di collegamento che contribuì alla fortuna di città come Venezia e Comacchio da una parte o Piacenza dall’altra, tramite il trasporto di merci preziose quali il sale, le anguille e altri pesci (salati e conservati) in una direzione o di metalli, cereali e vino nell’altra. Secondo lo storico greco Strabone (Della geografia, Roma, 1792, vol. 1, p. 256) “da Placenzia a Ravenna si naviga giù per il Po in due dì e due notti”. Durante la terribile carestia del 1622-23 che colpì in modo particolare la Romagna e le Marche, il legato pontificio di Ferrara Giacomo Serra riuscì a far arrivare fino a Pontelagoscuro un convoglio di barche con migliaia di sacchi di grano provenienti dal Piemonte. Ancora alla fine del ‘700 buona parte del trasporto di merci riguardante Bologna avveniva tramite il canale Naviglio

Quasi una fantasia

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Mulini del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli, chi non percorra il fiume in barca. Tanto pochi, nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, li nascondono o li lasciano appena intravedere, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa, o le svolte della strada rivierasca. Sono scuri e frusti, e coll’aspetto cadente illustrano la disposizione del Genio Civile che ha segnato il destino di questi ultimi superstiti alla concorrenza della moderna industria molitoria: l’esercizio dei mulini natanti è concesso fino a consumazione. Intesa a tutelare i fondi e gli argini dai danni e pericoli del risucchio vario da essi prodotto, la disposizione è annosa; la concorrenza è vecchia, se non antica; son pur lenti e duri a consumarsi i superstiti! Sostengono valorosamente l’onore dei valorosi calafati fluviali, la nobiltà del lavoro fatto bene: dinanzi a chi? Ai pochi mugnai, che interrogati sull’età del mulino rispondono lo fece fare il nonno o il padre anni e anni fa, e che ricordano con rispetto i bravi calafati, dalle cui mani il mulino usciva compiuto in ogni sua parte, e nautica e molitoria, scafi e palmenti, a sfidare il secolo; dinanzi agli occhi svagati dei viandanti ignari; dinanzi ai miei, non ignari però, attenti, e ogni volta vi tornai commosso dal pensiero delle molte cose e dei tanti fatti trascorsi e inveterati da ch’essi stanno a invecchiar con onore sul fiume, e ad uno ad uno scemarono, spariscono, sono gli ultimi. La gran ruota, l’ulà, come la chiamano, gira coll’andar del fiume reale, e la sua lenta cadenza diventa tutta alacre nella macina soprana, alata (e non chiamano ala, i mugnai, il giro esterno di essa?). Volgendosi fervida, mette negli scafi massicci abbinati una lievità vigorosa, un fervore, un ritmo vitale, un abbrivo, che si sposa tanto bene e piacevolmente con quel vivo e quasi vibrante accennar delle prore dei due scafi, che prueggiano, come si dice, ancorati nel filo della corrente. Sotto il piede del mugnaio, il mulino vive, come la nave sotto il piede del marinaio. Egli intanto sostiene che per fare buon pane non si dà macinatura migliore e più gentile di cotesta di fiume; ed in luogo dove si fece sempre il miglior pane del mondo, ch’è il ferrarese, è un parere autorevole, mi pare. Da: Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po. 1. Dio ti salvi. Milano, Treves, 1938, p. 3-4


Leggi, regolamenti, inchieste e l’omonimo porto, di qui era infatti possibile arrivare al Po di Primaro e al mare, sia pure con qualche trasbordo. Anche il tratto Malalbergo-Cavo Cembalina-Po di Primaro-Ferrara-Cavo del Barco permetteva alle merci bolognesi di raggiungere Pontelagoscuro, approdo obbligato delle grosse navi e snodo vitale del commercio che si svolgeva all’estremo confine fra lo Stato pontificio e quello veneto. Mentre sul corso principale del Po l’avvento dei battelli a vapore (il primo fu l’Eridano nel 1819) contribuì a facilitare e sveltire il trasporto, negli affluenti e nei corsi secondari la navigazione dovette forzatamente continuare con il traino dalla riva per mezzo di uomini o di animali, le imbarcazioni infatti dovevano valicare i ‘sostegni’ o le ‘conche di navigazione’ che permettevano il superamento dei dislivelli. Il primo impiego di questi apparati idraulici sembra sia dovuto – come afferma anche Girolamo Tiraboschi (Storia della letteratura italiana, Milano, 1833, vol. 3, p. 290) a due architetti emiliani, il modenese Filippo degli Organi che iniziò a costruire le prime conche nel 1438 e il bolognese Aristotele Fioravanti. La vita dei barcaioli era molto dura e i loro rapporti con gli altri utilizzatori delle vie fluviali non proprio idilliaci: i mulini e gli altri stabilimenti analoghi sottraevano acqua o intralciavano la navigazione; gli agricoltori avevano necessità di irrigare i campi e le colture; i pescatori chiudevano i corsi con le loro reti e nasse; i pastori danneggiavano le rive portando le mandrie al pascolo e i proprietari usavano scolare le acque torbide costringendo i vari governi locali a costose operazioni di manutenzione. (zz) Cultura popolare nell’Emilia Romagna 1979

Mulini natanti a Melara Po (riva veneta del Po), anni ’20 del XX sec. (Ferrara, ACEC). La scritta DIO TI SALVI era un’invocazione benaugurale, molto diffusa lungo tutto il Po, che i proprietari dipingevano sui mulini soggetti ai pericoli delle piene e degli incendi.

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Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signori, almanacchi? Giacomo Leopardi Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere

“Spie del cielo”, così li definisce Elide Casali riprendendo il titolo di un’operetta seicentesca di osservazioni astrologiche calcolate “al meridiano di quest’eccelsa città, gran madre de studij, Bologna” (del piemontese Lafranco Escamege): sono gli astrologi, per secoli autorevoli e influenti consiglieri di principi e papi, ingegnosi mediatori e interpreti (a volte impostori) tra gli astri e gli uomini. La loro attività di professionisti dell’astrolabio e della sfera armillare, con i quali venivano puntualmente ritratti, si esprimeva attraverso l’elaborazione di oroscopi e la realizzazione di taccuini, pronostici, lunari e almanacchi che l’invenzione e la conseguente diffusione dell’arte tipografica ufficializzarono trasformandoli in un vero e proprio genere letterario. I primi esempi di questo tipo risalgono al XV-XVI secolo ed erano caratterizzati da un gran numero di informazioni di tipo astronomico e astrologico, basti pensare ai ferraresi Pietro Buono Avogaro (di cui la Biblioteca Universitaria di Bologna possiede una ricca raccolta di pronostici quattrocenteschi) e il figlio Sigismondo, Giovanni Battista Ghelini (Biblioteche Ariostea e Palatina), Boniforte Pecenino e Girolamo Ponceta (gli unici esemplari conosciuti dei loro pronostici – rispettivamente del 1519 e del 1531 – si trovano nella Biblioteca Colombina di Siviglia) e Abraham Zacuth (esemplari di diverse edizioni in Ariostea); ai bolognesi Lattanzio Benacci, Antonio Campanacci, Paolo Perusino, Francesco Rustighelli, Marco Scribanario,


Lunari e almanacchi Floriano Turchi, Leandro Visdomini, Betuzzo e Lodovico Vitali (omonimi ma non parenti), Giovanni Zanti, Giacomo Pietramellara, Ercole Della Rovere, Giovanni Neri (detto Giovanni degli uccelli, fu anche pittore, famoso miniatore di volatili realizzò diversi disegni per Ulisse Aldrovandi) e Giorgio Buratino; ai piacentini Alessandro Bernoni, Giovanni Battista Moro e Ascanio Lamberti; a Domenico Conti da Faenza, Rutilio Frisoni da Modena, Tommaso Giannotti Rangoni da Ravenna, al maestro di abaco Santo da Rimini (anche il suo pronostico del 1504 è presente solo nella Biblioteca Colombina di Siviglia). L’antologia qui proposta (una goccia nel mare sterminato di questa produzione) considera solo i lunari/almanacchi contenenti informazioni utili per la coltivazione e l’alimentazione (il clima, i lavori mese per mese, semine e potature, i giorni per riposare, le tecniche agricole, proverbi e detti popolari, fiere, ricette, conserve e marmellate, torte e biscotti, erbe e tisane, poesie, proverbi e detti popolari, ma anche rimedi naturali per le malattie ricorrenti e gli incidenti domestici), ma nel corso del tempo, soprattutto nel passaggio fra Sette e Ottocento, essi divennero sempre più un veicolo di alfabetizzazione e di divulgazione delle informazioni – anche sociali e politiche – tra la gente. La loro diffusione era legata principalmente all’utilità delle informazioni pratiche contenute, ma anche al formato (manifesto o libretto tascabile) che li rendeva oggetti da tenere

sempre a portata di mano: affissi al muro della casa o della stalla, oppure in un cassetto con gli attrezzi o in tasca. Compilati tutti gli anni, come lunari segnano i movimenti del satellite terrestre e degli altri corpi celesti; come calendari misurano l’anno e ne scandiscono i giorni e le feste, come almanacchi (dall’arabo al-manākh, clima) raccontano il tempo che ha fatto e, soprattutto, che farà. Oltre alla ricca raccolta di lunari conservata dalla Biblioteca dell’Archiginnasio, non è possibile tacere della collezione ‘romagnola’ lasciata alla Biblioteca Saffi di Forlì da Carlo Piancastelli, il cui catalogo pubblicato dallo stesso bibliografo (e bibliofilo) fusignanese nel 1913 è stato riproposto nel 2013 per cura di Lorenzo Baldacchini, con una prefazione di Elide Casali (Quaderni Piancastelli, 8). E se l’Umbria può vantare dal 1762 il folignate Barbanera, l’Emilia Romagna ha seguito le sue illustri orme con «Il Pescatore Reggiano» di Reggio Emilia, lo storico «Luneri di Smèmbar» faentino, il «Barbanera» dell’editore/tipografo Luigi Parma di Bologna e poi ancora il celebre Casamìa (per esteso Giro astronomico o sia pronostico del vero cabalista Casamìa), pubblicato ininterrottamente dal 1763 al 1910. Nota Piancastelli che sotto il nome di Pietro G. P. Casamìa, pare si celasse un frate veneziano “dimorante a Faenza”. Il Diario riminese fu stampato nel 1789 dal tipografo bassanese Giacomo Marsoner, che lo pubblicò fino al 1796. E così via. (zz) 291


115.

Giacomo Pietramellara (Napoli, 1470 ca. – Bologna, 1536)

Pronostico del maestro Iacomo Petramellara sopra l’anno 1524 delle cose in esso accaderanno. Al reuerendissimo monsignore Altobello vescouo de Pola & de Bologna gouernatore dignissimo. (Dato in Bologna, a dì 10 de decembre 1523 per diuinum magistrum Iacobum Petramellarium &c.) [4] c. ; 4°. – Segn.: A4. – Stampato da Girolamo Benedetti, come si evince dal materiale tipografico. Bologna, BC Archiginnasio (16.P.IV.5 op. 3. Prov.: Matteo Venturoli)

Scrive di lui Serafino Mazzetti: “Figlio di Tommaso, napoletano, studiò la medicina e filosofia nella nostra Università, e vi venne laureato nell’anno 1496, nel quale ottenne tosto una cattedra d’astronomia col peso di fare i pronostici o giudicii, ossia l’astrologia ed il taccuino. Venne ascritto alla cittadinanza bolognese nel 1508 e fu quivi il primo fondatore dell’illustre e nobile famiglia Pietramellara.Venuto in età grave, venne dispensato dal leggere, colla continuazione però della sua provigione. Ebbe nome famoso e celebre in Italia e fuori, ove fu stimato tra’ primi nella sua professione. Morì in Bologna il 13 marzo del 1536”. La sua fama fu tale che Leone X Medici lo avrebbe voluto alla sua corte per riformare il calendario, cosa che non poté avvenire per la morte del pontefice. Il 20 febbraio del 1524 avrebbe dovuto verificarsi una eccezionale congiunzione di pianeti nel segno zodiacale dei Pesci che, stando alle previsioni doveva provocare un secondo diluvio, vaticinato peraltro già nel 1499 dall’astrologo tedesco Johannes Stoeffler. A parte questo, il libretto contiene le materie consuete, come l’andamento del “ricolto delle biave & rendito de arbori & de vigne” che evidentemente ci sarà nonostante l’imminente disastro, anche se “Havemo guardato & considerato sopra le costellazioni della abondantia & carestia quale li auttori insegnano considerare: & annexe tutte insieme con le altre cose necessarie. Dicemo che lo ricolto del frumento & altre cose ordenate per lo uso del huomo: dove dalle acque & dallo freddo se calmaranno: & poi da caldi venti & altra mala disposizione se mantiguiranno. Serà mediocre ricolto in lo quinto & sexto clima: etiam in molti lochi li campi seranno sterili, & appena se recoglierà le sementi in molti lochi, o quanti seranno li mendicanti: o quanti moriranno de fame, & quanto tumulto se sarà in la città”. Nell’ultimo capitolo è trattato l’influsso dei singoli pianeti, ultima la luna che “significa instabilità de molte cose, & molte novelle fra populari: & negritudine & mortalità & buboni in li homini & commoverà l’acqua del mare con tempesta & fluctuatione de nave: & da esso spesso se sommergeranno & minuirà l’abondantia del vino con superfluità de piogge o de venti”. (zz) Mazzetti 2435 292


Lunari e almanacchi

116.

Citaredo Urbinati (Ferrara?, sec. XVI-XVII)

Lunario et giornale perpetuo. Nel quale si vede le varie mutationi de’ tempi perpetuamente. Con vn nuouo modo di seminare, piantare, coltiuare, & quando sia buono pigliar medicina, cauar sangue, medicare, & far viaggi, & far mercantia, & altre cose degne, & vtile. Posto in luce, & dispensato a beneficio vniuersale da me Citaredo Vrbinati. In Ferrara, Piacenza, Turino, Asti, Venetia, & ristampato in Modona, per Gio. Maria Verdi, 1609. 4 c. ; 4°. – Segn.: A4. Bologna, BC Archiginnasio (11.Appendice alle Scienze. Sc.Occulte 1, 11)

Questo lunario, redatto da un autore di cui non si sa nulla – anche il nome desta perplessità – stampato in varie città fino all’ultima, Modena (a testimoniarne la diffusione) si apre con l’elenco delle ‘lune’ mese per mese: “luna di febraro. Segno di pesci, chi s’amala, forse presto guarirà, non è utile, né buono cavar sangue, ma sì bene pigliare medicina, ma non medicare li piedi, né le dite, è buono bagnarsi [anche per lavarsi era opportuno consultare gli astri], pescare, far viaggi, & seminare. Di questo mese si semina ceci. La ruca, petrosemolo, rugoletta, cavoli, rucche, lenti, santoleggia, cipolline, porri, anesi, senape, pestinache, cumino, viole, & linostio, all’uscire del mese si trapianta issopo, menta, presa, sermolino, & latuche, fansi inesti a peri, meli, nespole, & sorbe, in alcun luogo si potano alberi”, la luna di marzo “segno dell’ariete, rende benefitio a quelli, che si bagnano, ma non è buono radersi, tagliar capelli, né medicarsi la testa, né la faccia; che s’ama la haverà longa infermimità [sic], e forsi guarirà, e buono comprare, seminare, e piantare, l’è quasi buono cominciare tutte le cose, e anco buono far viaggi, pigliar medicine.Trasponsi lattuga, cavolini, & seminasi poponi, cocomeri, cetrioli, cardi, asparagi, guado, ruta, basilico, porcellane grosse, & viole damaschine, si seminano a luna crescente, & trasponsi a loco tale, finché si traspongono, fassi inesti a peri, meli, fichi, cerese, & simili frutti, né luoghi freddi, sappiansi le vigne, si semina grani, fave, & biade” e così via. Nella seconda parte è contenuto il “Trattato della luna, delli trenta giorni” che indica, giorno per giorno, cosa è bene fare e cosa invece è da evitare. Chiude il lunario il “Trattato breve e copiosissimo de’ segni arti de’ tempi” che comincia con i segni tolti dal sole & compagni (“il sole è nuntio di tempeste quando nasce negro, o pallido, o con una, o più aree intorno” oppure “se prima che si vegga il sole appariranno gli sui raggi verso il cielo, è segno certissimo di vento, e di pioggia”); conclude il corrispettivo dei “segni tolti dalla luna & cose concomitante”. (zz) 293


117.

Giulio Cesare Croce

(San Giovanni in Persiceto, 1550 – Bologna, 1609) Pronostico, almanacco, tacuino, ouero babuino, sopra l’anno, che hà da venire; calcolato al Meridiano d’Italia, città di Mattelica, per il dottiss e plusquam ingegnosissimo astrologo mastro Braga bollita dalle calzette. Di Giulio Cesare Croce. In Bologna, presso Bartolomeo Cochi, al Pozzo rosso, 1615. 1 manifesto ill. ; atl. Bologna, BC Archiginnasio (A.V.G.IX.1425. Prov.: Giovanni Gozzadini)

L’intento parodistico è percepibile già dal titolo, in cui il pronostico appare opera del “plusquam ingegnosissimo astrologo mastro Braga bollita dalle calzette”, e dalla dedica “Al nobilissimo professore, et sostentatore dell’arte mattematica, il sig. Gallina guerza da Francolino, perfetto in omnes genere musicorum, et in vtroque scientia peritissimo”. Il pronostico, denominato fino alla fine del XV secolo tacuinus o iudicium, era compilato dai docenti di astronomia dello Studio (quali: Giacomo Pietramellara e Lodovico Vitali) e conteneva la previsione dei fatti dell’anno sulla base dei fenomeni astronomici con le configurazioni favorevoli o sfavorevoli alla pratica dell’agricoltura, all’esercizio della medicina, agli avvenimenti politici e sociali. Oltre alla tradizione dotta del pronostico astrologico elaborato in ambito universitario, derisa da Giulio Cesare Croce per la presunzione dottorale, era altresì diffusa quella del pronostico ciarlatanesco, praticata nelle piazze da astrologi e medici itineranti che, con notevoli semplificazioni circa la scienza delle stelle, fornivano pronostici annuali e anche perpetui. Il cantimbanco persicetano si mantiene prudentemente distante dalla pronosticazione, sia accademica sia ciarlatanesca, con la scelta del registro burlesco che connota diversi pronostici e avvisi pubblicati soprattutto agli inizi del Seicento. Di fronte alla larga circolazione di opuscoli di poche carte e fogli, occorre tener presente che specialmente i fogli volanti si prestavano a essere fruiti anche dagli analfabeti, grazie alla pratica della lettura ad alta voce. Data 294


Lunari e almanacchi la fortuna goduta dal genere burlesco e la natura effimera dei manifesti non sorprende che soltanto pochi esemplari siano sopravissuti al consumo popolare. Nella straordinaria raccolta libraria appartenuta a Giovanni Gozzadini, conservata alla Biblioteca dell’Archiginnasio, figurano ben tre fogli volanti con pronostici burleschi del Croce. Il testo del Pronostico, almanacco, taccuino, ouero babuino… – stampato su un foglio nel 1615 dal tipografo bolognese Bartolomeo Cochi, su quattro colonne con due silografie agli angoli superiori – è lo stesso di un opuscolo impresso a Cesena (privo del nome del tipografo e della data) e poi ristampato a Bologna da Vitttorio Benacci. Dopo la lettera dedicatoria in cui Braga bollita cita disparate fonti, dagli eroi di poemi cavallereschi a fantasiosi capitoli di opere di Tolomeo e Plinio, il Pronostico si sofferma sulle quattro stagioni, sul raccolto e sugli effetti che succederanno tutto l’anno, e si conclude con una bizzarra riflessione sull’anno bisestile. Sono previsti, insieme ad accadimenti curiosi e stravaganti, eventi banali presentati come straordinari; per la Primavera, ad esempio, si osserva che: “Nascono varij, et diuersi pareri fra le rotelle modonesi, et i speroni regiani circa l’entrar della Primauera, l’vno vuole, che entri subito finito il Verno; l’altro innanzi, che venghi l’Estate…”. Nel paragrafo dedicato al raccolto Croce cita come fonti Bottos Solfanaro e Bella barba insieme a celebri agronomi: il bolognese Pier Crescenzi e il bresciano Agostino Gallo. L’abile cantastorie mescola situazioni e fenomeni veritieri con altri privi di senso in un profluvio di vocaboli che mira a stupire e a divertire il lettore e il pubblico, esposto al ridicolo per la credulità nei pronostici degli imbonitori. Il gusto per l’enumerazione spicca nell’Autunno con la lode del vino accompagnata dall’elenco di ben trentaquattro arnesi utili per la lavorazione dell’uva e “si faranno i vini, i mezi vini, puri, mischiati, dolci, bruschi, forti, grandi, piccioli, tondi, di mezo sapore, maturi, piccanti, razzenti, graspie, amarelli, caccia parenti, frusta braghetta, trebiani, moscatelli, vernazze, chiarelli, bianchi, rossi, neri, paonazzi, di color d’oro, da Inuerno, da Estate, da mezo tempo, digestiui, confortatiui, appetitiui, pisciatiui, e d’ogni fatta”. Nell’Inverno, con l’arrivo del gelo che farà soffrire soprattutto i poveri, non manca il riferimento all’uccisione del porco “e si faranno salami, salsiccie, salsiccioni, ceruellati, brasuole, persutti, panzette, coste, cotiche, zampetti, grugni, lonze, lardi, reti, polmoni, fegati, et altre cose da far cridar lo spiedo, la padella, la gradella, e la pignatta; et questo minaccia la stella d’Orione, volta con la coda verso il pelatoio…”. Lunga anche la serie di attività, mestieri e professioni, esibita nel paragrafo “De gli effetti, che succederanno tutto l’anno”, che naturalmente richiama alla mente La piazza universale di tutte le professioni del mondo del canonico Tommaso Garzoni. Trapela, nonostante la prevalenza del registro burlesco, la consapevolezza del disincantato Croce circa l’inesorabile ripetersi ciclico delle cose, insieme allo sguardo sulle condizioni dei molti costretti a “sbarcare il lunario”. (rc) Rouch, p. XX-XXI, 94-107; Le stagioni di un cantimbanco, n. 134

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Il dottor Grillo. Pronostico per l’anno bisestile 1784. In Bologna, nella Stamperia della Colomba, [1783]. 1 manifesto ill. ; atl. Bologna, BC Archiginnasio (16. Lunari, 32)

Il ‘dottor Grillo’ fa parte della folta schiera di medici-ciarlatani di cui era ricco il teatro dialettale regionale, come Gratiano Partesana e Gratiano Scatolone, usciti dalla penna del cantimbanco persicetano Giulio Cesare Croce o il più famoso dottor Balanzone, erede ideale dei precedenti. Di questo personaggio scrisse anche Girolamo Baruffaldi con lo pseudonimo di Enante Vignajuolo (Grillo canti dieci, stampato nel 1738 sia a Venezia che a Verona) contribuendo ad espandere la sua fama oltre i confini regionali, tanto che il medico e filologo Giuseppe Pitrè, nelle sue Novelle popolari toscane, si ricollega proprio al canto V dell’operetta di Baruffaldi, in cui è descritto il metodo terapeutico per guarire ‘la contessina’ da una spina in gola utilizzando pani di burro, per spiegare il detto toscano “Fare come il dottor Grillo che a chi duole il capo unge il sedere”. Come lui, anche il ‘duttour Truvlein’ ha perpetuato il suo nome attraverso i lunari: del suo autore, Giulio Tommaso Colli, scrisse Giambattista Melloni: “fu stampatore e capo-ministro della Stamperia di S. Tommaso d’Acquino [sic], poscia compadron di quella e dell’annessa libreria […] Compose anche per molti anni, e finché visse, il famoso Lunario, nomato Il Dottor Trivellino (secondo il volgar bolognese Duttor Truvlin) ricercatissimo anche fuori di Bologna per li faceti, ma onesti e morali Dialoghi in lingua bolognese in quello inseriti” (Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, Bologna, 1773, vol. 1, p. VI). Nel ‘Discorso generale’ del Dottor Grillo si legge: “Avrà il suo principio quest’anno bisestile 1784 in quel punto in cui il gran luminare del giorno arriverà a toccare il primo grado dell’Ariete, formando l’equinozio di primavera [inizio della metà luminosa dell’anno, quando la natura si risveglia], il che avviene appunto il 19 di marzo alle ore 5 m[inuti] 13 della seguente notte. Ma dovendoci noi con tutta ragione uniformarsi agl’antichissimi ed invariabili statuti di Santa Madre e Romana Cattolica Chiesa, diamo 296


Lunari e almanacchi incominciamento a quest’anno il primo di gennajo, che accade in giovedì. Il dominatore massimo di quest’annuale corso, secondo i calcoli più esatti presi, sarà Saturno, a cui a norma delle regole delli più accreditati astrologi, si uniscono per di lui colleghi, nelle annuali rivoluzioni, la bella Venere ed il benefico Giove; e siccome in essi trovo una sincera amistà e condiscendenza, così dico, per tenermi sul generale in questo Discorso, passando poi al particolare in quelli delle stagioni, che da questi tre dominatori benignissimi di natura propria a tutte le cose, e che produce il tutto a perfezione sì in bontà che in bellezza, non potiamo sperare, che un’annata felice e fortunata. E però li raccolti se non saranno abbondantissimi in tutto, nemeno saranno scarsi, ed in alcuni luoghi saranno anche abbondantissimi accettuati quelli, che soffriranno grandini, tempeste, e fulmini; sicché l’anno generalmente non sarà mediocre, ma abbondante, massime di formento, canepa e marzatelli primaticj”. Segue l’elenco delle probabili malattie come febbri terzane e vaiolo per finire con le previsioni del tempo per ogni stagione: inverno freddo con neve, ghiaccio e pioggia (ben diverso da quello passato); primavera fresca; estate asciutta e con caldo ‘rigoroso’; autunno passabile più verso la fine che all’inizio. (zz)

Al duttòur Truvlein. Lunari per l’ann 1881 prezedù da un dialog, Bulògna, alla stamparì d’Zenerèll, [1880] (Bologna, BSP Fameja bulgneisa) Pagina seguente: Giuseppe Maria Crespi, Cacasenno vien quietato con un castagnaccio, [1730 ca.] (Bologna, BAS S. Giorgio in P.). L’opera (acquerello e matita su carta pergamenata) fa parte di una serie di venti ispirate al Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Giulio Cesare Croce.

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Le lodi del Duttòur Truvlein: alle raviole, alla mortadella, alla polenta e al castagnaccio Nel lunario del ‘Duttòur Truvlein’ del 1881 sono riportati quattro divertenti sonetti in dialetto bolognese dedicati ai prodotti tipici di ogni stagione. Per la primavera sono le raviole, un dolce prodotto tradizionalmente per la festa di san Giuseppe (19 marzo), a base di pasta dolce tagliata in tondo e ripiegata in due con un ripieno a piacere, ma che in genere è fatto con la mostarda bolognese (a base di mele e pere cotogne). In estate arriva la mortadella, che non ha bisogno di molte spiegazioni: l’autore benedice la nascita del maiale, chi lo ingrassa e chi lo ammazza per utilizzare la sua carne in tanti modi, uno più appetitoso dell’altro. Il prodotto dell’autunno è la polenta di ‘formentone’ e infine, nella stagione invernale arrivano i castagnacci, dolci tipici della montagna fatti, come rivela il nome, con la farina di castagne. Premavèira In lod del Raviol. O Musa di Ptrunian, dam un ucciâ, / E inspirm, a t’preg, un poc per to favòur, / Perché a vrev dir un cvêll da far unòur / A del cusslein’ gustòusi purassâ. // Al d’fora è d’pasta dòulza inzuccarà, / Dèinter secònd i gust varia al savòur / Dèl pein ch’l’è delicat o l’hà vigòur; / Es ein fatti a mêzz tónd, lessi o smerlâ. // Insòmma me a m’intènd d’dir el Raviol / Che s’fan per san Jusêf, antiga usanza, / E che a magnarli el-i-ein un vèir gudiol. // Raviol, che al merit vostr ogn’altr avanza, / Dègni ch’v’ama al zttadein e al campagnol, / Me n’ve sarò ludar mai abbastanza! Estad In lod dla Murtadêlla. Sepa bendètt al porc quand al nassé, / E sepa pur bendètt chi l’ingrassò, / Sèimper srà da ludar chi l’ammazzò, / E chi ‘l sòu carn in più manir l’invsté. // Gran brav umazz pr al zert fù quèll ch’avé / L’idea d’far un salùm da tùtt piasó, / Che al nom d’Bulògna grassa immurtaló / In tùtti el part dèl mònd ai nuster dé. // La Murtadêlla d st’zib tant decantâ, / Squisit e savuré fein mai ch’a vli, / Ch’vein dai bulgnis e furastir zercâ. // Magnala cún al mllòn, o pur …. Cùn l’u, / Cún i fig, o al furmai, o da per lì, / Sèimper la srà un magnein di miur s’t’in vu. Atúnn In lod dla Pulèint. Ch’s’agúzza pur pulid al calissòn, / E ch’s’prella I bumbasú dél calamar; / Fora fora un curtêll ch’s’possa timprar / La pènna che stâ arpóusa in-t-un cantòn; // E ch’s’fazza di sunett e del canzòn, / Insòmma ch’s’fazza tútt quèll mai ch’s’pol far / Per pssèir, com è dèl dvèir, sèimper ludar / La cara Pulinteina d’furmintòn. // Favla pur tútt vú alter sbaiaffún / Ch’battlassi tant d’amòur, d’arm e d’suldâ, / Ma a dscòrrer po d’Pulèint a n’fòssi bon. // Bendètt sia un zib qusé bòn e prelibâ; / E giúst adèss me a vói guastar al dzún / Magnandn úna bèin únta e infurmaiâ.

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Inveren In lod di castagnazz. Al Tass cantò del-i-arm e di suldà; / Aldvig Ariost del arm e cavalìr; / Al brav Petrarca a s’vèd ch’l’avé in pinsir / D’ludar Madonna Laura in tùtt i lâ. // E me m’farò mo tgnir pr un incantâ / Apprèssa d’questi, e n’savèir cossa m’dir? / Salta su, Musa, e cmèinzm a suggerir / Qualc cossa da cantar ch’sia prelibâ. // Su pur, ch’s’daga el sòu lod ai Castagnazz, / E in-t-al Cantòn dl’arloi s’vadn a zigar / Cùn qulòur ch’n’han sèimper una gran rola in brazz. // Fra tùtti el coss preziòusi i ein singular, / E quèll prem ch’i inventò fù un gran mustazz / Ch’fé pr amòur i su marón masnar.


Lunari e almanacchi

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L’agricoltore istruito o sia lunario per l’anno 1802. Con un discorso sull’agricoltura in generale, una istruzione sulla coltivazione, ed usi delle patate, ed un’altra istruzione sull’arte di fare, e di conservare il vino. Bologna, per le stampe della Colomba, [1801]. 59, [1] p. ; 16°. – Segn.: a12 b18. Bologna, BC Archiginnasio (17. Almanacchi. Cart. VII, n. 55)

Scritto in prima persona ma in forma anonima, questo librettino comincia, come indica il titolo, con un discorso generale sull’agricoltura che è anche una sorta di ‘manifesto’ sull’importanza che essa riveste nella vita economica e sociale, ma anche un’accusa nei confronti di chi dovrebbe potenziarla e valorizzarla: “L’agricoltura fu da politici considerata mai sempre come la più ferma base su cui poggiar possa la ricchezza, e la prosperità di uno stato”. La Grecia e la Repubblica romana divennero forti grazie a “quest’arte nudrice dell’uomo […] ma quando i magistrati ed i comandanti delle armate vergognaronsi d’essere agricoltori, ed allora fu che dilacerata la Repubblica dalle intestine discordie gli amatori della romana libertà piansero la di lei decadente anzi la di lei totale estinzione. A giorni nostri poi le due grandi emule l’Inghilterra e la Francia quanto non fecero esse mai, e colle Accademie, e co’ premi, e colle leggi a protezione ed incoraggiamento dell’agricoltura. Ogni più colta parte d’Europa imitò il loro esempio, e non solo le più grandi e magnifiche, ma le più povere, ed anguste città vollero un’Accademia d’agricoltura, e decretarono onori, e ricompense a chiunque facesse progressi nella medesima. Bologna frattanto d’ogni scienza, e bell’arte maestra, la patria dei Crescenzi, e dei Tanara vide l’agricoltura non da altro promossa, che dai privati bisogni, o dalla privata cupidità d’arricchire. Io mi lusingo però, ch’ella abbia appreso oggi mai, un suolo fertile, ed un clima felice non essere no sufficiente a preservare una popolazione dalla più terribile carestia. L’agricoltura formerà, io spero, in appresso una parte considerevole dell’educazione, che si de[ve] alla ricca gioventù […] Qual piacere soavissimo non ritrarrà egli mai un bennato giovane da un tale studio, che tende a preservare se stesso, ed i suoi fratelli dalla più terribile delle disgrazie, che consulta mai sempre la natura, e scopre i tesori della di lei beneficenza! […] Istruiti da lui i sofferenti contadini non più tenaci delle antiche pratiche d’agricoltura, abbracceranno volonterosi le nuove, che la ragione, e l’esperienza mostrò più proficue. I generi di prima necessità non cadranno sì facilmente nelle mani crudeli di coloro, i quali acciecati dall’avidità del guadagno sordi sono alle voci della giustizia e della umanità: ne andrà guari, che vedremo rifiorire le arti, ed il commercio, ed assicurata così alla Repubblica una vera, e durevole felicità”. Seguono le feste mobili, le quattro stagioni e le eclissi di sole e di luna. Da p. 9 a p. 22 si parla della coltivazione della patata, che riprende quanto sostenuto da agronomi come Bignami prima e Contri poi: “La patata è una pianta fornita di una radice tuberosa, la quale può agevolmente convertirsi in alimento salubre non meno dei bestiami, che dell’uomo stesso. Questa radice piantata nel più sterile, ed ingrato terreno moltiplica mirabilmente, né ha molto a temere i danni della grandine, e di tutti quegli 300


Lunari e almanacchi altri accidenti, che in breve ora vane rendono le più belle speranze degli agricoltori”. Sull’arte di fare e conservare il vino sono fornite varie indicazioni come “la prima di tutte le diligenze da usarsi, si è quella di vendemmiare le uve bene mature”. (zz)

Museo dell’agricoltura e del mondo rurale di San Martino in Rio (Reggio Emilia) Si trova all’interno della Rocca Estense, un edificio monumentale che si erge nel centro del paese, circondato da un vasto parco. Il museo, proprietà del Comune, raccoglie e conserva, studia e valorizza tutto ciò che concorre a testimoniare la vita contadina e artigiana della zona, come si presentava fino all’inizio del XX secolo, prima dell’avvento dell’agricoltura meccanizzata. È organizzato in sezioni che trattano gli argomenti tipici del mondo contadino: la produzione agricola con particolare riguardo per canapa, truciolo e saggina; farina, carne e formaggio; la tipica struttura delle dimore rurali; la vite e la produzione vinicola; il rapporto fra l’uomo e la terra; le attività artigianali; le ceramiche della Rocca e la vita dei bambini che crescevano a contatto con la terra. Una sezione particolare è dedicata alla famiglia Bertani, le cui donazioni sono divenute mostra permanente del museo, famiglia alla quale appartenne Raffaele che con le sue innovazioni tecniche contribuì allo sviluppo agricolo locale.

Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio (Bologna) Poco distante da Bologna, immersa in un parco storico all’inglese, giace l’ottocentesca Villa Smeraldi, sede del Museo della civiltà contadina che offre al visitatore una testimonianza unica sul lavoro e sulla vita della campagna tra Otto e Novecento: la sezione dedicata alla canapa è la più importante in Italia. Il Museo è gestito, assieme alla villa e al parco, dalla Istituzione Villa Smeraldi costituita nel 1999 dalla Provincia di Bologna e sostenuta dai Comuni di Bologna, Bentivoglio e Castel Maggiore. Anche qui gli argomenti trattati sono molteplici: la pianura dei mezzadri con valli e risaie; i poderi; i prodotti tipici della terra (frumento e frumentone) e l’espansione della piantata con la produzione di legna e vino; la struttura delle case coloniche tipiche e i lavori artigianali; la produzione e lavorazione della canapa; miele e zucchero; la frutta e l’orto-pomario; la cucina dei contadini.

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Rubicone

Almanacco del Dipartimento del Rubicone per l’anno bisestile 1812. Forlì, dalla Tip. dip. presso Matteo Casali, 1812. 382 p. 3 c. di tav. f.t. ; 20 cm. Massa Lombarda, BC Venturini (F. Storico 4.7.3. Prov.: Carlo Venturini)

Tavola raffigurante i vari tipi di arnie nell’Almanacco del Dipartimento del Rubicone per l’anno bisestile 1812 302

Frutto della politica napoleonica, il Dipartimento del Rubicone fu istituito con decreto del 1797 ed ebbe vita fino al 1815. Dall’indice apprendiamo che gli argomenti trattati nell’almanacco riguardano: le quattro stagioni, le feste mobili, un diario degli avvenimenti, l’elenco dei Collegj elettorali, topografia e confini, notizie su minerali e fossili e infine brevi cenni sopra alcune piante spontanee della zona. La lettura è istruttiva, o doveva esserlo sicuramente nel 1812: a p. 92-93, per il mese di luglio, si legge la ricetta dello sciroppo e zucchero di more “per una eccezione alla regola si pone qui il modo di cavar sciroppo, e zucchero dalle More di gelso, onde trattandosi di una sostanza negletta, e di verun costo possa dagli abitanti delle campagne cominciarsi a trarsene partito. Tanto più volentieri poi qui si innesta tale processo in quanto che in questo mese mancano al coltivatore delle nominate piante, succedanee alle coloniali, occupazioni agrarie dirette”, segue l’intero procedimento. Nel precedente mese di giugno si dice delle barbabietole che “dopo la seconda zappatura alla fine di maggio, questi vegetabili non esigono altro lavoro fino alla raccolta. Non conviene mai sfogliarli durante tutta la state, o tutto al più levar gli si devono quelle sole foglie, che si trovano al basso della pianta, e che diventano gialle e sono prossime a morire. Altrimenti facendosi, si leverebbe alle radici la parte maggiore del loro sugo, e resterebbero perciò meno atte a dare zucchero”. Subito dopo ci si occupa delle api relativamente ad una “nuova forma di arnia ed al metodo di trarne la cera, ed il mele senza uccidere le Api stesse. Descrizione di una specia di arnie di legno. La figura I. rappresenta un’arnia composta di quattro cassette quadrangolari al di fuori, ma internamente ottangolari come vedesi nella Fig. 2. A.B.C.D. Fig. I. sono cassette fra di loro eguali, poste l’una sull’altra, ritenute da varj pezzetti di legno b.b.b. che si aggirano intorno ad un chiodo, o come dicono i Veneziani, ed i Lombardi Moriggiuolo, e coperte da una tavola amovibile, la quale sporge in fuori, ed è tagliata un po’ in pendio per iscolo dell’acqua, che per avventura vi cadesse, come vedesi nella Fig. I. suddetta. Per assicurare questo coperchio si carica d’un sasso. Se lo sciame non è molto numeroso bastano due, o tre cassette ed a principio forse basta una sola. Esse hanno d’altezza circa sei pollici (poco meno di due decimetri) e di larghezza netta ossia d’interno diametro circa 10. pollici (ossia 3 decimetri.) La grossezza della tavola vuol’essere di mezzo pollice almeno (circa un centimetro, e mezzo) per riparare meglio dal caldo, e dal freddo le api, e il loro lavoro… Descrizione di un’arnia di vimini, o di paglia. Le arnie di vimini, o di corda di paglia, che per la poca spesa sono più care ai contadini, sono buone anch’esse, ma vogliono essere intonacate di dentro, e di fuori col cemento sopraddescritto; ed è necessario, che questo sia ben secco prima di mandarvi dentro le api”. Per quanto


Lunari e almanacchi riguarda infine le piante spontanee si può leggere per esempio (p. 248) del “Sambucus nigra. Sambuco arboreo. Nei luoghi paludosi, e ombrosi. I Fiori del sambuco si sono impiegati per dare odore all’aceto, alle uve, alle frutta” oppure del “Capparis spinosa. Capperi. Abbondano in molti comuni, e vegetano sulle rocche, e sui muri antichi. Ottimi per salse. Chi volesse introdurne la coltivazione ne’ campi legga il Tanara che nel suo Cittadino in Villa dà un’ottima istruzione di coltivare i capperi negli orti”. L’Almanacco contiene infine la relazione di Lucio Fusignani e Carlo Roli sulle proprietà salutifere delle acque minerali della Fratta, a Bertinoro. La Biblioteca dello Studio Teologico di Bologna possiede una copia della ricerca Sull’acqua minerale della Fratta notizie storiche analitiche e terapeutiche (Forlì, Casali, 1851) nella quale si legge fra le altre cose: “Ed ecco di bel nuovo in campo la salubrità di quest’acqua: e il primo vanto a buon diritto l’ebbe l’Almanacco del Dipartimento del Rubicone, opera raccolta in grosso volume e piena tutta di bellissime cognizioni industriali, uscita in luce l’anno 1812 e che alla p. 231 dice in proposito: «La sorgente dell’acqua della Fratta è situata in un campo arativo posto nella Parrocchia della Fratta, territorio di Bertinoro, cantone di Meldola, di proprietà di mastro Paolo Marzocchi. L’analisi n’è recentemente stata fatta dai sigg. Lucio Fusignani farmacista, e Roli Carlo medico, ambi di Meldola, e ivi residenti […] L’uso a cui serve, si è come purgante, ed il tempo in cui si beve, si è nel mese di agosto, trascorso il quale il proprietario ne chiude la sorgente, che poscia viene riaperta nel venturo anno […] I concorrenti sono tutti quelli del Distretto Forlivese, ma soprattutto i Forlimpopolesi, ed i Forlivesi stessi, i quali o in persona si trasportano nel luogo della sorgente per berla, o la trasportano ai loro paesi racchiusa in barili o in fiaschi» […]”. (zz)

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Il famoso Barbanera. Lunario per l’anno 1845. Faenza, Tipografia Conti, [1844]. 32 p. : ill. ; 16 cm. Faenza, BC Manfrediana (M. Z.N. 93.8. Prov.: Luigi Zauli Naldi)

Speculazioni celesti fatte sulla ruota del tempo dal famoso astronomo Barbanera sopra l’anno 1771, Bologna, alla Colomba, [1770] (Bologna, BC Archiginnasio): lunario Barbanera nel formato ‘manifesto’ da affiggere. (Bologna, BC Archiginnasio) I ragguagli del tempo sopra l’anno MDCCLXI. Intesi, ed esplicati dal dottissimo Barba Rossa. In Bologna, per Ferdinando Pisarri, [1760] (Bologna, BC Archiginnasio)

Già sulla copertina fa capolino la sua immagine: del suo aspetto non si hanno descrizioni dettagliate, ma solo piccole incisioni che lo raffigurano concentrato nel suo lavoro, attorniato dagli strumenti tipici delle scienze di cui è profondo conoscitore: il compasso, il cannocchiale, il mappamondo, lo sguardo rivolto al cielo. Barbanera è dal 1762 il lunario per eccellenza: ‘nato’ a Foligno e distribuito ovunque, è stato poi riprodotto anche localmente, come prova questa versione faentina, a dimostrazione della sua popolarità se si considera che la città romagnola nel XIX secolo soprattutto aveva già i suoi lunari, primo fra tutti lo «Smèmbar». Nato come foglio volante da parete, adatto per essere affisso dove poteva venire letto più facilmente (in cucina, nella stalla ecc.), il «Barbanera» dal 1793 acquista la nuova forma di libretto, più ricco nei contenuti. Come tutte le cose di grande successo anche questo lunario ebbe molti imitatori come il «Barba rossa» stampato sia a Bologna che a Imola. (zz)

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Il pescatore reggiano. Calendario astronomico agricolo metereologico. Reggio Emilia, Torreggiani e compagno, li 25 ottobre 1848. 64 p. ; 17 cm. Reggio Emilia, BPanizzi (Giorn. Citt. B.310.bis)

Reggio Emilia era specializzata negli almanacchi rivolti ai pescatori, il «Doppio pescatore di Chiaravalle», nato a Milano nel 1787 per opera di Giovanni Tamburini era diventato popolarissimo; verso la metà del XIX secolo (per la precisione nel 1846) il ‘Chiaravalle’ si stabilì nella città emiliana con diverse varianti: «Il pescatore reggiano», stampato per la prima volta nel 1847; «Il Martin pescatore», pubblicato fino al 1941; «Il pescatore di Mancasale», vissuto dal 1899 al 1913 per opera dell’astronomo-contadino Luigi Pinetti che vendeva il suo foglio nelle piazze e nei mercati commentandolo personalmente. Mancasale è una frazione posta a nord del comune di Reggio. Il lunario comincia con il “Discorso astro-meteorologico sopra l’anno 304


Lunari e almanacchi comune 1849”, in cui si enuncia dalle prime righe che “Quantunque al primo riflettere le varie situazioni in cui si troveranno li pianeti nel corso dell’anno 1849, s’abbia qualche ragione di temere gl’influssi del primo malefico, cioè di Saturno, il quale per trovarsi in Libra [segno della Bilancia], casa di sua esaltazione, sarà il dominatore di quest’anno; con tutto ciò, siccome poco o niun conto si può fare su le influenze de’ più alti pianeti, attesa la sterminatissima lor distanza dalla terra, sembra esser debba cosa più vantaggiosa, specialmente per l’agricoltura, rivolgere le metereologiche nostre osservazioni, sopra le mutazioni tutte di tempo che successero allorché si trovava la Luna in tutti que’ precisi punti in cui si ritroverà per tutto il corso dell’anno 1849”. (zz)

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Mirandolano per l’anno 1850. Modena, per gli eredi Soliani, 1849. 1 manifesto ; 70 cm. Mirandola, ACE Al Barnardon

L’editoria lunaristica mirandolese, dal XVIII secolo in poi assai ricca e varia («Il discepolo di Toaldo», «Il giovane Mirandolano», «Il giovane magnano», «La Fenice», «Al Sgatian», «Al Barnardon»), rispecchia le caratteristiche dell’ambiente agricolo a cui peraltro si rivolgeva. Benché stampato a Modena e a Carpi, il «Mirandolano» si diceva provenisse in origine da Mirandola, da cui aveva preso il nome e che aveva fama di aver dato i natali a per­sonaggi dotati di non comuni facoltà, come Pietro Bruschi detto l’astrologo naturale in quanto, pur sprovvisto di qualunque tipo di cultura, era in grado di ‘vedere’ con estrema precisione le lunazioni, le ‘pasque’ e le feste mobili (giorno e mese) di molti anni passati e futuri. Nel 1775 don Giovanni Paltrineri pubblica il primo lunario a Carpi ottenendo tre anni dopo il privilegio di stampa. Così ne parla Tiraboschi: “D. Giovanni Paltrinieri, detto don Duca, sacerdote carpigiano, autore d’un

Il pescatore reggiano, incipit con il “Discorso astrometeorologico”

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lunario che si stampò in Carpi almeno per venti anni consecutivi, dal 1775 al 1794 inclusivamente, e che fu accreditatissimo; nel primo anno della sua pubblicazione così intitolato: «Il gran / Mirandolano / Astrologo / per divertimento / sopra l’anno MDCCLXXV. / Lunario nuovo molto erudito con tutte le / Osservazioni Astronomiche, Proverbj anti/chi, e perpetui giovevoli a tutti, e / veridico sopra ogn’altro, perché / cavato da Libri sapientissimi. / Vi sarà una estrazione tutti i Mesi per i dilettanti / del Lotto di Roma, Modena, Venezia e Milano. / Restano avvisati li Compratori che questo / Lunario non sarà stampato che nella / sola città di Carpi. / E si vende mezzo Paolo. / Nella Stamperia del Pubblico / per Anton-Francesco Pagliari / Con approvaz. de’ Sup.» Nel secondo anno (1776) il frontispizio fu modificato dall’autore come appresso. Mantenne egli il titolo generale, seguito dalla dicitura: «Lunario nuovo che serve anche per gli Ebrei, e / però vi sono li suoi giorni, Mesi, Feste, digiu/ni etc. aperte, e serrate del Banco Giro ed al/tro molto erudito per osservazioni astro/nomiche […]»” Per quanto riguarda il tipografo dice Tiraboschi che Anton-Francesco Pagliari “nome questo finto, annota l’avv. E. Cabassi, essendo in questo tempo conduttori della stamperia il Dott. Giulio Cesare Ferrari, e Floriano Cabassi. Quindi dal 1778 uscì senza designazione del luogo, ove veniva stampato, e colla variante: non sarà dispensato […] che nella sola città di Carpi, a spese dell’Autore […]” (Carteggio fra l’ab. Girolamo Tiraboschi e l’avv. Eustachio Cabassi pubblicato da Policarpo Guaitoli, Carpi, Rossi Giuseppe fu Dionigio co’ tipi Com., 1894-1895, p. 387-388). La vignetta in testa raffigura l’astrologo Mirandolano che, seduto a tavolino con i suoi strumenti, spiega le stelle al contadino e al pescatore. «Al Barnardon» riporta le notizie relative alle feste, alle fiere e alle sagre della ‘Bassa modenese’ e viene alla luce a Mirandola nelle prime settimane del 1879. L’originalità sta nell’averlo concepito e scritto interamente in dialetto. (zz) Cappi-Morselli 1978

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Lunari e almanacchi

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Un nuovo almanacco. Lunario piacentino per l’anno embolismico 1861. Piacenza, dalla tipografia di Francesco Solari, strada alle Tre Ganasce n. 5, [1860]. 80 p. ; 16 cm. Piacenza, BC Passerini Landi (C – Misc. 34 n. 8)

Nonostante il detto “Lünäri piasintein quand l’è nüval al mëtta srein” (lunario piacentino quando è nuvolo mette sereno) anche qui questi libretti erano presenti nelle case e le loro indicazioni venivano seguite con attenzione. A p. 79 comincia il “Discorso generale delle quattro stagioni”: dell’inverno si dice che “è il riposo della terra, il sonno delle piante. Intanto che la vegetazione resta sospesa, o molto rallentata, i succhi si preparano e si digeriscono in terra; per ciò si desidera un inverno freddo e asciutto, con abbondanza di neve e di ghiacci. Ancorché i geli sieno sì strani che uccidono le piante, il che è raro, pure nulla v’è a temere per le radici delle biade, se si trovano al coperto. Hanno osservato, che dove la neve era calcata e gelata i grani e l’erbe facevano meglio. Ciò che è da temere sono i falsi disgeli, e i geli umidi, ma molto più è da temersi un inverno dolce e piovoso”. Ogni mese è preceduto da una piccola illustrazione raffigurante il segno zodiacale che lo governa, seguito dalle solite informazioni, a che ora sorge e tramonta il sole, i santi giorno per giorno, le lunazioni e qualche breve commento sul clima. Nel mese di febbraio si può leggere per esempio che con la luna nuova “Varia ed incostante per lo più passerà la quarta, ma altri giorni indicati sono sereni con forti geli” mentre con la luna piena “tutto ancor influisce per tempo umido e ventoso con nubi vaganti temporalesche”. Il termine ‘embolismico’ che compare nel titolo deriva dal calendario ebraico che non è solare ma solare-lunare e per il quale esistono anni di dodici mesi (semplici) e anni con tredici mesi. Dodici anni semplici quindi che si avvicendano a sette embolismici (dal latino embolismum che significa appunto intercalazione) formando un ciclo diciannovennale che si ripete continuamente. Un altro libretto tipico della zona è Il solitario piacentino, nell’edizione stampata da Niccolò Orcesi nel 1800 (collocazione in Passerini Landi: 18.5.21/19): mese per mese, dopo le usuali indicazioni, sono annotati ‘secreti’ del tipo (per aprile) “Segreto per guarire dal dolore de’ denti e da mali che vengono ai diti”, il cui rimedio infallibile è il seguente:“Si prende in bocca un poco di latte di pecora e si procura di tenerlo nella parte, che duole. Si replica giusta il bisogno. Chi avesse a ciò ribrezzo ponga in vece sulla guancia pannilini inzuppati in detto latte e ne proverà giovamento. Giova pur anche il bagno nel latte di pecora per i mali che nascono talvolta nei diti delle mani”; oppure ancora (nel mese di giugno) “Segreto per far aceto buono in 24 ore: Si prendono tanti boccali di vino, e tante oncie di cremor di tartaro [bitartrato di potassio] quante sono le misure di vino che si vogliono convertire in aceto. I boccali di vino uniti al cremor di tartaro si facciano bollire per mezz’ora circa, quindi così bollente si versano nel vaso entro cui trovasi il vino che vuolsi far aceto. Chiuso detto vaso ermeticamente darà dopo 24 ore aceto formato a tutta perfezione”. (zz)

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125.

Luneri di Smembar per l’ann 1873. Faenza, Tip. Marabini, [1872]. 1 manifesto ; 70 cm. Bologna, BC Archiginnasio (16. Lunari, 81)

È il lunario dei poveracci, letteralmente dei ‘pezzenti’ ed è uno dei più antichi: la notte di Capodanno del 1844-45 nell’Osteria della Marianàza di Faenza dove un gruppo di artisti disegnò e scrisse il ‘primo numero’ improvvisato per pagare le consumazioni all’oste. Non c’era la zirudëla ma un Discorso generale espresso in questi termini: “Benevoli leggitori. Quai vaticini sperate voi possa lasciarvi per l’anno 1845 il nuovo Astronomo, ritrovandosi fra voi qual pellegrino, lontanissimo dai suoi lidi, e privo della sua amatissima Urania!”, seguivano poche previsioni sul tempo e sui raccolti. La vignetta che lo accompagnava, disegnata dal pittore e scenografo Romolo Liverani e incisa su rame da Achille Calzi, rappresentava un uomo vestito di stracci, un cappellaccio piumato e d’aspetto trasandato, che cavalcava un ronzino tenendo in una mano una bandiera recante la scritta “Generale dei smembri” e diretto verso un gruppo di catapecchie, su una delle quali era scritto “Locanda della miseria”. Sulla destra un cippo con l’indicazione “Città dei debiti”. La stampa del foglio – col titolo provvisorio di Lunario per il 1845 – fu affidata alla calcografia-tipografia Marabini, che aveva cominciato la sua attività nell’ormai lontano 1814 con Vincenzo per proseguire con il figlio Angelo, che si distinse anche per la pittura su ceramica, essendosi perfezionato nella locale Scuola d’Arte. Il laboratorio tipografico avrebbe stampato il Luneri per sessantotto anni. Da allora il lunario non ha mai smesso di essere pubblicato e dalle 100 copie del primo numero si arrivò alle 44.000 del 1913; stampato in forma di manifesto per essere affisso e consultato agevolmente, si compone di due parti: nella prima si trova una zirudëla (la ‘zirudella’ è un componimento poetico dialettale tipico della regione, ma soprattutto della Romagna) scritta in romagnolo e illustrata da vignette satiriche. Nella seconda parte si trova il calendario vero e proprio con le feste religiose, i santi, il sorgere e il tramontare del sole, il clima mese per mese e i consigli per il raccolto. Dal 1865 le previsioni astronomiche portarono la firma dello scienziato francese Philippe-Antoine Mathieu de la Drome. Nel 1868 apparvero le prime figurine poste una sotto l’altra ai lati del foglio, generalmente con finalità politico-satiriche. In questo numero la vignetta di testa propone un finto tribunale, dove viene assolto un servitore che ha ucciso il padrone perché lo aveva denunciato per debiti e viene anche liberato un povero – uno ‘smembar’ appunto – che aveva rubato del pane, come spiega la zirudëla. (zz) Casali 2003; Piancastelli 2013

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Lunari e almanacchi

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La dieta di una nazione può rivelare più della sua arte o della sua letteratura. Eric Schlosser Fast Food Nation

Chiunque sa che senza mangiare (e bere) non si vive, ma forse non a tutti è altrettanto chiaro che il cibo è anche un’occasione per incontrarsi, conoscersi, scambiare idee e parole, è insomma un simbolo conviviale di prosperità e di benessere sia fisico che mentale. Come osserva Massimo Montanari riferendosi al termine che dà il titolo a uno dei suoi studi “L’etimologia è evidente: ‘convivio’ da cum vivere, vivere insieme. Nel modo più semplice e immediato la parola propone un’identità fra l’atto del mangiare e quello del vivere. E, veramente, poiché il cibo è la sostanza della vita, ciò che la rende materialmente possibile, esso si presta più e meglio di ogni altra cosa ad essere assunto come metafora dell’esistenza. I due livelli – il materiale e il metaforico – s’intrecciano in modo inestricabile. I due termini dell’equazione – il cibo e la vita – si confondono l’uno con l’altro”. Per questo gli artisti e gli scrittori, sempre attenti all’esistenza in ogni sua sfumatura, lo hanno spesso inserito nelle loro creazioni. Arte e letteratura sono ricche di esempi in questo senso e non solo ora, ma da sempre: basti pensare all’Odissea di Omero, dove si incontrano continuamente pastori, agricoltori, cacciatori; nell’orto dei Feaci nascono e crescono “peri e melograni, meli e fichi dolci, ulivi rigogliosi, una vigna dai molti grappoli, aiuole di erbaggi di ogni sorta” oppure nell’antro di Polifemo “Entrati nella spelonca guardammo meravigliati ogni cosa: erano carichi di formaggi i graticci, erano stipati i recinti di agnelli e capretti: ciascun


Arti e letteratura gruppo era chiuso a parte, da un lato i più vecchi, da uno i mezzani, da un altro i lattanti; traboccavano tutti di siero i vasi ben lavorati, secchi e mastelli nei quali mungeva” per citare solo due dei tantissimi riferimenti. E ancora Dante, nella sua Commedia, affida un ruolo di protagonista al cibo, relegando i golosi in un girone infernale, il terzo o, nel caso dei golosi pentiti, in purgatorio, come papa Martino IV che “purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia” (XXIV, 23-24). Fino ad arrivare, attraversando di corsa i secoli, a Guido Gozzano che amava tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie (Le golose); a Marcel Proust e al sapore e al profumo della madeleine (Dalla parte di Swann): “Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa”. E che dire delle trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana che l’autore di Pinocchio fa ingurgitare al gatto e alla volpe all’Osteria del Gambero rosso? Anche la musica ha scritto pagine significati-

ve sul cibo: Giuseppe Verdi, una volta trasferitosi nella sua tenuta di Sant’Agata, si dedicò con passione all’agricoltura e all’allevamento e proprio qui compose la maggior parte delle sue opere più famose, molte delle quali contengono ripetuti riferimenti: locande, osterie e tavole imbandite ritornano spesso, sia come semplici ambientazioni, sia come luoghi di importanza basilare per lo svolgimento della storia, come nel Falstaff, in Otello e Rigoletto. La Traviata stessa ha in ‘Libiam nei lieti calici’ uno dei suoi punti di forza. Ma anche una figura apparentemente ‘insospettabile’ come il padre francescano Giovanni Battista Martini, che fu anche maestro di Mozart e a cui si deve una delle biblioteche musicali più ricche del mondo, si divertì a dedicare alcune delle sue composizioni alla lieta tavola (Bevi compare, che il vin fa bon fa bon : canone a due all’unisono : n. 6; Stare a tavola, e non mangiare : canone a 3 all’unisono : n. 17; A me piace di vivere, mangiar, dormir e bevere : canone a 3 all’unisono : n. 19; Quando io bevo, e mangio : canone a 3 all’unisono : n. 2. I manoscritti si trovano al Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna). La scelta che segue intende proporre sia opere (non di pittura ma della più sommessa arte incisoria) di artisti conosciuti quali Annibale Carracci e Giuseppe Maria Mitelli o pagine di scrittori come Giovanni Pascoli e Marino Moretti, ma anche nomi meno usuali che però riserveranno sicuramente più di una sorpresa. (zz) 311


126.

Anonimo bolognese (sec. XVIII)

Monache di Bologna. Opere manuali che si eseguono nei monasteri delle monache esistenti a Bologna. Ms. cartaceo; [41] c., mm 215x155; sec. XVIII in.; penna e acquerello policromo. Frontespizio costituito da un sonetto. Bologna, BC Archiginnasio (ms. B. 3574)

Sotto di questi nove Primicerij militan li ventotto monasterij. Ms. cartaceo; [37] c., mm 199x141; sec. XVIII in.; penna e acquerello policromo. Frontespizio, cui segue un altro foglio con un sonetto e un terzo foglio dove sono riuniti gli stemmi dei nove ordini cui appartenevano i monasteri. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (inv. 334-371)

Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Vitale. Fanno queste marene siroppate, / Dalli poveri infermi sì bramate. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Giovanni Battista. Fanno queste de pesci zuccarini / Con ingredienti buoni, rari, e fini. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Catterina. Non fan di singolar, che zuccarini / Buoni da dar per spasso a i cagnolini. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Bernardino. Bon zucchero rosato in tavolette / Fan queste religiose benedette. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.)

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Queste due raccolte di immagini documentano in maniera aggraziata ed efficace l’intensa attività delle monache bolognesi in campo gastronomico e farmaceutico, settore per il quale si ponevano in diretta concorrenza con le spezierie vere e proprie. La struttura dei due opuscoli è la stessa: dopo le parti preliminari, seguono gli acquerelli – palesemente di mano diversa – raffiguranti le monache intente alle loro attività: ogni immagine è sormontata dal nome del monastero, in basso si trova un distico esplicativo; a fronte sono annotati i dati relativi all’epoca di fondazione e altre eventuali notizie. Qui sono rappresentate le specialità delle monache appartenenti a ciascuno dei ventotto monasteri esistenti all’epoca in città. Entrambi i libretti hanno però subito un rimaneggiamento con successiva ricomposizione: nell’esemplare dell’Archiginnasio sono state aggiunte tredici immagini relative all’ordine delle terziarie regolari, mentre quello delle Collezioni di S. Giorgio in Poggiale contiene nove immagini riguardanti monasteri vari, anche non bolognesi. Quella delle monache era una presenza silente: esse non uscivano, come facevano invece i loro confratelli, per raccogliere offerte o per predicare e ciò le rendeva invisibili, e spesso gravemente indigenti. Queste attività costituivano quindi per loro un notevole ausilio economico. Con la soppressione napoleonica e con quella successiva all’unità d’Italia, la gran parte dei monasteri femminili scomparve, spesso senza nemmeno lasciare traccia. I due libretti sono anche un documento che attesta l’esistenza e l’ubicazione di luoghi di cui altrimenti non resterebbe neppure il ricordo. Dove ora sorge il Mercato Coperto di via Ugo Bassi, per esempio, vi era il monastero dei SS. Gervasio e Protasio (Vin d’Amarene fan per gl’a-


Arti e letteratura

Le monache claustrali di Bologna Il sonetto introduttivo dei due libretti è esplicativo: In Bologna di Monache Claustrali Vi sono ventiotto Monasterj, Dove, o sforzatamente, o volontieri, Son rinchiuse, e fan opre manuali. Ve ne sono, che fan tutt’ i Mestieri, Altre fan dell’Unguento per de mali, Altre fan essercizj dozzinali, Ed’ altre fan de belli Lavorieri. Chi fa’ fiori, chi paste, e chi Conserve, Chi frutti, Santi fa, e chi Corone, Che poi fanno esitar dalle lor Serve. Vi son di quelle, che fan del Sapone, Dei Zuccherini poi delle caterve, Fan tutte in somma qualch’operazione.

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malati / Del qual ne gustan anche gli svogliati); il monastero di S. Maria Nuova (Fan Mortadella in fette tanto piane / Che sembra vera, ed’è di Marzapane) fu distrutto per costruire la “Manifattura tabacchi” di via Riva di Reno; il monastero di S. Maria Maddalena sorgeva fra via Galliera e via Indipendenza dove poi fu costruito il teatro Arena del Sole (Fan queste delicati Tortiglioni, / E i buoni vaglion quasi due Testoni); il monastero della Ss.Trinità, fra via S. Stefano e via Orfeo, non c’è più: ora è sorto un albergo chiamato “Il Convento dei fiori di seta”, un omaggio alle monache gesuate che lì vissero e che, per poter contare su qualche entrata, realizzavano fiori di seta di ottima fattura (Son belli i di lor fiori, e son rari, / Galanti, e naturali; ma son cari); il monastero di S. Lorenzo, all’angolo fra via Castellata e via Castiglione fu sostituito da un complesso di abitazioni civili (Di Cotogne fan gelo delicato / Da Dame, e Cavaglieri assai stimato). E la cotognata, o confettura di cotogne, doveva essere veramente una specialità di Bologna se il giureconsulto belga Franz Schott, nel suo Itinerario overo nova descrittione de viaggi principali d’Italia (versione italiana stampata a Vicenza da Francesco Bolzetta nel 1622), scritto utilizzando il materiale raccolto dal fratello Andreas, dichiara (a c. 77v): “Fanno una conserva di cotogne e di zucchero chiamata gelo, degna d’esser posta alle tavole di re”. Quasi un secolo dopo il missionario domenicano Jean Baptiste Labat, nel resoconto dei suoi viaggi (Voyages en Espagne et en Italie, Amsterdam, aux dépens de la Compagnie, 1731, II vol., c. 189v-190r) scrisse a proposito della sua visita a Bologna compiuta nel 1706: “La città di Bologna fa ancora un notevole commercio di mele cotogne, o gelatina di mele cotogne. Questi frutti vengono meravigliosamente in questo territorio, e in questo caso, come in qualsiasi altro paese, sono infinitamente migliori cotti che crudi; si è constatato che il modo migliore per trattarli è quello di ridurli in gelatina. Le monache si piccano di superarsi a vicenda in questo dolce manufatto, e nella composizione di pasta di frutta, non risparmiano muschio e ambra”. Luigi Alberto Gandini (v. box p. 213) nel suo saggio Tavola, cantina e cucina della Corte di Ferrara nel Quattrocento, a p. 61 spiega che “Il Muschio doveva servire a dare fragranza a certe confezioni di zucchero che […] chiamavansi oldani di zucchero muschiadi” e chiarisce poi in nota che “Nell’Opera Salerinitana Circa instans […] trovo = Muscata erba est que simili nomine appellatur quia odorem musce … nascitur locis sablosis”. L’erba chiamata “muscata” perché odora di muschio e cresce nei luoghi sabbiosi, dovrebbe essere il Geranium columbinum o l’Erodium muschiatum. (zz) Fanti 1972 314


Arti e letteratura

Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Maria Maddalena. Fan Tortiglioni così delicati, / Ch’esquisiti, e rari son stimati. (Bologna, BC Archiginnasio) Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Margherita. Queste fan Rose finte e sono tali, / Che sembrano ad’ogn’uno naturali. (Bologna, BC Archiginnasio) Anonimo Bolognese, [Monastero dell’] Abbadia. Mandan di Lombardia, e di Romagna / Per comprare da queste Pan di Spagna. (Bologna, BC Archiginnasio)

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Arti e letteratura

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Giuseppe Maria Mitelli (Bologna, 1634 – 1718)

Di Bologna l’arti per via d’Anibal Ca.raci. Disegnate, intagliate, et offerte al grande, et alto Nettuno Gigante Sig. della Piazza di Bologna da Gioseppe M.a Mittelli. Roma, Gio[vanni] Giacomo Rossi, 1660. – 40 stampe : acquaforte ; mm 282x197 Bologna, BC Archiginnasio (Fondo Gozzadini)

L’arti per via, serie di 40 tavole, più il frontespizio non numerato, incise all’acquaforte da Giuseppe Maria Mitelli, parzialmente d’après disegni di Annibale Carracci, dopo la mediazione realizzata a Roma (1646) dal francese Simon Guillain, rappresenta uno dei più felici esiti della Scuola grafica Bolognese, data la filiazione dai “disegni fatti al naturale per ischerzo” di Annibale e la inconfondibile cifra stilistica delle prove grafiche. L’edizione di Giuseppe Maria, nota in tre stati di cui, in questa sede, si propongono tavole appartenenti al primo, è un vero e proprio progetto di valorizzazione e diffusione di tutte le “arti piazzarole” che si svolgevano in quel teatro di incontri e commerci umani che era la Piazza di Bologna, al cui nume tutelare, il “Grande et alto Nettuno” l’artista dedica i fogli augurandosi che i “cittadineschi commerci” ivi raffigurati possano godere di “qualche durabile qualità”. La fortuna iconografica della serie, continuata sino al secolo scorso, dimostra che i voti del Mitelli furono accolti, a partire dalla quasi coeva ripresa in controparte per mano di Francesco Curti (1646) proseguendo con ristampe e d’après realizzati con vari media grafici per giungere, nel Novecento, anche al tascabile formato cartolina edito dal bolognese Giovanni Mengoli. Il frontespizio della serie, con una sintetica veduta di Bologna, è una sorta di ‘manifesto programmatico’ dell’opera composta di tavole di identico impianto con la figura del venditore in primo piano, collocata su un fondo appena accennato, ben connotata da pochi, essenziali elementi atti all’identificazione del mestiere, cui alludono le quartine a rima alternata poste in calce a ogni figurazione (unitamente al numero della tavola e alla firma dell’incisore). Immagini icastiche di popolani giovani e vecchi, un’unica donna, l’Ortolana (v. p. 114) con una grande cesta ricolma sulla testa, campeggiano su pochi tratti di fondo; due gatti famelici rispettivamente intenti a spolpare un avanzo e a tentare di spiccare un salto verso le carni appese alla pertica del Garzone di macellaio, trasformano quest’unica tavola in una piccola scena di genere, come nel caso del fanciullo che si rivolge al giovane Venditore di frutta. Se L’arti per via è una sorta di compendio delle arti bolognesi “piazzarole”, un vero e proprio sunto delle specialità gastronomiche italiane, è dato dai riquadri che compongono il Gioco della cucagna che mai si perde e sempre si guadagna (v. pag. 266-267), inciso da Mitelli nel 1691. Una sorta di manifesto ante-litteram, e in forma di gioco con premio finale, di quelle che oggi chiamiamo ‘le eccellenze’ della nostra nazione. Viatico grafico per intraprese gastronomiche consapevoli dell’eredità del passato. (gb) Buscaroli 1931; Bertarelli 1940; Varignana 1978

Anonimo Bolognese, [Monastero di] S. Maria Nuova. Fan Mortadella in fette tanto piane, / Che sembra vera, ed’è di Marzapane. (Bologna, BC Archiginnasio) 317


scaroli,

1931, p. 53, cit. 6; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 402, cit.133; Varignana, 1978, p. 219, cit. 39 Vignaiolo

Questo cibo che è un nettare divino, / mi risulta in ben utile guadagnato, / Se il pane, e l’vin politico fachino, / l’uve di Bacco à becolar sparagno. / 8 Bartsch, XIX, 1819, p. 304, cit. 156; Bertarelli, 1940, p. 50, cit. 256; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 8; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 431, cit.156; Varignana, 1978, p. 209, cit. 8 Trippaio

Cade svenato il setoloso armento / Sotto ferro crudel vittima essangue, / Et io nel suo morir pescai contento / La mia fortuna entro d’un mar di sangue. / 11 Bartsch, XIX, 1819, p. 303, cit. 143; Bertarelli, 1940, p. 51, cit. 259; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 29; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 418, cit. 143; Varignana, 1978, p. 210, cit.11

Di Bologna l’arti per via, 8. Vignaiolo

Le ‘arti per via’ del cibo Venditore di cacio

Vieni: di questo cacio havrai buon saggio, / Se vorrai saporir dolci bevande / Se vorrai regallar, condir vivande, / Non ti dispiaccia il piacentin formaggio. / 3 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Maria Mitelli, cit. 145; Varignana, 1978, p. 207, cit. 3; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 426, cit.145 Venditore di fegati e teste di pollo

Questa mano, che il fegato rivende, / Sempre mostrossi a strangolare ardita, / Ch’onorato carnefice pretende / Con l’altrui morte assicurar sua vita, / 5 Bartsch, XIX, 1819, p. 302, cit. 133; Bertarelli, 1940, p. 52, cit. 266; Bu-

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Venditore di crivelli

Eran dovuti à tanto venditore / sol questi leggierissimi crivelli: / ‘A crivellar de la farina il fiore, / Dovea vender il fior de farinelli. / 12 Bartsch, XIX, Giuseppe Maria Mitel‑ li,1819, cit. 122; Varignana, 1978, p. 210, cit. 12; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 397, cit. 122 Garzone di Macellaio

Se ne darai ad ogni gatto un taglio, / Soldi non conterai per esser matto, / Avvien così ch’un semplice sonaglio / Sia liberal proveditor del gatto. / 16 Bartsch, XIX, 1819, p. 303, cit. 138; Bertarelli, 1940, p. 52, cit. 264; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 31; TIB, 42,(19, Part 2), 1981, p. 413, cit. 138; Varignana, 1978, p. 211, cit. 216


Arti e letteratura

Ciambellaro

Il comprar le ciambelle è buona usanza, / d’aniso d’oglio di bottro e d’uova, / Non solo il companatico s’avanza, / ma il comprator l’enconomia ritrova. / 17 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 126; Varignana, 1978, p. 212, cit. 17; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 401, cit.126 Venditore d’oggetti di vetro

La sorte maledetta ad’ogni modo / Sempre cercò perseguitarmi adietro: / Ch’io già mai non sarò mercante sodo, / s’il capital m’assicurrò sul vetro. / 19 Bartsch, XIX, Giuseppe Maria Mitel‑ li, 1819, cit. 153; Varignana, 1978, p. 212, cit. 19; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 428, cit.153 Scortica agnelli

Se con costui, che affaccendato vedi / Scannar capretti, e scorticar agnelle, / Praticherai, perderai sempre, e credi / Con tuo dolor ci lascerai la pelle. / 20 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 145; Varignana, 1978, p. 213, cit. 20; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 426, cit.145

Piaporco (portatore di maiali uccisi)

Trionfò su’l gran fianco Ercole avvinto / Lo spoglio de l’ucciso empio leone. / Io, portando su’l dorso un porco estinto, / Vuò trionfar de l’uccisor d’Adone. / 21 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 135; Varignana, 1978, p. 213, cit. 21; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 410, cit. 135

Di Bologna l’arti per via, 22. Venditore di frutta

Venditore di frutta

Vi giuro afè da venditore agreste, / Ch’io vuò lasciar questo mestiere infame, / Poiché deggio quali asino da ceste / Altrui dar cibo, et io morir di fame / 22 Bartsch, XIX, 1819, p. 169, cit. 146; Bertarelli, 1940, p. 52, cit. 270; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 7; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 421, cit. 146; Varignana, 1978, p. 213, cit. 22

Di Bologna l’arti per via, 5. Venditore di fegati e teste di pollo

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Concia grano

Non si può già col piede, e con la mano / Essercitar più bel mestiere al mondo; / Scuoto la destra a crivellare il grano, / Godo col piè a calpestare il Mondo. / 26 Bartsch, XIX, 1819, p. 303, cit. 139; Bertarelli, 1940, p. 52, cit. 279; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 16; TIB, 42,(19, Part 2), 1981, p. 414, cit. 139; Varignana, 1978, p. 215, cit. 26 Venditore di cipolle

O come bene al tuo valor vicino / D’egual mestier ti favorì la sorte; / Non può trovar mecanico fachino / Dele cipolle un capital più forte. / 28 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 150; Varignana, 1978, p.215, cit. 28; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 425, cit. 150 Di Bologna l’arti per via, 36. Brentatore

Acquaiolo d’acqua del Reno

Lieto men vado à le marmoree Sponde, / Del mio gran Nume in s’ul felsineo Reno; / Vè con sorgente limpida de l’onde / Mi piove il mio Nettun le grazie in seno. /23 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 128; Varignana, 1978, p.214, cit. 23; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 403, cit. 128 Ortolana

Gridando va quest’ortolana avara, / Chi vuol de l’odorifera insalata; / Se di comprarne un galant’uom prepara, / La fa pagar carissima salata. / 24 Bartsch, XIX, 1819, p. 169, cit. 144; Bertarelli, 1940, p. 52, cit. 272; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 33; TIB, 42,(19, Part 2), 1981, p. 419, cit. 144; Varignana, 1978, p. 214, cit. 24

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Venditore di pane e bevande

Tanto è leggier di questo pane il pondo, / quanto è dolce la prossima bevanda: / Dica chi vuol non si ritrova al Mondo / più nobile mestier di chi commanda / 35 Bartsch, XIX, 1819, p. 301, cit. 119; Bertarelli, 1940, p. 53, cit. 283; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 36; TIB, 42,(19, Part 2), 1981, p. 394, cit. 119; Varignana, 1978, p. 218, cit. 35 Brentatore

Il mio tergo non mai curvato in arco / Mostrò dal faticar d’essere stracco / Chi non torrebbe in così dolce incarco / A’ sostentar la deità di Bacco? / 36 Bartsch, XIX, 1819, p. 303, cit. 136; Bertarelli, 1940, p. 53, cit. 284; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 17; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p.411, cit. 136; Varignana, 1978, p. 218, cit. 36


Arti e letteratura

Pescatore

Costui, che per pescare al mondo nacque, / e de l’onde e de pesci è scherzo e gioco. / Ne giammai depredar potrà ne l’acque, / ch’Inventor de le reti è il Dio del fuoco. / 37 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 129; Varignana, 1978, p.218, cit. 37; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 404, cit. 129 Anisaro e solfarolo

Fermati, che farai poche facende, / se corto và sempr’è più bello il gioco; / Costui che l’acqua d’aniso rivende, / ti vincerà la mercanzia del fuoco. /38 Bartsch, XIX, 1819, Giuseppe Ma‑ ria Mitelli, cit. 147; Varignana, 1978,

p. 219, cit. 38; TIB, 42, (19, Part 2), 1981, p. 422, cit.147 Venditor di mele e pere cotte

A’spasso il giorno: e che sarà fortuna? / S’a un venditor di poma, e pere cotte, / il Ciel promette à lo splendor di luna, / Se perde il giorno, il guadagnar la notte. / 39 Bartsch, XIX, 1819, p. 302, cit. 127; Bertarelli, 1940, p. 53, cit. 287; Buscaroli, 1931, p. 53, cit. 12; TIB, 42,(19, Part 2), 1981, p. 402, cit. 127; Varignana, 1978, p. 219, cit. 39

Di Bologna l’arti per via, 39. Venditore di mele e pere cotte

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Arti e letteratura

128.

Giovanni Sabadino degli Arienti (Bologna, 1445 ca. – 1510) Hymeneus Bentivolus. Ms. membranaceo ; sec. XV ultimo quarto; 76 c.; mm 270x183. Bologna, BC Archiginnasio (Ms. B 4603)

L’Hymeneus Bentivolus, dedicato da Giovanni Sabadino degli Arienti (nel 1487) a Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna, per le nozze del figlio Annibale con Lucrezia d’Este, figlia di Ercole I duca di Ferrara, contiene, oltre al resoconto cronachistico dello sfarzoso matrimonio, anche un catalogo dei cibi offerti agli invitati. Un pranzo tra i più sontuosi del Rinascimento che permette di conoscere le vivande in uso all’epoca negli ambienti privilegiati e le elaborate liturgie di servizio (tra spettacolo di corte e festa teatrale ricordati dall’autore con puntigliosa esattezza) per un totale di ventidue portate precedute tutte da ‘rappresentazioni’. Dopo le bacinelle d’argento piene di acqua ‘odorifera’ per sciacquare le mani e la preparazione delle mense “parate de rense [tele di lino] tovaglie candidissime” si passa alla prima vivanda per la quale “portarono al suono di tube in confettiere de argento pinochiati [pinoli] grandi in più maniere dorati, et zalde cum zucharo: et malvasia garba dolce & moscatello in tazze” posate sulle mense dai sescalchi [cerimonieri] riccamente vestiti. Mentre i commensali “così in questo dilecto stando ecco sonare le tube et venne li scuderi cum li suoi sescalchi avanti cum XXVI ceste coperchiate pinde alla divisa […] Che ciascuna era portata solennemente da dui scuderi per mensa: il le quale erano cum ordine rensi tovaglioli: taglieri: sale in argento: coltelli: & candido pane” cui segue la seconda vivanda a base di maiale e selvaggina (tordi, quaglie, tortore, galline padovane) e salsiccia di fegato condita con spezie, grosse olive e altre cose. Si susseguono le vivande, sempre più ricche: la quinta per esempio è costituita da “lesso di capuni: capretti: vitello e pipioni [giovani colombi] et salame di più sorte cum sapore bianco” preceduta da una rappresentazione di “porchi spinosi vivi”. La sesta fu un trionfo di pavoni cotti ‘vestiti’ in vasi dorati ornati di fiori. E poi ancora per l’ottava vivanda furono portate lasagne con una rappresentazione di “uno vivo capriolo: et una lepre: et cum dui agnolotti spagnoli: li quali animali erano in uno adornato vaso de fronde: rose: et fiori: et viole: il quale in mensa aprontato: ello se aperse: et fuori usì il capriolo: la lepre et li cagnoli: et sopra il tribunale [la tribuna approntata per il dopocena] cum piacere et riso de li astanti conrerono poi fu in argento portato el grosso arosto per la nona vivanda de capuni: fasani: capretti: vitello: et pernice” il tutto preceduto dalla rappresentazione con fagiani cotti vestiti “cum foco in bocha che come lucerna brusava”, via via fino alle ultime vivande di frutta, torte di marzapane e dolci vari. Infine “levate le mense fu spatiata la grande sala cum octo granate che havevano li manichi dorati, et gerlandole busso che due hore de notte erano sonate. Et in questo prandio cominciato ad hore XVIII se consumò septe hore di tempo”. Insieme alla narrazione del banchetto e a molte altre notizie l’importante

Giovanni Sabadino degli Arienti, Hymeneus Bentivolus, c. 1r miniata 323


documento riporta la descrizione del palazzo dei Bentivoglio distrutto dai bolognesi nel 1507. Questo splendido manoscritto autografo redatto da Sabadino probabilmente proprio per il Bentivoglio (la copia destinata ad Ercole d’Este si trova ora alla Biblioteca Palatina di Parma) e appartenuto alla fine del ’500 al giurista bolognese Annibale Monterenzi, dopo alterne vicende è ritornato a Bologna una decina di anni fa, acquisito grazie allo sforzo congiunto della Biblioteca dell’Archiginnasio e della Soprintendenza per i beni librari e documentari dell’Istituto regionale per i beni culturali. Insieme ad esso tornò anche un altro codice sempre di Sabadino, il Quoloquium ad Ferrariam urbem splendidissimam pro coniugio inclytissimae Lucretiae Borziae in Alfonsum primogenitum Ducalem Estensem Illustrissimum nell’esemplare stesso che probabilmente fu offerto a Lucrezia Borgia quando il 28 gennaio 1502 sostò a Bologna nel corso del suo viaggio verso Ferrara per celebrare le nozze col principe Alfonso d’Este. Secondo una popolare ‘leggenda metropolitana’ furono i biondi e lunghi capelli di Lucrezia ad ispirare le altrettanto famose tagliatelle. (zz) Bacchelli 2004

Per l’incoronazione dell’imperatore

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L’incoronazione di Carlo V d’Asburgo, con la presenza del pontefice Clemente VII dall’autunno del 1529 ai primi mesi del 1530, fu particolarmente impegnativa per Bologna. Vennero interpellati i più valenti architetti, artisti, pittori, artigiani per fabbricare le strutture e allestire gli apparati, che dovevano imitare pietre e marmi preziosi. Le strade furono addobbate a festa e coperte di veli tesi fra le facciate delle case. Bologna si trovò al centro di un avvenimento storico di portata internazionale, scelta perché era la città più importante dello Stato pontificio dopo Roma e soprattutto per evitare la presenza di Carlo V e dei suoi soldati a Roma (erano trascorsi solo due anni dal terribile saccheggio). Dopo aver ricevuto la corona ferrea come re d’Italia il 22 febbraio nella cappella del Palazzo pubblico, due giorni dopo, in concomitanza con il suo compleanno, fu incoronato imperatore dal pontefice in s. Petronio. Nella piazza antistante (l’odierna piazza Maggiore) venne costruito un palco sopraelevato collegato con un lungo ponte che raggiungeva un’apertura praticata sulla facciata del Palazzo all’altezza del piano nobile, per consentire a Carlo V e al suo seguito di accedere direttamente alla chiesa dagli appartamenti a lui riservati. Fu tale la ressa che, appena fu passato Carlo V, il ponte crollò, provocando morti e feriti. Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, oltre che alchimista, astrologo, esoterista e filosofo fu anche lo storiografo dell’imperatore e quindi ebbe modo di assistere alla cerimonia di incoronazione. E dovette restare così colpito dalla grandiosità dei preparativi che li descrisse minuziosamente nella sua relazione (c. H7v): “Mentre nel tempio si svolgeva la cerimonia, nella piazza antistante venivano erette due colonne di marmo sulle quali poggiavano una enorme aquila bicipite [simbolo dell’imperatore] e ai lati due leoni dorati [simbolo della città], i quali facendo le funzioni di rubinetti, mentre si svolgeva la cerimonia per tutto il giorno e fino a notte fonda, versavano ininterrottamente vino bianco i leoni, vino rosso l’aquila; lì accanto invero, un bue ‘troiano’ con corna e unghie dorate, farcito di piccoli animali quadrupedi e volatili [selvaggina] cuoceva confitto in un lunghissimo e robustissimo spiedo. Dalle finestre piovevano pani artolagani [impasto del pane con latte, olio, strutto, pepe, sale e vino], focacce, brachiole [gli odierni brezel?] e biscotti e poi frutta varia, mele, pere, castagne, noci, nocciole incrostate di zucchero [confetti], mandorle, coriandoli [semi in genere rivestiti di zucchero] e molte altre cose”. Da: Orationes X quorum catalogum versa exhibebit pagella. Eiusdem de duplici coronatione Caroli V Caesaris apud Bononiam, historiola. Eiusdem, ac aliorum doctorum uirorum epigrammata. Coloniae, excudebat Ioannes Soter, 1535. [76] c. ; 8°. – Segn.: A-I8 L4. Esemplare posseduto dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia (con collocazione: 17.I.581.1)


Arti e letteratura

129.

Tiberio Pandola (Piacenza, sec. XVI)

Il famoso Convito così delle Giostre come del Banchetto, che lo Illustrissimo et Eccel. S. Duca di Piacenza & di Parma, ha fatto nella mag. città di Piacenza nello anno MDLXI. In Milano, dalla stampa di Francesco Moscheni, 1561. [12] c. 4°. – Segn.: A-C4. Piacenza, BC Passerini Landi (C – Libri Pallastrelli 501. Prov.: Bernardo Pallastrelli)

Notaio piacentino, esercitò la professione dal 1530 al 1575. Il suo vero nome era Tiberio Francesco Maruffi, ma adottò il cognome Pandola quando subentrò nello studio notarile di Giulio Cesare Pandola. Letterato e scrittore apprezzato, fu membro dell’Accademia degli Ortolani, riferimento utile per capire la personalità di questo originale autore: sotto questo modesto nome passa l’unica associazione piacentina conosciuta, “graziosa e scandalosa ad un tempo” la definisce Cristoforo Poggiali (Storia letteraria di Piacenza, 1789, p. 225): basti accennare alla scelta dell’insegna – la “falce di Priapo” – con il motto “Se l’humor non vien meno”. Uno dei fondatori fu il piacentino Ludovico Domenichi umanista, traduttore, editore, poligrafo, bibliografo ed erudito che per giustificare lo spirito goliardico dell’Accademia scrisse nel suo Dialogo delle Imprese (Lione, 1574, p. 239): “non posso passare con silenzio un’altra Accademia, la quale più per burla, che per altro fine, l’anno 1543 fu da alcuni svegliati intelletti ordinata in Piacenza, la quale Accademia era posta sotto la tutela e protettione del Dio degli Horti [Priapo appunto]: e perciò gli Accademici in pubblico si chiamavano gli Hortolani ma in privato poi havevano altro nome. E benché, come io ho detto, questa Accademia fosse per giuoco e per riso ordinata dai giovani huomini e lieti, spendevasi però molto onoratamente il tempo, e con grandissimo profitto di chi conversava. Per ciò che vi si leggeva filosofia, logica, rettorica, poesia latina e toscana, e vedevansi di spesso comparire dottissime fatiche nell’una e nell’altra lingua”. Gli Accademici usavano portare nomi prettamente orticoli e anche le loro opere facevano riferimento ai prodotti della terra: il Porro si occupò De’ buoni e de’ cattivi sapori degli ortaggi, il Mentolone Della menta e delle sue virtù, il Semenza Del tempo di seminare e di raccorre i semi; il Popone De’ migliori terreni e paesi e dei coltivatori de’ poponi; il Citriolo Dell’utile e del danno che recano i frutti; il Cardo Delle digestioni, della natura delle complessioni, a cui sieno i cardi aggradevoli; il Carota Del modo di piantar l’erbe; il Radice Delle radici buone innanzi, e dopo il pasto giovevoli allo stomaco. L’atteggiamento sempre più licenzioso e spregiudicato degli iscritti attirò le ire delle autorità – soprattutto dei Farnese – e nel giro di un paio d’anni l’Accademia finì coll’“andare in fieno”, come scrisse Doni. 325


L’opuscolo contiene il racconto che Pandola fece del banchetto con giostre organizzato durante il carnevale del 1561 dal duca Ottavio Farnese per “farsi vedere cavaglieri nelle publiche giostre & abbattimenti, & quelle [signore] con questi, & con altri honoratissimi giovani nelle vaghe feste onestissime nella sua città qui di Piacenza carolare, o per dire altramente, ballare & dansare”. Tre pagine sono dedicate al pranzo, apparecchiato in modo che i convitati possano comunque godere delle danze e delle musiche. Giovani piacentini portano bacili d’argento fregiati d’oro nelle stanze delle dame perché possano lavarsi le mani prima di scendere nel salone del Palazzo gotico (‘il dolce Paradiso’ lo definisce il Pandòla): “Hor così assentati quelle matrone, & quei gran signori serviti sempre da que’ più honorati giovani della città cominciarono a mangiare le insalate, che di diversi fiori erano lavorate, le quali da piatti ventiquattro erano servite, computate doi tavole in un’altra sala adornata per diversi conti, & altri signori della città, che in quello istesso punto erano serviti, nelle quali insalate furono a piatti ventiquattro, come ho detto. Latuca, capparini piccoli, cipolle cotte, mescolanza, cicoria bianca, rampungi, radici di cicoria, carrotte, radici cotte, broccoli, cedro con acqua rosa & zuccaro, raffani alla ongaresca, fiore di cavoli, spargi, radici crude, olive spaccate, radici di bieta cotte, ramolazzi”. Segue l’elenco dei ‘pesci & salami’ che accompagnavano le verdure; al termine i piatti vengono tolti dai ventiquattro siniscalchi addetti a questo servizio. Segue una fila impressionante di portate a base di carne: fagiani, starne, quaglie, tordi, galline d’India, pavoni, ortolani, capici a bastanza, lepri, porco selvatico, prosciutti, guance, salami e poi ancora tortore, quaglie, lodole, piccioni, lingue di vitello addobbe con le reti, tette di vacca addobbe, pasticci in gatteau pure con carne, pasticci sfoggiati, torte di cedro, torte di polpe di capponi, bianco mangiare, gelatina di pesci con carne sotto, gelatina di carne con lamprede e carpioni sotto, il tutto accompagnato ancora da fasoli, lenticchie, agli, cipolle, navoni, cavoli, cardi mondi, castagne, tartoffili e molto altro ancora. E per concludere i dolci: “castelli di struffoli, frappoli, olive bolognesi, lattemiele, cannoncini, biscottelli veneziani, zucharine, noci, mandorle, pignoli pelati, pistacchi, pome rosse, calde e diverse, pere garavelle e bergamotte, pome e pere guaste [cotte nel vino], ricotta con zucaro & acqua rosa, butirro con zucaro fatto con salvieta, torte alla senese, torte di pasta di marzapane, torte di pome, pastici di tartuffi e di cardi, cardi con pepe e sale, carcioffoli, castagne cotte con vino, marzolini, provature, formaggio piacentino, fenocchio, pastici di melangole, lavori diversi di pasta”. Finita la cena “& date l’acque ninfate e muschiate alle mani furono rappresentati su le tavole per compartimento eguale ventiquattro arboscelli di viva mirtella su i rami della quale in gran coppia erano stecchi di legno di diversi intagli lavorati, & favori di fiori similmente di diverse sete & d’oro & d’argento adornati, & arricchiti; de i quali tutti que’ signori, & quelle signore, & le altre gentildonne con tutti quelli & quelle altri che si ritrovarono alle mense, poi finalmente se ne accomodarono”. Dopo questo le signore si ritirano nelle loro stanze per rinfrescarsi prima del ballo che proseguirà fin verso mattina. Pandola, con la consolazione di un unico “carcioffolo condito che mi fu porto” nello stomaco, chiude il racconto con una serie di Stanze fatte per recitare in forma di mendico, che poi non si recitarono. (zz) Maylender, IV, 146-149 326


Arti e letteratura

130.

Giulio Cesare Croce

(San Giovanni in Persiceto, 1550 – Bologna, 1609) Canzone sopra la Porcellina che si tra giù del Palazzo dell’illustre città di Bologna per la festa di S. Bartolomeo con tutti gli trattenimenti di detta festa. In Bologna, per Alessandro Benacci, 1584. [4] c. 8°. – Segn.: A4. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (F. Storici 851.5 Cro Can Caveau)

“Alla bona Porcellina” è il ritornello che accompagna le strofe di questa operetta dedicata alla festa della porchetta che si celebrava ogni anno a Bologna il 24 agosto, giorno di s. Bartolomeo, alla presenza stupefatta di “villani, & altre gente”. La partecipazione popolare è resa con grande efficacia soprattutto nel momento del lancio della porchetta, ripiena di spezie, dal balcone del Palazzo pubblico: “chi gli schianta via vn ciampetto / chi gli tira via la testa /chi gli straccia il busto el petto / chi alla pancia fa la festa …”. La prima edizione della Canzone, che ha visto la luce nel 1584 ad opera del tipografo bolognese Alessandro Benacci, è assai rara; oltre all’esemplare posseduto dalla British Library, nel nostro paese è noto soltanto l’esemplare della Biblioteca d’arte e di storia di San Giorgio in Poggiale, acquistato nel 2008 dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna presso una libreria antiquaria milanese. Il frontespizio è ingentilito da un riquadro entro cui sono racchiusi il titolo e la vignetta xilografica raffigurante la porcellina di profilo, circondata da un ramo con foglie di quercia e ghiande. La festa della porchetta è cara al cantastorie: oltre a questa Canzone – che viene più volte impressa, ad esempio da Bartolomeo Cochi e dai suoi Eredi, nonché dall’Erede del Cochi con il titolo Bargielletta; sopra la Porcellina; che si trà giù del Palazzo – si possono citare La vera historia della piaceuoliss. festa della Porchetta, che si fa ogn’anno in Bologna il giorno di s. Bartolomeo, stampata a Bologna nel 1599 dagli Eredi di Giovanni Rossi e L’eccellenza, et trionfo del porco (Ferrara,Vittorio Baldini, 1594), opera divisa “in cinque capi” in cui alla fine del quarto è narrato il trionfo della porcellina. Croce collega l’origine della festa al ricordo della conquista bolognese nel 1281 di Faenza, grazie a Tibaldello de’ Zambrasi fintosi pazzo dopo essere stato derubato di una porcella dai Lambertazzi esuli nella cittadina romagnola. Per s. Bartolomeo un’intera comunità, pur se divisa in classi, ritrova una sorta di unità e un luogo comune nella piazza trasformata in un teatro di grandi dimensioni, come mostrano le stampe coeve e le miniature della celebre serie documentaria delle Insignia degli Anziani consoli, conservata all’Archivio di Stato di Bologna. (rc) Le stagioni di un cantimbanco, n. 87 327


131.

Giulio Cesare Croce

(San Giovanni in Persiceto, 1550 – Bologna, 1609) Intrichi, rumori, chiacchiare, viluppi, fracassi, che si fanno nella città di Bologna al tempo delle vendemie, nel condurre l’vue nelle castellate, e nel fare i vini. In Bologna, per Bartolomeo Cochi, al Pozzo rosso, 1619. [8] c. 8°. – Segn.: A8. Bologna, BC Archiginnasio (A.V.G.IX.1209. Prov.: Giovanni Gozzadini)

Pagina a fianco: Incisione nel frontespizio di un’altra operetta di Croce sullo stesso argomento, stampata sempre a Bologna, per Girolamo Cocchi, senza data. Nella vignetta silografica il trasporto delle castellate. (Bologna, BC Archiginnasio) 35 – Bologna. Costume bolognese. Trasporto delle uve (Bologna, BAS S. Giorgio in P.). La cartolina raffigura due castellate d’uva caricate sul tipico plaustro trainato da buoi. 328

Quest’operetta costituisce una preziosa testimonianza del lavoro e del giro di interessi che ruotavano intorno all’uva e al vino al tempo delle vendemmie a Bologna e nel contado. “I trauagli, che son dentro, e di fuori, / quando le castellate intorno vanno, / e ’l gridar de’ villani, e cittadini, / furie de’ rastellini, / messedar botti, bigonzi, e tinazzi, / far sughi, sabba, agreste, & altri impazzi, / e barili e bottazzi, / calastre, reme, cocconi, e cannelle / orzi, pignatte, bicchieri, e scodelle […]”. Ben presto i versi iniziali in italiano cedono il passo a quelli in dialetto per rendere più espressivo e verosimile “il parlar delle genti”, impegnate nella contrattazione delle castellate (botti allungate contenenti quasi otto quintali di uva pigiata) tra ingorghi di carri giunti dal contado. Alcuni cittadini esprimono il timore di comperare una castellata di uva non ben matura o troppo annacquata; la scaltrezza dei villani è del resto un tema ricorrente nell’opera del Croce, basti citare il Vanto di dui villani cioè Sandron e Burtlin. Sopra l’astutie tenute da essi nel vender le castellate quest’anno (Bologna, Bartolomeo Cochi, 1607). Dai dialoghi in lingua bolognese si possono ricavare notizie sui prezzi dell’uva, sui metodi di vinificazione (l’uso, per esempio, di fare vino alla francese) e sulle zone di produzione: “Dond vien questa? Fin da Casadia. / O al srà mior la mia, / Ch’aspet dmattina da Bazan, / E po’ n’hò tolt vn’altra a Cadrian. / Mò a n’hò da Cresplan / Ancora mì, e do da Montuia / In ti tinaz a buier tuttavia”. È registrata anche l’usanza di assaggiare il vino nuovo per San Martino. Una piccola vignetta xilografica, con due bottai in primo piano, orna il frontespizio di questa edizione di Bartolomeo Cochi. L’esemplare descritto fa parte della “Libreria Gozzadini”, pervenuta nel 1902 alla Biblioteca dell’Archiginnasio. La straordinaria raccolta, formata dal conte Giovanni Gozzadini, comprende tra l’altro diciassette capsule (con segnatura di collocazione A.V.G.IX.1) contenenti ciascuna circa venticinque opuscoli croceschi. L’operetta era stata pubblicata precedentemente dal tipografo bolognese Vittorio Benacci e in seguito fu stampata, sia dall’Erede del Cochi sia da Girolamo Cochi, con il titolo Chiacchiaramenti, viluppi, intrichi, trauagli, e cridalesmi… Altri componimenti confermano l’interesse per il vino da parte del cantastorie, che era solito frequentare le osterie, tra i quali si segnalano: il


Arti e letteratura Lamento de’ beuanti per la gran carestia del vino, et delle castellate di questo anno e La cantina fallita, stampati a Bologna dagli Eredi di Giovanni Rossi rispettivamente nel 1598 e nel 1605. I beoni Sponga, Trippa e Bacialorcio sono i simpatici interlocutori del Lamento, mentre i personaggi de La cantina fallita sono gli arnesi (Tinazzo, Botti, Bigonzo; Castellata, Orcio, Fiasco…) che si lamentano della mancanza del vino per l’eccessivo prezzo dell’uva. (rc) Le stagioni di un cantimbanco, n. 95; Una città in piazza, n. 98

132.

Giulio Cesare Croce

(San Giovanni in Persiceto, 1550 – Bologna, 1609) Canzone noua, e ridicolosa in lode de’ sughi, che s’vsano di fare il tempo della vendemia in queste parti. In Bologna, per Bartolomeo Cocchi, al Pozzo rosso, 1610. [4] c. 8°. – Segn.: A4. Bologna, BC Archiginnasio (17. Scritt. bol. filol. Poesie ital. caps. IX, n. 40)

La larga circolazione di questa Canzone è testimoniata dalle diverse edizioni non solo bolognesi; un esemplare della prima edizione nota del 1607, sempre ad opera del tipografo Bartolomeo Cochi, è conservato presso la British Library. Il frontespizio è innovativo e singolare in quanto reca, dopo il titolo e alcuni fregi xilografici, un invito promozionale “Alli lettori” ad acquistare l’operetta “per quattro quattrin”, che tra l’altro contiene pure «il modello» per fare i sughi. La ricetta è semplice: basta mescolare “di farina vn buon cucchiaro, / e di mosto vna scodella» e far

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Il cantimbanco Giulio Cesare Croce, nato a San Giovanni in Persiceto nel 1550 in “dì di carnevale”, si trasferì nel 1568 a Bologna, ove esercitò dapprima sia il mestiere familiare di fabbro sia quello del cantastorie, per dedicarsi poi solo a questa seconda attività. Girando per le strade accompagnava le sue composizioni con il suono dell’inseparabile lira. La sua fonte di ispirazione è la vita concreta di tutti i giorni del contado e della sua amata città: nelle strade e in piazza prestava ascolto alle chiacchiere della gente di ogni età e condizione sociale e osservava col medesimo occhio curioso i casi della vita quotidiana e gli accadimenti straordinari. La sua “letteratura del chiacchiaramento” rappresenta, secondo Ezio Raimondi, una dimensione alternativa alla letteratura colta, senza però creare un’opposizione. Il cantimbanco è noto quasi unicamente come autore del Bertoldo e del Bertoldi‑ no, ma la sua produzione letteraria è straordinariamente copiosa (circa 500 titoli) e presenta una varietà sorprendente di forme espressive: canti, proverbi, indovinelli, lamenti, canzonette, contrasti, avvisi e parodie. Nell’autobiografia, stampata dal tipografo bolognese Bartolomeo Cochi nel 1608, Croce descrive le tappe principali della sua vita insieme alle molteplici avversità; in particolare la miseria derivante dal suo lavoro, scarsamente riconosciuto, e dalla numerosa famiglia da mantenere. Egli afferma infatti “due mogli ho avuto, e d’ambo sette e sette / figli ho fatto saltar fora dal sacco, / e’l ciel sette ne tien, io gli altri sette”. Il cantastorie abitava in via delle Lame, ove morì il 17 gennaio 1609 e fu sepolto presso la chiesa dei Ss. Naborre e Felice (detta la Badia). 330

bollire per un quarto d’ora. È consigliato il mosto d’Albana “che sia gialla, e ben matura”, ottimo è altresì quello di Magliolo. Giulio Cesare Croce, dopo aver invocato Bacco quale musa ispiratrice, rileva con velato disappunto che le lodi dei sughi non siano state cantate dai grandi poeti della tradizione colta italiana: Petrarca, Ariosto, Dante, Bembo e Boccaccio. Il cantastorie, apprestandosi a tessere le lodi di questa vivanda “con senso, e con ragion”, sceglie un altro registro e non si limita a illustrare la gradevolezza dei sughi per il palato ma ne esalta anche le virtù curative, ad esempio, per digerire meglio, per purgare le budella o per sanare il mal d’orina. È una vivanda per tutte le età e adatta a tutti, persino alle donne che allattano, le quali potranno notare benefici effetti sulla crescita del bambino. Il poeta raccomanda di mangiare i sughi in abbondanza, in quanto “fan buona complession” e favoriscono una “bella carnason”. La Canzone trasmette l’allegria del tempo della vendemmia, in cui si instaurava uno strettissimo rapporto tra gli abitanti del contado e quelli della città; pare di udire il ritornello “Viua i sughi dolci, e bon” intonato dal nostro cantastorie per le strade del centro, popolate da villani e cittadini indaffarati nella compravendita dell’uva già pigiata, trasportata a Bologna nelle castellate sui carri trainati dai buoi. (rc) Le stagioni di un cantimbanco, n. 73

133.

Giuseppe Ferrari (Castelvetro, 1720 – 1773)

Gli elogi del porco capitoli berneschi di Tigrinto Bistonio p.a., e accademico ducale de’ Dissonanti di Modena. In Modena, per gli eredi di Bartolomeo Soliani stampatori ducali, 1761. XLVIII p. ; 4°. – Segn.: A-C8. – Contiene anche una lettera dell’autore all’abate Frugoni, con risposta di quest’ultimo. Bologna, BCasa Carducci (Buste 180. 28)

L’abate Giuseppe Ferrari nacque da una famiglia di umili origini a Castelvetro (Modena), feudo della casata dei Rangoni, che lo sostennero negli studi e presso i quali, poi, prestò servizio come segretario. Le notizie che si hanno di lui si ricavano principalmente dalla Biblioteca Modenese del Tiraboschi e dal profilo biografico scritto da uno studioso locale dell’Ottocento, don Antonio Masinelli. Queste fonti ricostruiscono


Arti e letteratura l’immagine di un uomo di cultura ben inserito negli ambienti letterari e culturali gravitanti tra il Po e la via Emilia: membro di diverse accademie (dell’Arcadia, dei Dissonanti di Modena, dei Fluttuanti di Finale Emilia, degli Ipocondriaci di Reggio Emilia), godette dell’amicizia di Carlo Goldoni e del Frugoni. Penna fertile ed abile verseggiatore capace di misurarsi sia nella lingua italiana che nel patrio dialetto, il Ferrari, come testimonia Girolamo Tiraboschi, lasciò alla propria morte in legato ai Padri Teatini di Modena ben “sei tomi di poesie italiane MSS. [manoscritti], di vari metri e di diversi argomenti”. Purtroppo di questa feconda produzione restano scarne testimonianze a stampa, ma tra queste godettero di ampia fortuna Gli elogi del porco. Usciti per la prima volta nel 1761 sotto lo pseudonimo arcade Tigrinto Bistonio, furono riediti due volte nell’Ottocento e più volte nel corso del Novecento: si tratta di due agili capitoli (247 versi il primo, 334 il secondo), in terza rima, che furono mandati alle stampe dall’amico don Carlo Antonio Giardini, stando all’introduzione, senza il benestare dell’autore, il quale, dato l’argomento, avrebbe preferito una diffusione manoscritta, limitata agli amici: ma verosimilmente è questa una finzione del Ferrari, così come è finzione l’espediente di simulare il secondo capitolo scritto da un autore anonimo in critica del primo. Poesia ricca di riferimenti eruditi, ornata da un’allusività talora esplicita, talora più recondita, gli Elogi sono colmi di rinvii alla cultura e letteratura classica ed alla mitologia (secondo un modello che verrà accolto anche dal Frizzi nella Salameide (v. scheda n. 134); sia nel descrivere le qualità del maiale e delle sue carni (perfino terapeutiche!), sia nel descrivere il ruolo che nella cultura occidentale ha rivestito l’animale, sia nella generosa messe di prodotti che si ricavano dalla sua macellazione. Sebbene l’impostazione del poeta sia improntata ad un certo tecnicismo dotto, questi non manca di dilettare, a tratti, il lettore con una gaudente capacità di tradurre in versi le delizie del maiale: Oh, cotichin, null’altra a te somiglia In fragranza e in sapor vivanda eletta! Quando tu giungi inarca ognun le ciglia. I grati effluvi ad assorbire in fretta Si spalancano i tubi ambi nasali, E un “Oh” comune il gradimento affretta; E tosto in bocca e giù per li canali Delle gole bramose l’acquolina Si sentono venire i commensali. Il volume è così organizzato: una introduzione di Giardini; i due capitoli preceduti da due lettere di dedica dell’autore a Giambattista Araldi, elemosiniere della principessa ereditaria di Modena; chiude il volume una lettera di accompagnamento del lavoro del Ferrari all’abate Frugoni con risposta. (AC) Masinelli 1862 331


La salsiccia gialla modenese Piatto di grande rilievo – anche economico – nella tradizione culinaria modenese, dalla fine del medioevo fino all’unità d’Italia, fu la salsiccia gialla. La cui preparazione entrò, dapprima, nella stretta pertinenza dell’Arte dei Beccai, poi, dal 1547, anno della scissione, dell’Arte dei salsicciai e lardaroli (v. scheda n. 97). Il colore dorato era conferito all’insaccato dall’uso dello zafferano che era usato per colorare i budelli e veniva pure mescolato, assieme al formaggio a pasta dura all’impasto di carne suina, che assumeva, grazie anche ad una calibrata miscela di spezie ed aromi, un sapore particolare. Tra le ricette più antiche, vanno annoverate quelle contenute in un registro manoscritto del notaio Andrea della Cappellina, ora conservato presso l’Archivio Abbaziale di Nonantola, e quella conservata nei Banchetti del Messisbugo (c. 53r), qui riproposte. La prima risale verosimilmente a poco prima della metà del XVI secolo (Tavernari 2014, p. 14): la presenza di un significativo apporto di spezie ed erbe (le spezie dolci erano una miscela di zenzero, cannella, garofano ed erbe; il senuezorio è verosimilmente un’erba ma di incerta identificazione) fa pensare ad influenze “farmaceutiche”: una salsiccia che, oltre ad essere gradevole, doveva quindi avere effetti benefici sulla salute del corpo. La seconda, più o meno coeva a quella del Cappellina, non è molto dissimile; restano sostanzialmente immutati gli ingredienti di base, anche se dosati in diverse misure. A fare bona salziza zala / Recipe: carne de porcho ellecta ben pesta libbre 25. / Sale ellecto once 10. / Formaio vechio libbre 4 / Pepero once 3. / Zenzevero beredi oncia 1 / Senuezorio once 2 / Specie dolze oncia 1 / Garofali oncia meza / Zafrano dentro, una drama / Zafrano per farla zala, oncia meza / Cum bambaze farla zala dopo è fada. Salcizza gialla Piglia libre vinticinque di carne di porco grasso, et è meglio nel cossetto, e pestala molto bene colla pestarolla, poi piglia libre due di formaggio piasentino grattato, e di pevere pesto oncia una e meza, di canella pesta oncia una, di garofani pesti oncia meza, di zaffrano pesto uno ottavo, e incorpora bene ogni cosa insieme con oncie quindici di sale, e spugnegiala molto bene. Poi acconcia le budelle di quella maniere che si fan quelle delle mortadelle gialle, e poi impasta la tua salcizza, e serà perfettissima. Tavernari 2014 332


Arti e letteratura

134.

Antonio Frizzi (Ferrara, 1736-1800)

La Salameide poemetto giocoso con le note. Venezia, appresso Guglielmo Zerletti, 1772. [8], CXXXV, [1] p., [2] c. di tav. ; 8°. – Segn.: *4 A-H8 I4. Bologna, BC Archiginnasio (8. X. III. 09)

Figura eclettica e non priva di interesse nel panorama del Settecento ferrarese, Antonio Frizzi divise il proprio impegno tra l’attività presso la municipalità della sua città, dove ricoprì l’incarico di segretario e di archivista, e l’interesse per la cultura e la storia patria. Autore di una importante opera storiografica in cinque volumi dedicata alla sua città, le Memorie per la storia di Ferrara (edite a partire dal 1791: l’ultimo volume uscì postumo nel 1809), scrisse anche una Guida del Forestiere per la città di Ferrara (1787). Nella Salameide il Frizzi opera nel solco tracciato dal modello de Gli Elogi del porco di Ferrari (v. scheda n. 133) e dimostra le sue doti di abile verseggiatore: divertito e sapido esempio di poesia apiciana, il poemetto si articola in quattro canti costruiti in ottave, metro già caro alla letteratura cavalleresca rinascimentale, poi ampiamente introdotto alla produzione di argomento ameno, tra l’altro, dalla letteratura eroicomica secentesca. Già l’incipit tradisce echi aulici di memoria – appunto – cavalleresca (l’uso del verbo incipitario canto), sagacemente accostati a curiose e divertite facezie: nella fattispecie il riferimento alla diceria secondo la quale il salame sarebbe stato scambiato da un ignoto tedesco per uno sconosciuto frutto: Canto il fregio primier d’un lauto desco: State chete a sentir ghiotte brigate; Questo gli è un frutto, al dir di quel Tedesco, Dell’animal di Sant’Antonio Abate, Che non è d’orto, e nell’inverno è fresco, E secco è in primavera e nella state, E porta il suo picciuol d’accia e di stame, e a farla corta, detto vien salame. Il testo è corredato di note esplicative dello stesso autore, che assieme al componimento, danno la cifra della cultura del Frizzi. Colpisce infatti l’ostentazione di un’ampia erudizione, ben adeguata ad un uomo di buona cultura del Settecento, espressa soprattutto tramite i continui 333


riferimenti al repertorio mitologico e letterario desunti dagli autori, oltre che italiani, della classicità greco-latina. Sebbene, infatti, il poemetto sia dedicato al salame, di fatto è un inno al maiale, e nella redazione l’autore passa ampiamente in rassegna i numerosi riferimenti che la letteratura riserva al suino, con citazioni che vanno dal naturalista Plinio all’Ovidio delle Metamorfosi, da Virgilio ad Omero, ad Esopo. Il gusto filologico dell’autore trova una propria espressione anche nella ricerca delle etimologie, con esiti talora curiosi e divertenti: esemplificativa è la spiegazione del termine salame, che proverrebbe dal nome di Salamina, teatro dell’omonima battaglia tra Greci e Persiani. L’impianto testuale, pur privo di una significativa coesione narrativa, si dipana tra invenzione e osservazione realistica: da un lato, infatti, non mancano per il lettore sapide e divertite descrizioni di fatti frutto di fantasia, che trovano appena un’ispirazione dalle letture, come le vicende della vita di Michelaccio, che dominano il canto I: la narrazione del Frizzi descrive, nei panni di questi, il dissoluto signore di una sorta di paese di cuccagna dove il maiale trionfava sui banchetti. E, d’altro canto, il poeta non si sottrae all’osservazione di usi, linguaggi e forme popolareggianti, capaci di incontrare il gusto di un ampio pubblico. In tal senso, le stesse note sono la spia non soltanto del bisogno dell’autore di manifestare la propria erudizione, ma anche strumento per tradurre i riferimenti dotti in forme e contenuti meglio comprensibili ad un pubblico vasto. Questa urgenza spiega l’attenzione del Frizzi per una realistica rappresentazione di fatti e narrazioni, quali, tra i tanti, il rito che si consumava a Bologna per la festività di s. Bartolomeo, quando una porchetta veniva gettata dal balcone del Palazzo (nel canto II); oppure i riferimenti alle migrazioni di pellegrini diretti a Padova (libro I) o di sfangini (taglialegna) transumanti (canto II). Ma cuore della narrazione è soprattutto la minuta e compiaciuta descrizione della macelleria (canto II-III) che è preceduta da un racconto sull’introduzione all’uso alimentare della carne suina (canto II): qui il testo assume anche un ruolo di documentazione, sui riti e sulla tradizione dell’arte della norcineria nel secondo Settecento in area padana. (ac) Lombardi 1830, 344 segg.

Antiporta incisa de La Salameide poemetto giocoso con le note 334


Arti e letteratura

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135.

Giambattista Sbalbi (Piacenza, sec. XVIII)

La cioccolata versione dal latino in rime toscane del canonico Giambatista Sbalbi. (Piacenza, presso Niccolo’ Orcesi, 1789) XV, [1] p. ; 4°. – [a]4 b4. Piacenza, BC Passerini Landi (Landi Misc. 601.02. Prov.: Ubertino Landi)

La citazione letteraria più illustre riguardante la cioccolata è probabilmente quella fatta da Alessandro Manzoni nel suo capolavoro: nel X capitolo si legge infatti della piccola Gertude che si appresta a diventare la ‘monaca di Monza’: “All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile”. Come dire il riconoscimento della propria ‘adultità’. Il medico monzese Paolo Mantegazza affermava che “Il cacao merita sicuramente il nome pomposo di Theobroma (cibo degli dei), che ebbe dai botanici. È cibo e bevanda, è conforto al ventricolo e sferza il cervello: eccita l’intelligenza e nutre riccamente. Conviene ai vecchi ed ai giovani, ai deboli ed alle persone prostrate da lunghe malattie o da abusi della vita. Per chi lavora, il cacao offre un eccellente cibo mattutino”. Anche la poesia ha dedicato pagine al cibo degli dei: ad esempio l’abate fiorentino Marcello Malaspina (1689-1757) scrive il ditirambo Bacco in America (nella raccolta Saggi di poesie, Firenze, Bernardo Paperini, 1742), parodistica risposta al Bacco in Toscana di Francesco Redi. Ad essere esaltata in versi è la cioccolata, fra i prodotti provenienti dalle Americhe più apprezzati in Europa, capace di sedurre anche Bacco, che viene convinto a cambiare le sue preferenze alimentari e persino nazionalità: “Né più appellisi il Toscano, / Ma il gran Bacco Americano / Mentre in bevendo ormai sentenziamo, / Ciascheduno pregando a darci fe, / Che il cioccolato d’ogni beva è il re”. Il canonico piacentino Giambattista Sbalbi, che in alcuni suoi componimenti si definisce Accademico affidato pavese, si unisce alla schiera degli estimatori e la descrive così: “A tal sostanza alfin forma si doni / Di mattoncelli, oppur di semi-globetti; / Nel fido Scrigno tuo quinci li poni, / E i mobili ti sian questi i più eletti; / Ivi li serberai più in ozio ascosi, / Più sodi n’esciranno e preziosi. // Aprite o Servi miei, le porte aprite, / E se vengon gli Amici, ad essi in dono / Di cioccolata colmi Nappi offrite. / Quante a colmarsi Ciòtole vi sono, / Tante tre parti, esposte a pronta arsura, / La Caldaja contenga or d’acqua pura. // Su via lesti venite. Ecco già sale, / L’onda già ferve nello stagno chiusa: / Per voi trita al minuto in dose uguale / La cioccolata entri a bollir confusa; / Che risulti eccellente or ben si speri / Ma tre sian l’oncie ad ogni due bicchieri”. (zz)

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Arti e letteratura

136.

Clemente Luigi Donnino Bondi (Mezzano Superiore, 1742 – Vienna, 1821) Giornata villereccia poemetto in tre canti. Parma, dalla Stamperia reale, 1773. [8], 62, [2] p. : ill. ; 8º. – Segn.: π4 a-d8. Bologna, BCasa Carducci (2.d.353)

Orfano del padre, poté studiare grazie all’interessamento di uno zio e nel 1760 vestì l’abito dei Gesuiti. Quando nel 1773 Clemente XIV sciolse la Compagnia di Gesù con il breve pontificio Dominus ac Redemptor, Bondi gli indirizzò un componimento di protesta a causa del quale fu costretto a rifugiarsi all’estero. Si recò in Tirolo, dove cominciò la sua vera e propria attività di scrittore pubblicando questo poemetto che avrebbe poi incluso in una raccolta successiva (Venezia, 1798) col titolo Opere edite e inedite in versi e in prosa. Rientrato in Italia fu ospitato dapprima dalla famiglia dei conti Zanardi in qualità di bibliotecario, successivamente ebbe l’occasione di conoscere l’arciduca Ferdinando d’Asburgo Lorena che lo invitò a seguirlo a Brno per occuparsi della sua biblioteca e dell’educazione dei suoi figli. Nel 1810 l’arciduca si trasferì a Vienna portando con sé Bondi che vi restò fino alla morte. Fra l’altro si occupò anche della traduzione dell’Eneide virgiliana, lavoro di cui in seguito tenne conto Giacomo Leopardi nell’accingersi alla stessa fatica. Nel 1808 diede alle stampe viennesi una nuova edizione in tre volumi, l’unica da lui approvata, con i suoi componimenti rivisti e corretti. Il poemetto racconta e descrive in ottave una giornata in campagna con ‘pic-nic’ di alcuni convittori del Collegio S. Francesco Saverio. Nel 1779 venne pubblicata una versione in dialetto bolognese di quest’operetta, con il titolo L’asnada, puemett del sgner Clement Bondi tradott d’in tuscan in bulgneis dal duttour Annebal Bartuluzz (In Bulogna, a S. Tmas d’Aquin, 1779). Traduttore fu il ‘dottor’ Annibale Bartoluzzi di cui si sa soltanto che era specializzato in vernacolo petroniano. Il termine ‘asnada’ (asinata) del titolo si riferisce al fatto che i gitanti viaggiano a dorso d’asino. Le piccole calcografie che accompagnano entrambi i testi furono eseguite da Francesco Rosaspina artista nato in provincia di Rimini e trasferitosi poi con la famiglia a Bologna, dove diventò celebre proprio per le incisioni. Durante la sua carriera artistica produsse più di mille lastre incise; fu docente all’Accademia Clementina ed amico del pittore milanese Andrea Appiani e del tipografo-editore, nonché valente incisore Giovanni Battista Bodoni. La Biblioteca dell’Archiginnasio possiede un esemplare dell’Asnada (collocato in 8. W. IV. 33 op. 2). (zz) DBI, XI, 727

Clemente Luigi Donnino Bondi, Giornata villereccia, incipit del canto III

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Il caffè: l’egiziana pozione eletta Si riportano qui le ottave della versione italiana e di quella bolognese dell’operetta di Bondi, che descrivono la preparazione del caffè (compresa la ‘tostatura’) alla fine del pranzo ‘villereccio’.

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Chi di lor nel fornello, atto a tal uso, Fa foco, e soffia nel carbone ardente; E chi nel cavo rame il caffè chiuso Volge intorno abbrostendo, infin che sente Misto col fumo il grato odor diffuso, E de’ granelli il crepitar frequante: Dal foco allora il toglie, e il gitta fuore Vestito a bruno di novel colore.

Chi d’lour in t’un furnell hà zà cminzà A far fugh, e suppiar in tal carbon; E chi abbrustless in t’un vas d’ram assrà Al caffè, fin ch’al sent vgnir fora al bon Udour, cun al so fum, e al ved cherpà Tutt quante l gran dvintà culour d’maron; Ch’l’è alloura al temp d’cavaral d’soura al fugh E d’metterl’a far l’oli in alter lugh.

Altri in ordigno addentellato il trita, E polvere ne trae minuta, e molle: Altri l’occhio e la man pronta e spedita Sul vaso tien, che gorgogliando bolle. Fin sopra l’orlo in un momento uscita L’occhiuta spuma pel calor s’estolle; Ma poi lascia il liquor purgato e mondo L’impura feccia, che ricade al fondo.

Un’altr’al masna in t’un urdegn pin d’dint E al l’ardus tutt’un polver murbia, e mnuda; Un’alter stà cun tutt’i sentimint Soura alla Cugma, e quand la bui ai vuda Sta polver dentr; e i buccalitt, ch’m’al sint Chi veinen su all’urell, ch’al par ch’al suda; In frezza al le tol vj d’soura del bras, E s’al mett’ a dar zò; po’ i muda vas.

L’opra è compiuta; e su la mensa è presta Già la bevanda in porcellana fina, Silvio il zuccaro infonde, e destro appresta Le colorate tazze della Cina: Indi colma, e fumante or quella, or questa Con gentil atto a ognun porge e destina. Gustanla a sorsi; e la bevanda amara Poscia corregge il rosolin di Zara.

L’è finè la facenda; e dov s’è dsnà Qui bussl’a vdi purtar d’purzlana fina; Mumenn al zucchr’ i mett bianc ascondà, E impess quel Checher vgnù sin dalla China, E pjni rasi, e ch’fuman’ alla sfilà Cun bona grazia a tutt la so destina: I al bevn’a surs pr’en se scuttar, e ai vin Drj per tori l’amar al Maraschin.

Canto II, Ottave XXX-XXXII (L’egiziana pozione eletta)


Arti e letteratura

137.

Joseph Berchoux

(Lay, 1760 – Marcigny, 1838) La gastronomia, cioè Ammaestramento ai bravi mangiatori. Canti quattro in ottave rime italiane, [traduzione] di Jacopo Landoni ravennate dal francese Joseph Bercoux. Ravenna, nella tipografia Roveri, 1838. 75 p. ; 22 cm. Ravenna, BC Classense (F. Rava. Busta 53.26. Prov.: Luigi Rava)

Storico e sociologo, ma anche scrittore e poeta, a lui si deve l’introduzione del termine “gastronomia” col quale intitolò il poema giocoso pubblicato per la prima volta nel 1801. Il lessicografo Émile Littré lo cita nel suo Dictionnaire de la langue française riconoscendogli una meritata fama proprio per questo lavoro e Littré – come sostiene Paolo Sorrentino nel suo film “La grande bellezza” – non sbaglia mai. La prima traduzione italiana (Milano, dai torchi di Omobono Manini, 1825), col titolo italiano La gastronomia ovvero L’arte di ben pranzare e col testo francese a fronte, si deve allo scrittore cremonese Vincenzo Lancetti, che si firma con lo pseudonimo Eridanio Cenomano. La forma scelta è quella del “verso sciolto sdrucciolo” (Proemio, p. IV). La seconda traduzione, in ottava rima, a Jacopo Landoni: il suo biografo Santi Muratori (Ravenna, Tipografia sociale G. Mazzini, 1907) lo descrive come “scolaro di Melchiorre Cesarotti, amico di Paolo Costa, maestro di Gioachino Rossini, poeta erotico e satirico, burlesco e didascalico, meditativo ed estemporaneo, italiano e dialettale, traduttore fecondo se non sempre felice e critico bizzarramente originale”. Il riferimento al compositore pesarese è dovuto al fatto che nel 1806 Landoni aprì una scuola privata a Bologna nella quale l’allora quattordicenne Rossini fu suo allievo. Fra le sue moltissime opere è da notare anche la versione in “ottave vulgari” (Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1819) delle Maccheronee dieci di Merlin Coccajo – pseudonimo del poeta mantovano Teofilo Folengo dove si trovano interessanti descrizioni di cibi e vini (per es. alle ottave 61 e 62) e di un banchetto di frati (ottave 40-46). Nel poema Il pineto (Bologna, Tipi Sassi e Fonderia Amoretti, 1841) si trovano allusioni “gastronomiche”, soprattutto per quanto riguarda il vino: scrive infatti Landoni quando illustra i vari tipi di piante che crescono nel bosco ravennate “Qui il salice talor, il pioppo, il pino / fan di misti colori a grado a grado / vaghissima la scena, e numerose le / quercie, il biancospino, l’irto ginepro, / l’acuto rusco, il per selvaggio, il melo, / l’uve lambrusche e spine, la molteplice / armonia di stupor m’empie, e diletto […]” (Libro quinto, p. 79). Landoni propone anche un surrogato di vino fatto con le bacche del ginepro, espediente cui si può ricorrere quando “d’uve penuria, o povertà costringa” perché “Infelice se’ tu, ma pur laudabile / Esser dei, povertà, se industriosa!” (Libro secondo, p. 41) In un curioso poemetto intitolato Il testamento di Verlicchi Landoni ricorda il triste ordine del cardinale Agostino Rivarola, comandante della polizia pontificia, col quale si disponeva la chiusura notturna delle osterie e il protagonista (l’immaginario Verlicchi appunto) si uccide per il dolore:

Clemente Luigi Donnino Bondi, Giornata villereccia, vignetta che precede l’incipit del canto II 339


Il Vino Santo di Imola Sulla produzione del Vino Santo di Imola esiste una testimonianza interessante dell’imolese Matteo Martini (1782-1860), filosofo, fisico e matematico, docente all’Università di Perugia. Negli Annali dell’agricoltura di Filippo Re (t. II, aprile-giugno 1809, pp. 251-259) è pubblicata una sua lettera nella quale descrive il metodo di produzione di questo vino, con importanti informazioni. Il Martini ne fa risalire la nascita a circa quarant’anni prima (quindi verso il 1770), ad opera dei frati del convento del Piratello (nei pressi di Imola), che avviar ono la vinificazione di un passito, ottenuto da uve selezionate e fatte maturare al sole fino all’autunno inoltrato, per poi essere “ammostate” al tempo della festa dei Santi (da cui il nome). Il Martini riferiva però anche di un’altra tradizione, più antica: “Si racconta che ad un ministro o perito che fosse di un’antica casa imolese, rimasta essendo nella Settimana Santa molta di quell’uva che si suole appendere ai travi o conservarsi in altro modo per cibarsene nella “Quaresima, egli immaginasse di cavare da quella, pigiandola, del vino, e di chiamarlo santo» (p. 253). Qualunque sia l’origine di questo vino romagnolo, la lettera del Martini ne descrive minuziosamente il metodo di produzione, partendo dalla selezione di uve “più squisite” e “odorose”, “di malvasia, moscato, moscatello ed altre per la sesta parte incirca del totale quantitativo dell’uva che si vuol impegnare”; seguono precise indicazioni sulle fasi della vendemmia, della maturazione al sole, dell’“ammostamento” e via via fino all’imbottigliamento. Il vino che ne esce, afferma Martini, è “per lo più… dolce, e talvolta quasi melato e nauseoso”, mentre raggiunge un “singolar vigore e squisito sapore” dopo 6-8 anni di invecchiamento. Nella nota vengono descritti anche gli accorgimenti più significativi che consentono una buona riuscita del vino: ad esempio, ecco le raccomandazioni per un corretto invecchiamento: «Lasciato depurare il vino in appositi recipienti, si travasi in bottiglie di grosso vetro, turandole ermeticamente con catrame al solito modo. Indi si nascondano tra sabbia bene asciutta, in ampia cassa, in modo che tanto superiormente che inferiormente e dalle parti si trovi bene coperta dalla sabbia ogni bottiglia. Chiusa la cassa, si riponga in luogo impenetrabile alla luce ed al sole; così a me sembra che resti evitata ed impedita la evaporazione e si conservi a qualunque età si voglia, così custodito, il vino» (p. 258). Lo stesso processo di vinificazione veniva descritto anche da Giovanni Pozzi nel suo trattato Del vino, delle sue malattie, dei suoi rimedi e dei mezzi per iscoprirne le falsificazioni (Milano, 1806). (ac)

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Arti e letteratura “Qui Verlicchi giace estinto / per la bile che l’ha vinto / al vedersi portar via / il boccale e l’osteria / sicché affatto disperato / con un laccio s’è impiccato”. Il poemetto di Berchoux è diviso in quattro canti: nel primo si parla delle “cucine degli antichi”, nel secondo vengono descritte le vivande tipiche del “primo servito”, nel terzo quelle del “secondo servito” e nell’ultimo il “deserre” (dessert). Proprio nel IV canto sono citati alcune zone produttrici di vini eccellenti (sonetto 44): “Il turbine preservi, e la procella, / Di Borgogna, e Sciampagn tutte le viti. / L’uva che Doccia [la cittadina di Dozza nel Bolognese], e Bertinoro [sulle colline forlivesi] abbella / Dal sole afflitta né dal gel si additi. / Imola pel suo vin, che santo appella, / Abbia i Santi del cielo a grazie uniti: / Liberi dai politici e sapienti / Dopo cent’anni qui godiam viventi”. L’autore racconta anche la storia di François Vatel, il cuoco di origini svizzere (impersonato da Gérard Depardieu nel film biografico del 2000 diretto da Roland Joffé) che svolse la sua attività alla corte del principe Luigi II di Borbone-Condé che lo assegnò al castello di Chantilly e in onore del quale Vatel chiamò la sua famosa crema, appunto Chantilly. Nominato controllore generale dei pasti, responsabile quindi della fornitura di vivande per il suo datore di lavoro, organizzò in quindici giorni uno spettacolare menu – per quasi 4000 persone – in onore del sovrano Luigi XIV. Il 24 aprile 1671 durante il banchetto, il cuoco si accorse della mancanza di due piatti di pesce e, nonostante i complimenti espressi comunque dal sovrano e dal principe, si trafisse con un trinciante per non sopravvivere al disonore. (zz)

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Luigi Nardi

(Savignano sul Rubicone, 1777 – 1837) Porcus troianus o sia la porchetta cicalata ne le nozze di messer Carlo Ridolfi con madonna Rosa Spina. Arimino, dai tipi Albertiniani, 1813. [8], 34, [20] p. ; 4°. – Segn.: π² [1]4 [2]-[8]² [9]4 χ1 [10]-[12]². Bologna, MIBM (Villa 2718/12)

Studioso di filosofia, fu ordinato sacerdote nel 1800 a Subiaco dove collaborò attivamente affinché fosse preservato il prezioso patrimonio librario dell’Abbazia benedettina. Tornato a Savignano, fu tra i fondatori della Rubiconia Accademia dei Filopatridi con lo pseudonimo di Lipaulo Emonasteo. Dopo diversi incarichi e una ricca produzione di articoli e saggi, seguiti dalla pubblicazione della impegnativa Descrizione antiquario-architettonica con rami dell’arco di Augusto, ponte di Tiberio e tempio malatestiano di Rimino (Rimini, 1813), la notorietà lo colse all’improvviso proprio con questo decisamente meno laborioso Porcus troianus, scritto in occasione delle nozze del suo discepolo, il conte Carlo Ridolfi – nipote del vescovo di Rimini – con Rosa Spina, della nobile casata riminese. Il componimento, presentato come cicalata – cioè un discorso su temi curiosi trattati con leggerezza e un pizzico di ironia – si apre con una

Incisione raffigurante le attività agricole del mese di settembre nell’incipit della ‘visita’ del mese, in Marco Bussato, Giardino di agricoltura, c. 49 (Ravenna, BC Classense), v. scheda 5.

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amabile prefazione dedicata a “ser Maggiro egregio cuoco dello sposo” e firmata ‘Giri di Luna’, l’anagramma del suo nome: “Dunque … come diascolo comincio io? Sì Signore, tutte le nozze vanno per conclusione, ed in conclusione terminano, posso perciò cominciare col Dunque. Dunque siete di nozze, ser Magiro mio, e nozze magnificentissime, e per voi travagliatissime. E bene che pensate? Io vi vedo stribbiare tegami, pentoloni e pentolini, affinar spiedi, affilar coltella, stropicciare padelle, ammanare ed accomodare tutti gli arnesi della cucina, preparare immense cose che a manucare appartengono, trarre fuori dalla vostra cassetta per far bella compariscenza la più bianca berretta, ed il più bel grembiule che abbiate, e dalla vostra scelta Biblioteca i migliori libri moderni, come il Panunto, il Cuoco alla Francese, il perfetto Cuciniere, l’Apicio moderno, e cento altri; e quello che più importa alcuni codici che si vuole fossero di Lucullo, di Apicio e di Elagabalo, e che dell’arte vostra sapientissimamente trattano”. Segue una vera e propria trattazione del maiale, che l’autore definisce “l’animale più nobile e più utile di quanti madre Natura abbia fatto dono”. Piatto forte, il ‘porco troiano’ – un maiale farcito con volatili, selvaggina e carni diverse – e poi arrostito. Nardi fornisce anche l’etimologia di questo piatto molto gradito anche nel mondo latino: “Avevano ben ragione di chiamarlo con tale nome; poiché siccome il Cavallo Trojano, che pure fu inventato da un cuoco greco di nome Epeo [il costruttore dell’ingegnosa trovata di Ulisse], era gravido d’armi e d’armati, così le loro porchette avevan l’anima di eccellentissimi ingredienti composti, che formavano un assai buono e badiale ripieno. […] Nel Porcus Troianus vi mettevano per entro, i Romani, oltre il pepe, gli aromati, sali e le altre cose di rubrica, dei tordi, beccafichi arrostiti, rossi d’uova, salsiccia, vulve abbocconate o trinciate, e qualche volta dei crostacei, o a dir meglio dei frutti marini come ostriche, pettini e simili”. Nel 1815, sull’onda del successo, ricevette l’incarico di coadiutore presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini, dove collaborò con Lorenzo Antonio Drudi, al quale subentrò nel 1818. Questo lavoro gli consentì di portare a termine le sue ricerche più erudite che si sarebbero concretizzate nel 1827 con la pubblicazione dei Compiti, feste e giuochi compitali degli antichi e dell’antico Compito savignanese in Romagna. (zz) DBI, LXXVII, 778-781

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Arti e letteratura

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Francesco Majani (Bologna, 1794 – 1865)

Cose accadute nel tempo di mia vita. Ms. cartaceo; sec. XIX ; 741 p. Bologna, AS Casa Majani

Nell’archivio storico di casa Majani – la nota ditta bolognese produttrice di cioccolato – o meglio, come essa stessa si descrive, il primo laboratorio a produrre in Italia la cioccolata solida: la notissima “scorza di cioccolato amaro” – è conservato insieme a tanti altri documenti e riconoscimenti ottenuti nel corso dei due secoli della sua esistenza, questo manoscritto che è il diario della vita di Francesco Majani nato nel 1794 e morto nel 1865. Egli descrive la storia della sua famiglia e soprattutto la storia del laboratorio di dolci iniziato dalla madre Teresa Menarini di cui poi, dopo la morte del marito Giuseppe, tutti i figli concorsero allo sviluppo e all’espansione. Così comincia: “Francesco Majani che in ettà molto avanzata si dedicò a scrivere il contenuto di questo libro, narando la nasita de suoj antenati con vari fatti a lui sucessi nel tempo del viver suo […] il tutto scritto malamente pieno di errori d’ortografia e senza un ordine progresivo. Di tutto ciò dimanda ai lettori compatimento, perché nel Anno 1805 alla morte di suo padre fu tolto via dalla settima scuola delle Scuole Pie per meterlo subito a bottega a guadagnare qualche cosa onde sussidiare la vedova sua Madre, che per molti anni non fu più in esercizio di legere e scrivere, che in conseguenza quanto non se né sà Non se né sà”. Questo manoscritto di cui è stata messa in luce anche la notevole valenza storica – ritroviamo qui uno spaccato Le fabbriche di cioccolata della Bologna della fine del Settecento e della prima metà dell’Ottocento narrato con fine e attento gusto doDa Annali di statistica. Statistica industriale. Notizie cumentario e attiva partecipazione agli sulle condizioni industriali della provincia di Bologna, eventi grandi e piccoli di quel perio1898. Fasc. V-A, p. 63 do da parte dell’autore – è stato poi “Nel comune di Bologna esistono 4 fabbriche di ciocpubblicato con il finanziamento della colata e confetture, 3 delle quali, fornite di motori mecFondazione del Monte di Bologna e canici, sono esercitate dalle ditte Stagni Petazzoni e Ravenna nel 2003, a cura di Angelo C., Majani Giuseppe e Viscardi Geremia. La fabbrica Varni, tramite la casa editrice Marsilio. della ditta Stagni Petazzoni e C. è fornita di un motore Francesco Majani prosegue il suo raca vapore della forza di 10 cavalli, ha 17 macchine conto narrando poi delle incertezze speciali per cioccolata e 11 per confetture e occupa e dei dubbi che dovette fronteggiare per 330 giorni dell’anno 80 operai. La fabbrica della da parte dei membri della sua famiglia ditta Majani Giuseppe, la più antica del genere, occuquando finalmente scelse di comperare pa 51 operai, i quali lavorano con 16 macchine per lo stabile di Via Carbonesi 5 – ancora cioccolata e confetti servite da un motore a gas della oggi fiore all’occhiello della ditta – per forza di 4 cavalli. Finalmente la fabbrica del signor Vifarne casa e bottega e traslocare dal picscardi Geremia è animata da un motore a gas della colo negozio il “laboratorio delle cose forza di 2 cavalli e occupa 13 operai. dolci” situato di fianco alla basilica di S. La fabbrica a mano della ditta Rovinazzi G.M. occupa 12 operai”. 343


Bologna, Palazzina Majani – V. Indipendenza, 4, [1915 ca.]. L’esterno della palazzina venne realizzato dall’architetto Augusto Sezanne nel 1908, l’interno ospitava un bar, una sala da tè e una pasticceria. Al piano superiore era la sala da ballo e la terrazza all'aperto con tavolini in cui suonava l'orchestra. (Bologna, BAS S. Giorgio in P.) Anonimo, [Bologna, Palazzina Majani – V. Indipendenza, 4], incisione su carta, sec. XX primo quarto. (Bologna, Archivio Majani)

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Petronio che li aveva visti iniziare e rendere fiorente la loro attività. “La stipulazione fu fatta la sera delli 28 febbraro 1832 […] Arivassimo alla primavera dell’Anno 1834 che volevo fare l’Apertura della bottega il sabato che veniva a Bologna la Beata Vergine di San Lucca, avevo fatto fare una quantità di Confetture diverse, per riempire li cento vasi, come pure Ciocollata [...] mentre gli vomini [che lavoravano nella vecchia bottega] e mio fratello non volevano intendere che “si prendevano din Purgatorio e venivano in Paradiso”. La “bottega” decollò e il successo fu enorme, al punto che la rivendita divenne, nel tempo, con il nome di “stabilimento a vapore di confetture e cioccolata” anche luogo di incontro privilegiato per il ghota della cultura bolognese dell’epoca, da Giosue Carducci a Guglielmo Marconi, da Arrigo Boito a Eleonora Duse. L’azienda Majani riceve in più occasioni premi e medaglie alle Esposizioni Universali di Parigi (1867 e 1878),Vienna (1873) e Milano (1881), diventa poi fornitore ufficiale della real Casa e nel 1878 Umberto I le accorda la facoltà di innalzare lo stemma reale sull’insegna del negozio. Nel 1908, in pieno periodo liberty, la famiglia Majani costruisce in via Indipendenza la celebre palazzina che porta il suo nome, opera dell’architetto Augusto Sezanne, che con la sua grande terrazza semicircolare divenne la pasticceria più famosa della città. Nel 1911 la Majani vinse il concorso bandito dalla Fiat per il lancio della nuova Tipo 4: Agnelli voleva regalare una scatola di cioccolatini Fiat ad ogni acquirente del nuovo modello di automobile. Così nacque il cremino, la cui confezione ancora oggi porta il marchio originale della casa di Torino. (acm) Varni 2003


Arti e letteratura

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Giuseppe Ceri

(San Frediano, 1839-Bologna, 1925) Origine del tortellino, in La secchia. Contiene sonetti burleschi inediti del Tassone e molte invenzioni piacevoli e curiose, vagamente illustrate, edite per la famosa festa mutino-bononiense del 31 maggio 1908. Prefazione di Olindo Guerrini. Bologna ; Modena, A. F. Formiggini, 1908. VIII, 88 p. : ill. ; 18 cm.- Il poemetto occupa le p. 41-44. Bologna, BSP Fameja Bulgneisa (Libri. D.5.9)

Giuseppe Ceri, singolare figura di architetto nato in provincia di Firenze, è famoso per la sua irriducibile ostilità nei confronti di Alfonso Rubbiani. Bolognese di adozione, fu consigliere comunale con Carducci, fondò e diresse il giornale satirico «La Striglia» che distribuiva personalmente percorrendo le vie principali a bordo di una carrozza a cavalli. In questa sede lo si vuole però ricordare nella veste di poeta occasionale, autore di un poemetto – sull’origine del tortellino – che sarebbe ispirato alla più famosa Secchia rapita, scritta dal modenese Alessandro Tassoni nel 1624. È per tale motivo che si trova inserito in questa deliziosa antologia, nella cui prefazione Olindo Guerrini spiega: “Dice il Tassoni ne’ suoi ‘Pensieri’ che il riso è ‘una brillante dilatazione degli spiriti’ e contende con Aristotile, Servio, Solino ed altri bacalari su questo proposito. E sia pure: ma il male è che questa ‘brillante dilatazione’ non possiamo ottenerla quando ci pare e piace. Possiamo procurarci facilmente il dolore, mettiamo col battere a posta la testa nel muro, o con qualche altro metodo facile, ma non raccomandabile, ma non possiamo eccitarci alle risa, nemmeno facendoci il solletico da noi: il che è una vera infelicità per la schiatta umana… Figurarsi dunque se questo libretto ha la pretesa di fare quanto nemmeno ai grandi fu concesso! Ma parve a parecchi che, ricordando il Tassoni, fosse necessario almeno un tentativo di giovialità, così rara oggi anche come solo tentativo”. Nella sua composizione Ceri racconta della spedizione terrena di tre divinità (Bacco, Marte e Venere) che, venuti ad aiutare i modenesi in uno dei tanti scontri con i bolognesi, si fermarono a dormire in una locanda di Castelfranco Emilia, al confine tra le province delle due città. Il locandiere, conquistato dalle meravigliose fattezze della dea, decise di riprodurne l’ombelico – che era riuscito a intravvedere – con la pasta sfoglia che stava preparando in cucina. La storia è divertente e quindi conviene leggerla direttamente: Quando i Petroni contro i Geminiani / Arser di fiero sdegno / Per la rapita vil secchia di legno: / E senza indugio armati / Accorsero di Modena 346


Arti e letteratura alle porte / Minacciando ruine e stragi e morte / Venere, Marte e Bacco, / Dal ciel discesi in terra / A parteggiare in quell’atroce guerra, / Vollero dar riposo / Al faticato fianco / Nell’antica osteria di Castelfranco / Dove la dolce notte / Dal Tassoni cotanto celebrata, / Venere innamorata / Tutt’intera trascorse / In braccio ora di / Marte, or del Tebano, / D’onta coprendo lo zoppo dio Vulcano. // Ma, giunta la dimane / Mentre il carro d’Apollo / Senza il menomo crollo / Della volta del cielo era salito / Alla più eccelsa parte, / Bacco ed il fiero Marte / Zitti e cheti, lasciata in letto sola / La divina compagna, / Andarono a girar per la campagna. // Dopo un profondo sonno / Venere gli occhi dolcemente aprio / E non veggendo l’uno e l’altro dio / Giacere ai fianchi suoi, / Tale tirata diede al campanello / Che fece risonar tutto il Castello. // L’oste che stava intento / Ad aggirar l’arrosto / Le scale come un gatto ascese tosto, / E nella stanza giunse, / Dove in camicia, seduta sul letto / In volto accesa d’ira e di dispetto / Stava la diva donna, / Di cui la sera innanzi ebbe opinione / Ch’egli fosse un bellissimo garzone. / – Sai tu, villan cornuto, / Ove son iti i due compagni miei? / – Signora, io non saprei, / Pronto rispose l’oste; / Ma dianzi per istrada / Quel dal pennacchio rosso e dalla spada / Guardandomi in cagnesco, / M’ha detto a mala pena / Che questa sera torneranno a cena. A siffatta notizia / Venere bella serenò le ciglia; / Poi con gran meraviglia / Dell’oste lì presente / Come se f ’osse sola, / Le candide lenzuola / Spinse in mezzoalla stanza, / le belle gambe stese, / Dall’ampio letto scese / Con un salto sì poco misurato / Che sollevandosi la camicia bianca, / Poco più su dell’anca, / Onde l’oste felice / (Lo dico o non lo dico?) / Di Venere mirò il divin bellico! // Ma non si creda già / C’he a quella vaga e seducente vista / Pensieri di conquista / L’oste pudico entro di sè volgesse; / Anzi un’idea soavemente casta / D’imitar quel bellico con la pasta / Gli balenò nel capo; / Ond’egli qual modesto cappuccino, / Fatto alla Diva un riverente inchino / In cucina discese; / E da una sfoglia fresca / Che la vecchia fantesca / Stava stendendo sovra d’un tagliere, / Un piccolo e ritondo pezzo tolse, / Che poi sul dito avvolse / In mille e mille forme / Tentando d’imitare / Quel bellico divino e singolare. / E l’oste ch’era guercio e bolognese, / Imitando di Venere il bellico / L’arte di fare il tortellino apprese! (zz)

Augusto Majani, La settimana della cucina, [Bologna, s.n., 1935]. (Budrio, BC Majani): l’immagine fa parte del pieghevole contenente il programma-regolamento, relativo al concorso svoltosi presso il Ristorante Littoriale di Bologna dal 19 al 26 maggio 1935. (Budrio, BC Majani)

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Le prodezze gastronomiche ne La secchia rapita di Alessandro Tassoni La secchia rapita è il poema eroicomico in ottave di Alessandro Tassoni, in cui si narra la storia del conflitto tra Bologna e Modena al tempo dell’imperatore Federico II. Durante la battaglia di Zappolino (15 novembre 1325), i bolognesi, che erano riusciti a invadere il territorio di Modena, furono respinti e inseguiti fino alla porta S. Felice lungo le mura della città; i modenesi si ritirarono portando via come trofeo una secchia di legno. Al rifiuto di restituirla, si riaccese la guerra cui parteciparono, distribuiti tra le due parti, gli dei dell’Olimpo. A favore dei modenesi combattevano re Enzo, il figlio dell’imperatore, e personaggi immaginari. Alla fine il conflitto si conclude con l’intervento del conte di Culagna e a queste condizioni: i bolognesi si tengano prigioniero re Enzo – che era stato catturato – e i modenesi si tengano la secchia. Molti sono i richiami “gastronomici” nel corso dello svolgimento del poema, come quello riguardante la salsiccia modenese (Canto primo, ottava XXXI): L’oste dal Chiù Zambon dal Moscadello / Facea tra gli altri una crudel ruina; / Una zazzera avea da farinello / senz’elmo in testa e senza capellina. / Si riscontrò con Sabatin Brunello, / primo inventor della salsiccia fina, / che gli tagliò quella testaccia riccia / con una pestarola da salsiccia. Ancora salsiccia ma questa volta non da sola (Canto quarto, ottava V): Tutte nostre saran senza sospetti / Queste ricche campagne, e questi armenti; / la salsiccia, capponi, e i tortelletti / da casa ci verran cotti, e bollenti. Nel canto duodecimo, descrivendo il rinfresco offerto al legato pontificio al suo arrivo a Modena, Tassoni scrive (ottava XIX): Or al Legato que’ Signor portaro / Rinfrescamenti di diversa sorte; / Di trebbian perfettissimo un quartaro, / E in sei canestre ventiquattro torte, / E una misura che tenea un caldaro, / Di sughi d’uva non più visti in Corte, / E, per cosa curiosa e primaticcia, / Quarantacinque libre di salsiccia. Più avanti, riferendosi ai doni offerti al legato che si accinge a partire da Modena per recarsi a Bologna, Tassoni traccia in poche parole un quadro quanto mai efficace delle specialità locali (Canto duodecimo, ottava XXXVIII): Gli donò la città trenta rotelle, / E una cassa di maschere bellissime, / E due some di pere garavelle, / E cinquanta spongate perfettissime, / E cento salsicciotti, e due cupelle / Di mostarda di Carpi isquisitissime, / E due ciarabottane d’arcipresso, / E trenta libre di tartufi appresso.

Incisione di Augusto Majani che precede l’incipit del poemetto Origine del tortellino, in La secchia 348


Arti e letteratura

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Carlo Rognoni

(Vigatto, 1829 – Panocchia, 1904) Raccolta di proverbi agrari e meteorologici del parmigiano. Seconda edizione migliorata e accresciuta di 50 proverbi sulla prima edizione del 1866. Parma, tip. di G. Ferrari e figli, 1881. 38 p. ; 24 cm. Bologna, BC Archiginnasio (8. Letteratura italiana. Dialetti. Cart.V, n. 3)

Dopo alcuni anni trascorsi come assistente all’Università di Parma per la cattedra di chimica, materia in cui si era laureato, nel 1874 divenne docente di Agraria e di Contabilità agraria presso il Regio Istituto Tecnico ‘Macedonio Melloni’ dotato di un podere sperimentale, che Rognoni diresse dal 1874 al 1902. Già dal 1865 aveva avviato colture sperimentali, specialmente del pomodoro – e successivamente della barbabietola da zucchero – nel suo terreno situato a Panocchia, nel comune di Vigatto, conosciuto come “la Mamiana”, antica proprietà dei conti Mamiani ereditata da un parente. Qui Rognoni introdusse per primo i pomodori nella rotazione delle colture biennali con il granoturco ed il frumento. In collaborazione con l’agricoltore Giuseppe Ferrari ideò un sistema di preparazione del terreno e di coltivazione con filo di ferro e pali di sostegno per le piante, detto “alla genovese” che ebbe applicazione fino a dopo la seconda guerra mondiale quando, dagli Stati Uniti d’America, vennero importate varietà di pomodoro in grado di sostenersi da sole. Suo è il trattato del 1887 La coltivazione del pomodoro nel podere sperimentale del r. Istituto tecnico di Parma, al concorso regionale dell’XI Circoscrizione agraria (Parma,Tipografia Giacomo Ferrari e figli); grazie a lui questa coltivazione ebbe larga diffusione in tutto il territorio parmense, aprendo la strada all’industria conserviera e nel 1922 nacque a Parma la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari. Rognoni può quindi essere considerato il fondatore di questa attività produttiva. Molti furono gli agronomi che si unirono a lui nella coltivazione del pomodoro e nella fabbricazione della conserva, fra i quali Stanislao Solari, Fabio Bocchialini e Antonio Bizzozero che si incaricarono di insegnare – tramite le cattedre ambulanti di agricoltura (v. box) che ricoprivano e le loro pubblicazioni – le tecniche di coltivazione, di concimazione e rotazione della coltura del pomodoro. Nel 1913 Bizzozero si spinse a dichiarare: “State pur certi che i maccheroni al sugo con pomidoro ed il risotto al pomidoro, col relativo condimento di burro di pura panna e Parmigiano stravecchio, diverranno due istituzioni mondiali”. Nel 1881 Rognoni pubblica questo opuscolo, interessante sia per la storia dell’agricoltura che per quella più specificatamente linguistica del dialetto. Come lui stesso scrive: “La tradizione popolare conservò nelle nostre campagne non pochi dettami, che riguardano le pratiche agrarie, il corso delle stagioni, i pronostici del tempo, e compendiano, per così dire, la scienza rusticana delle passate generazioni. Di tali proverbi ve n’ha che sono propri e speciali del contadino parmense; e questi distinguonsi per una imaginosa vivacità, che ricorda l’arguto parlare del vecchio Catone, 349


Johann Wilhelm Weinmann, Phytanthoza iconographia, [Ratisbona], apud praenominatio pict. & calcogr. Augustae venum prostat, quorum sumptibus imprimebatur Ratisbonae per Henricum Georgium Neubauerum, 1737-1745, vol. VIII, fig. 935 (Rimini, BC Gambalunga): l’opera del botanico e farmacista tedesco riporta, nei suoi otto volumi, più di 1000 incisioni colorate a mano e realizzate con un processo di stampa di nuova concezione che permetteva maggiori dettagli e sfumature. Il lavoro fu completato, dopo la morte di Weinmann, da Ambrosius Karl Bieler

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notato nella favella dei Galli antichi, i quali, sappiamo, lungamente abitarono le terre della nostra provincia”. Si tratta di 180 proverbi numerati progressivamente, ognuno dei quali è seguito da qualche riga di spiegazione, come per esempio il n. 3: “Tèra däl Borghètt, che pu se ghn’ha s’è pu povrètt. Borghetto è una villa del Comune di Noceto a poca distanza da Borgo S. Donnino [Fidenza]. Va in proverbio la sterilità delle sue terre col motto che chi più ne ha, più è poveretto. Dicesi anche dell’altre terre che le somigliano”; o il n. 23: “Al pan sta in di foss. Il pane sta nei fossi e significa che l’agricoltore deve innanzi tutto tenere i fossi di scolo purgati e netti, perché l’acqua stagnante e la soverchia umidità sono i peggiori nemici del grano. Oltreché le rimondature dei fossi, miste a letame, formano buon concime pe’ campi. Fosse e capezzagne [da noi chiamate ‘cavedagne’, sono strade sterrate di servizio ai campi coltivati] benedisse le campagne è proverbio veneto”. E ancora il n. 133: “I spàres dop i vintòn, fan i còren ai so patròn. Motto arguto dei nostri ortolani, per avvertire che dopo il 21 maggio è da cessare la raccolta degli asparagi se non vuolsi recare grave danno alla produzione loro negli anni successivi”. Molteplici sono gli argomenti toccati da queste ‘perle’ della saggezza contadina, come quello socio-economico ( il n. 6: “Chi ha cà e trèn, al se squàsa, ma al tèn. Chi ha casa e podere, può tremare ma non cadere”; o il n. 7: “Chi ha tèra e cà, l’è ‘n sior e gnanc’al sa. Chi ha terra e casa è un signore e non lo sa”). Ci sono avvertimenti sul modo di condursi nell’allevamento degli animali (33. “Còmpra bèn, chi còmpra giòven. Compra bene, chi compra animali giovani”; 34. “Magnaròn fa cavallòn, Magnarèn fa cavallen. Un mangiare abbondante fa un cavallo grande, uno misero lo fa piccolo”). C’è l’aspetto meteorologico, vivacizzato dall’accostamento all’agiografia popolare (71. “Sant’Andrea, monta in quadrèa. A Sant’Andrea comincia veramente l’inverno”; 73.“Santa Luzìa l’è al dì pu curt che gh’sia. Santa Lucia è il giorno più corto che ci sia”; 83. “San Läri mercànt da neva. Sant’Ilario porta la neve”). (zz) Gregory 2010


Arti e letteratura

Le cattedre ambulanti Nel corso del XIX secolo furono la più importante iniziativa di istruzione agraria, rivolta in particolare ai piccoli coltivatori, grazie anche alla collaborazione della parte più progredita del mondo intellettuale e della scuola, prima attraverso la docenza libera, poi di ruolo. In Emilia Romagna le prime cattedre ambulanti furono istituite a Parma (1892), a Bologna (1893), a Rimini (1896) e a Piacenza (1897). Furono promosse dai Comizi agrari in collaborazione con le amministrazioni e le società agrarie locali, coadiuvate dalle prefetture. I Comizi erano incaricati di presentare al governo i progetti che si riteneva potessero migliorare le condizioni dell’agricoltura, dovevano inoltre raccogliere per il governo le notizie più interessanti e fare opera di informazione tra i contadini su colture, metodi e strumenti, promuovendo esposizioni e concorsi di macchine e attrezzature, nonché controllare che fossero rispettate le norme di polizia sanitaria. Le cattedre si rivolgevano sia ai proprietari terrieri che ai contadini e in Italia rappresentarono il primo esempio di impegno ‘ufficiale’ ad insegnare le nuove tecniche agricole. Erano rette da un direttore (chiamato professore) coadiuvato da uno o due assistenti, tutti laureati in scienze agrarie; ad essi si affiancavano aiutanti con varie qualifiche. Le ‘lezioni’ si svolgevano in forma di conferenze tenute in luoghi pubblici, sopralluoghi presso le aziende agricole e consulenze offerte soprattutto nei giorni di mercato a chi ne facesse richiesta. Inoltre molte cattedre pubblicavano opuscoli e giornali. Col tempo furono trasformate in ispettorati provinciali dell’agricoltura per diventare poi uffici del Ministero dell’agricoltura e delle foreste.

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Gaspare Ungarelli (Bologna, 1852-1938)

Le piante aromatiche e medicinali nei nomi, nell’uso e nella tradizione popolare bolognese. Bologna, Tipografia L. Parma, 1921. XXXVI, 132 p. ; 18 cm Bologna, BAS S. Giorgio in P. (Sala.581.63403 ung pia)

Nato a Bologna il 19 novembre 1852, Gaspare Ungarelli cominciò a lavorare giovanissimo nell’amministrazione comunale di Bologna; dopo qualche anno fu trasferito alla Biblioteca dell’Archiginnasio, dove si svolse tutta la sua carriera, prima come distributore e poi come aggiunto (cioè assistente). Resse la direzione della Biblioteca per quasi due anni, dopo la morte di Luigi Frati, dal febbraio 1903 all’insediamento di Albano Sorbelli (ottobre 1904). Nonostante la brevità della sua direzione riuscì a realizzare interventi importanti e duraturi, tra i quali l’apertura serale (dal 12 dicembre 1903) con l’allestimento di un impianto di illuminazione a gas, lo spostamento del banco della distribuzione e dei cataloghi per maggiore funzionalità dei servizi e l’avvio di abbonamenti e acquisti librari di attualità e di divulgazione per aumentare la possibilità di fruizione della biblioteca. Promosso nel 1906 aggiunto principale (vicebibliotecario), lasciò la Biblioteca per il collocamento a riposo nel 1908. Esperto di storia locale – soprattutto per il periodo risorgimentale – del dialetto e del folklore, fu autore di numerose pubblicazioni, tra le quali il 351


Vocabolario del dialetto bolognese (Bologna 1901), lavoro pionieristico per l’uso della glottologia nella rappresentazione del suo complesso sistema fonetico. Collaborò a varie riviste prestigiose, come l’«Illustrazione italiana», la «Nuova Antologia», «Natura ed arte», «L’Archiginnasio» e ad altre ancora, oltre che al quotidiano «Il Resto del Carlino». Le sue carte sono conservate dalla Biblioteca dell’Archiginnasio. Il libretto – il formato ridotto non tragga in inganno – contiene un lavoro organico e rigoroso sui rapporti tra la cultura popolare petroniana e le piante che solitamente vengono usate in cucina o in medicina. Le piante, elencate in ordine alfabetico secondo il nome dialettale e con grande cura dell’ortografia (esattamente come per il Vocabolario), sono tante. Questa è la prima edizione. La prefazione è del conte Cesare Ranuzzi Segni, fondatore (nel 1899) e presidente della sede bolognese dell’Associazione Pro Montibus et Silvis, la più antica in ambito naturalistico, fondata l’anno prima a Torino per iniziativa del Club Alpino Italiano. A pagina XIII egli scrive: “Il nostro manualetto viene a colmare una lacuna; dato che con la sistematica produzione e raccolta delle piante medicinali, si tende come a sussidiare in modo diretto ed efficace il regime igienico del paese così da arricchirlo di una nuova, sia pur modesta, industria agricola, atta a scambi internazionali; oltreché a sopperire di materia prima in modo copioso e costante le nostre industrie chimico-farmaceutiche. Epperciò è cosa indispensabile divulgare la cognizione delle piante aromatiche e medicinali fra i campagnoli in genere e specialmente fra i direttori d’azienda, erbaioli, sementaioli e financo fra le massaie delle nostre campagne.” E più oltre: “Mentre il nostro volumetto va ad occupare un posto non disutile tra recenti pubblicazioni della Pro Montibus, osiamo per parte nostra avanzare una raccomandazione. A mano a mano che si va disciplinando la raccolta delle piante medicinali, si provveda ordinatamente anche alla conservazione. Non dimentichiamo che ne’ paesi dove o per intenti industriali, o per bramosie di collezione, o per necessità di studio si rese generale l’uso di raccogliere piante spontanee, segnatamente alpine, vennero a mancare a poco a poco molte specie preziose, tanto da cagionare provvedimenti proibitivi”. Era l’anno 1921. (zz) aib.web.Pubblicazioni.dbbi20

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Arti e letteratura

143.

Giovanni Pascoli

(San Mauro di Romagna, 1855 – Bologna, 1912) La piada, in Nuovi poemetti Bologna, N. Zanichelli, 1909. XII, 223 p. ; 23 cm. – La poesia si trova alle p. 145-151. Bologna, BC Archiginnasio (16. b. II. 21)

“Romagna solatìa, dolce paese” scrive Giovanni Pascoli in una celebre lirica dedicata alla sua terra d’origine. Nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli), a pochi chilometri da Forlì, il 31 dicembre del 1855, la sua infanzia fu colpita da una serie di lutti che ne segnarono l’esistenza: l’omicidio rimasto impunito del padre, la morte della madre e della sorella l’anno dopo, e quella del fratello Luigi quando Giovanni è appena quindicenne. Gli anni della giovinezza vedranno Pascoli rifugiarsi nello studio e nell’ardente interesse per la letteratura che lo porteranno a conseguire una borsa di studio per frequentare la facoltà di lettere dell’Università di Bologna (ad esaminarlo fu Giosue Carducci). La predilezione per la poesia spinge il poeta a laurearsi nel 1882 in letteratura greca con una tesi sulla produzione di Alceo; nell’ottobre di quello stesso anno gli viene assegnata la cattedra di latino e greco presso il liceo classico di Matera. Da questo momento Pascoli si trasferirà in molte città d’Italia: dopo Matera seguiranno Massa e Livorno. Negli anni toscani il poeta riuscirà a ricomporre ciò che rimaneva del “nido” familiare, tema ricorrente della sua opera, chiamando a vivere con sé le due sorelle minori Ida (che si sposerà qualche anno dopo) e Maria (dalla quale non si separerà fino alla morte). Dopo aver ricevuto la nomina dall’Università di Bologna per la cattedra di grammatica greca e latina nel 1895, due anni più tardi sarà professore di letteratura latina presso l’Università di Messina, e nel 1903 lavorerà all’Università di Pisa. Divenuto un poeta affermato e riconosciuto a livello internazionale, con la pubblicazione di raccolte poetiche come Myricae, Canti di Castelvecchio, e i Poemi conviviali, Pascoli raccoglie l’eredità del suo insegnante Giosue Carducci diventando professore di letteratura italiana presso l’Università di Bologna. Da Matera a Livorno, dalla Garfagnana alla Sicilia, fino ad arrivare agli ultimi anni divisi lungo la strada tra via Zamboni a Bologna e la casa di Castelvecchio di Barga: il profilo biografico di Pascoli potrebbe, ad un primo esame, apparire come quello di un apolide. Le sue poesie in realtà svelano un’altra verità: la scoperta del “fanciullino” che vive in ogni uomo e il riconoscimento dell’importanza della dimensione del ricordo e della memoria, emergono con tutta la loro profondità nelle liriche che hanno come sfondo gli anni dell’infanzia e mettono in luce un legame intenso e amorevole con i luoghi delle origini, quella Romagna che lo spinge a scrivere “sempre mi torna al cuore il mio paese”. E allora non stupisce che Giovanni Pascoli sia il cantore della Piada, nota anche con il suo diminutivo “piadina”, cibo tradizionale e tipico del territorio romagnolo. Celebrare quell’ “azimo santo e povero dei mesti agricoltori” evidenzia uno dei tratti tipici del poeta che sceglie come 353


soggetto dei suoi componimenti le “piccole cose”, figure raccolte, oggetti umili, paesaggi campestri. Fanno il loro ingresso dirompente nella tradizione lirica italiana tematiche e oggetti fino a quel momento esclusi dal “poetabile”: con Pascoli la piadina, ma anche la polenta, le galline, il castagno, acquistano una dignità poetica e la poesia si presenta come apertura alle cose, come scoperta della realtà. Già dalla prima raccolta si può individuare il valore programmatico di una poesia che si riferisca ad argomenti e materie quotidiane, una poesia dimessa per temi e stile: il titolo Myricae fa riferimento alle tamerici (molto presenti in Romagna) e alla quarta Bucolica virgiliana. Proprio dall’opera del poeta latino sono presi i versi che costituiscono l’epigrafe della raccolta. Se però Virgilio scriveva “non omnis arbusta iuvant humilesque myricae” (non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici) Pascoli elimina dalla citazione il “non omnis” iniziale dando al verso un significato diverso, opposto, e sottolineando la sua volontà di cantare oggetti semplici e quotidiani come appunto la piadina. Virgilio, nella sua opera più celebre, viene citato ancora da Pascoli a proposito della piadina: nel settimo libro dell’Eneide (VII, 107-115) infatti, il poeta di San Mauro individua nella “mensa” latina l’antenata della piadina. In virtù di questa intuizione, anche se in una nota Pascoli elenca i nomi attribuiti alla piadina (“Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della povera gente”), sappiamo che, non senza una punta d’orgoglio, il cantore del fanciullino amava definire l’umile cibo romagnolo “pane d’Enea”. Appellativo suggestivo e celebrativo per quel cibo da offrire all’“antico ospite”, per quel pane povero, sempre apprezzato dal “reduce aratore”, quel “pane dell’umanità, che cuoce in mezzo a tutti, sopra l’ara”. (acm) Fre 2013, 73-74

Tigelle e borlenghi

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Se in Romagna c’è la piada, in Emilia – più precisamente nel Modenese – ci sono tigelle e borlenghi. La tigella è più propriamente la piastra rotonda, variamente decorata, fatta di terracotta refrattaria – tuttora prodotta nella zona dell’Appennino dove si stende il borgo medievale di Samone di Guiglia – che serve per cuocere la crescentina (un impasto di farina di grano, acqua e latte più un prodotto lievitante, bicarbonato oppure lievito per pane). Ogni famiglia produceva le tigelle con il proprio disegno di riconoscimento, sostituito poi dalla ‘stella comacina’ a sei punte, simbolo di buon auspicio. Nel Museo dedicato a questo prodotto è possibile vedere anche frammenti di tigelle risalenti all’epoca medievale, testimonianza concreta dell’origine più che antica di questo strumento, nel quale vengono cotti i dischetti di pasta lievitata racchiusi tra due foglie essiccate di castagno o di noce, che una volta pronti verranno consumati caldi con formaggi, affettati o il tipico ‘pesto’ alla modenese, fatto con lardo di suino, aglio, rosmarino e pepe. Secondo la tradizione, il borlengo è invece il cibo consumato durante il periodo carnevalesco, dall’Epifania fino al martedì grasso (il nome stesso sembra derivare dalla parola ‘burla’). Antichissimo, era il cibo dei poveri, legato alla tradizione pagana del cibo-sole, come ‘sole’ sono chiamate le padelle che servono per cucinarlo. Alla semplicità degli ingredienti (farina, acqua, uova e sale, a cui si sono aggiunti in seguito come condimento lardo fuso, rosmarino, aglio e parmigiano-reggiano grattugiato) si accosta la complessità della preparazione, che è possibile vedere e provare visitando il Museo.


Arti e letteratura

144.

Marino Moretti

(Cesenatico, 1885-1979) L’ Andreana: romanzo dei figli. Milano, A. Mondadori, [1935]. 342 p. ; 19 cm.

Cesenatico, BCasa Moretti (MOR 5)

[…] un quartiere tutto di ghiacciaie in forma di grotte scavate in profondo, cinte all’esterno di muri bassi e rotondi e coperti di tegoli […] Orizzontarsi in quella specie di “villaggio abbissino”, come qualcuno lo vedeva, mettere i piedi ove non fosse fango, evitare i rivoletti d’acqua sudicia sgorganti da ognuno di quegli usci, non era cosa agevole per chi voleva mantenersi intatte, oltre che le manine, le scarpe e in certi casi perfino i mocassini: senza dire che la stessa natura del terreno doveva avere influito sull’immaginazione della gente da poco se un dislivello di due o tre metri faceva dare a quei luoghi assurdi il nome di “monti”. Qui evocate dalla penna di Marino Moretti, le ghiacciaie o conserve – a seconda che fossero usate come semplice deposito del ghiaccio naturale o della neve compressa oppure servissero proprio per la conservazione degli alimenti deperibili – costituirono una ‘invenzione’ originale ma fondamentale per l’economia almeno fino agli inizi del ‘900, soprattutto lungo la costa romagnola, dove servirono come depositi per mantenere inalterati il più possibile certi tipi di alimenti, quali il pesce. Non a caso nel romanzo, l’Andreana è moglie del pescivendolo più celebre del paese e lei stessa arriverà a svolgere lo stesso lavoro. Dalle conserve di Cesenatico il pesce veniva poi avviato ai vari mercati per mezzo di carri a traino animale. L’origine delle conserve risale a circa cinquecento anni fa, come il porto-canale disegnato da Leonardo da Vinci, “Lento canale urbano / con capanni qua e là su palafitte / e le case stan ritte tenendosi per mano”: con queste parole lo stesso Moretti presenta Cesenatico, anzi ‘il Cesenatico’ – come si diceva un tempo – che origina il proprio nome dalla città di Cesena di cui fu il porto. Nei grandi pozzi interrati il ghiaccio veniva ammassato fino all’orlo e in quantità tale da garantire il funzionamento da un inverno a quello successivo, ottenendo temperature tali da mantenere il pesce fresco per parecchi giorni. Nella seconda metà dell’Ottocento erano circa una ventina e continuarono a svolgere la loro attività fino al 1930, quando entrò in funzione la prima fabbrica per la produzione del ghiaccio artificiale. Poeta, scrittore, romanziere e autore di opere teatrali, Marino Moretti debuttò nel mondo letterario nel 1905 con la pubblicazione di una raccolta di poesie e una novella (rispettivamente Fraternità e Il paese degli equivoci). Durante la prima guerra, si arruolò come infermiere volontario negli ospedali da campo e, durante la dittatura fascista, firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel secondo dopoguerra interruppe la sua carriera di romanziere e da quel momento profuse tutti i suoi sforzi nella revisione e ristampa delle opere precedenti, mentre 355


Marino Moretti, La voce di Dio Cristina portò il matterello della piada, ch’era più corto e più sottile, un granatello quasi nuovo, e lo staccio mezzano: era il vaglio più rado, quello che toglieva la crusca alla farina, ma lasciava il cruschello. La Menghinina era d’avviso che un po’ di cruschello desse miglior sapore alla piada. E poi poteva mancare il cruschello al pane dei poveri? Ella era una donna antica, un’azdora (la massaia) della tradizione e si mostrava contrarissima alle azdore giovani che facevano della piada una pizza, un dolce qualsiasi, adoperando – le schizzinose – il puro fior di farina, gramolando e impastando col latte, lo strutto e la chiara d’uovo, aggiungendo perfino alla miscela appiccicosa quell’altra porcheriola del bicarbonato! La piada era la piada: era pane. Stacciava ella ritmicamente sul tagliere candido, e il vaglio leggero come una piuma nella sua mano agile pareva quasi autonomo, pareva girar su se stesso prillando, rialzandosi a ritmo da una parte o dall’altra, divenendo aereo talvolta, cantando lievemente stridulo nella danza concentrica: ma di mano in mano che la farina vagliata sfuggiva di sotto allo staccio sparpagliandoglisi a poco a poco torno torno, il canto si faceva più debole, s’attutiva, si smorzava come un passo su un tappeto, sull’erba o sulla polvere […] Prima d’impastare, pensò al fuoco. Per cuocere la piada occorre la fiamma, la bella fiamma caduca, la vampata, il falò. Il grande testo rotondo, grande quanto lo staccio, deve riscaldarsi così prima che vi si adagi la pasta. La Menghinina sa che per ottenere questa fiamma occorrono cannarelli che prendono subito, che s’incendiano con un solo fiammifero; e, oltre ai cannarelli, quelle pigne rade, vuote e leggere che si chiamano sgòbole e che son più resistenti e finiscono di cuocere la pasta quando la fiamma è caduta. La vecchia s’appressò al camino solennemente come il sacerdote all’altare, preparò le tre pietre che dispose a triangolo sull’arola alta, sotto la cappa: erano le tre pietre affumicate che dovevano reggere il testo […] Intanto la vecchia era riuscita a render la pasta più compatta sotto la gagliardia delle sue mani che parevan puntarsi sul tagliere con tutto il polso, mentre la sua persona aderiva allo sforzo ritmicamente, curvandosi, con un’ostinazione penosa che dava un leggero dondolio alla testa abbassata tanto da lasciar la povera nuca scoperta, e un piccolo tremito alle spalle. Ecco: il più era fatto: la pasta era ben lavorata, pronta per il matterello […] Afferrò un coltello, divise la pasta in tre parti uguali, a occhio, per le tre sfoglie. Ma prima di spianarle col matterello diede l’ordine alla padroncina di accendere. La fiamma sorse subito, gaia, scoppiettante, crepitante, schiacciata dal testo; sempre nuove fiammelle ne lambivano gli orli, quasi curiose di vedere se la piada cruda era già stata distesa, un po’ più piccola del testo arroventato […] Teneva sulle due palme aperte, così come si tiene una cosa ricca, la prima candida sfoglia che ricadeva floscia dalle sue mani in pieghe molli di stoffa morbida e spessa. Con abilità sorprendente, di colpo la gettò sul testo facendovela ricadere senza una piega, perfetta. Cristina, entusiasticamente, abbracciò la sua serva. Mi lasci, mi lasci stare! – gridava la Menghinina divincolandosi […] Si sciolse in tempo da quell’abbraccio furioso: la piada non s’era bruciata, ma bisognava voltarla. Aveva fatto un po’ di crosta indurendosi agli orli ed era già picchiettata di bruciaticcio; bollicine si sollevavan qua e là nel calore giusto della terracotta, si colorivan leggermente, taluna si bruciava e scoppiava. La vecchia insinuò il coltello da cucina fra testo e piada perché questa non cuoceva troppo nel mezzo, e chinatasi, soffiò sulle sgòbole che si disfacevano ardendo senza quasi più fiamma […] La prima piada era fatta. Ella la ritirò col coltello, la prese poi col pollice e l’indice incalliti, che non temevano le scottature, la mostrò con orgoglio alla padroncina tenendola sollevata in alto, bella, tonda, compatta, fantastica, religiosa, miracolosa, come una grande ostia da spezzarsi nel rito domestico: la portò poi sulla credenza e la mise lì, ritta contro il muro, dietro i candelieri, perché non rinvenisse. Si finisce di cuocere – mormorò poi con dolcezza, riprendendo il matterello. Cap. VI, p. 44-46 356


Arti e letteratura l’attività di poeta proseguì fino al 1974. Sempre attento agli aspetti più significativi della sua terra, dedicò loro suggestive pagine, come nel caso di un altro romanzo, La voce di Dio (Milano, Fratelli Treves, 1921) in cui descrive magistralmente la preparazione della piada – oppure nella poesia Vendemmia (dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie, poemetti, novelline per la giovinezza, del 1908), dove delinea con poche ‘pennellate’ uno dei momenti più importanti della tradizione agricola: “Nei campi è tutto un bagliore, / di grappoli d’oro, di falci, / tutto un gioire di tralci / che ostentano qualche rossore. // Nei campi è tutta una festa / di luci, di ombre, di canti: / ridon gli sguardi sultanti / per tanta messe rubesta. // S’alzan gli accenti sonori / delle più gaie canzoni / dai verdi rossi festoni / e dagli intrepidi cuori. // E s’ode insieme una schiera / di donne cantilenare / nel breve cielo che pare / un cielo di primavera.” (zz) Graffagnini, 1977

145.

Bellerofonte Castaldi (Modena, 1581 ca. – 1649)

De le rime burlesche seconda parte. setnoforelleb tabedul. In Modena tra vitelli e campagne e la festa puzza, 1636. Ms. cartaceo ; sec. XVII; VI, 239 c. [numerazione moderna a matita]; le c. 93, 94, 114 sono mutile. Legato con la terza parte, 1638. – Nel titolo il nome dell’autore è scritto a rovescio (Bellerofontes ludebat). Modena, BEU (Dep. San Carlo n. 6)

Fu compositore e virtuoso suonatore di tiorba, ma anche intagliatore di caratteri musicali e stampatore delle proprie opere. Il padre Francesco, contrariato per avere a Modena più di un omonimo, volle dare ai figli nomi insoliti. Le quattro femmine si chiamarono Arpalice, Areta, Artemia, Axiotea; i tre maschi Oromedonte, Sesostri e, appunto, Bellerofonte. “Nomen omen” avrebbe osservato Plauto e infatti se nel nome che portiamo è davvero contenuto un presagio, non poteva che essere un personaggio anticonformista e bizzarro. Girolamo Tiraboschi racconta che “Vien però egli tacciato come scrittor troppo libero e mordace”; nel risguardo del manoscritto qui descritto è incollata un’etichetta su cui si legge: “Rime burlesche di Bellerofonte Castaldi modenese poeta libero e mordace vissuto nel secolo XVII. Un improvido zelante, troppo delicato, ha osato levare diverse carte da questo manoscritto, e cancellare alcuni versi”. Ebbe in effetti una vita movimentata che affrontava con allegro distacco, se si deve credere a quanto scrive in una delle sue poesie, presente in questa raccolta e dedicata ai ‘Signori Musifili’, scrive infatti: “Amici, io son di certa condittione / che su miei cinque soldi me la passo / e in smusicar ognhor mi piglio spasso / tempestando liuto o chittarone”. Ma il suo strumento prediletto era la tiorba, della quale sempre Tiraboschi lo dice “eccellente sonator e avendone composte, e poi incise di sua propria mano alcune sonate le pubblicò in Venezia per Alessandro Vincenti”; nella stessa poesia Castaldi dichiara: “D’un nobile strumento ho appreso 357


l’arte / con cui discaccio ogni malinconia / e ben ch’Apol mi sia ritroso e schivo / pur leggo, canto, scrivo / qualche strambotto”. La fama di Castaldi è affidata essenzialmente ai suoi Capricci per tiorba e tiorbino (Modena, Soliani, 1622), strumenti a 14 corde appartenenti alla famiglia degli arciliuti, insieme con il chitarrone e i liuti attiorbati. La tiorba ebbe fortuna nella pratica musicale: conosciuta in tutta Europa, ne esisteva ancora nel 1755 un suonatore alla corte di Vienna. Compose anche il Primo mazzetto di fiori musicalmente colti dal giardino bellerofonteo (Venezia 1623) per una o più voci, con le sue incisioni e le sue rime. Un esemplare di questa composizione è presente nella biblioteca del Museo internazionale della musica di Bologna (collocazione: X.248). L’autore si rivolge così al lettore: “Benigno e cortese Leggitore, Questo mazzetto di Fiori Musicali che col mezzo della stampa del gentilissimo Alessandro Vincenti hora ti si porge, non li sprezzar così al primo come farà forse qualche villano indiscreto, ma dagli una annasatina col giuditio del orecchio, e caso che tu non senta quella refragrantia d’odor Sabeo che al personaggio a cui si dedica pur si converria; scusa, et accetta il buon animo del pouero Hortolano, che per la sterilità del suo Giardino non hà cosa per hora più a proposito da mettere sotto al tuo naso delicato e schivo”. Lo spartito è corredato di un elogio in versi del poeta Fulvio Testi all’autore, il cui ritratto all’acquaforte lo rappresenta seduto a un tavolino tenendo la chitarra colla mano sinistra, mentre con la destra sta scrivendo musica. Nella poesia “In lode de la salciccia da Modena” (p. 103-111) Castaldi esordisce chiarendo che non è sua intenzione emulare grandi poemi come quello di Ariosto o Tasso, bensì è suo desiderio “De la buona salciccia modanese / Vorrei mo’ essere Poeta divino” poiché “Basta che di zambone, o sardellino / De la più fina arrosto, sotto l’naso / Senta l’odor, senz’altre invocazioni, / Che mi verran concetti a millioni” e tanto per cominciare “Eviva ancora la sulcizza fina, / Ch fa’ ch modna sia si numinada, / si ben l’è una città si pznina” che però manda le sue salsicce anche a Roma e “ Al Rumanesch habbia pacientia, e perda / Al parangon d’un nostr sulzizzer, / Ch s’ lu la fa’, eh’ la par fatta d’ merda, / Le ch’ an’ s’ intend propria dal mster”. Per quanto riguarda i bolognesi “[…] han qui sue’ sulcizzon, / Alias salam, ch’e cosa d’impurtantia, / Buntà dal so’ paes, ch’ fa i Purcastron / E grand, e gross’, e grass pr usanza; / E sben lor lian più [+++] / Chn’n ha qui d’Modna, e dla so vsinanza / L’in va però anch di nuestr pr al mond, / Mo la sulcizza e quella ch tocca’1 fond”. E il finale è un vero e proprio inno: “Sulcizza vaga, sulcizza amorosa, / Sulcizza me zintil, sulcizza bella, / Udurosa, muschiosa, e pretiosa, / L’e la me’ tramuntana, e la me’ strella. / Ne i Milanes, ne i Cremunes han cosa / Si bona, sia busecca, o murtadella, / Ne qui dal nostr’ clima, o qui d’ sotta / Han cosa, si lecarda, ne si ghiotta. // Viva Modna, e immurtal al preci’ e al vant / D’ la sulcizza, ch’ fors ven ab etern; / E sia canunizada col pan sant; / E s’impa d’l so lod piu d’un quintern; / E vegna qualch’ un altr piu elegant, / Ch’ m sri a dir libero [?] i comich mudern, / Ch fazza not al mond, quasi pr’ so spass, / Qual, ch’ adess’ pr ignuranza mi a tralass”. (zz) DBI, XXI, 552

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Arti e letteratura

Musica, salsicce e mortadella Fra i molti compositori che hanno avuto la possibilità di gustare le specialità regionali, un posto privilegiato occupa sicuramente Gioachino Rossini, marchigiano di nascita ma romagnolo di ‘radici’ (la famiglia era originaria di Lugo) e bolognese di adozione. Note sono le sue lettere di argomento culinario, in particolare quelle indirizzate a Giuseppe Bellentani, il famoso ‘salsamentario’ che inviava i suoi prodotti al musicista ovunque si trovasse, persino nel suo esilio di Parigi. Firenze, 28 dicembre 1853 Il Cigno detto di Pesaro all’Aquila de’ salsamentarii Estensi. Voi avete voluto spiegare un volo altissimo per me, privilegiandomi di zamponi e cappelletti appositamente lavorati; ed è ben giusto che io, come dal basso delle patrie paludi dell’antica Padusa, sollevi un rauco grido di speciale ringraziamento verso di voi. Trovai la collezione delle vostre opere completa da tutti i lati; e meco ne gustarono l’interiore maestria quanti ebbero la sorte di deliziarsi nella finezza delle vostre famigerate manipolazioni. Non pongo in musica le vostre lodi, perché come nell’altra mia vi dissi, in tanto strepito del mondo armonico mi mantengo ex-com‑ positore. Buon per me e meglio per voi! Voi sapete toccare certi tasti che sodisfano il palato, giudice più sicuro dell’orecchio, perché si appoggia alla delicatezza del tatto nel suo punto estremo che è il principio della vitalità; per piacere a voi, di questi tasti uno solo io ne tocco, ed è quello della mia sentita riconoscenza per tante vostre premure. Desidero che esso vi serva di stimolo a voli più elevati per meritarvi una corona d’alloro, di cui ben volentieri vi cingerebbe il vostro obbligatissimo servo.

Incipit del poemetto In lode de la salciccia da Modena di Bellerofonte Castaldi

Da Lettere di Gioachino Rossini, raccolte e annotate per cura di Giuseppe Mazzatinti, Fanny Manis, G. Manis. Firenze, G. Barbera, 1902, p. 222-223 Chi desidera approfondire gradevolmente la conoscenza della stretta amicizia tra le note della musica e quelle del cibo, può leggere Giancarlo Fre, Cucina all’opera: musica e cibo in Emilia-Romagna, [Bologna], Regione Emilia-Romagna – Assessorato all’agricoltura – Istituto per i beni culturali e naturali, [2013].

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Carlo Musi

(Bologna, 1851-1920) El mi canzunètt: ventiquattro canzonette. Parole e musica di Carlo Musi (Simulacro). Bologna, Lit. Sauer e Barigazzi, 1889. 76 p. : ill. ; 31 cm. – Canzoni in dialetto bolognese con partiture. Bologna, BAS S. Giorgio in P. (F.Storici 2 782.42162045 MUS MI)

Era figlio di un cameriere e durante la sua vita svolse diversi mestieri: commesso di merciaio, di chincaglierie, mercante di stoffe, contabile in una fabbrica d’astucci, commesso viaggiatore di abiti, di cravatte, di salumi, rappresentante di una casa di cognac e infine, dal 1901, anche quello di impiegato delle Regie poste, come testimoniano alcuni testi presenti nel fondo posseduto dalla Biblioteca del sodalizio petroniano “La famèja bulgnèisa”, che sono stati annotati su bollettini postali. Le sue canzonette, le “zirudele”, le poesie, i versi e i monologhi composti in dialetto bolognese e scritti per intrattenere il pubblico a teatro come prologhi, intermezzi o anche finali (fece parte, infatti, di accademie filodrammatiche e della Compagnia dialettale del Teatro Contavalli di Bologna) venivano abilmente declamati e recitati non solo a teatro ma anche nelle case di cittadini ed amici, o anche semplicemente in luoghi della città (caffè, sedi di sodalizi cittadini, redazioni giornalistiche), destando l’ilarità dei presenti, dal momento che la composizione dei testi aveva come oggetto situazioni, eventi, fatti e personaggi dell’epoca e della vita quotidiana cittadina, a tutti ben noti. Racconta di lui Alfredo Testoni in Ottocento bolognese (p. 172-177): “Sebbene ligio al suo dovere, non trascurò mai gli allegri raduni gastronomici, le chiassose brigate, instancabile a ballare polke, mazurke e valzer per notti intere, madido di sudore, lottando poi durante il giorno col sonno. Ma una volta, mentre puliva l’interno d’una vetrina del negozio Baroni per adattarvi le stoffe, cedette alla stanchezza e si addormentò profondamente, mentre davanti al cristallo si raggruppavano i passanti, fra commenti e risate”. Carlo Musi è ritenuto il padre della canzone bolognese: la sua produzione – e la relativa richiesta – fu tale che tutte le arie, composte tra il 1882 e gli ultimi anni della sua vita, furono raccolte con testi e spartiti in un volume pubblicato dalla libreria Brugnoli con il titolo El mi canzunatt. Alcune sono state anche incise discograficamente sebbene Musi non 360


Arti e letteratura avesse alle spalle lo studio della musica, per la quale si affidava al maestro Egberto Tartarini, direttore della Società corale orfeonica. La sua inconfondibile figura avvolta nel paltò (cappotto) o nella “caparèla” (mantella), la testa coperta dal basco e il toscano perennemente in bocca lo resero popolarissimo. Molte delle sue canzoni fanno riferimento a prodotti tipici della gastronomia locale o a luoghi e personaggi ad essi legati, come – per citarne solo alcuni – “Piròn al furnèr” (Pierone il fornaio), “I zalett” (gialetti, specie di biscotti fatti con la farina di mais), “Sussezza, cudghein e zampon” (Salsiccia, cotechino e zampone), “Trèi mnester!” (Tre minestre), “I zever” (I cefali), “San Martein!” (S. Martino, scritta perché in novembre si fa il vino). Alcune di esse, come “I zalett”, recano le parole di Alfredo Testoni che collaborò spesso con l’amico Musi alla stesura dei testi. Lo scrittore bolognese, più famoso come autore dell’opera teatrale “Il cardinale Lambertini”, che riscosse un grande successo fin dalla sua prima rappresentazione nel 1905, era nato nel centro storico di Bologna (in via S. Felice) e cominciò a scrivere giovanissimo, infatti non aveva ancora compiuto vent’anni quando, nel gennaio 1877, mise in scena la sua Lucciole per lanterne nell’importante Teatro del Corso di via S. Stefano (distrutto da un bombardamento nel 1944). Non ebbe successo ma non si scoraggiò. La sua attività principale fu quella di giornalista (collaborò tra l’altro con il giornale umoristico «Ehi! ch’al scusa» –il cui primo numero uscì il 4 dicembre 1880 - e con «Il Resto del Carlino»), ma col tempo il crescente successo delle sue commedie lo portò a dedicarsi esclusivamente al teatro, per il quale scrisse lavori che vengono ancora rappresentati, come “Instariarì” (Stregonerie) del 1881, “El fnester davanti” (Le finestre davanti) del 1927 e lo stesso “Cardinale Lambertini”. Testoni fu anche un apprezzato poeta dialettale, famoso per i suoi umoristici Sonetti della Sgnoura Catareina (signora Caterina). Ma la sua opera più importante, “Il cardinale Lambertini”, fu scritta in italiano. Negli ultimi anni della sua vita compilò una serie di volumetti che andarono a costituire infine un libro unico, in memoria della città di quando era giovane, Ottocento bolognese, facendovi confluire una vera e propria rievocazione della Bologna del secondo Ottocento, ricca di aneddoti sui personaggi di maggiore rilievo di quel periodo. (ZZ)

361


147.

Cosimo Morelli (Imola, 1732-1812)

Progetto della piazza dei mercati di Santarcangelo. Prospetti dei lati meridionale e settentrionale, 1775. Ms. pergamenaceo a penna acquerellato; mm 610x485 Santarcangelo di Romagna, ASC (Archivio segreto, B. 45, fasc. 6)

Architetto di origine ticinese, figlio di un capomastro-imprenditore di Torricella di Lugano e di una imolese, grazie all’amicizia con il cesenate Giovanni Angelo Braschi, il futuro papa Pio VI, ebbe la possibilità di realizzare diverse opere fra cui lo stesso palazzo Braschi, nella zona del Circo Agonale di Roma, la cattedrale e il teatro di Imola e il palazzo Anguissola a Piacenza, solo per citarne qualcuna. Nonostante questo, morì in difficoltà economiche e abbandonato quasi da tutti. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria in Regola, da lui completamente rifatta fra il 1780 e l’86. Il progetto per la realizzazione della piazza, destinata al mercato, gli fu richiesto dal Comune di Santarcangelo che gli aveva commissionato anche l’arco trionfale (iniziato nel 1772) voluto per onorare il papa – e concittadino – Clemente XIV Ganganelli. Il disegno presenta una pianta vasta rettangolare, cinta da porticati che riprendono il motivo del monumento dedicato al pontefice. La piazza purtroppo non fu mai realizzata e non ha quindi potuto andare ad aggiungersi alle tante strutture presenti in regione che da sempre rappresentano un punto di aggregazione strettamente connesso alla vita rurale. Scriveva giustamente Tommaso Garzoni nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo (Venezia, 1585): “[…] & quindi hebbero origine le fiere, & i mercati, che sogliono farsi più per gli contadini, che gli altri” (p. 513). Non per niente il legame dell’Emilia-Romagna con questi luoghi – dove confluivano dalla montagna e dalla pianura uomini, donne, animali, prodotti agricoli e mercanzie varie – è costantemente testimoniato dal nome stesso di molte delle sue città, nate proprio come forum, cioè ‘mercato’: basti pensare a Reggio Emilia (l’antica Forum Lepidi), Castelfranco Emilia (Forum Gallorum), Imola (Forum Cornelii), Forlimpopoli (Forum Popilii), Forlì (Forum Livii). E ancora i centri che nel proprio toponimo hanno mantenuto il termine moderno di ‘mercato’, come Mercato Saraceno (sull’Appennino romagnolo in provincia di Forlì-Cesena) o i centri più piccoli come i vari Mercato, Mercatello, Mercatale.Vagabondando per la regione si possono ancora vedere questi punti d’incontro (alcuni dei quali ancora attivi): a San Martino di Soverzano (Minerbio, provincia di Bologna) dal 1584 si tiene ancora una fiera il 4 di ottobre; l’ellittica e porticata “piazza nuova” di Bagnacavallo (Ravenna) fu costruita nel 1759 per ospitare il mercato cittadino con macellerie, pescherie e botteghe dell’olio; il complesso di villa Malvezzi-Campeggi a Bagnarola di Budrio (Bologna) fu concepito per ospitare la fiera del bestiame e delle varie merci autorizzata nel 1711 da un ‘privilegio’ di papa Clemente XI. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Al bestiame era dedicato soprattutto il “foro boario”: a Bologna era lo spazio corrispondente all’odierna piazza VIII Agosto e tale rimase dal ‘200 all’800. (ZZ) DBI, LXXVI, 597-600 362


Arti e letteratura

363


Apparati

Indice dei tipografi-editori Le date fra parentesi tonde sono quelle di attività riconosciuta (salvo indicazioni diverse) e sono puramente indicative.

A

Bietti (Milano, 1870 - ) 255

Ajani, Angelo (Roma, 1827 - 1849) 243

Bindoni, Alessandro (Venezia, 1500 1522) 16, 18

Archi, Giuseppe (Faenza, 1753 - 1803) 44

Blado, Antonio eredi (Roma, 1567 1590) 270

Arrivabene, Andrea (Venezia, 1534 1570) 74

Blado, Antonio (Roma, 1516 - 1567) 82

Dozza, Evangelista eredi (Bologna, 1633 - 1672) scheda 35 38, 102, 214

Aux depens de la Compagnie (Amsterdam) Vedere Compagnie (Amsterdam)

Blasinius, Gregorius Vedere Biasini, Gregorio (Cesena, 1755 - 1789)

Azzoguidi (Bologna) Vedere Società Tipografica Azzoguidi (Bologna)

Bodoni, Giambattista (Parma, 1768 1813) 272, 337

B

Baldini,Vittorio (Ferrara, 1567 - 1618) 80, 327 Ballanti (Faenza, 1747 - 1758) 124 Barbèra (Firenze, 1850 - ) 259 Barbieri, Giuseppe (Ferrara, 1708 1762) 41 Bartoli, Flaminio (Reggio Emilia, 1598 - 1648) 94 Bazachi, Giovanni (Piacenza, 1576 1600) 274 Bazalieri, Bazaliero (Bologna, m. 1498 ca.) 65 Belfort, André (Brescia,1473 - 1493) 63 Bellone, Marc’Antonio (Carmagnola,1572 - 1621) 70

Buglhat, Giovanni & Hucher, Antonio (Ferrara, 1546 - 1558) 148, 208

C

Casali, Matteo (Forlì, 1793 - 1833) 302, 303 Cavazza, Cesare (Ravenna, 1578 - 1585) 28 Cochi, Bartolomeo (Bologna) 294, 295, 327, 328, 329, 330 Cochi, Bartolomeo erede di (Bologna) 327, 328 Cochi, Bartolomeo & eredi 327 Cochi, Girolamo (Bologna) 328 Combi (Venezia, 1642 - 1662) 207

Bemporad & figlio (Firenze) Vedere Bemporad, Roberto & Bemporad Enrico (Firenze, 1889 - 1944)

Compagnie (Amsterdam) 314

Bemporad, Roberto & Bemporad Enrico (Firenze, 1889 - 1944) 251

Conti, Pietro (Faenza, 1820 - 1870) 46, 304

Benacci, Alessandro (1558 ca. - 1591) 270

Cooperativa Tipografica Azzoguidi (Bologna) Vedere Società tipografica Azzoguidi (Bologna)

Benacci,Vittorio (Bologna, 1588 1623) 295, 328 Benacci,Vittorio erede (Bologna, 1629 - 1700) 266, 268, 276

Concordia, Girolamo (Pesaro, 1563 1617) 74

D

Benedetti, Giampaolo (Faenza, 1728 1760) 92

Dalla Volpe, Lelio (Bologna, n. 1685 m. 1749) 22, 119, 120, 134, 185, 187, 221

Benedetti, Girolamo (Bologna, 1492 1528) 292

Davico, Giuseppe Antonio (Bologna, 1682 - 1686) 221

Béthune & Plon (Parigi, 1815 - 1841) 51

Davost, Claude (Lione, 1502 - 1510) 62

Biasini, Gregorio (Cesena, 1755 - 1789) 117, 145 364

Bolzetta, Francesco (Vicenza, 1595 1620) 314

Dell’Avo, Costantino (Lodi, 1869 1905) 154

De Stefanis, Giovanni Giuseppe (Milano, 1803 - 1831) 115 Dozza eredi (Bologna) Vedere Dozza, Evangelista eredi (Bologna, 1633 1672)

F

Feltrinelli (Milano, 1954 - ) 133 Ferroni, Giovanni Battista (Bologna, 1628 - 1673) 102, 179 Fiorina, Giovanni (Venezia, 1588 1593) 27 Forzani e C. tipografi del Senato (Roma, 1876 - ) 284 Fossati, Giorgio (Venezia, 1753 - 1766) 126 Fratelli Masi & C. (Bologna, 1808 1838) 117 Froschauer, Christoph (Zurigo, 1521 1564) 215

G

Galeati, Ignazio & Figlio (Imola, 1852 1900) 68 Gamberini, Luigi & Compagno (Bologna, 1816 - 1817) 138 Giovanni da Reno (Vicenza, 1473 1482) 87 Giusti, Raffaello (Livorno, 1879 - 1928) 260 Grazioli, Pietro (Bologna, 1700 - 1753) 85 Grazioli, Pietro (Parma, 1851 - 1915) 85 Gryphius, Sebastianus (Lione, 1524 1556) 215

H

Hallberger, Eduard (Stuttgart, n. 1822 m. 1880) 81 Herwagen, Johann I (Basilea, 1522 1557) 215 Hoepli (Milano, 1871 - ) 252


Indice dei tipografi-editori

I

Imprimerie Nationale (Parigi, 1866 - ) 81 Ioannes de Cereto de Tridino Vedere Tacuino, Giovanni (Venezia, 1492 - 1542)

K

Kobian,Valentin (Hagenau, 1532 1537) 64

L

Landi, Antonmaria (Ravenna, 1715 1757) 280 Landi, Salvatore (Firenze, 1888 - 1911) 251 Lapi, Scipione (Città di Castello, 1888 1922) 141 Le Signerre, Guillaume (Milano, 1501 1523) 214, 215 Libreria Brugnoli & Figli (Bologna, fl. 1817) 360 Litografia Sauer e Barigazzi (Bologna, 1899 - 1905) 360 Locatelli, Francesco (Bergamo, 1760 1798) 27 Longhi, Giuseppe I (Bologna, 1624 1691) 105, 177, 278 Longhi, Giuseppe II (Bologna, 1730 1791) 217

M

Malisardi, Carlo (Bologna, 1630 - 1631) 102 Mammarello, Domenico (Ferrara, 1552 - 1584) 212 Manini, Omobono (Milano, 1820 1840) 339 Marabini, Angelo (Faenza, 1819 - 1892) 308 Marabini,Vincenzo (Faenza, 1774 1847) 308 Marsilio (Venezia, 1971 - ) 343

1689) 38, 106, 179 Vedere anche Stabilimento tipografico succ. Monti (Bologna, 1877 - 1901) Moscheni, Francesco (Milano, 1547 1566) 325 Moücke, Francesco (Firenze, 1748 1794) 77

O

Olivari, Cesare (Modena, 1879 - 1880) 172 Orcesi, Niccolò (Piacenza, 1767 - 1800) 307, 336

P

Pagliari, Anton - Francesco (Carpi, 1769 - 1778) 306 Panini, Franco Cosimo (Modena, 1989 - ) 278 Paperini, Bernardo (Firenze, 1726 1750) 336 Parrini, Domenico Antonio & Mutio, Michele Luigi (Napoli, 1690 - 1702) 222 Pasquali, Giambattista (Venezia, 1733 1787) 77 Pelloni, Alfonso (Modena, 1852 - 1854) 122 Pezzati, Luigi (Firenze, 1821 - 1847) 117 Piatti, Guglielmo (Firenze, 1814 - 1855) 95 Poggioli,Vincenzo (Roma, 1813 1831) 242 Pomatelli, Bernardino (Ferrara, 1686 1710) 174 Pomba, Giuseppe (Torino, 1815 - 1850) 50 Posa, Pere (Barcellona, 1501 - 1505) 65 Priori, Luigi (Bologna, 1872 - 1874) 250

R

Rossi, Giovanni Giacomo (Roma, 1638 - 1694) 317 Rossi, Giuseppe (Carpi, 1885 - 1914) 306 Ruggeri, Ugo & Bertocchi, Donnino (Bologna, 1474 - 1501) 65

S

Salani (Firenze, 1862 - ) 252 Salomoni, Generoso (Roma, 1750 1780) 126 San Tommaso d’Aquino Vedere Stamperia di S.Tommaso d’Aquino (Bologna, 1739 - 1805) Sassi, Giovanni Battista (Bologna, 1764 1784) 271, 282 Schlusser, Johann (Augusta, 1471 1472) 19 Schott, Johann (Strasburgo, 1503 1544) 71 Sellerio (Palermo, 1969 - ) 252 Silvestri, Giovanni (Milano, 1811 1843) 47, 148 Simone da Lovere (Venezia, 1489 1520) 63 Simone da Luere Vedere Simone da Lovere (Venezia, 1489 - 1520) Società Tipografica Azzoguidi (Bologna) 194 Società Tipografica de’ Classici italiani (Milano, 1831 - 1855) 339 Società Tipografica già Compositori (Bologna, 1875 - 1938) 143 Società Tipografica Modenese (Modena, 1904 - 1965) 213 Solari, Francesco (Piacenza, 1866 1887) 307 Soliani, Bartolomeo eredi (Modena, 1670 - 1863) 86, 159, 170, 175, 305, 330 Soliani, Bartolomeo (Modena, 1646 1670) 358 Soter, Joannes (Colonia, 1518 - 1560) 324

Ramponi, Ulisse (Bologna, 1800 1831) 137

Stabilimento tipografico succ. Monti (Bologna, 1877 - 1901) 56

R.D. Camera (Modena) Vedere Tipi della Regio - Ducale Camera (Modena)

Stamperia Camerale (Ferrara, 1619 1795) 41

Regia Tipografia (Bologna, 1840 1933) 130

Stamperia Camerale (Ravenna, 1617 1796) 273

Rizzoli (Milano, 1929 - ) 140 Romagnoli, Giovanni (Bologna) 259

Stamperia Carmignani (Parma, 1760 1831) 168

Mondadori, Arnoldo (Milano, 1912 - ) 355

Rossi, Giovanni (Bologna, 1556 - 1595) 23, 98

Stamperia della Colomba (Bologna, 1781 - 1850) 296, 300, 304

Monti, Giacomo (Bologna, 1633 -

Rossi, Giovanni eredi (Bologna, 1595 1629) 327, 329

Stamperia dell’Illustrissima Comunità (Cesena, 1650) 279

Marsoner, Giacomo (Rimini, 1782 1813) 83, 291 Masi fratelli & C. Vedere Fratelli Masi & C. (Bologna, 1808 - 1838) Melandri,Vincenzo (Lugo, 1828 - 1843) 88 Mengoli, Giovanni (Bologna, sec. XIX - XX) 317

365


Apparati Stamperia di S.Tommaso d’Aquino (Bologna, 1739 - 1805) 337

Tipografia Roveri (Ravenna, 1814 1840) 27, 94, 339

Stamperia Reale (Parma) Vedere Bodoni, Giambattista (Parma)

Tipografia sociale G. Mazzini (Ravenna, 1904 - 1910) 339

T

Tacuino, Giovanni (Venezia, 1492 1542) 215 Tamburini, Giovanni (Milano, 1847 1853) 304 Tebaldini, Francesco (Ravenna, 1579 1590) 76 Tebaldini, Nicolò (Bologna, 1621 1670) 34, 162 Tipi Albertiniani (Rimini, 1813) 341 Tipi Camerali (Modena, 1843 - 1857) 188 Tipi della Regio - Ducale Camera (Modena) 159 Tipi del Seminario (Imola, 1820 1830) 88 Tipi Moneti & Pelloni (Modena, 1851 - 1852) 170 Tipi Sassi & Fonderia Amoretti (Bologna, 1833 - 1843) 339 Tipografia Andrea Rossi (Modena, 1847 - 1896) 181 Tipografia Carlo Vincenzi (Modena, 1845 - 1875) 122, 248 Tipografia Combiana Vedere Combi (Venezia, 1642 - 1662) Tipografia degli agrofili italiani (Bologna, 1855 - 1899) 149, 155 Tipografia del Giornale di agricoltura del Regno d’Italia Vedere Tipografia degli agrofili italiani (Bologna) Tipografia della Camera dei deputati (Roma, 1885 - 1955) 287 Tipografia dell’Ancora (Bologna, 1836 - 1864) 130 Tipografia della Volpe Vedere Dalla Volpe, Lelio (Bologna) Tipografia editrice dell’Associazione (Firenze, 1867 - 1876) 164 Tipografia Giacomo Ferrari & figli (Parma, 1870) 349 Tipografia L. Parma (Bologna, 1915 1968) 351 Tipografia Marabini (Faenza, 1869 1908) 308 Tipografia Marchesotti & Porta (Piacenza, 1890 - 1899) 171 Tipografia Nobili & comp. (Bologna, 1823 - 1839) 283 Tipografia Nobili (Pesaro, 1823 - ) 243 Tipografia Ramponi Vedere Ramponi, Ulisse (Bologna, 1806 - 1831) 366

Tipografia sociale (Modena, 1869 1888) 151 Tipografia Tedeschi (Piacenza, 1870 - ) 238 Tipo - Litografia della Provincia di L. Rossi (Modena, 1903 - 1905) 189 Torreggiani & compagno (Reggio Emilia, 1834 - 1877) 304 Torri, Francesco (Modena, 1741 - 1774) 86, 166 Tramezzino, Michele I (Venezia, 1539 1579) 202 Treves (Milano, 1861 - ) 143, 144, 288, 357 Trot, Barthélemy (Lione, 1507 - 1534) 62 Typis Ballantianis Vedere Ballanti (Faenza)

U

Ugoleto, Angelo (Parma, 1486 - 1501) 154 Unione Cooperative Editrice (Roma, 1900 - 1902) 183 Utet (Torino, 1791 - ) 50, 139, 173

V

Valgrisi,Vincenzo (Venezia, 1539 1573) 67 Vedrotti, Ippolito (Reggio Emilia, 1698 - 1732) 281 Verdi, Giovanni Maria (Modena, 1602 1625) 293 Viani, Andrea (Pavia, 1589 - 1600) 31 Vincenti, Alessandro (Venezia, 1600 1626) 357, 358 Vitali, Bernardino (Venezia, 15.. - 1539) 215 Vulpe, Lelius a Vedere Dalla Volpe, Lelio (Bologna, n. 1685 - m. 1749)

Z

Zanichelli, Nicola (Bologna, 1833 1997) 162, 257, 259, 267, 269, 353 Zempel, Giovanni (Roma, 1738 - 1796) 87 Zerletti, Guglielmo (Venezia, 1750 1795) 333 Zoppino, Niccolò (Venezia, 1505 1544) 279


Indice dei nomi di persona

Indice dei nomi di persona L’indice comprende anche i nomi che fanno parte della ragione sociale di una ditta. Sono invece esclusi i nomi di fantasia (personaggi, divinità, maschere ecc.), i nomi di santi e quelli di popoli e ordini religiosi. Nei dati biografici tra parentesi tonde, se il luogo di morte non è specificato, significa che è lo stesso di nascita. È stata inoltre scelta la forma italianizzata sia degli autori antichi (greci e latini) sia di papi, imperatori ecc.

A

Abū ῾Alī Ibn Sīnā Vedere Avicenna Abū Zakariyā ibn al-Awwām Vedere Ibn al-Awwām Adriani, Marcello Virgilio (Firenze, 1464 - 1521) 106 Agazzotti-Testi (famiglia) 213 Agelli, Paolo (Forlì, 1778 - 1841) 124 Aggazzotti, Francesco (Colombaro di Formigine, 1811 - Modena, 1890) 111, 170, 171

Alfonso XI di Castiglia (Salamanca 1311 - Gibilterra, 1350) 258

Aristotele (Stagira, 384 a.C. - Calcide, 322 a.C.) 346

Alighieri, Dante (Firenze, 1265 - Ravenna, 1321) 126, 127, 311, 330

Arnaldo da Villanova (Lerida, 1240 Genova, 1312) 156

Alinovi, Giuseppe Maria Alfonso (sec. XIX) 192

Arnoaldi, Nicolò (Bologna, sec. XVII) 135

Alkindus, Jacobus (n. Bagdad, 873 ca.) 71

Artusi, Pellegrino (Forlimpopoli, 1820 - Firenze, 1911) 12, 199, 217, 251, 252, 254

Alsario della Croce,Vincenzo (Genova, 1576 - 1631) 76 Altobelli, Averoldo (Brescia, 1468 ca. Venezia, 1531) 292

Agnelli, Giovanni (Villar Perosa, 1866 Torino, 1945) 344

Alvisi, Alberto (Imola, sec. XVIII) 199, 236, 237

Agnoletti,Vincenzo (Roma, ca. 1780 - dopo il 1834) 157, 199, 231, 242, 243, 244

Amadei, ? dottore 234

Agrippa, Heinrich Cornelius di Nettesheim (Colonia, 1486 - Grenoble, 1535) 324 Aimerico da Piacenza (Piacenza, 12.. Bologna, 1327) 19 Albani, Giuseppe (Roma, 1750 - Pesaro, 1834) 283, 284 Albengnefit (1007 - 1074) 71 Alberini, Massimo 230, 231 Alberti, Bartolomeo, il Solfanaro (Bologna, sec. XVII) 141, 142, 143 Alberti, Leandro (Bologna, 1479 - Bologna, 1552) 136 Alberto Magno di Bollstädt O.P. (Lauingen, 1206 - Colonia, 1280) 66

Amadei, Giovanni Giacomo canonico (Bologna, 1686 - 1767) 22 Ambanelli, Angela 115

Ascoli, Laudadio (Ferrara, sec. XIX) 210

Ambrosini, Giacinto (Bologna, 1605 1671) 11, 102, 134, 136

Avicenna (Afshana, 980 - Hdmadhān, 1037) 19, 76, 80, 162, 215

Ambrosini, Raimondo (Bologna, 1855 1914) 102, 138, 179, 242

Avogaro, Pietro Buono (Ferrara, sec. XV - XVI) 290

Anderlini, Paolo (Bologna, 1772 - Faenza, 1833) 92

Avogaro, Sigismondo (Ferrara, sec. XVI) 290

Anelli, Annibale 80 Angeli, Luigi (Riolo, 1739 - 1783) 88

Azzari, Fulvio (Reggio Emilia,1560 1617) 94

Angeli, Pietro degli (Barga, 1517 - Pisa, 1596) 23

Azzoguidi, Germano (Bologna, 1740 1814) 83

l’Anguillara Vedere Squalermo, Luigi

Aldobrandini, Pietro (Roma, 1571 1621) 76

Antoni,Vincenzo Berni degli Vedere Berni degli Antoni,Vincenzo

Aldrovandi, Ulisse (Bologna, 1522 1605) 37, 70, 78, 99, 100, 101, 102, 105, 111, 112, 113, 291

Apicio (Roma, 25 a.C. - 37 d.C.) 214, 215, 216, 258, 342

Alfieri, Luigi (Borgo San Donnino, 1882 - 1949) 85

Ascoli, Benvenuta detta Nuta (Ferrara, 1873 - 1941) 210

Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano (Roma, 63 a.C. - Nola, 14 d.C.) 82, 280

Anguillara, Lampridio (Ferrara?, sec. XVI?) 80, 81

Alessio Piemontese Vedere Ruscelli, Girolamo

Asburgo-Lorena, Ferdinando Carlo Antonio (Schönbrunn, 1754 - Vienna, 1806) 337

Ambrosini, Bartolomeo (Bologna, 1588 - 1657) 99, 100, 102, 105, 179

Alceo (Mitilene, 630 a.C. ca. - 560 a.C. ca.) 353

Aleotti, Giovanni Battista (Argenta, 1546 - Ferrara, 1636) 34

Asburgo, Carlo V Vedere Carlo V d’Asburgo

Appiani, Andrea (Milano 1754 - 1817) 337 Araldi, Giambattista (sec. XVIII) 331 Arienti, Giovanni Sabadino degli (Bologna, 1449 - 1510) 87, 141, 323 Ariosto, Ludovico (Reggio Emilia, 1474 - Ferrara, 1533) 158, 209, 330, 358

B

Baccarini, Domenico (Faenza, 1882 1907) 184 Bacchelli, Pietro (Bologna, sec. XIX 144 Bacchelli, Riccardo (Bologna, 1891 Monza, 1985) 287, 288 Bacchi della Lega, Alberto (Faenza, 1848 - Bologna, 1924) 141, 142, 143, 144 Bacci, Andrea (Sant’Elpidio a Mare, 1524 - Roma, 24 ottobre 1600) 92, 95

367


Apparati Barbieri, Alfonso (Bologna, sec. XIX 2a metà) 94 Vedere anche Barbieri, officine Barbieri, Giovanni Francesco, detto il Guercino (Cento, 1591 - Bologna, 1666) 162 Barbieri, officine 195 Vedere anche Barbieri, Alfonso Baretti, Giuseppe (Torino, 1719 - Londra, 1789) 44 Baroncini, Aristide (sec. XIX) 197 Baroni, negozio (Bologna, sec. XIX 2a metà) 360 Barth, Hans (Stoccarda, 1862 - Roma, 1926) 162, 163 Bartoluzzi, Annibale (Bologna?, sec. XVIII) 337 Baruffaldi, Girolamo (Ferrara, 1675 Cento, 1755) 110, 166, 185, 187, 296 Basoli, Antonio (Castel Guelfo, 1774 Bologna, 1843) 59, 173 Bassi, Ferdinando (Bologna, m. 1774) 87, 179 Bassi, Medardo (Sala Bolognese, 1840 Bologna, 1905) 111, 194, 195, 196 Battarra, Domenico (Coriano, sec. XVII) 124 Battarra, Giovanni Antonio (Coriano, 1714 - Rimini, 1789) 15, 44, 45, 111, 120, 124

Berardi Delatour, Carlotta (Modena, sec. XIX) 244, 246 Berchoux, Joseph (Lay, 1760 - Marcigny, 1838) 339, 341 Bergami, Massimiliano (Correggio, sec. XVIII) 234 Bergomi, Giovanni Francesco (Reggio Emilia?, 1650 ca. - 1718) 177, 178 Berni degli Antoni,Vincenzo (Bologna, 1747 - 1828) 283, 284 Bernoni, Alessandro (Piacenza, sec. XVI) 291 Berò, Agostino (Bologna, 1474 - 1554) 23 Berò, Marco Tullio (Bologna, XVI sec. 2a metà) 23 Beroaldo, Filippo (Bologna, 1453 1503) 154 Bertani, Raffaele (San Martino in Rio, sec. XIX - XX) 301 Bertelli, Luigi detto Vamba (Firenze, 1858 - 1920) 171 Berti, Anna (Bologna, sec. XVIII) 50 Berti, Carlo (Bologna, sec. XIX) 144 Berti, Giuseppe 144 Berti Pichat, Carlo (Bologna, 1799 1878) 15, 50, 139, 284

Bazoli, Giuseppe (Ferrara, sec. XVIII) 116, 173

Bertoloni, Giuseppe (Sarzana, 1804 Bologna, 1878) 111, 130

Bazzani, Matteo (Bologna, 1674 - 1749) 119

Bertuccio, Nicola (Bologna, m. 1347) 62

Beccari, Jacopo Bartolomeo (Bologna, 1682 - 1766) 110, 119, 121

Berzieri, Lorenzo (Besozzola di Pellegrino Parmense, 1806 - 1888) 85

Becchetti, Angela 115

Bevilacqua, Alessandro marchese (Bologna, sec. XIX) 144

Bellentani, Giuseppe (Modena, sec. XIX) 359

Biancani Tazzi (famiglia) 149

Bellucci, Adolfo (Massa Lombarda, 1873 - 1929) 58

Bianchelli, Mengo (Faenza, ca.1440 1520?) 92

Bembo, Pietro (Venezia, 1470 - Roma, 1547) 162, 330

Bianchi, Giovanni (Rimini, 1693 1775) 77, 78, 124

Benacci, Lattanzio (Bologna, 1499 1572) 290

Bianchi, Jacopino (Modena, sec. XV) 278

Benedetto XIV, papa (Bologna, 1675 Roma, 1758) 36, 361

Bianchi, Tommasino (Modena, 1473 1554) 278

Benfenati, ? (sec. XIX) 144

Bieler, Ambrosius Karl (Regensburg, 1693 - 1747) 350

Benigni, Carlo 226 Benni, Paolo (Bologna, sec. XVIII XIX) 11, 111, 137, 138 Bentivoglio (famiglia) 12, 227, 229, 324 Bentivoglio, Annibale (Bologna, 1469 Ferrara, 1540) 323 Bentivoglio, Giovanni II (Bologna, 1443 - Milano, 1508) 87, 323, 324 368

Benzoni, Girolamo (Milano, 1519 dopo il 1572) 176

Bignami, Lorenzo (Bologna, fl. 1796) 163 Bignami, Pietro Maria (Codogno, sec. XVIII) 111, 134, 135, 139, 300 Biondo, Flavio (Forlì, 1392 - Roma, 1463) 92 Bizzozero, Antonio (Treviso, 1857 -

Cles, 1934) 349 Boccaccio, Giovanni (Certaldo, 1313 1375) 126, 152, 330 Bocchialini, Fabio (Parma, 1882 - 1915) 132, 349 Bodoni, Giovanni Battista (Saluzzo, 1740 - Parma, 1813) 337 Boito, Arrigo (Padova, 1842 - Milano, 1918) 144, 344 Bolchi, Sandro (Voghera, 1924 - Roma, 2005) 288 Bolognesi (famiglia) 258 Bolognesi, Giuseppe 284 Bonafede, Francesco (Padova, 1474 1558) 101, 102 Bonafede, Paganino (Bologna, sec. XIV) 11, 14, 22, 23, 24 Bonafede, Pierino (Bologna, sec. XIV) 24 Bonafede, Simone (Bologna, sec. XIII) 24 Bonaparte, Napoleone (Ajaccio, 1769 Isola di Sant’Elena, 1821) 36, 47, 48, 155, 237, 242, 256, 283 Bonaveri, Giovan Francesco (Bologna, sec. XVII - XVIII) 111, 145, 146, 147 Boncompagni Ludovisi, Ignazio (Roma, 1743 - Bagni di Lucca, 1790) 282, 283 Bondi, Clemente Luigi Donnino (Mezzano Superiore, 1742 - Vienna, 1821) 337, 339 Bonfioli, Lelio (Bologna, sec. XVII) 268 Bonizzi, Paolo (Modena?, 18.. - 1881) 151 Bonora, Albino (Santa Maria Codifiume, 1814 - Budrio, 1867) 149 Bonora, Saturnino (sec. XIX) 149, 150 Bonora, Severino (sec. XIX) 149 Bonvicini, Adolfo (Massa Lombarda, 1854 - 1916) 56, 58 Borgia, Lucrezia (Subiaco, 1480 - Ferrara, 1519) 324 Borgnino, G. Camillo (Bologna?, 1865 Massa Lombarda, 1940) 56 Boriani, Gaetano 94 Borsieri di Kanilfeld, Giambattista (Civezzano, 1725 - Milano, 1785) 92 Bovio, Francesco (Ferrara, m. 1543 ca.) 82 Bozzolini, Isabella (Firenze, 1780 ca. 1825 ca.) 173 Bragalini, Pietro (sec. XVI) 26 Bramieri, Giulio (Piacenza, 17.. - 1811)


Indice dei nomi di persona 12, 111, 168 Bramieri, Luigi (Piacenza, 1757 - Parma, 1820) 168 Brancaccio, Francesco Maria (Bari 1592 - Roma 1675) 176 Brancaleoni, Costantino (Bologna, m. 1574) 88 Brasavola, Antonio Musa (Ferrara, 1500 - 1555) 82 Braschi Giovanni Angelo (Cesena, 1717 - Valence, 1799) 362 Brazzetti, ? (sec. XIX) 144 Breventani, Luigi (Bologna, 1847 1906) 236, 237 Bricherasio, generale Vedere Brignone, Filippo Brighenti, Giulio (Bologna, sec. XX) 143 Brignoli di Brunnhoff, Giovanni de’ (Gradisca d’Isonzo, 1774 - Modena, 1857) 115 Brignone, Filippo (Bricherasio, 1812 Torino, 1877) 240 Brillat Savarin, Anthelme (Belley, 1755 Parigi, 1826) 198, 258 Broglio, Emilio (Milano, 1814 - Roma, 1892) 189

Caetani, Enrico (Sermoneta, 1550 Roma, 1599) 270 Caldesi, Ludovico (Faenza, 1821 - 1884) 71 Calestani, Girolamo (Parma, 1510 1582 ca.) 277 Calzi, Achille (Faenza, 1873 - 1919) 308 Calzoni, Alessandro (Bologna, sec. XIX) 144 Vedere anche Calzoni, officine Calzoni, officine 195 Vedere anche Calzoni, Alessandro

Casarenghi,Vincenzo (Bologna, m. 1699) 268 Cassani, Tomaso (Bologna, sec. XVII 2a metà) 41, 135 Cassiano Basso (sec.VI - VII) 16 Cassoli (famiglia) 199, 235 Castaldi, Areta 357 Castaldi, Arpalice 357 Castaldi, Artemia 357

Campanacci, Antonio (Bologna sec. XV - XVI) 290

Castaldi, Bellerofonte (Modena, 1581 ca. - 1649) 357, 358, 359

Campanile, Achille (Roma, 1899 - Lariano, 1977) 140

Castaldi, Francesco 357

Campeggi, Alessandro (Bologna, 1504 Roma, 1554) 205

Castaldi, Sesostri 357

Castaldi, Axiotea 357

Castaldi, Oromedonte 357

Campeggi, Lorenzo (Milano, 1474 Roma, 1539) 205

Castelli, Bonaventura (Bologna, 1300 ca. - prima del 1353) 87

Camporesi, Piero (Forlì, 1926 - Bologna, 1997) 67, 109, 251

Castelli, Pietro Francesco (Bologna, sec. XVII) 268

Canè, Giuseppe (Bologna, sec. XIX) 144

Castelvetro, Giacomo (Modena, 1546 Londra, 1616) 114

Capatti, Alberto 251

Cati, Roberto (Modena, sec. XVI XVII) 278

Cappelletti, Marco Antonio (Cagli, m. 1573) 74

Brunetti, ? (sec. XIX) 144

Cappellina, Andrea della (Nonantola, sec. XV) 332 Capponi, Cappone 175, 176

Bruschi, Pietro (Fossa, 1715 - 1776) 305

Caprari, Achille (Carpi, 1800 ca. - Parma, 1878) 110, 122, 123

Bubani, Pietro (Bagnacavallo, 1806 1888) 102

Carani, Pietro (Modena, sec. XIX XX) 86

Buffon, Georges - Louis Leclerc conte di (Montbard, 1707 - Parigi, 1788) 142

Carducci, Giosue (Val di Castello, 1835 - Bologna, 1907) 115, 141, 157, 162, 256, 258, 344, 346, 353

Buratino, Giorgio (Bologna, sec. XV XVI) 291

Carlo Alberto di Savoia (Torino, 1798 Oporto, 1849) 96

Buriani, Filippo (Bologna, 1847 - 1898) 144

Carlo III Filippo di Wittelsbach - Neuburg (Neuburg an der Donau, 1661 - Mannheim, 1742) 162

Bussato, Marco (Ravenna, sec. XVI XVII) 11, 14, 26, 27, 274, 341

Casanova, Alfonso (Bologna, sec. XIX) 144

Campana, Antonio (Ferrara, 1751 1832) 95, 96

Brunelli, Giovanni Angelo (Bologna, 1722 - 1804) 134, 135 Bruni, Matteo (Rimini, 15.. - dopo il 1597) 74, 75

Casali, Elide 290, 291

Catone, Marco Porcio (234 a.C. - 149 a.C.) 349 Catullo, Gaio Valerio (Verona 84 a. C. ca. - non prima del 54) 162 Caula, Niccolò (Modena, sec. XVIII) 166, 167 Cavazza, Domizio (Concordia sulla Secchia, 1856 - Barbaresco, 1913) 173 Cavazzoni, Ferdinando (Modena, sec. XIX) 246, 247 Celso, Aulo Cornelio (?, ca. 14 a.C. Roma, ca. 39 d.C.) 76, 154 Cenacchi, Oreste (Bologna, m. 1930 ca.) 94 Cerchiari, Gioachino (Imola, sec. XVIII - XIX) 94

Carlo V d’Asburgo (Gand, 1500 - Cuacos de Yuste, 1558) 205, 324

Ceretti, Felice (Mirandola, 1835 - 1915) 233

Caronelli, Pietro (Conegliano, 1736 1801) 168

Ceriati, Franchina (Salsomaggiore, sec. XIX) 85

Caronti, Andrea (Blevio, 1798 - Bologna, 1882) 141

Ceri, Giuseppe (San Frediano, 1839 Bologna, 1925) 346 Certani, Annibale (Bologna, 1829 - Budrio, 1914) 144

Cabassi, Eustachio (Carpi, 1730 - 1796) 306

Carracci, Annibale (Bologna, 1560 Roma, 1609 12, 41, 78, 92, 130, 133, 152, 155, 160, 190, 211, 217, 229, 274, 311, 317

Cabassi, Floriano (Carpi, sec. XVIII) 306

Carroli, Bernardino (Ravenna, sec. XVI) 15, 25, 26

Cesalpino, Andrea (Arezzo, 1524/25 Roma, 1603) 101

Bussolari, Gaetano (San Giovanni in Persiceto, 1883 - Bologna, 1944) 253 Buton, Giovanni (Parigi, 17.. - Bologna, 18..) 111, 144, 155, 156

C

Cervio,Vincenzo (sec. XVI - XVII) 207

369


Apparati Cesarotti, Melchiorre (Padova, 1730 Selvazzano Dentro, 1808) 339 Ceva, Tommaso, gesuita (Milano, 1648 1737) 115 Chauliac, Guy de (Chauliac, 1300 Lione, 1368) 62 Chendi, Domenico Vincenzo (Formignana, 1710 - Tresigallo, 1795) 15, 41, 42 Chiaramonti, Gregorio Barnaba vedi Pio VII, papa (Cesena, 1742 - Roma, 1823) 236, 237 Chiaramonti, Scipione (Cesena, 1565 1652) 279 Chiesa, Sebastiano (Reggio Emilia, 1602 - 1666) 188 Clemente VII, papa (Firenze, 1478 Roma, 1534) 324 Clemente VIII, papa (Fano, 1536 Roma, 1605) 36, 76, 273 Clemente XIII, papa (Venezia, 1693 Roma, 1769) 36 Clemente XIV, papa (Santarcangelo di Romagna, 1705 - Roma, 1774) 337, 362 Clementi, Giovanni detto Perkeo (Salorno, n. 1702) 162 Cobianchi, Cleopatro (Bologna, sec. XIX) 157 Cobianchi, Stanislao (Bologna, sec. XIX) 157 Cocchi, Antonio (Borgo San Lorenzo nel Mugello 1695 - Firenze 1758) 77 Codronchi, Giovanni Battista (Imola, 1547 - 1628) 88, 95 Colle, Giovan Francesco (Napoli, fl. prima metà del XVI sec.) 198, 200, 202, 208 Colli, Giulio Tommaso (Bologna, m. 1749) 296 Collodi Vedere Lorenzini, Carlo Colomb de Batines, Paul (Gap, 1811 Firenze, 1855) 141 Colombini, Ulisse (Bologna, sec. XIX) 196, 197 Contardi, Alessandro (Modena, fl. 1794 - 1835) 116 Contarini, Giulio (Venezia, 1611 1676) 74 Conti, Cesare (Bologna, sec. XIX) 144 Conti, Domenico (Faenza, sec. XVI) 291 Contri, Giovanni Francesco (Bologna, 1788 - 1860) 111, 138 Corradi, Carlo Antonio (Cagli, sec. XVII) 226

370

Corradini, Pietro Giuseppe (Casalgrande, 1707 - Reggio Emilia, 1782) 77, 86, 87 Corrado,Vincenzo (Oria, 1736 - Napoli, 1836) 77 Corsi, Francesco (Firenze?, sec. XIX) 59 Cospi, Ferdinando (Bologna, 1606 1686) 37, 106 Costa, Paolo (Ravenna, 1771 - Bologna, 1836) 339 Crescenzi, Pietro de’ (Bologna, 1233 1320) 11, 14, 16, 19, 22, 274, 295, 300 Crespi, Giuseppe Maria (Bologna, 1665 - 1747) 297 Crispi, Francesco (Ribera, 1818 - Napoli, 1901). 144 Cristina di Svezia (Stoccolma, 1626 Roma,1689) 219 Croce, Benedetto (Pescasseroli, 1866 Napoli, 1952) 355 Croce, Giulio Cesare (San Giovanni in Persiceto, 1550 - Bologna, 1609) 294, 295, 296, 297, 327, 328, 329, 330 Crud, Elie Victor Benjamin (Losanna, 1772 - 1845) 11, 15, 51, 54, 55, 56, 58 Crud, Jean - Francois (Losanna, sec. XVIII) 51 Cugini, Gino (Bagnone, 1852 - Modena, 1907) 144 Cuoco di casa Pico (sec. XIX) 199, 233 Cuppano, Lucantonio (Montefalco, m. 1560) 68

Del Balzo Orsino, Giovanni Antonio (Lecce, 1401 - Altamura, 1463) 98 Della Rovere, Ercole (Bologna, sec. XVI) 291 Della Rovere, Francesco Maria II (Pesaro, 1548 - Urbania,1631) 212 Del Pino, Domenico (Genova, 1793 1851) 172 Del Prato, Ferdinando (Parma?, sec. XIX) 154 Del Vecchio, Giorgio (Bologna, 1878 1970) 85 Depardieu, Gérard 341 Diogene Laerzio (sec. III) 77 Dioscoride Pedanio (Anazarbe, ca. 40 - ca. 90) 80, 106, 215 Ḍiyāʾ al - Dīn Abū Muḥammad ʿAbd Allāh ibn Aḥmad al - Mālaqī Vedere Ibn al - Baitar, Abdallah Ibn Ahmad Domenichi, Ludovico (Piacenza, 1515 Pisa, 1564) 325 Domenico di Formolaria (sec. XII) 152 Donati, Giambattista (Frosinone, 1715 Cervia, 1792) 192 Donavita, Pietro (Rimini, sec. XVIII) 68 Donghi, Giovanni Stefano (Genova, 1608 - Roma, 1669) 273 Doni, Anton Francesco (Firenze, 1513 Monselice, 1574) 325 Doria Pamphili (famiglia) 242 Douglas Scotti (famiglia) 199, 238

Curti, Francesco (Bologna, ca. 1603 ca. 1670) 105, 162, 317

Drudi, Lorenzo Antonio (Rimini?, sec. XVIII - XIX) 342

Cybo, Alderano (Genova, 1613 - Roma, 1700) 279

Du Cange, Charles (Amiens, 1610 Parigi, 1688) 270

D

Dalla Fabra, Luigi (Ferrara 1655 - 1723) 111, 174, 175 Dall’Aglio, Giovanni (Bologna, sec. XVI 2a metà) 270 Dalli, Antonio Maria (Bologna, 16.. Parma?, 1710) 12, 198, 231, 232 D’Annunzio, Gabriele (Pescara, 1863 - Gardone Riviera, 1938) 157, 162, 184, 255, 256, 258 Dareni, Giovanni Vedere Guerrini, Olindo Darwin, Charles (Shrewsbury, 1809 Londra, 1882) 159 De Carolis, Adolfo (Montefiore dell’Aso, 1874 - Roma, 1928) 258 De Grado, Francesco (Napoli, fl. 1694 1730) 224

Duhamel du Monceau, Henri Louis (Parigi, 1700 - 1782) 168 Duse, Eleonora (Vigevano, 1858 - Pittsburgh, 1924) 184, 344 Du Tillot, Guillaume (Bayonne, 1711 Parigi, 1774) 263

E

Elagabalo (Roma, 217 - 222) 342 Elluchasem Elimithar Vedere Ibn Butlan Emiliano da Bologna ofm (sec. XVIII) 84 Enrico IV di Borbone (Pau, 1553 Parigi, 1610) 102 Enriquez,Vittorio (Firenze, sec. XIX XX) 259 Enzo di Svevia (Cremona, 1220 - Bologna, 1272) 348


Indice dei nomi di persona Ercolani,Vincenzo (sec. XVI) 23, 150

1799) 23, 98, 119, 145

144

Eridanio Cenomano Vedere Lancetti, Vincenzo

Farini, Domenico Antonio (Russi, 1777 - 1834) 109

Franchetti, Augusto (Firenze, 1840 1905) 259

Escamege, Lafranco (Alessandria, sec. XVII) 290

Farini, Luigi Carlo (Russi, 1812 Quarto, 1866) 141, 159, 162

Franchetti, Luisa (Firenze, sec. XIX XX) 259

Escoffier, Auguste (Villeneuve - Loubet, 1846 - Monte Carlo, 1935) 256

Farnese (famiglia) 126, 230, 325

Francia, Francesco Maria (Bologna, 1657 - 1735) 105

Esopo (620 a.C. ca. - 560 a.C. ca.) 334 Este (famiglia) 159, 170

Farnese, Antonio (Parma, 1679 - Parma, 1731) 126

Este, Alfonso I (Ferrara, 1476 - 1534) 34, 36, 88, 200, 208

Farnese, Francesco (Parma, 1678 - Piacenza, 1727) 12, 232, 274

Este, Alfonso II (Ferrara, 1533 - 1597) 36, 212

Farnese, Girolamo (Latera, 1599 Roma, 1668) 268

Este, Borso (Ferrara, 1413 - 1471) 63, 190

Farnese, Ottavio (Valentano, 1524 Piacenza, 1586) 326

Este, Cesare (Ferrara, 1562 - Modena, 1628) 264, 278

Farnese, Ranuccio II (Cortemaggiore, 1630 - 1694) 232, 274

Este, Eleonora, badessa (sec. XVI) 190

Federico I Barbarossa (Waiblingen, 1122 - Saleph, 1190) 71

Este, Enrichetta Maria (Modena, 1702 Fidenza, 1777) 126 Este, Ercole I (Ferrara, 1431 - 1505) 36, 190, 213, 323 Este, Ercole II (Ferrara, 1508 - 1559) 36, 82, 190, 208, 212 Este, Francesco II 148 Este, Francesco III (Modena, 1698 Varese, 1780) 86 Este, Gianfederico (Modena, 1700 Vienna, 1727) 173 175 Este, Ippolito II (Ferrara, 1509 - Roma, 1572) 208 Este, Lucrezia (Ferrara, 1470 ca. - Gazzuolo, 1529) 323 Este, Lucrezia (Ferrara, 1535 - 1598) 212

Farnese, Alessandro 207

Federico II Hohenstaufen (Jesi, 1194 Fiorentino di Puglia, 1250) 348 Felici, Costanzo (Casteldurante, 1525 ca. - Pesaro, 1585) 78, 111, 112 Ferdinando I d’Aragona (Valencia, 1424 - Napoli, 1494) 198 200 Ferdinando I di Borbone - Parma (Parma, 1751 - Fontevivo, 1802) 272 Ferrante I d’Aragona Vedere Ferdinando I d’Aragona Ferrari, Giulio Cesare (Carpi, sec. XVIII) 306 Ferrari, Giuseppe, agricoltore 349 Ferrari, Giuseppe (Castelvetro, 1720 1773) 12, 248, 330, 331, 333 Ferrari Corbelli (famiglia) 171

Este, Niccolò (Ferrara, 1393 ca. - 1441) 63

Ferrari Moreni, Giorgio (Modena, 1833 - 1925) 170, 188

Este, Rinaldo (Modena, 1655 - 1737) 175

Ferrari Moreni, Giovanni Francesco (Modena, 1789 - 1869) 188

Estrées, César d’ (Parigi, 1628 - Abbazia di Saint - Germain - des - Prés, 1714) 222, 224

Ferraro, Giuseppe (Carpeneto, 1845 1907) 164 Ferri, Girolamo (Longiano, 1713 - Ferrara, 1786) 117

Frati, Lodovico (Bologna, 1855 - Trieste, 1941) 22, 24, 141, 259, 260 Frati, Luigi (Bologna, 1815 - Bologna, 1902) 260, 351 Fries, Elias Magnus (Femsjö, 1794 Uppsala, 1878) 124 Frisoni, Rutilio (Modena, sec. XVI) 291 Frizzi, Antonio (Ferrara, 1736 - 1800) 12, 331, 333, 334 Frontini, Luigi (Bologna, sec. XIX) 144 Frugoni, Carlo Innocenzo (Genova, 1692 - Parma, 1768) 330, 331 Fuchs, Leonhart (Wemding, 1501 - Tubinga, 1566) 120, 121 Fusconi,Vitale (Ravenna, sec. XVI) 28 Fusignani, Lucio (Meldola, ...) 303 Fusoritto, Reale (Narni, sec. XVI 2a metà) 207 Fussio Vedere Fuchs, Leonhart

G

Galeazzi, Domenico Gusmano (Bologna, 1686 - 1775) 119 Galeno (Pergamo, 129 - Roma, 199 ca.) 215 Gallesio, Giorgio (Finalborgo, 1772 Firenze, 1839) 59, 116, 160, 169, 170, 172, 173 Gallina, Francesco (Carmagnola, 1528 1608) 70 Gallo, Agostino (Cadignano, 1499 Brescia, 1570) 26, 31, 121, 295 Galvani, Alessandro (Bologna, sec. XIX) 144

Ferro, Saladino (sec. XV) 98

Gambetti, Zefirino (Savignano sul Rubicone 1803 - Rimini 1871) 77

Fabbri, Gennaro (Portomaggiore, n. 1860) 157

Fioravanti, Aristotele (Bologna, 1415 Mosca, 1486 ca.). 289

Gandini, Luigi Alberto (Modena,1827 1906) 213, 314

Fabbri, Giovanna Francesca (Coriano?, sec. XVIII) 124

Fioravanti, Leonardo (Bologna, 1517 Venezia, post 1583) 67

Garibaldi, Giuseppe (Nizza, 1807 - Caprera, 1882) 145, 147, 194, 196

Falcone, Giuseppe (Piacenza, m. 1597) 14, 31, 32, 274

Firpo, Luigi (Torino, 1915 - 1989) 114

Garzoni, Tommaso (Bagnacavallo, 1549 - 1589) 265, 295, 362

F

Falloppio, Gabriele (Modena, 1523 1562) 92, 94 Fanfani, Pietro (Collesalvetti, 1815 Firenze, 1879) 189 Fantuzzi, Giovanni (Bologna, 1718 -

Folengo, Teofilo (Mantova, 1491 Campese, 1544) 339 Fontana, Carlo (Rancate, 1638 - Roma, 1714) 258 Forni, Alessandro (sec. XIX) 196, 197

Gavazzi, ? (sec. XIX) 144 Gentile da Foligno (1262? - 1348) 87 Ghelini, Giovanni Battista (Ferrara, sec. XVI) 290

Fortuzzi fratelli (Bologna, sec. XIX) 371


Apparati Ghinelli, Salvatore (Rimini, 1873 1939) 199, 255, 256

Grapaldi, Francesco Mario (Parma, 1460 - 1515) 154

Ghini, Luca (Casalfiumanese, 1490 Bologna, 1556) 101, 105

Gregorio XIII, papa (Bologna, 1502 Roma, 1585) 34, 269, 282

Giannotti Rangoni, Tommaso (Ravenna, 1493 - 1577) 291

Gregorio da Reggio Emilia ofmcap. (m. 1618) 100

Gianstefani, Giovanni (Massa Lombarda, sec. XIX - XX) 56

Grimelli, Geminiano (Carpi, 1802 Modena, 1878) 159, 160, 181

Gianstefani, Ulisse (Massa Lombarda, 1863 - 1956) 56

Guareschi, Giovannino (Fontanelle di Roccabianca, 1908 - Cervia, 1968) 189

Giardini, Carlo Antonio (Modena, sec. XVIII) 331 Gigante, Antonio (Fossombrone, sec. XVI) 23 Gigli, Piero (Finale Emilia, 1897 - 1987) 192 Ginanni, Francesco (Ravenna, 1716 1766) 28, 111, 126 Ginanni, Giuseppe (Ravenna, 1692 1753) 126

Guastavillani, Filippo (Bologna, 1541 Roma, 1587) 269 Guastavillani, Francesca (Bologna, m. 1509) 205 Guatteri, Giambattista (Castelnovo di Sotto, 1739 - Parma, 1793) 263 Guccini, Francesco 133

Ginanni, Marco Antonio (Ravenna, 1690 - 1770) 126

Guerrieri Bertozzi, Cosimo (Rimini, sec. XIX - XX) 68

Giovanelli, Carlo (Parma?, sec. XVII XVIII) 230, 232

Guerrini, Olindo (Forlì, 1845 - Bologna, 1916) 141, 162, 178, 199, 217, 239, 243, 245, 253, 254, 258, 259, 260, 346

Giovanni III di Svezia (Castello di Stegeborg, 1537 - Stoccolma, 1592) 113 Giovanni da Marola, abate (sec. XII) 13, 111, 152, 154

Guillain, Simon (Parigi, 1581 ca. 1658) 317

Giovanni dalle Bande Nere (Forlì, 1498 - Mantova, 1526) 68

Giovanni di Formolaria (sec. XII) 152 Giovanni di Rupescissa (Marcolès, 1310 ca. - Avignone, 1365) 64 Giraldi, Giovanni Battista (Bologna, 1662 - 1732) 143 Gnudi, ? fiorista (Bologna, sec. XIX) 144 Goldoni, Carlo (Venezia, 1707 - Parigi, 1793) 331 Gonzaga (famiglia) 158, 230, 246 Gonzaga - Nevers (famiglia) 217

H

Haller, Albrecht von (Berna, 1708 1777) 77 Hercolani,Vincenzo Vedere Ercolani, Vincenzo Hoffmeister, Otto (sec. XIX - XX) 162, 163 Home, Francis (Eccles, Berwickshire, 1719 - 1813) 168

I

Ibn al-Awwām (Siviglia, XII sec.) 16

Gonzaga - Nevers, Carlo II (Mantova, 1629 - 1665) 219

Ibn al-Baitar, Abdallah Ibn Ahmad (Malaga, 1197 - Damasco, 1248) 80, 81

Goretti, Pompeo (Bologna, sec. XIX) 144

Ibn Butlan (Baghdad, 1001 - Antiochia, 1038) 71

Govoni, Lodovico (Bologna, sec. XVIII - XIX) 83

Ibn Sina Vedere Avicenna (Afshana, 980 - Hdmadhān, 1037)

Gozzadini, Giovanni (Bologna, 810 1887) 294, 295, 317, 328

372

Guasconi, Cornelio, frate (Cesena, sec. XV - XVI) 279

Innocenzo X, papa (Roma, 1574 1655) 273

Gozzano, Guido (Torino, 1883 - 1916) 311

Iozzi, Sebastiano (Roma, sec. XVII 1a metà) 76

Grabinsky, Stanislao (Bologna, sec. XIX) 58

Ippocrate (Coo, ca. 460 a.C. - Larissa, non dopo il 377 a.C.) 60, 113, 156

Grandi, Francesco, gesuita (sec. XVII) 115

Israeli, Ben Salomon Isaac (Egitto, 855 ca. - Kairouan, 955 ca.) 18

J

Jacini, Stefano (Casalbuttano, 1826 Milano, 1891) 263, 284 Joffé, Roland 341

L

Labat, Jean - Baptiste (Parigi, 1663 1738) 267, 314 La Marmora, Alessandro Ferrero di (Torino, 1799 - Balaklava, 1855) 240 Lambertazzi (famiglia) 327 Lamberti, Ascanio (Piacenza, sec. XVI) 291 Lambertini, Prospero Vedere Benedetto XIV, papa Lamma, Giuseppe, cuoco (Bologna, sec. XVII) 12, 198, 227, 229 Lamma, Giuseppe, birraio (Bologna, sec. XIX) 163 Lancellotti, Jacopino Bianchi dei Vedere Bianchi, Jacopino Lancellotti, Tommasino Bianchi dei Vedere Bianchi, Tommasino Lancerio, Sante (Ferrara?, sec. XVI) 111, 164, 165 Lancetti,Vincenzo (Cremona, 1767 Milano, 1851) 339 Landi, Salvadore (Firenze, 1831 - 1911) 252 Landi, Ubertino (Piacenza, 1687 1760) 31, 168, 222, 336 Landoni, Jacopo (Ravenna, 1772 1855) 339 Lanzarini, fratelli (Bologna, sec. XIX) 197 Latini, Antonio (Fabriano, 1642 - Napoli, 1696) 100, 198, 222, 224, 226 Lattuada, Alberto (Vaprio d’Adda, 1914 - Orvieto, 2005) 287 La Varenne, François de (Digione, 1618 - 1678) 221 Leclerc, Lucien (Ville sur Illon, 1816 1893) 81 L’Ecluse, Charles de (Arras, 1526 - Leida, 609) 100 Legati, Lorenzo (Cremona, m. 1675) 106 Leonardo da Vinci (1452 - Amboise, 1519) 100, 355 Leone X, papa (Firenze, 1475 - Roma, 1521) 68, 292 Leopardi, Giacomo (Recanati, 1798 Napoli, 1837) 288, 335 290, 337 Leopardi, Girolamo (Firenze, 1559 -


Indice dei nomi di persona 1620) 205 Ligozzi, Francesco 101 Ligozzi, Jacopo (Verona, 1547 - Firenze, 1627) 101 Linnaeus, Carl Nilsson (Rashult, 1707 Uppsala, 1778) 105, 176 Littré, Émile (Parigi, 1801 - 1881) 339 Liuzzi, Mondino de’ (Bologna, 1275 1326) 62 Liverani, Romolo (Faenza, 1809 - 1872) 308 Lorenzini, Carlo (Firenze, 1826 - Firenze, 1890) 311 Loschi, Pellegrino Nicolò (Carpi, m. 1791) 71, 189 Lucullo, Lucio Licinio (Roma, 117 a.C. - 56 a.C.) 342 Ludovisi, Ignazio Boncompagni (Roma, 1743 - Bagni di Lucca, 1790) 282, 283

Malatesta Novello (Brescia, 1418 - Cesena, 1465) 19, 21

Mattioli, Pietro Andrea (Siena, 1501 Trento, 1578) 120

Malavasi, Lodovico (Modena, sec. XIX) 172

Mayr, Giovanni (Bologna, sec. XIX) 163

Al-Malik al-Kāmil (?, 1177 ca. - Damasco, 1238) 80

Mazzetti, Serafino (Bologna, sec. XIX) 70, 106, 120, 179, 292

Malpighi, Marcello (Crevalcore, 1628 Roma, 1694) 37, 119, 174

Mazzoni Toselli, Ottavio (Bologna, 1778 - 1847) 22, 24

Malvaldi, Marco 252

Medici, Caterina de (Firenze, 1593 Siena, 1629) 216

Mandolini, Giuseppe (Ferrara, 1744 1820) 41 Manetti, Giovanni Maria (Villanova, sec. XVI) 25 Manfredi (famiglia) 92 Manfredi, Girolamo (Bologna, 1430 ca. - 1493) 65, 66, 202 Mantegazza, Paolo (Monza, 1831 - San Terenzo, 1910) 74, 85, 156, 336 Manzoni, Alessandro (Milano, 1785 1873) 263, 336

Luigi II di Borbone - Condé (Parigi, 1621 - Fontainebleau, 1686) 341

Maranta, Bartolomeo (Venosa, 1500 Molfetta, 1571) 101

Luigi XIV di Borbone, il re Sole (Saint - Germain - en - Laye, 1638 - Versailles, 1715) 341

Marchi, Cesare 144

Lutero, Martin (Eisleben, 1483 - 1546) 162

Marchisio (famiglia) 248

M

Maccaferri, Luigi (Massa Lombarda, 1834 - 1903) 11, 15, 56 Vedere anche Officine Maccaferri

Marchi, Ubaldo (Rimini, sec. XVIII) 95 Marcolini, Andrea (Fano, sec. XVI XVII) 92 Marconi, Guglielmo (Bologna, 1874 Roma, 1937) 344 Marescotti, Teresa (Lucca, 1848 Roma?, 1928) 255

Machiavelli, Niccolò (Firenze, 1469 1527) 63

Margherita di Savoia (Torino, 1851 Bordighera, 1926) 144

Magnani, Antonio (Bologna, 1743 1811) 16, 18, 23

Maria Luigia di Parma (Vienna, 1791 Parma, 1847) 85, 242

Maini, Luigi (Carpi, 1823 - 1892) 111, 159, 170, 188

Marsili, Luigi Ferdinando (Bologna, 1658 - 1730) 15, 37

Majani (famiglia) 343, 344

Martini, Giovanni Battista (Bologna, 1706 - 1784) 311

Majani, Augusto (Budrio, 1867 - Buttrio, 1959) 171, 178, 239, 243, 245, 254, 255, 257, 258, 347, 348 Majani, Francesco (Bologna, 1794 1865) 343 Majani, Giuseppe (Bologna, m. 1805) 343 Majani Menarini, Teresa (Bologna, sec. XVIII - XIX) 343 Majoli, Cesare (Forlì, 1746 - 1823) 109 Malaguzzi, Ippolito (Reggio Emilia, sec. XV) 158 Malaspina, Marcello (Firenze?, 1689 Firenze, 1757) 336 Malatesta, Domenico Vedere Malatesta Novello

Martini, Matteo (Imola, 1782 - 1860) 340 Martino di Formolaria (sec. XII) 152 Maruffi, Tiberio Francesco Vedere Pandola, Tiberio (Piacenza, sec. XVI) Masinelli, Antonio (Modena, sec. XIX) 330 Massarenti, ? (sec. XIX) 144 Massialot, François (Limoges, 1660 Paris, 1733) 221 Mathieu de la Drome, Philippe - Antoine (Grand Serre, 1808 - 1865) 308 Matteo Plateario (Salerno, sec. XI XII) 18, 19, 21 Mattioli, Luigi (Bologna, sec. XIX) 163

Medici, Cosimo de (Firenze, 1389 1464) 19, 21, 76 Medici, Giancosimo (sec. XIX) 249 Melato, Francesco alias del Nome (Modena, sec. XVI - XVII) 278 Melba, Nellie (Richmond, 1861 - Sydney, 1931) 256 Melloni, Giambattista (Pieve di Cento, 1713 - 1781) 296 Menabeni, Apollonio (Milano?, 1540 ca. - dopo il 1603) 113 Menarini, Teresa Vedere Majani Menarini, Teresa Mengoli, Pietro (Bologna, 1626 - 1686) 106 Messisbugo, Cristoforo (Ferrara?, m. 1548) 148, 190, 198, 208, 210, 217, 226, 332 Metelli, Antonio (Brisighella, 1807 1877) 46 Mezzetti, Giuseppe (sec. XIX) 284 Minelli, Giovanni 94 Mirandola, Antonio (Bologna, 1573 1648) 162 Mitelli, Giuseppe Maria (Bologna, 1634 - 1718) 12, 114, 181, 267, 271, 311, 317, 318, 319, 320, 321 Mitterpacher, Ludwig (Bilje, 1734 1814) 168 Molza (famiglia) 246 Montalbani, Ovidio (Bologna, 1601 1671) 111, 179, 180, 181, 182, 268 Montanari, Antonio (Meldola, 1811 Meldola, 1898) 141 Montanari, Geminiano (Modena, 1633 - Padova, 1687) 37 Montanari, Massimo 310 Monterenzi, Annibale (Bologna, 1510 ca. - 1586) 324 Monti, Gaetano Lorenzo (Bologna, 1712 - 1797) 105, 134, 135 Monti, Giovanni 142 Mordani, Filippo (Ravenna, 1797 - Forlì, 1886) 27, 28, 76 Moreali, Giovanni Battista (Sassuolo,

373


Apparati 1699 - Modena, 1785) 86, 248, 249 Morelli, Cosimo (Imola, 1732 - 1812) 362 Moretti, Marino (Cesenatico, 1885 1979) 311, 355, 356 Morgagni, Giovanni Battista (Forlì, 1682 - Padova, 1771) 77 Moro, Giovanni Battista (Piacenza, sec. XVI) 291 Morpurgo, Salomone (Trieste, 1860 Firenze, 1942) 259, 260 Mortara, Anton Enrico (sec. XIX) 189 Mulla, Giampietro (sec. XVI) 28 Muratori, Ludovico Antonio (Vignola, 1672 - Modena, 1750) 77, 115, 149, 263, 274

Odorici, , Pietro Antonio (sec. XVIII) 280, 281

Pascoli, Ida (San Mauro di Romagna, sec. XIX) 353

Officine Maccaferri 195 Vedere anche Maccaferri, Luigi

Pascoli, Luigi (San Mauro di Romagna, sec. XIX) 353

Olstein Gottorp, famiglia 120

Pascoli, Maria (San Mauro di Romagna, 1865 - 1953) 353

Omero 50, 310, 334 Oppizzoni, Carlo (Milano, 1769 - Bologna, 1855) 138 Organi, Filippo degli (Modena, m. 1450) 289 Oriani, Alfredo (Faenza, 1852 - Casola Valsenio, 1909) 258 Orsi, Gioseffo Felice (Bologna, 1652 Modena, 1733) 177 Orsi, marchese Vedere Orsi, Gioseffo Felice

Pasqualini, Alessandro (Forlì, sec. XIX XX) 172 Pasqui, Tito (Forlì, 1846 - 1925) 172 Passarotti, Passarotto (Bologna, sec. XVI - XVII) 101 Pastalini, Pastalino (Bologna, XVI sec.) 98 Pastarino Vedere Pastalini, Pastalino

Muratori, Santi (Ravenna, 1874 - 1943) 339

Ortigio, Alessandro, avvocato (Rimini, sec. XVI) 113

Patecchio, Gerardo (Cremona, sec. XIII 1a metà) 87

Musi, Carlo (Bologna, 1851 - 1920) 360, 361

Ovidio Nasone, Publio (Sulmona, 43 a.C. - Tomi, 18 d.C.) 334

Pecenino, Boniforte (Ferrara, sec. XV XVI) 290

Mussologno, ch. 130

N

Nadalini, Gaetano (Bologna, sec. XIX) 163 Nadi, Gaspare (Bologna, 1418 - 1504) 141 Naldi, Luigi (Imola, ? - Piacenza, 1878) 199, 238, 239, 241 Nanni, fratelli (Bologna, sec. XIX) 195, 196, 197 Nardi, Luigi (Savignano sul Rubicone, 1777 - 1837) 341, 342 Nasalli Rocca, Emilio (Piacenza, 1901 1972) 238 Nascia, Carlo (Palermo, sec. XVII) 100, 198, 230, 231, 232 Negroni, Giulio (Bologna, sec. XIX) 144 Nenzioni, fratelli (Bologna, sec. XIX XX) 58 Neri, Giovanni (Bologna, 1532 - Verona, 1605) 291 Nerone (Anzio, 37 - Roma, 68) 106

P

Paciaudi, Paolo Maria (Torino, 1710 Parma, 1785) 77 Pagani, Giuseppe 243 Paggi, Gaetano (Bologna, sec. XIX) 163 Palattieri (famiglia, Imola, sec. XIX) 165 Palladio, Rutilio Tauro Emiliano (sec. IV) 18, 19, 117 Pallastrelli, Bernardo (Piacenza, 1807 1877) 325 Pallavicini, Ercole marchese (Bologna, sec. XIX) 144 Paltrineri, Giovanni don (Rolo, 1713 Carpi, 1797) 305 Pandola, Giulio Cesare (Piacenza, sec. XVI) 325 Pandola, Tiberio (Piacenza, sec. XVI) 325, 326 Panunto Vedere Romoli, Domenico Panzacchi, Enrico (Ozzano dell’Emilia, 1840 - Bologna, 1904) 144

Newton, Adam (Galles, m. 1630) 114

Paolo III, papa (Canino, 1468 - Roma, 1549) 164

Niccolò III, papa (Roma, 1216 ca. Soriano nel Cimino, 1280) 102

Paracelso (Einsiedeln, 1493 - Salisburgo, 1541) 67

Nigrisoli, Francesco Maria (Ferrara, 1648 - 1727) 41

Paradisi, Agostino (Civita Castellana, 1655 ca. - Modena, 1734 ca.) 111, 175, 176, 177

Nigrisoli, Girolamo (Cornacervina, 1621 - 1689) 174 Noletti,Vincenzo (Roma, sec. XVII) 224 374

Pasolini, Pier Desiderio (Ravenna, 1844 - Roma, 1920) 68

O

Parmentier, Antoine Augustin (Montdidier, 1737 - Parigi, 1813) 140 Pascoli, Giovanni (San Mauro di Romagna, 1855 - Bologna, 1912) 12, 126, 183, 258, 311, 353, 354

Pedevilla, Giovanni Antonio (Bologna, 1736 - 1808) 139 Pera, Giuseppe (Firenze, fl. 1790 - 1840) 169, 172, 173 Peranda, Sante (Venezia, 1566 - 1638) 234 Persoon, Christian Hendrik (Stellenbosch, 1761 - Parigi, 1836) 124 Perusino, Paolo (Bologna sec. XVI) 290 Petrarca, Francesco (Arezzo, 1304 - Arquà, 1374) 298, 330 Petronio Arbitro (Massilia, 27 - Cuma, 66) 190 Piancastelli, Carlo (Imola, 1867 - Roma, 1938) 83, 126, 279, 291 Pichat, Jean - Baptiste (sec. XVIII XIX) 50 Pico (famiglia) 199, 215, 216, 233 Pico, Alessandro I (Mirandola, 1567 1637) 216 Pico, Alessandro II (Mirandola, 16.. Concordia sulla Secchia, 1691) 233, 234 Pico, Brigida (Mirandola, 1633 - Padova, 1720) 233 Pico, Francesco Maria (Mirandola, 16.. Madrid, 1747) 233 Pico, Fulvia (Mirandola, 1666 - Napoli, 1731) 234 Pico, Maria Isabella (Mirandola, 1657 Madrid, 1720) 234 Pietramellara, Giacomo (Napoli, 1470 ca. - Bologna, 1536) 291, 292, 294 Pignocchi, Giuseppe Maria (Cervia, sec. XVIII) 194, 280, 281 Pilati, Cristoforo (Segrane di Toscolano,


Indice dei nomi di persona 1721 - Fiumicello, 1805) 120, 121 Pinetti, Luigi 304 Pio V, papa (Bosco Marengo, 1504 Roma, 1572) 202, 205

vadola, 1820) 110, 117 Rambaldi, Angelo (Bologna, sec. XVII) 111, 177

Rognoni, Carlo (Vigatto, 1829 - Panocchia, 1904) 349 Rognoni, Luigi (sec. XIX) 86

Rangoni (famiglia) 330

Roli, Carlo (Meldola, sec. XVIII) 303

Pio VI, papa (Cesena, 1717 - Valence sur - Rhône, 1799) 282, 362

Ranieri, Antonio da Colle (m. Prato, 1572) 23

Roli, Emilio (Massa Lombarda, 1844 1907) 58

Pio VII, papa (Cesena, 1742 - Roma, 1823) 236

Ranieri, Luigi (sec. XIX - XX) 92

Romagnoli, Giuseppe (Bologna, sec. XIX) 197

Pio, Alberto III (m. 1580) 74 Pio, Leonello II (Carpi, 1531 - 1571) 205 Pio, Rodolfo (Carpi, 1500 - Roma, 1564) 205 Pisanelli, Baldassarre (Bologna, 1535 ca. - Roma?, 1586) 11, 61, 70, 71 Pisone, Quinto Calpurnio 180

Ranuzzi Segni, Cesare (Bologna, 1856 1946) 352 Rasponi (famiglia) 28 Rasponi, Cesare (Ravenna, 1615 1675) 226 Ravà, Jacopo (sec. XIX) 154 Rava, Luigi (Ravenna, 1860 - 1938) 109, 189, 339

Pitagora (Samo,VI sec.a.C.) 77, 78, 117

Ravasini, Pier - Francesco (Parma, sec. XVII) 115

Pitrè, Giuseppe (Palermo, 1841 - 1916) 296

Ravasini, Tommaso (Parma, 1665 1715) 110, 115

Pizzi, Augusto (Reggio Emilia?, sec. XIX) 171

Redi, Francesco (Arezzo, 1626 - Pisa, 1697) 336

Plancus, Janus Vedere Bianchi, Giovanni

Re, Filippo (Reggio nell’Emilia, 1763 - 1817) 15, 22, 23, 27, 47, 48, 50, 94, 117, 139, 148, 168, 170, 340

Plateario, Matteo Vedere Matteo Plateario Plàtina Vedere Sacchi, Bartolomeo, detto il Plàtina Plauto (Sarsina, ca. 255 a.C. - 184 a.C.) 357 Plinio il Vecchio Vedere Plinio Secondo, Gaio Plinio Secondo, Gaio (Como, 23 Stabiae, 79) 16, 39, 117, 146, 192, 215, 295, 334 Poggiali, Cristoforo (Piacenza, 1721 1811) 325 Poggi, Tito (Firenze, 1857 - 1944) 58 Poli, Paolo 252 Ponceta, Girolamo (Ferrara, sec. XVI) 290 Pozzi, Giovanni 340 Prampolini, Natale (Reggio Emilia, 1876 - Roma, 1959) 123 Proli, Pierpaolo (Cesena, sec. XVIII) 145 Proust, Marcel (Parigi, 1871 - 1922) 311 Putti,Vittorio (Bologna, 1880 - 1940) 62, 65, 66, 84

R

Rabbi, Luigi (Bologna, 1890 - Casalecchio di Reno, 1959) 162 Raimondi, Ezio (Lizzano in Belvedere, 1924 - Bologna, 2014) 330 Raineri Biscia, Luigi (Forlì, 1744 - Do-

Renata di Valois - Orléans (Blois, 1510 Montargis, 1575) 82 Ressi, Adeodato (Cervia, 1768 - Venezia, 1822) 192 Riario, Girolamo (Savona, 1443 - Forlì, 1488) 68 Riario, Ottaviano (Forlì, 1498 - Mantova, 1526) 68 Riario, Raffaele (Bologna, sec. XVI 2a metà) 270 Ricci, Corrado (Ravenna, 1858 Roma, 1934) 141, 144 Ridolfi, Carlo (Verona, n. 1793) 341 Ridolfi, Cosimo (Firenze, 1794 - 1865) 51, 54, 55 Righi, Bartolomeo (Faenza, 1767 1846) 88 Righini, Giulio (Ferrara, 1884 - 1965) 164 Riguttini, Giuseppe (Lucignano, 1829 Firenze, 1903) 189 Riguzzi, Cesare (sec. XVII) 227 Rimini, Mandolino Vedere Alinovi, Giuseppe Maria Alfonso (sec. XIX)

Romoli, Domenico (Firenze, sec. XVI) 342 Roncagli, Angela (Parma, sec. XVII) 115 Roncaglia, Carlo (sec. XIX) 122, 123 Rondelet, Guillaume (Montpellier, 1507 - Réalmont, 1566) 101 Ronzani, Camillo (Bologna, sec. XIX) 163 Rosaspina, Bernardino (Venezia, 1797 Bologna, 1882) 173 Rosaspina, Francesco (Montescudo, 1762 - Bologna, 1841) 337 Rossetti, Carlo (Ferrara, 1614 - Faenza, 1681) 222, 224 Rossetti, Giovanni Battista (Ferrara, sec. XVI) 198, 212, 213, 226 Rossi, Girolamo (Ravenna, 1539 1607) 76 Rossi, Martino de’ (Torre di Como, 1430 ca. - Milano o Roma, fine del XV secolo) 220 Rossini, Gioachino (Pesaro, 1792 - Parigi, 1868) 256, 258, 339, 359 Rossi, Quirico gesuita (Lonigo, 1696 Parma, 1760) 188 Rovinazzi, Giacomo (Bologna, sec. XVIII - XIX) 155 Rovinazzi, G.M. (Bologna, sec. XIX) 343 Rubbiani, Alfonso (Bologna, 1848 1913) 346 Ruggero da Parma (sec. XII 2a metà) 71 Ruscelli, Girolamo (Viterbo, ? - Venezia, 1566) 67, 156 Rusconi, Mauro (Pavia, 1776 - Cadenabbia, 1849) 169 Rustighelli, Francesco (Bologna, m. 1552) 290

Riva, Alberto ingegnere (Bologna, sec. XIX) 144

Rivarola, Agostino (Genova, 1758 Roma,1842) 339

Sacchi, Bartolomeo, detto il Plàtina (Piadena, 1421 - Roma, 1481) 220, 226

Rivellino dalla Fratta, Giorgio (sec. XVII) 35 Roberto di Nola (sec. XV) 200

S

Saladino d’Ascoli Vedere Ferro, Saladino Salaroli, Ottavio (Bologna, 1530 ca. -

375


Apparati 1632) 15, 34, 35 Saletti, Francesco Maria (Brisighella, 1596 - 1674) 46

Serrazanetti, ? (sec. XIX) 144

Salimbeni (famiglia) 160

Servio, Fulvio Flacco (sec. I a.C.) 180

Sallé, Bernard 155

Servio Mario Onorato (Roma, sec. IV) 346

Sallé, Jacques 155 Salsedo, Esteban Carrillo (Napoli, sec. XVII) 226 Salustri, Alberto Camillo Mariano (Roma, 1871 - 1950) 258 Salutati, Coluccio (Stignano, 1331 Firenze, 1406) 19 Sandri, Jacopo (Bologna, 1657 - 1718) 119 Sangiorgi, Giuseppe (Massa Lombarda, 1850 - 1928) 111, 183, 184 Sanguinetti, Angelo (Bologna, sec. XIX) 144 Santo da Rimini (sec. XV - XVI) 291 Sarti, Paolo (Medicina, 1781 - Faenza, 1838) 88, 92 Sarti Pistocchi, Francesco (Bologna, m. 1877) 94 Sassoli, Tommaso (Bologna, 1896 1971) 120, 149, 250, 283 Savani, Luigi (Modena, 1754 - 1837) 148, 149 Savini, Giuseppe (Ravenna, sec. XIX) 145, 147 Savioli Consolini, Lodovica (Bologna, sec. XIX) 237

Sestini, Fausto (Campi Bisenzio, 1839 Lucca, 1904) 160

tova, 1666) 198, 199, 214, 217, 218, 219, 220, 230, 231, 246 Stoeffler, Johannes (Justinge, 1452 Blaubeuren, 1531) 292 Stoppani, Antonio (Lecco, 1824 - Milano,1891) 85 Strabone (Masea Ponto, prima del 60 a.C. - 20 d.C. ca.) 288

Sezanne, Augusto (Firenze 1856 - Venezia 1935) 344

Suppini, ? (sec. XIX) 144

Sforza, Anna (Milano, 1473 - Ferrara, 1497) 88

Sforza, Caterina (Milano, 1463 - Firenze, 1509) 68 Sforza, Francesco I (San Miniato, 1401 Milano, 1466) 190 Sforza, Ginevra (Ancona, 1440 - 1507) 87 Sforza, Guido Ascanio (1518 - Roma, 1564) 165 Sgarzi, Gaetano (Bologna, 1795 - 1866) 94 Shor, Philipp (Innsbruck, 1646 - 1700 ca.) 226 Sibenichi, Girolamo (sec. XVI) 25 Silvani (famiglia) 151 Sisto IV, papa (Pecorile, 1414 - Roma, 1484) 226 Sisto V, papa (Grottammare, 1521 Roma, 1590) 270 Sola - Brusca (famiglia) 189

T

Tamburini, Giovanni 304 Tanaglia, Michelangelo (Firenze, 1437 1512) 31 Tanara,Vincenzo (Bologna m. 1669 ca.) 14, 15, 31, 38, 39, 99, 120, 136, 141, 142, 268, 300, 303 Tanara de’ Buoi, Elisabetta (Bologna, sec. XIX) 142 Tanari, Luigi (Bologna, 1820 - 1904) 284 Targioni Tozzetti, Antonio (Firenze, 1785 - 1856) 92 Tartarini, Egberto (Bologna, sec. XIX) 361 Tasso, Torquato (Sorrento, 1544 Roma, 1595), 358 Tassoni, Alessandro (Modena 1565 1635) 188, 190, 346, 347, 348 Testi, Fulvio (Ferrara, 1593 - Modena, 1646) 358 Testi Rasponi (famiglia) 24, 55

Savonarola, Girolamo (Ferrara, 1452 Firenze, 1498) 63

Solari, Stanislao (Genova, 1829 - Parma, 1906) 349

Savonarola, Michele (Padova, 1384 Ferrara, 1468) 63, 64, 202

Solino, Gaio Giulio (Roma, sec. III) 346

Saxe, John Godfrey (Highgate - Vermont, 1816 - Albany, 1887) 262

Sontheimer, Joseph (Allmendingen, 1788 - 1846) 81

Sbalbi, Giambattista (Piacenza, sec. XVIII) 336

Sorbelli, Albano (Fanano, 1875 - Pavullo nel Frignano, 1944) 185, 351

Scappi, Bartolomeo (Dumenza, ca. 1500? - Roma, dopo il 1571) 198, 202, 205, 226

Sorrentino, Paolo 339

Tiarini, Alessandro (Bologna, 1577 1668) 221 Tiarini, Antonio (Bologna, sec. XVII) 221

Schott, Andreas (Anversa, 1552 - 1629) 314

Spaccini, Giovanni Battista (Modena?, 1570 - 1636) 278 Spalletti fratelli (Reggio Emilia, sec. XIX) 144

Tibaldi, Pellegrino (Puria, 1527 - Milano, 1596) 101

Spina, Rosa (Rimini, sec. XIX 1a metà) 341

Tiraboschi, Girolamo (Bergamo, 1731 - Modena, 1794) 23, 166, 167, 289, 305, 306, 330, 331, 357

Schott, Franz (Anversa, 1548 - 1622) 314 Schwindt, Cornelio (Francoforte, 1566 - 1632) 101 Scotti (famiglia) Vedere Douglas Scotti Scribanario, Marco (Bologna, m. 1530) 290 Scully, Terence 202 Sebellini (famiglia) 188, 249 Seneca, Lucio Anneo (Corduba, 4 a.C. Roma, 65) 175, 215 376

Serra, Giacomo (Genova, 1570 - Roma, 1623) 288

Spinelli, Alessandro Giuseppe (Modena, 1843 - 1909) 111, 189, 190

Testoni, Alfredo (Bologna, 1856 - 1931) 258, 314, 360, 361 Thurn, generale Vedere Thurn und Taxis, Massimiliano Carlo di Thurn und Taxis, Massimiliano Carlo di (Ratisbona, 1802 - 1871) 241

Tirelli, Giulio Cesare (sec. XVII) 217

Squalermo, Luigi (Anguillara, ca. 1512 Ferrara, 1570) 101

Todeschi, Pietro (Bologna, sec. XVII) 278

Stagni Petazzoni & C. (Bologna, sec. XIX) 343

Tolomeo, Claudio (Alessandria d’Egitto?, 100 ca. - dopo il 170) 295

Stecchetti, Lorenzo Vedere Guerrini, Olindo

Tornini, Luca ofm (Carpi, m. 1790) 249

Stefani, Bartolomeo (Bologna, ? - Man-

Tozzi, Bruno (Montevarchi, 1656 - Val-


Indice dei nomi di persona lombrosa, 1743) 124 Traffichetti, Bartolomeo (Bertinoro, 1523 - Rimini, 1579) 74, 75 Trebbi, Oreste (Bologna, 1872 - 1944) 253 Trilussa Vedere Salustri, Alberto Camillo Mariano Trionfetti, Lelio (Bologna (Bologna, 1647 - 1722) 37, 119 Trovanelli, Nazzareno (Forlimpopoli, 1855 - Cesena, 1915) 192 Tura da Castello Vedere Castelli, Bonaventura Turchi, Floriano (Bologna, sec. XVI) 291

U

Umberto I di Savoia (Torino, 1844 Monza, 1900) 144, 344 Ungarelli, Gaspare (Bologna, 1852 1938) 351 Urbinati, Citaredo <Ferrara?, sec. XVI XVII> 293

V

Vicini, Giovanni Battista (Finale Emilia, 1709 - Modena, 1782) 110, 166, 167

Zanichelli, Domenico (Modena, 1858 Vidiciatico, 1908) 259

Vidoni, Pietro (Cremona, 1610 - Roma, 1681) 276

Zanichelli, Giacomo (Modena, 1861 Bologna, 1897) 259

Villani, Ernesto e Costante (Castelnuovo Rangone, fl. 1886) 197

Zani, Paolo (Bologna, sec. XVII) 266

Villars, Claude Louis Hector (Moulins, 1653 - Torino, 1734) 222 Villarsi, duca di Vedere Villars, Claude Louis Hector Vincenti Mareri, Ippolito (Rieti, 1738 Parigi, 1811) 283 Virgilio Marone, Publio (Andes, 70 a.C. - Brindisi, 19 a.C.) 55, 151, 334, 354 Viscardi, Geremia (Bologna, sec. XIX) 343 Visdomini, Leandro (Bologna, sec. XVI) 291

Valdrighi, Mario (Modena, m. 1857) 249 Valfredo, Giovanni (Meldola, sec. XVI) 205 Vallisnieri, Antonio (Trassilico, 1661 Padova, 1730) 77, 94 Varni, Angelo 343, 344 Varrone, Marco Terenzio (Rieti, 116 a.C. - 27 a.C.) 19 Varthema, Lodovico (Bologna, 1470 ca. - 1517) 141 Vasselli, Giovanni Francesco (Bologna, ? - Mirandola, 1648) 198, 214, 215, 217, 231, 234 Vatel, François (Parigi, 1631 - Chantilly, 1671) 341 Venturini, Carlo (Massa Lombarda, 1809 - 1886) 302 Verdi, Giuseppe (Le Roncole, 1813 Milano, 1901) 311 Veronesi, Olga 257

Zanoni, Pietro Antonio (Reggio Emilia, 1723 - 1786) 111, 192 Zanotti, Francesco Maria (Bologna, 1692 - Bologna, 1777) 119 Zanti, Giovanni (Bologna, sec. XVI XVII) 291 Zappoli, Enrico (La Quercia, sec. XIX) 196, 197 Zappoli, Federico (La Quercia, sec. XIX) 196, 197

Vitali, Betuzzo (Bologna, sec. XVI) 291

Zauli Naldi, Luigi (Faenza, 1894 1965) 88, 217, 221, 304

Vitali, Lodovico (Bologna, 1475 ca 1554) 291, 294

Zecchi, Egidio (Castelfranco Emilia, sec. XIX ) 58

Vitruvio (80 a.C. ca. - 15 a.C. ca.) 154

Zecchini, Lorenzo (Bologna, sec. XVIII) 120

Vizzani, Filiberto (Bologna, sec. XVII) 276 Volta, Alessandro (Como, 1745 - 1827) 140

Valdrighi (famiglia) 199, 244, 246 Valdrighi, Luigi Francesco (Modena, 1827 - 1899) 244

Zanoni, Giacomo (Montecchio, 1615 Bologna, 1682) 105, 106

W

Weinmann, Johann Wilhelm (Gardelegen, 1683 - 1741) 350 Willis, Thomas (Wiltshire, 1621 - Londra, 1675) 174

Zecchini, Petronio Ignazio (Bologna, m. 1793) 110, 120, 121 Zeno, Apostolo (Venezia, 1668 - Venezia, 1750) 77 Zorzi, Riccardo conte (Bologna, sec. XIX) 144 Zucchini, Dino (Bologna, 1881 - 1946) 34, 38, 41, 287

Woodhull, sir Michael (Thenford Hall, 1740 - 1816) 66

Y

Yitzhaq Ben Sh’lomo ha - Yisra’eli) Vedere Israeli, Ben Salomon Isaac Young, Arthur (Bradfield Combust, 1741 - 1820) 134

Z

Zaccarini, Giovanni Battista (Bologna, sec. XVII) 219 Zacuth, Abraham (Ferrara, sec. XVI) 290 Zambrasi, Tibaldello de’ (Faenza, sec. XIII) 327

Verri, Pietro (Milano, 1728 - 1797) 175

Zambrini, Francesco (Faenza, 1810 Bologna, 1887) 259

Veryard, Ellis (Plymtree, 1657 - 1714) 269

Zangheri, Pietro (Forlì, 1889 - Padova, 1983) 109

Vettori, Pietro (Firenze, 1499 - 1585) 23

Zanichelli, Cesare (Modena, 1851 Bologna,1917) 259

377


Apparati

Indice dei nomi di luogo Sono esclusi i luoghi di stampa, già presenti nell’indice dei tipografi-editori (a meno che siano citati discorsivamente nella scheda) e quelli dei luoghi inventati.

A

Africa del Nord 80 Agro Pontino 123 Aguzzano Vedere Guzzano (Bo) Alfonsine (Ra) 150 Alsazia 140 Amazzonia 135 America 58, 135, 168, 197, 267, 336 America del Nord 196 America del Sud 100, 135, 140, 175, 336 America meridionale Vedere America del Sud Stati Uniti d’America 160, 349

Ancona 164 Appennino 92, 94, 111, 113, 132, 142, 148, 158, 354, 362 Arceto (Re) 282 Argenta (Fe) 34, 202 Ascoli Piceno 98 Asia 121, 197 Asia Minore 80 Australia 156, 197

B

Badi (Bo) 132 Bagdad 71 Bagnacavallo (Ra) 190, 265, 362 Biblioteca comunale Taroni 190

Bagnarola di Budrio (Bo) 362 Villa Malvezzi - Campeggi 362

Bagno di Romagna (Fc) 95 Barcellona 65 Biblioteca Universitaria 65

Basso Po 95 Bentivoglio (Bo) 301 Bertinoro (FC) 74, 92, 303, 341 Besançon 140 Accademia di Scienze, lettere, arti 140

Bibbiano (RE) 152, 154 Binasco (Mi) 265 378

Boccaleone (Fe) 202 Bologna 16, 18, 19, 22, 23, 24, 34, 35, 36, 37, 38, 41, 44, 47, 48, 50, 56, 58, 62, 65, 66, 67, 69, 70, 71, 74, 78, 80, 83, 84, 85, 87, 92, 94, 98, 99, 100, 101, 102, 105, 106, 112, 113, 114, 115, 117, 119, 120, 130, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 147, 149, 150, 151, 152, 154, 155, 156, 157, 160, 162, 163, 164, 165, 173, 174, 175, 177, 179, 181, 183, 185, 187, 190, 194, 195, 196, 197, 202, 205, 207, 211, 214, 215, 217, 218, 219, 221, 222, 224, 227, 229, 231, 234, 236, 237, 242, 246, 250, 251, 252, 253, 255, 256, 257, 259, 260, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 273, 276, 278, 282, 284, 285, 288, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 300, 301, 303, 304, 308, 312, 313, 314, 317, 318, 319, 323, 324, 327, 328, 329, 330, 334, 337, 339, 343, 344, 346, 348, 351, 353, 360, 361, 362, 258 Accademia delle scienze 120, 130, 135, 145 Albergo Il convento dei fiori di seta 314 Archivio di Stato 24, 327 Archivio Generale Arcivescovile 237 Archivio storico di Casa Majani 343 Associazione Pro Montibus et Silvis 352 Basilica di S. Giacomo Maggiore 34 Biblioteca comunale dell’Archiginnasio 16, 18, 22, 23, 39, 65, 80, 85, 96, 99, 114, 117, 119, 130, 141, 143, 151, 155, 162, 174, 177, 179, 181, 185, 194, 219, 227, 246, 253, 259, 260, 266, 267, 268, 270, 271, 276, 277, 278, 279, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 300, 304, 308, 312, 315, 317, 323, 324, 328, 329, 333, 337, 349, 351, 352, 353 Biblioteca d’Arte e Storia S. Giorgio in Poggiale 41, 78, 92, 102, 120, 130, 133, 135, 138, 149, 151, 152, 155, 156, 160, 179, 183, 190, 195, 196, 211, 217, 222, 229, 242, 250, 257, 274, 283, 297, 312, 327, 328, 344, 351, 360 Biblioteca degli Istituti ortopedici Rizzoli 66, 84 Biblioteca dello Studio teologico 44 Biblioteca dello Studio Teologico 303 Biblioteca del Museo del Risorgimento 282

Biblioteca di agraria Gabriele Goidanich 34, 38, 41, 47, 134, 137, 287 Biblioteca di Casa Carducci 115, 141, 330, 337 Biblioteca Salaborsa 22, 100, 101, 113 Biblioteca Universitaria 87, 141, 143, 181, 207, 217, 253, 259, 260, 290 Campo dei Fiori 149 Chiesa dei Ss. Naborre e Felice 330 Collegio medico - chirurgico 130 Farmacia Zanoni 106 Giardini Margherita 144 Giardino Spiess (Belletti) 163 Istituto delle scienze 119, 120 Madonna di S. Luca 344 Manifattura tabacchi 314 Mercato coperto 312 Monastero dei SS. Gervasio e Protasio 312 Monastero della Ss. Trinità 314 Monastero di S. Lorenzo 227, 229, 314 Monastero di S. Maria Maddalena 314, 315 Monastero di S. Maria Nuova 312, 314 Museo civico archeologico 106, 268 Museo Cospiano 106 Museo dell’Istituto nazionale di apicoltura 150, 252 Museo di zoologia 130 Museo internazionale e Biblioteca della musica 311, 358 Orto botanico 87, 99, 102, 105, 134, 135, 179 Palazzo comunale 100 parrocchia di S. Bartolomeo 150 Parrocchia di S. Donato 24 piazza VIII Agosto 362 porta d’Azeglio 163 porta Mascarella 100 porta S. Donato 100 porta S. Felice 348 porta S. Stefano 100 Società agraria 149, 151 Strada Maggiore 150, 163 Studio Vedere Università degli studi Teatro Arena del Sole 314 Teatro Contavalli 360


Indice dei nomi di luogo Teatro del Corso 361 Università degli studi 37, 47, 65, 71, 83, 87, 88, 99, 100, 102, 105, 106, 130, 134, 137, 144, 162, 205, 292, 294, 353 Università degli Studi 353 via Castellata 314 via Castiglione 314 via Cavaliera 163 via d’Azeglio 155 via dei Giudei 163 via delle Lame 330 via dell’Indipendenza 150, 314, 344 via di Mezzo di San Martino 149 via Farini 163 via Galliera 314 via Irnerio 100 via Malcontenti 149 via Orefici 163 via Orfeo 314 via Riva di Reno 314 via Rizzoli 163 via S. Felice 149, 361 via S. Giuseppe 163 via S. Stefano 106, 150, 314, 361 via S.Vitale 106 via Ugo Bassi 149, 312 via Zamboni 353

Bonconvento (Bo) 35

Borghetto (Pr) 350 Borgo Panigale (Bo) 16, 157, 197, 285 Borgo San Donnino Vedere Fidenza (Pr) Brasile 155, 196 Brescello (RE) 111, 189, 190 Brisighella (Ra) 46, 88, 92, 252 Museo all’aperto dell’olio 252 Val d’Amone 46

Budrio Biblioteca comunale Majani 178

Budrio (Bo) 58, 149, 150, 257, 258 Biblioteca comunale Majani 171, 239, 243, 245, 255, 347 Museo della patata 252

Buttrio (Ud) 257

Caprera (Ot) 145, 147, 196 Carpi (Mo) 111, 122, 123, 159, 170, 188, 205, 248, 278, 305, 306, 348 Convento di S. Nicolò 249

C

Case Gabrielli (Bo) 132

Coriano (Rn) 44, 124

Castel del Rio (Bo) 252

Corlo (Mo) 166

Museo del castagno 252

Castel Maggiore (Bo) 301

Corniano (RE) 152 Corsica 165

Castel San Giovanni (Pc) 164

Brando 166 Pietranera 166

Castel San Pietro (Bo) 88, 165 La Fegatella 88

Cremona 240, 265

Casteldurante (PU) 112

Cugnola (Fe) 34

Castelfranco Emilia (Mo) 58, 165, 171, 346, 347, 362

Castellarquato (Pc) 164 Castello Franco Vedere Castelfranco Emilia (Mo) Castello San Giovanni Vedere Castel San Giovanni (Pc) Castelnuovo Rangone (Mo) 166, 197

D

Diolo (Fe) 35 Dosso (Fe) 35 Dovadola (FC) 117 Dozza (Bo) 252, 341 Enoteca regionale 252

Castelluccio (Bo) 132

Dumenza (Va) 202

Castelvecchio di Barga (Lu) 353

E

Castelvetro (Mo) 166, 330

Castrocaro (FC) 92

Egitto 80

Cembalina (Fe) 289

Emilia 141, 245, 354 via Emilia 136, 154, 331

Cento (Fe) 185, 284 Cervia (Ra) 165, 192, 193, 194, 252, 280 Museo del sale 252

Cesena 14, 19, 21, 117, 145, 165, 187, 192, 237, 252, 279, 286, 295, 355, 362 Abbazia di S. Maria del Monte 165, 237 Biblioteca Malatestiana 14, 19, 187, 192

Cesenatico (FC) 279, 280, 355 Biblioteca Casa Moretti 355 Ponte di S. Gioseffo 279

Chantilly 341 Cibeno (Mo) 122 Civezzano (Tn) 92 Civita Castellana (Vt) 175 Codogno (Lo) 134, 240 Coenzo (Pr) 158

Cagli (PU) 74, 226

Collecchio (Pr) 252 Museo del pomodoro 252

Campogalliano (Mo) 96, 166

Colombaro di Formigine (Mo) 170

Camugnano (Bo) 132

Colonia 62, 324

Capanne (Bo) 132

Comacchio (Fe) 111, 145, 146, 147, 202, 252, 273, 288

Caprara (Fe) 35

Conegliano (Tv) 168 Consandolo (Fe) 202

Cagiojosa (Fe) 35 Campiglio (Mo) 166

Cominale (Fe) 35

Carpineti (Re) 152

Civitella (FC) 286

Museo dell’anguilla Manifattura dei Marinati 252

Europa 44, 100, 114, 139, 140, 194, 197, 216, 231, 242, 248, 269, 300, 336, 358

F

Fabriano (An) 222 Faenza (Ra) 24, 44, 46, 55, 62, 63, 64, 66, 67, 69, 71, 73, 88, 92, 117, 124, 141, 142, 165, 185, 217, 221, 222, 224, 248, 269, 291, 304, 308, 327 Biblioteca comunale Manfrediana 62, 63, 64, 66, 67, 69, 71, 73, 88, 92, 217, 221, 248, 269, 304 Osteria della Marianàza 308 Sorgente Olmatello 92 Sorgente Salsa 92 Sorgente S. Cristoforo 92

Faggio (Bo) 132 Felino (Pr) 252 Museo del salame 252

Ferrara 34, 35, 36, 41, 63, 80, 81, 82, 95, 120, 148, 149, 158, 159, 164, 174, 175, 185, 192, 200, 202, 205, 208, 209, 210, 212, 213, 214, 218, 227, 264, 273, 278, 284, 287, 288, 289, 293, 314, 323, 324, 327, 333 Accademia delle scienze 159 379


Apparati Biblioteca comunale Ariostea 95, 164, 200, 208, 212, 214, 290 Centro studi S. Simone e Giuda 164 Università degli studi 120, 174 via Mazzini 210 via Vignatagliata 210 via Vittoria 210

Fiandre 34, 135, 163

Guastalla (RE) 242, 262, 272 Guiglia Vedere Samone di Guiglia (Mo) Guzzano (Bo) 24

Biblioteca Comunale 68, 74, 88 Cattedrale 362 Chiesa di Santa Maria in Regola 362 Teatro 362

Ficocle Vedere Cervia (Ra) Fidenza (Pr) 85, 164, 350 Ospizi civili 85

Figghine Vedere Figline Valdarno (Fi) Figline Valdarno (Fi) 165 Finale Emilia (Mo) 158, 166, 192, 331 Accademia dei Fluttuanti 166, 331

Indie occidentali 121 Inghilterra 34, 44, 47, 58, 114, 135, 300

K

Finale Ligure (Sv) 160

Fiorenzuola (Pc) 164

Kent 114

Firenze 35, 77, 95, 99, 101, 102, 109, 117, 164, 189, 243, 251, 253, 254, 259, 336, 346, 359

Fiumana (FC) 286 Fontanellato (Pr) 154, 230 Forlì 68, 83, 109, 117, 126, 162, 165, 172, 184, 205, 226, 252, 253, 279, 284, 291, 302, 303, 353, 362 Biblioteca comunale Saffi 83, 126, 184, 279, 291

Forlimpopoli (FC) 165, 251, 252, 362 Biblioteca comunale Artusi 251 Casa Artusi 252

Formigine (Mo) 166 Formignana (Fe) 41 Fossa (Mo) 166 Fossoli (Mo) 122 Frati del Monte Vedere Cesena, Abbazia di S. Maria del Monte Fratta (FC) 92, 303 Frügard 71

G

L

Lame di Zocca (Mo) 252 Museo - laboratorio del borlengo 252

Langhirano (Pr) 252 Museo del prosciutto di Parma 252

Lay 339 Levizzano (Mo) 166 Liguria 158, 159, 165 Lione 62, 151, 215, 325 Livorno 116, 259, 260, 353 Lizzano (Bo) 132 Lombardia 34, 69, 164, 216, 230, 265, 267, 285, 315 Londra 114, 248 British Library 114, 327, 329 Trinity College 114

Francia 47, 51, 135, 140, 155, 221, 300

380

I

Imola (Bo) 58, 68, 74, 88, 119, 165, 197, 236, 237, 238, 304, 340, 341, 362

Losanna 51

M

Madrid 65 Biblioteca della Reale Accademia di storia 65

Biblioteca comunale Venturini 51, 56, 302 Museo della frutticoltura A. Bonvicini 252 Museo della Frutticoltura A. Bonvicini 56

Matera 353 Medicina (Bo) 88, 283, 284 Meldola (FC) 74, 117, 205, 303 Meldole Vedere Meldola (FC) Mercatale (Bo, Ra) 362 Mercatello (Bo) 362 Mercato (Rn) 362 Mercato Saraceno (FC) 362 Messina 353 Università degli studi 353

Mezzano Superiore (Pr) 337 Milano 47, 92, 115, 133, 140, 143, 148, 156, 168, 183, 189, 190, 195, 214, 230, 239, 252, 255, 265, 274, 288, 289, 304, 306, 325, 339, 340, 344, 355, 357 Minerbio (Bo) 362 Mirabello (Fe) 35 Mirandola (Mo) 214, 215, 216, 233, 234, 305, 306 Accademia degli Incolti 214 Archivio della Casa editrice Al Barnardon 305 Biblioteca comunale Garin 214, 233

Modena 35, 47, 48, 50, 70, 71, 86, 88, 114, 122, 139, 148, 151, 152, 158, 159, 160, 164, 166, 170, 171, 172, 175, 181, 188, 189, 190, 192, 199, 208, 213, 218, 244, 246, 248, 249, 252, 264, 278, 284, 285, 291, 293, 305, 306, 330, 331, 346, 348, 354, 357, 358, 359 Accademia dei Dissonanti 148, 249, 330, 331 Accademia dell’Arcadia 166, 331 Accademia di scienze lettere arti 122, 159, 166, 170, 172, 188 Archivio di Stato 190, 208 Archivio storico del Comune 264 Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti 50, 139 Biblioteca della Fondazione S. Carlo 148 Biblioteca Estense Universitaria 70, 71, 88, 175, 189, 244, 357 Chiesa di San Francesco 278 Collegio San Carlo 166 Università degli studi 48, 159

Galles 114

Magreta (Mo) 167

Galliera (Bo) 35

Malalbergo (Fe) 35, 289

Garfagnana 353

Mantova 35, 214, 216, 217, 219, 220

Genova 231, 254, 255, 271

Marano sul Panaro (Mo) 166

Gentilly 155

Marche 74, 288

Germania 47, 135

Marcigny 339

Ginevra 114

Marocco 80

Modenese Vedere Modena

Gorzano (Mo) 166

Marola (RE) 111, 152, 154

Moglia (Mn) 123

Gradisca (Go) 115

Massa 353

Moglio (Bo) 134

Granaglione (Bo) 132

Massa Lombarda (Ra) 15, 51, 54, 56, 58, 183, 184, 252, 302

Molinella (Bo) 288


Indice dei nomi di luogo Montale Rangone (Mo) 166

Pedrolara (Rn) 124

Montecchio (RE) 105, 154, 252, 285

Pegola (Fe) 35

Museo del vino 252

Montegibbio (Mo) 166

Pesaro 74, 112, 126, 242, 243, 359 Piacentino Vedere Piacenza

Monteveglio (Bo) 286

Piacenza 31, 59, 63, 67, 105, 116, 158, 164, 168, 169, 171, 172, 173, 199, 218, 222, 238, 239, 240, 241, 242, 262, 263, 265, 272, 274, 288, 293, 307, 325, 326, 336, 362, 168

N

Accademia degli Ortolani 325 Biblioteca comunale Passerini Landi 31, 59, 63, 67, 105, 116, 168, 169, 172, 173, 222, 238, 274, 307, 325, 336 Biblioteca Passerini Landi 64 Palazzo Anguissola 362

Napoli 48, 94, 96, 165, 200, 222, 270, 292 Università degli studi 48

Nizza 164 Noceto (Pr) 154, 230, 350 Nonantola (Mo) 160, 167, 284, 332 Archivio Abbaziale 332

Nord Africa Vedere Africa del Nord

O

Oxford 100 Università degli studi. Dipartimento di botanica 100

P

Padova 35, 37, 63, 76, 99, 101, 102, 334 Orto dei semplici 37 Università degli studi 76, 102

Palermo 230 Biblioteca Universitaria 230

Panocchia (Pr) 349

Parma 70, 71, 85, 115, 122, 132, 154, 158, 164, 168, 175, 230, 231, 242, 243, 252, 262, 263, 267, 272, 274, 284, 285, 324, 325, 337, 349, 351 Academia Barilla 70, 132 Archivio di Stato 230 Biblioteca Palatina 230, 231, 232, 272, 290, 324 Chiesa della Steccata 115 Regio Istituto Tecnico Macedonio Melloni 349 Università degli studi 71, 263, 349

Parmense Vedere Parma Pavia 31, 48, 160, 185 Università degli studi 48

Rimini 44, 68, 74, 75, 77, 95, 112, 113, 124, 163, 165, 221, 255, 269, 286, 269, 337, 341, 342, 351 Biblioteca civica Gambalunga 68, 74, 75, 77, 95, 221, 342, 350 piazza Cavour 255 Seminario vescovile 124 sorgente Galvanina 95 Tempio Malatestiano 74, 341

Pieve di Cento Porta Asia 187

Pieve di Cento (Bo) 187, 284

Riolo Secco Vedere Riolo Terme (Ra)

Piobbico (PU) 112

Riolo Terme (Ra) 88

Pisa 50, 59, 99, 101, 102, 116, 160, 169, 172, 173, 353

Rivalta (RE) 171 Ro Ferrarese (Fe) 252

Università degli studi 353

Pistoia 58 Reale Osservatorio 58

Poggio Vedere Poggio Renatico (Fe) Poggio Renatico (Fe) 35, 36 Pontelagoscuro (Fe) 273, 288, 289 Porotto (Fe) 34, 36

Museo del pane Mulino sul Po 252

Roma 22, 41, 70, 71, 74, 76, 78, 82, 86, 87, 92, 94, 101, 106, 126, 130, 132, 133, 152, 155, 160, 162, 164, 165, 175, 176, 183, 184, 189, 190, 202, 205, 211, 217, 220, 222, 229, 234, 239, 242, 243, 245, 253, 269, 270, 273, 274, 284, 287, 288, 317, 324, 358, 362 Biblioteca Casanatense 71, 260 Biblioteca Corsiniana 22 Circo Agonale 362 Palazzo Braschi 362 Spedale di S. Spirito 70

Porretta (Bo) 87, 130, 132, 229 Portogallo 135, 168, 224 Accademia Reale della Marina 136 Collegio dei Nobili 136

Parigi 54, 71, 96, 140, 155, 156, 248, 344, 359 Accademia di medicina 140 Biblioteca Nazionale 71 Società reale e centrale d’agricoltura 54

Rimaldello (Mo) 166

Piemonte 50, 70, 157, 288

Museo della canapa 187

Riccardina di Budrio (Bo) 150, 258

Pianoro (Bo) 24

Nord America Vedere America del Nord Novi (Mo) 122

Accademia degli Ipocondriaci 194, 331 Biblioteca dei Frati minori Cappuccini 281 Biblioteca dell’Arcispedale S. Maria Nuova 77, 86, 87 Biblioteca Panizzi 235, 304, 324 Piazza del Duomo 158 Piazza Maggiore Vedere Piazza del Duomo

Perugia 265, 340

Monte Lupidio (Fi) 95 Monticelli d’Ongina (Pc) 78

245, 247, 252, 281, 287, 291, 301, 304, 324, 331, 362

Puglia 271

R

Raveda (Fe) 35 Ravenna 24, 25, 26, 27, 28, 35, 55, 58, 68, 76, 94, 126, 127, 128, 145, 150, 165, 189, 194, 202, 252, 265, 273, 274, 280, 284, 288, 291, 339, 341, 343, 362 Accademia degli Informi 126 Archivio Arcivescovile 274 Basilica di S. Apollinare in Classe 150 Biblioteca comunale Classense 25, 27, 28, 76, 145, 147, 189, 194, 273, 280, 339, 341 Casa Matha 274 Convento di S. Maria in Portico 165

Reggio Emilia 47, 77, 86, 87, 100, 105, 123, 158, 170, 175, 192, 194, 199, 235,

Romagna 26, 46, 54, 74, 109, 165, 172, 237, 245, 253, 260, 265, 273, 279, 280, 288, 308, 315, 342, 353, 354 Romania Vedere Romagna Rottofreno (Pc) 240 Rovereto (Mo) 122 Rubicone 117, 302, 303 Russi (Ra) 46 Biblioteca comunale 46

S

Sala Bolognese (Bo) 194 Salsomaggiore (Pr) 85 Salsominore (Pr) 85 Salto (FC) 117 Salvarola (Mo) 86 381


Apparati Samone di Guiglia (Mo) 252, 354 Museo della tigella e laboratorio del borlengo 252

San Frediano (Fi) 346 San Gemigniano Vedere San Gimignano (Si)

Sorbolo (Pr) 158

Yemen 177

Spagna 165, 168, 218 Spilamberto (Mo) 148, 158, 160, 247, 252 Museo dell’aceto balsamico tradizionale di Modena 160, 252

San Gimignano (Si) 165 San Giorgio di Valle di Sambro (Bo) 137

Stati Uniti d’America Vedere America, Stati Uniti d’America

San Giovanni in Persiceto (Bo) 284, 294, 327, 328, 329, 330

Stellata (Fe) 205, 274

San Giovanni Valdarno (Ar) 165

Stradella (RE) 166

San Marino di Bentivoglio (Bo) 301 Museo della civiltà contadina 301 Villa Smeraldi 301

San Marino (Mo) 122 San Martino di Soverzano (Bo) 362 San Martino in Rio (RE) 301 Museo dell’agricoltura e del mondo rurale 301

San Mauro di Romagna Vedere San Mauro Pascoli (FC)

Stoccarda 162 Strasburgo 62, 63, 64, 66, 67, 69, 71, 73 Subiaco (Rm) 341 Svizzera 51, 140, 163

Tedo (Fe) 35 Torino 50, 139, 170, 173, 194, 195, 253, 287, 344, 352 Club Alpino Italiano 352

San Michele Tiorre (Pr) 115

Torre delle Oche 166

San Prospero (Mo) 167

Torricella di Lugano 362

Sant’Agata Bolognese (Bo) 284

Trento 56

Sant’Agata di Villanova sull’Arda (Pc) 311

Tresigallo (Fe) 41

Santa Maria Codifiume (Fe) 149 Sant’Andrea dei Bagni (Pr) 85

Trevigi Vedere Treviso Treviso 265 Turchia 121

Santarcangelo di Romagna (Rn) 165, 362

San Venanzio (Mo) 166

Urbania Vedere Casteldurante (PU)

Sarsina (FC) 74, 205

U

V

Sarzana (Sp) 130

Sasso Marconi (Bo) 165

Valdarno di Sopra 165

Sassuolo (Mo) 86, 158, 164, 166

Valenza 65

Savignano sul Panaro (Mo) 166 Savignano sul Rubicone (FC) 124, 341 Rubiconia Accademia dei Filopatridi 341 Seminario vescovile 124

Savoia 140, 227 Scandiano (RE) 164, 281, 282 Sicilia 50, 271, 353 Siria 50, 80 Solara (Mo) 167 Soragna (Pr) 164, 230, 252 Museo del parmigiano - reggiano 252 Rocca Meli Lupi 230

382

T

Tabiano (Pr) 85

San Mauro Pascoli (FC) 353, 354

Sant’Agostino (Fe) 34, 36

Y

Sorbara (Mo) 167, 171

Biblioteca Univesitaria 65

Valsenio Vedere Casola Valsenio (Ra) Venezia 16, 27, 28, 34, 36, 46, 67, 74, 75, 76, 77, 83, 92, 126, 162, 176, 185, 202, 215, 217, 220, 270, 273, 278, 288, 296, 306, 333, 337, 357, 358, 362 Verona 35, 130, 296 Vienna 71, 248, 337, 344, 358 Biblioteca Nazionale 71

Vigatto (Pr) 349 Villa Fontana (Bo) 283, 284 Villa Nova Vedere Villanova (Ra) Villanova (Ra) 25

Z

Zappolino (Mo) 348 Zocca Vedere Lame di Zocca (Mo)


Bibliografia

Bibliografia Bibliografia citata I titoli sono preceduti dalla sigla con cui sono contrassegnati alla fine delle schede e dei box. Affò 1797 = Ireneo Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal padre Ireneo Affò, 5 voll., Parma, dalla stamperia reale, 1789-1797. Alberini 1981 = Carlo Nascia, Li quatro banchetti destinati per le quatro stagioni dell’anno, prefazione e note di Massimo Alberini, Sala Bolognese, Forni, 1981. Andreolli-Tusini 2002 = Memorie di un cuoco di casa Pico. Banchetti, cerimoniali e ospitalità di una corte al suo tramonto, a cura di Bruno Andreolli e Gian Luca Tusini, Mirandola, Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico della Mirandola”, 2002. Andreotti 2014 = Maurizio Andreotti, L’agricoltura a Ferrara nel ‘700. Consigli, aneddoti e aforismi di Domenico Chendi, parroco di campagna, Ferrara, edito dall’autore, 2014. Arlotti 2008 = Gabriele Arlotti, Bibbiano. Nella culla del Parmigiano Reggiano, Bibbiano, Comune di Bibbiano, 2008. Artocchini 2011 = Carmen Artocchini, Il 1848 e il 1849 in un’inedita cronaca, «Piacenza Economica», XXXV, 1, marzo 2011, p. 48-52. Bacchelli 2004 = Franco Bacchelli, Una prelazione miniata, «IBC», XII, 4, 2004, p. 9-13. Baldini 1994 = Enrico Baldini, Scienza e arte nella Pomona italiana di Giorgio Gallesio, Firenze, Accademia dei Georgofili, 1994. Bartolomeo Bimbi = Paola Errani, I manoscritti malatestiani, in Le belle forme della natura: Bartolomeo Bimbi (16521730), catalogo della mostra a cura di Daniela Savoia, Maria Letizia Strocchi, Bologna, Abacus, 2001, p. 139142. Bartsch = Adam Bartsch, Le peintre graveur, vol. 19,Vienne, chez Pierre Mechette, 1819. Benporat 1991 = Giovanni Battista Rossetti, Dello scalco, in Ferrara, appresso Domenico Mammarello, 1584 (Ristampa anastatica con commento di Claudio Benporat, Sala Bolognese, Forni, 1991). Bentini-Chiappini 1988 = Amministrazione provinciale di Ferrara, A tavola con il principe. Materiali per una mostra su alimentazione e cultura nella Ferrara degli Estensi, a cura di Jadranka Bentini, Alessandra Chiappini, catalogo della mostra, Ferrara, Castello Estense, 1 ottobre 1988-27 marzo 1989, Ferrara, Corbo; [s. l.], Banca nazionale dell’agricoltura, 1988. Bertarelli 1940 = Civiche raccolte d’arte applicata e incisioni. Le incisioni di Giuseppe Maria Mitelli, catalogo critico a cura di Achille Bertarelli, prefazione di Giorgio Nicodemi, Milano, Comune di Milano, 1940. Bignardi 1964 = Agostino Bignardi, Vincenzo Tanara e l’agricoltura bolognese del Seicento, «Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura», 3a serie, 4, 1964.

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Finito di stampare nel mese di luglio 2015


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