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In fondo al tunnel E. Franceschini

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Il verbo partire

Il verbo partire

In fondo al tunnel

Camminavo da ore. Respiravo. Non sentivo stanchezza. L’aria fresca mi fasciava tutto e pareva mi volesse portare. Sulle spalle, come sempre, un piccolo sacco. D’un tratto, il rumore di un volo deciso e fermo: davanti a me stava, calma, la cedrona. Una gioia incredibile mi prese. L’accarezzai. Non si mosse. La fissai negli occhi. Poi, come per indicarmi la strada, partì decisa fra i mughi e le sterpaglie volgendosi, di tanto in tanto, per vedere se la seguissi. Certo che la seguivo, certo. Avevo capito che aveva bisogno di aiuto ed ero pronto a darglielo, come potevo.

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Dopo circa mezz’ora, fummo davanti ad una parete a picco.

«Qua passi tu sola» dissi, guardando desolatamente la parete nera «io no, sono senza ali».

L’animale fece cenno che la seguissi; e la vidi, subito dopo, scomparire. Stupito, cercai e trovai, assolutamente nascosto e invisibile ai piedi della parete, l’imbocco di una caverna, ma così stretta che ci passavo appena. M’introdussi… e dopo pochi metri fu notte fonda. Continuai come un cieco, appoggiandomi con le mani alle pareti umide e scivolose; andavo a tentoni nel buio. Quanto durò quell’andare a tentoni? Non lo so. So solo che a un certo punto quel tunnel nero finì.

Mi stropicciai gli occhi. Li aprii… e mi trovai davanti alla valle più bella del mondo. Non grande. Una cascata precipitava garrula in basso, formando un limpidissimo lago, cinto da prati verdi e difeso da quattro enormi abeti secolari; scoiattoli e uccelli di ogni genere, dappertutto. Ginepri con bacche mature, mirtilli neri e rossi. Ma ciò che mi colpì, più di ogni altra cosa, furono i galli cedroni di ogni età: ma erano stranamente fermi, davanti a me… stranamente fermi.

«Dev’essere il paradiso» dissi fra me «il paradiso dei cedroni».

Cercai con lo sguardo la guida. La vidi, s’incamminò. La seguii.

Mi condusse davanti ad un grosso ramo sul quale stava appollaiato il più grosso gallo cedrone che esistesse – credo – sulla terra: maestoso, immenso, regale.

Mi guardò, senza stupore, con gli occhi acuti ma velati. Lo toccai. Scottava.

«Ma sei malato» dissi «sei malato!».

Guardai un’ala: nulla. L’altra: nulla. Ma intorno al collo vidi una vena infiammata. La seguii delicatamente con la mano. Soffiai fra il pelame. E capii. Un grosso pallino di piombo, sparato da un cacciatore, l’aveva raggiunto al collo e si era fermato vicino alla spina dorsale, senza romperla, fortunatamente: ma bisognava toglierlo, e subito, perché si era formata un’infiammazione che aumentava, e la cui fine sarebbe stata inevitabilmente la morte. Accarezzai l’animale.

«Ora ci penso io» dissi «ma ti chiedo di star fermo, anche se sentirai male, molto male: ma poi guarirai, vedrai, guarirai… te lo garantisco. Guarirai perché ti voglio bene».

Trassi dal sacchetto un pacchetto di sanità, che sempre porto con me durante le gite, e un grosso coltello da montagna. Intanto altri galli cedroni erano venuti, in silenzio, a vedere ciò che facevo al loro re. Anch’essi non dimostravano alcuna paura verso di me: mi parvero, curiosamente, degli assistenti intorno al chirurgo. Mi avvicinai al cedrone fino a toccargli il becco poderoso.

«È il momento» dissi «cerca di stare fermo, molto fermo».

E mentre disinfettavo con l’alcool la lama grande del coltello, pregavo: «Signore, dirigi la mia mano: è una tua creatura, fa’ che ancora per molti anni possa lodarti per i liberi cieli…».

Soffiai sulla fitta piuma. Scoprii il rigonfiamento, ormai paonazzo, del grosso pallino. Lo cosparsi di alcool. Poi, con un colpo rapidissimo, lo incisi. Spruzzò sangue e pus: e finalmente, premendo forte con le dita, uscì il micidiale pallino. Il cedrone era stato immobile: solo al colpo rapido di coltello la sua pelle rabbrividì.

«Bravo» gli dissi mostrandogli il pallino estratto «sei stato bravissimo. Ora disinfetto e chiudo la ferita. Ancora un po’ di pazienza».

Disinfettai tutto il solco della ferita; lo ripulii, schiacciai ancora dove c’erano piccole sacche di pus; quando tutto fu chiaro e lavato con alcool, vi misi sopra, dolcemente, un cerotto di finissimo tessuto, lo stirai e rimisi a posto le piume.

«Eccoti» dissi «rimesso a nuovo. Ancora un po’ di riposo. Poi sarai di nuovo padrone dei cieli».

Il cedrone scosse le grandi ali. Le richiuse. Poi mise il suo poderoso collo sul mio petto. Lo guardai negli occhi. Quel velo che li offuscava era passato; essi stavano tornando a poco a poco lucidi e potentissimi.

Ezio Franceschini, La valle più bella del mondo, Vita e Pensiero

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