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Giochi con la palla V. Pratolini

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Il verbo partire

Il verbo partire

«Ecco, devi scrivere tutto questo, liberamente, e anche le cose che ti sembrano strane», spiegava mia madre.

E finalmente la mia biro correva. Mi pareva di avere scoperto, in quel foglio bianco, una libertà che non conoscevo. Sono grata a mia madre, per quelle sere nello studio, noi due da sole. Per avermi svelato quell’angolo in cui potevo dire ciò che avevo nel cuore: le lettere tonde della mia grafia infantile che adesso si lasciavano andare, come acqua liberata, in quello che ora mi sembrava un grande, bel gioco.

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Marina Corradi, «Tempi», 18 aprile 2016

Giochi con la palla

Il campo di gioco per il calcio occupava metà della piazza; la “porta” estrema era segnata da uno dei quattro lampioni che inquadravano la cancellata del monumento e da un tombino; l’altra, vicina alle panchine, veniva delimitata da due strisce sulla ghiaia.

Si cominciò con una palla di cencio da pochi soldi; un giorno Dino, ch’era uno dei primi ad arrivare, e uno dei più appassionati al gioco, ed anche uno dei più capaci, apparve con una grossa palla fatta di giornali, più ottagonale che sferica, legata stretta con uno spago: durò alcuni giorni, stracciandosi via via.

Fu poi la volta di una palla di gomma multicolore che Rossini aveva trafugata a qualche ragazzo del Giardino Pubblico, ma balzava troppo e finì col bucarsi rimanendo infissa nella cancellata del monumento; finché mi riuscì di comperare un pallone numero tre, una camera d’aria, che solo io so come l’ottenni. Ma il pallone complicò le cose, attirò alcuni giovanotti che lavoravano in una tipografia vicina, i quali fino ad allora avevano aspettato la sirena bivaccando sulle panchine, cosicché giocavano loro soltanto, di prepotenza.

Tornammo alla palla fatta di giornali che Dino rinnovava meravigliosamente.

All’una dopo mezzogiorno si cominciava la partita, dividendoci in due squadre; come altri sopraggiungevano «tu con loro, tu con noi», le file si ingrossavano. Suonate le due, chi in fabbrica, chi a bottega, chi chissà dove, le file si assottigliavano di nuovo. Erano partite furiose, frammezzate da litigi e calci negli stinchi di ragazzi di dodici, di quattordici, di sedici anni.

Vasco Pratolini, Diario sentimentale, Bur

cencio: straccio, pezza.

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