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Citius, Altius, Fortius M. Sulis
Citius, Altius, Fortius
Arrivò stremato sull’Acropoli il povero Filippide: aveva percorso correndo la strada che separava Atene dalla città di Maratona per annunciare ai suoi concittadini che l’esercito ateniese aveva battuto quello persiano. Era il 490 a.C. e le notizie arrivavano “a piedi”. Si narra che il povero soldato ebbe appena il tempo di dire «Ateniesi, abbiamo vinto!» e poi si accasciò al suolo, sconfitto dalla fatica. Nel 1960 le Olimpiadi si svolgono nella cornice suggestiva della Città Eterna: Roma. I maratoneti partono dal Campidoglio, e sfiorano i monumenti più importanti. Sono tanti.
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La folla, assiepata ai bordi delle strade, incita e applaude tutti, russi, cinesi, inglesi. Fra tutti i partecipanti ce n’è uno che attira più degli altri l’attenzione, non perché sia famoso; anzi, quando si è iscritto alla corsa in pochi hanno notato il suo tempo di gara e quasi nessuno lo dà tra i favoriti.
È un etiope di 28 anni, è sposato, ha due figli, ha la pelle lucida e gli occhi profondi ed è scalzo. Abebe Bikila è figlio di un pastore e nel suo paese fa il poliziotto per mantenere la famiglia. Qualche giorno prima della partenza per Roma, alla squadra etiope viene a mancare per un infortunio uno dei suoi atleti Wami Biratu e Abebe si rirova a far parte della nazionale olimpica in sostituzione di Wami.
Poche ore prima della gara, Bikila decide in accordo con il suo allenatore, lo svedese Niskanen, di gareggiare scalzo, le scarpe fornite dallo sponsor sono scomode, meglio senza. Con indosso il numero 11 cerca l’avversario da battere, il 26, il marocchino Rhadi, che invece è partito con un altro numero. Anche Rhadi fa il poliziotto al suo paese, anche lui è di umili origini, crede di avere 30 anni, ma non ne è sicuro; quando lo raccolsero orfano e in fasce dopo che il suo villaggio era andato distrutto, nessuno sapeva che età avesse. I due si confrontano per le vie di Roma dopo aver sfiorato in gruppo con altri atleti il Colosseo, il Circo Massimo… Un corpo a corpo non violento, scandito dal ritmo dei passi sempre uguali dei maratoneti che attraversano la città, passano per l’Appia antica e, solo quando ormai è sera, si dirigono verso il traguardo sotto l’arco di Costantino. Al ventesimo chilometro sono rimasti in due, Rhadi e Abebe, entrambi africani, entrambi soldati. Al trentesimo, Rhadi si arrende ad Abebe che sorpassa l’avversario e si mette in testa alla gara, anche se staccato di poco, ma è difficile sostenere quel ritmo sempre uguale; Abebe non ha mai cambiato passo, non ha mai ceduto né cede. A un chilometro dal traguardo, Rhadi cede definitivamente il primo posto all’etiope, che si avvia a vincere la medaglia d’oro. La straordinaria forza d’animo di quest’uomo si manifesta ancora quattro anni dopo, quando si presenta alle Olimpiadi di Tokyo dopo un’operazione chirurgica che gli ha impedito di allenarsi come dovuto, ma non gli impedisce di vincere
ancora, di essere il primo campione olimpico a fregiarsi del titolo di vincitore per due volte consecutive e di stabilire il record mondiale sulla distanza. Durante la sua carriera partecipò a 14 gare vincendone 12, fino al 1969, quando un incidente lo paralizzò dal torace in giù.
Non smise mai comunque di praticare sport e di allenarsi e gareggiare in altre discipline, dal tiro con l’arco al ping pong, alle paraolimpiadi.
Muore a 41 anni per emorragia cerebrale, e lo stadio di Addis Abeba gli viene intitolato. A pochi come a lui calzano le parole che sono il motto Olimpico: Citius, Altius, Fortius. Più veloce, più alto, più forte.
Michela Sulis, «Rivista sportiva», 28 febbraio 2012