4 minute read

Il mio universo M. Labaky

Next Article
Il verbo partire

Il verbo partire

Il mio universo

Quand’ero bambino, dalla mia montagna si vedeva il mare, in fondo in fondo, a ovest, bello, immenso, misterioso, con quelle sue mattine d’estate color blu di seta, i suoi mezzogiorni splendenti di luce e le sue notti screziate di stelle e di luna. Io pensavo che finisse all’orizzonte, là dove il sole calava in un trionfo di porpora e d’oro o si offuscava in un cumulo di nuvole che erano presagi di pioggia. Sotto di noi il mare bagnava una sottile striscia di costa distesa tra i lunghi agrumeti il cui profumo inebriante al momento della fioritura saliva fino a noi portato dalla brezza.

Advertisement

In realtà, noi eravamo troppo in alto per ricevere i profumi della pianura; ma dall’istante in cui mia madre iniziava a percepirli (e una felice emozione brillava nei suoi occhi) io non potevo che imitarla, annusando convinto, nella sua scia ai limiti della mia personale percezione.

Mia madre era mia madre ed io ero convinto che lei cogliesse, sentisse e vedesse una quantità di cose che per gli altri erano impercettibili. Per esempio, quando d’estate, alla sera, ci gustavamo lo splendore del cielo stellato, ero convinto che lei vedesse davvero l’interno del paradiso che mi descriveva. E mentre le ero rannicchiato accanto, lei faceva penetrare nel mio animo la presenza misteriosa ma così intensa di Dio, certo più con la dolcezza della sua voce che non con le sue parole.

Fu più tardi che seppi che gli aranci in fiore potevano dare profumo a certi ricordi particolarmente felici di mia mamma. Ed ancora molto più tardi compresi che si poteva davvero “sentire” mediante il ricordo. Il nostro lido (una parvenza di lido…), che era verde e castano in tutte le stagioni e cosparso di tetti rossi, di quando in quando si chiazzava di bianco sulle cime, dove le case (e questo lo imparai ancora più tardi) si ammassavano come greggi di pecore per formare delle città.

Appena oltre i frutteti si ergevano le montagne, ondulate in lontananza, verso il sud, e ancora più lontano, a nord; ma, ad Oriente, vedevo soltanto la curva boscosa della collina a strapiombo sul nostro villaggio ed ero convinto che lì finisse la terra.

Un giorno, appollaiato sulle spalle del mio geddo (nonno), mi arrampicai con lui fino alla sommità di questa collina e… con che sorpresa scoprii altre vallate e altre montagne, molto più profonde e impressionanti di quanto nessun mare potesse delimitare! Rimasi a lungo in loro contemplazione, rendendomi conto a poco a poco che – più in là di quel che i nostri occhi possono vedere – esistono altri mondi, mondi che sembrano raggiungere il cielo, a meno che non siano senza fine. Ma, allora, dove finisce la terra?

«Cos’è questo, cos’è tutto questo?» chiesi al mio geddo.

«Tutto questo è il nostro paese» mi rispose divertito dalla mia meraviglia. «Tutto questo è il Libano».

«Ma tutto quello che è là, dalla parte del mare, fa parte del nostro villaggio, no?».

«No – rispose il geddo – è Libano anche quello. Il nostro villaggio è soltanto là dove sono riunite le nostre case, la tua e quelle delle persone che conosci bene e che puoi incontrare tutti i giorni. Il nostro villaggio è solo una piccola briciola del nostro paese».

«E quelle case, laggiù e laggiù… e là in alto… e in basso, non sono dunque il nostro villaggio?» domandai puntando l’indice in tutte le direzioni.

«No» mi rispose il geddo. «Sono altri villaggi: ognuno ha un suo nome e tutti si trovano nel Libano».

«E il mare? Anche lui è il nostro paese?».

«No» disse il geddo. «Solo una sua piccola parte, quella vicino alla costa. Il mare ti porta in altri paesi e in altri mari; e, oltre le nostre montagne, ci sono altri paesi e altri mari».

«Ah!» feci io, ammirato per la grandezza e la diversità di un mondo che cominciavo appena a intravedere.

«Allora il nostro villaggio non è tutta la terra?»

«No, – disse il geddo – ma, nel nostro Paese, il nostro villaggio è terra di nostra proprietà».

«E cosa c’è oltre gli altri paesi e gli altri mari? È lì che comincia il cielo? Oppure è lì che finisce la terra? E, da qui, si può vedere un altro paese? E…».

Feci mille domande e il geddo mi spiegò tali e tante cose meravigliose che io finii col fare una gran confusione fra cielo e terra.

Ma quella sera, al momento di prender sonno, sentii che il mio villaggio mi abbracciava come faceva la mamma; per me, esso non era più qualcosa di impreciso, fluttuante tra l’orizzonte e le cime delle nostre montagne, i miei due confini del mondo. Si era singolarmente rimpicciolito mentre il mio universo era diventato infinito, ma aveva assunto forma e consistenza.

Io non ero che un piccolo ragazzo tra tanti altri e lui non era che un piccolo villaggio tra tanti altri. Ma anche lui, come me, aveva un nome, aveva, come me, il suo posto nell’universo, era amato, come me, e, come me, era vivo.

Ecco quello che il mio geddo mi fece capire lassù, sulla collina, nello stesso momento in cui mi insegnò che l’orizzonte non era mai la fine di qualcosa ma sempre l’inizio di «qualche altro luogo».

Mansour Labaky, Amici nonostante la guerra, Edizioni Paoline

This article is from: