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Il soprannome P. Voranc
Il soprannome
Al mio paese c’è la brutta usanza di dare soprannomi, spesso stupidi, ingiuriosi e senza senso. Ricordo un ragazzo, per molti anni mio compagno di scuola. Era un orfano, piccolo di statura, tarchiato, e indossava quasi sempre vestiti molto chiari. Chissà per quale motivo, noi cominciammo a chiamarlo: «Caramacco».
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Sebbene senza significato, quel nome racchiudeva in sé qualcosa di umiliante e di offensivo; e il mio compagno, udendolo, reagiva sempre con violenza.
In quei momenti, benché fosse piccolo, diventava terribile.
Le cose si complicavano quando giocavamo a «pollo e avvoltoio».
Una volta, facendo questo gioco, ebbi con lui il mio primo ed ultimo scontro. Lui faceva l’avvoltoio, io il pollo. Egli si sforzava di raggiungermi a tutti i costi e, correndo lungo la riva di un torrente, ci allontanammo parecchio dai compagni. Lo feci avvicinare e, quando stava per raggiungermi, con un balzo, saltai sulla riva opposta. Io avevo le gambe lunghe e la manovra fu facile per me. Anche lui tentò di saltare al di là del torrente, ma scivolò e, pataciac, giù nell’acqua, lungo e disteso.
«Ben ti sta. Caramacco!» gli gridai sogghignando.
Infuriato, riprese a correre. Io però riuscii a spiccare un nuovo salto e a ripassare il torrente. E qui lo aspettai. Non vedendolo apparire gli gridai: «Caramacco, e quando arrivi? Sono qua, non mi vedi?».
La mia era vera e propria cattiveria. E l’altro se ne rese conto.
Amareggiato, non si lasciò vedere. Nascosto dietro un arbusto non dava segni di vita. Allora mi preoccupai.
«Che ti succede, amico?» domandai tra giocoso e serio.
Non ricevetti nessuna risposta. Allora m’impensierii veramente.
Ripassai il torrente e mi diressi verso il luogo dove mi sembrava che dovesse trovarsi l’amico. Chiamandolo col suo vero nome gli dissi: «Vincenzo, che hai?».
Alzò la testa e mi guardò. Amare lacrime gli solcavano le guance. Con voce rotta da singhiozzi mi disse: «Perché anche tu mi offendi sempre?».
Fui preso da una grande compassione. Il mio sguardo si posò su un rammendo che aveva sulla giacca e mi venne in mente che quella pezza non era stata la mamma a cucirgliela, perché la mamma non l’aveva più.
Istintivamente gli tesi la mano e gli dissi: «Vincenzo, non lo farò più; ti giuro che non lo farò più».
Egli mi guardò un po’ incredulo, ma leggendo nei miei occhi la sincerità con cui parlavo, mi strinse la mano dicendo: «Lo dici davvero?».
«Te lo prometto, Vincenzo! E non permetterò neanche che te lo dicano gli altri».
Mantenni la promessa e da quel giorno Vincenzo diventò il mio amico più caro.
Prezihov Voranc, I mughetti, La Scuola
Ti è mai capitato di ricevere un soprannome o di usarne uno? Ne sei stato contento o ti sei sentito a disagio? Secondo te, come nasce un soprannome?