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Il fazzoletto bianco V. Boldis, A. Toffolo

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Il verbo partire

Il verbo partire

Il fazzoletto bianco

Avevamo una casa bellissima, con muri di mattoni blu scuro come il cielo prima di una tempesta autunnale, e le finestre abbastanza piccole, molto comuni nelle case dei contadini, che si affacciavano sul bosco e le dolci colline che circondavano il villaggio.

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Era un villaggio come tanti altri, da quelle parti, con le case tutte in fila lungo le sponde di un ruscello dalle acque limpide che attraversava le colline della Transilvania, nella regione chiamata Ardeal, là, dove pian piano le cime dei Carpazi si fanno più dolci, lasciando spazio, verso ovest, alla puszta magiara.

Transilvania! Terra misteriosa, fatta di leggende e miti, draghi e vampiri, streghe e malocchi. E foreste: immense e meravigliose foreste.

Io sono nato in quella terra, in quel mondo dimenticato dal tempo, prigioniero dei sogni dei nostri antenati, e, purtroppo, anche degli incubi di qualche dittatore.

Il mio villaggio è un pezzo di storia antica, al riparo dal caos e dalla tecnologia, con gente semplice che si saluta e si fa gli auguri tutte le volte che si incontra per strada, anche se magari non si conosce.

Ma bisogna dire che là tutti si conoscono.

«Che Dio ti aiuti! Che Dio ti benedica!».

Saluto e risposta, semplicità d’anima e di cuore.

Lavorare la terra era la principale attività della gente e nessuno si lamentava: se alla vita si chiede soltanto quel poco che basta e niente di più, non ci sono motivi per lamentarsi, giusto?

Io ho imparato a tagliare l’erba con la falce quando avevo appena sei, sette anni. Mi ricordo bene: la falce era più alta di me, e qualche volta anche l’erba era più alta di me! Dio buono, quant’era faticoso, ma quanto mi piaceva!

Portavo a pascolare le capre, poi le mucche e i bufali, andavo a scuola e prendevo dei buoni voti e i miei erano contenti. La vita da quelle parti e a quei tempi era così: semplice e dura, ma bella da morire!

Non era la necessità a spingere i genitori a far imparare ai figli, fin da piccoli, i lavori dei campi, erano le tradizioni tramandate da padre a figlio, da quasi duemila anni: da quando il mio popolo, il popolo romeno, venne alla luce, saldamente ancorato alle sue radici dacie e romane.

Fare il contadino in Transilvania, a quei tempi, sicuramente non era facile, come non è facile oggi, ma la vita in campagna era straordinaria. Mio papà era un uomo duro, un “generale”, con se stesso e con tutti. Senza ombra di dubbio mi voleva bene; però, quando combinavo qualche ragazzata, e ne combinavo tante, mi dava delle botte tremende. In quei casi, scappavo dagli amici e rimanevo da loro finché le acque non si calmavano.

Il segnale che mi indicava quando potevo rientrare era un piccolo fazzoletto bianco alla finestra, appeso dalla mamma naturalmente all’insaputa del “generale”! In realtà, io credo che lui abbia sempre saputo di questo piccolo stratagemma, ma ha sempre fatto finta di niente.

Il giorno in cui dissi a mio padre che volevo andar via, in cerca di fortuna, chissà dove, la prese male, anche perché ero figlio unico.

«Se vuoi andare, vattene, ma non guardare indietro, non avere rimorsi. Vattene per sempre» mi disse, sopraffatto dalla rabbia e dalla tristezza.

E io, figlio suo, testardo come lui, sono andato. Ogni tanto, voltandomi indietro, ma sono andato.

Nei primi tempi mandai delle lettere, ma i miei genitori non rispondevano mai. Poi, l’orgoglio mi spinse a fare una delle cose più brutte della mia vita: per quasi due anni non mi sono più fatto vivo. Alla fine, però, il contadino che c’era in me, che per fortuna ancora non si era perso del tutto nella fitta nebbia padana, uscì allo scoperto, e gridò tutta la sua rabbia, tutta la tristezza e la malinconia che aveva dentro. Così, decisi di ritornare: come il figliol prodigo, come la pecorella smarrita.

Gli anni vissuti in questo freddo mondo occidentale, mi spinsero però a prendere delle stupide precauzioni. Mandai loro un’altra lettera:

«Voglio tornare! Se mi volete ancora, mamma, nel giorno di Natale, appendi alla finestra un fazzoletto bianco, come facevi quando ero piccolo: mamma, ti ricordi? Se arriverò e non vedrò il fazzoletto alla finestra, vorrà dire che ce l’avete ancora con me, e allora tornerò sui miei passi e non mi vedrete mai più!» Detto e fatto. Il giorno di Natale arrivai al villaggio. Erano passati due anni dalla mia fuga.

Decisi di fare a piedi i due, tre chilometri che mancavano alla nostra casa. Man mano che mi avvicinavo, il cuore mi batteva sempre più forte. Speravo con tutta l’anima di trovare il fazzoletto bianco appeso alla finestra. Mancava poco, dovevo girare l’angolo e la nostra casa si sarebbe vista in lontananza. Girai l’angolo e… la casa non c’era più: la nostra casa di mattoni blu come il cielo prima della tempesta autunnale era sparita. Al suo posto c’era un’altra casa, con muri bianchi e senza finestre. Il cuore mi si fermò e mille domande mi franarono addosso come pesanti pietre: «Forse l’hanno ristrutturata o magari ne hanno costruita un’altra, o forse l’hanno venduta, o forse… oh Dio, no, questo no!».

Decisi di andare avanti comunque, per vedere, per capire… Mi misi a correre con il cuore in gola e quando finalmente arrivai vicino, capii tutto. Non era un’altra casa e non era nemmeno bianca: era sempre la nostra casa di mattoni blu come il cielo prima della tempesta, ma i miei – la mia povera mamma e il mio duro “generale”–, temendo che un fazzoletto fosse troppo piccolo per essere visto da lontano, avevano tirato fuori tutte le lenzuola e tutti i panni bianchi che avevano, stendendoli dappertutto, sui muri, sulle finestre, sul tetto.

Viorel Boldis, Antonella Toffolo, Il fazzoletto bianco, Topipittori

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