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Amici nonostante la guerra M. Labaky
Amici nonostante la guerra
In un orfanotrofio libanese due ragazzini stringono amicizia: Nassim ha perso la famiglia durante un bombardamento, Jad, che ha ancora il padre, prende sotto la sua protezione il compagno “doppiamente orfano”. Jad offrirà al suo amico un’amicizia piena e sincera, fino a condividere con lui il suo bene più grande: il suo papà.
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L’urlo della guerra
Per quanto a lungo io possa vivere, la guerra rimarrà per me l’incarnazione dell’inferno; è stata lei a farmi conoscere la morte quando cominciavo appena a rendermi conto di esistere.
Lei mi ha fatto conoscere il baratro del “mai più” quando la presenza dei miei cari mi sembrava eterna come l’amore.
Lei mi ha rubato il mio villaggio, la mia casa, la mia famiglia.
Lei mi ha gettato – me come tanti altri – sulle vie che non portano in alcun luogo, avendo come unico bagaglio il gelo di una brutale amputazione e dei ricordi minati dalla sofferenza, dalla distanza e dal silenzio, la sete di una presenza fisica, di quei gesti che danno vita e forma alla tenerezza, di quelle parole che l’adornano come un diadema.
Non sapevo che un villaggio fosse così fragile. Non sapevo che si potessero distruggere case e persone così facilmente come se fossero birilli.
Dov’era la mia casa? Dov’era mio padre? I miei fratelli e le mie sorelle? Dov’erano i miei nonni? Inghiottiti anche loro dal silenzio della morte?
Perché non mi rispondevano, loro, la cui voce bastava da sola a farmi palpitare di tenerezza? Perché mi lasciavano solo, me, il più piccolo, il loro piccolo? Perché mi lasciavano solo?
Solo!
Il loro silenzio mi sommerse come una marea di morte. Fu allora che urlai contro la morte. Urlai. Fino a che la mia voce non raggiunse il suo silenzio.
Da un giorno all’altro mi trovai in un orfanotrofio. Come ci sono arrivato? Chi mi ci ha condotto? Non me lo ricordo. E ricordo soltanto la grande porta che si richiude alle spalle di due figure grigie.
Jad
Jad, è a te e per te che scrivo.
Perché, dopo la scomparsa dei miei, sei stato il solo ad avermi voluto bene col cuore di una madre.
Sì Jad, proprio con il cuore di una madre.
Eppure avevi soltanto sette anni. Come me. Ed eri orfano. Come me.
Solo che tu avevi ancora tuo padre: profugo, disoccupato, povero, ferito…
Ma vivo!
Tu eri dolce e vivo come uno scoiattolo.
E chiacchierone.
Lo sa Allah se tu eri chiacchierone!
Mi avresti detto, un giorno: «Bisognava pure che parlassi per due!».
Non hai aggiunto: «E che amassi per due e vivessi per due!».
Ed è proprio quello che hai fatto: ecco perché dico che mi hai amato con cuore di una madre.
Quando un ragazzino si alza di notte perché un altro bambino piange, l’abbraccia e gli dice semplicemente: «Piangi, Nassim, ma io ti sorrido…» a sette anni, Jad, questo è il massimo della comprensione, della partecipazione… dell’amore.
E sorridevi, Jad. Avevi le lacrime agli occhi e nella voce, ma sorridevi. Coraggiosamente, con calore, in modo meraviglioso.
Mi avevano messo vicino a te in classe, nel refettorio e nella cappella; nel dormitorio occupavi il letto vicino al mio, a destra.
Ma chi avrebbe mai potuto fermare le tue chiacchiere? Tu, anche se fossi stato solo su un’isola deserta, avresti parlato alle onde, alle nuvole, al vento, a te stesso.
Fu forse per compensare il fatto che io ero muto che le suore ci avevano sistemato fianco a fianco? O fu per la tua dolcezza e per la tua gentilezza tanto evidenti, tanto vere da poter intaccare – loro sole – il mio silenzio?
Fratelli per sempre
«Sto per dirti una cosa per la quale smetterai di piangere, sai? Ascoltami Nassim: papà ci porta con sé tutti e due, per sempre».
«Tutt’e due, per sempre?».
Impiegai un’eternità per capire.
Il mio cuore si apriva. Il cielo si apriva. La terra si apriva. Tutto l’universo era un scampanìo di Pasqua, un cantico di Natale e sole… sole…
Papà, mamma! Ora finalmente ritrovavo i vostri volti vivi e l’amore che voi avevate installato in me riprendeva vita. Allah! Che voglia di vivere… Per sempre. Anche se la guerra mi aveva insegnato che “sempre” poteva sparire in un attimo.
Ma sempre non aveva più importanza, quando ogni secondo pieno d’amore portava in sé l’eternità.
Tutto ciò lo avvertivo in modo confuso. Tuttavia, per mezzo di questa felicità favolosa che mi arrivava mentre fuori tuonava la guerra, io seppi, in modo profondo e definitivo, quello che volevo nella vita: volevo essere vivo… vivo… vivo… e disponibile per gli altri, come mio padre e mia madre, come il mio villaggio, come Jad e il suo meraviglioso papà… mano che semina, miete e dissolve… sì, anche la guerra.
Guardai Jad. Sembrava deluso e triste:
«Ma come, è tutto qui? Invece di saltare di gioia, continui a piangere? Non è giusto! Non hai capito che siamo diventati due veri fratelli per sempre?».
Oh Jad, Jad! Mio vero, mio meraviglioso fratellino, la mia gioia era troppo forte perché la si potesse esprimere con le parole; ci voleva ancora un po’ di tempo per finire di sgelare il mio cuore. Ma se tu avessi saputo come avevo bisogno di te, della tua dolcezza e della tua gentilezza così vere e spontanee, delle tue chiacchiere, dei tuoi gesti di insofferenza, dei tuoi Yalla!, dei tuoi «Ya Mar Elias, ma cosa ti ho mai fatto perché mi rifilassi un simile idiota!».
Sì, piangevo. Lacrime brillanti e serene come un sorriso. Lacrime come preghiere. Lacrime dedicate ai miei genitori, a Dio, a tuo padre (“mio” padre su questa terra, che Allah lo conservi sempre su di noi e lo colmi di pace d’amore!) e a te, Jad, ragazzino dal cuore di madre, che mi hai dato tanto.
Piangevo e balbettavo:
«Jad, sei mio fratello davvero?».
E tu, di nuovo insofferente, di nuovo a te stesso, piccolo scoiattolo dispensatore di tenerezze, sei balzato in piedi e mi hai tirato per un braccio:
«Se te lo dico! Ya Mar Elias, cosa ti ho mai fatto perché tu mi rifilassi un simile idiota? Yalla, ma sbrigati!… Ci aspetta!».
Mansour Labaky, Amici nonostante la guerra, Edizioni Paoline