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La gita di prima media R.J. Palacio

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Il verbo partire

Il verbo partire

La gita di prima media

Auggie è un ragazzo normale, ma con una faccia… straordinaria! Nato con il volto deforme, protetto dalla sua meravigliosa famiglia per i primi dieci anni della sua vita, adesso, per la prima volta, deve affrontare la scuola. Chi gli siederà vicino? Chi lo guarderà dritto negli occhi? Auggie è sfortunato, ma tenace e sa vedere il lato buffo delle cose. Riuscirà a convincere i suoi compagni che lui è proprio come loro, nonostante le apparenze?

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Ogni anno in primavera gli alunni di prima media della Beecher Prep vanno via per tre giorni e due notti, in un posto che si chiama Broarwood Nature Reserve in Pennsylvania. Il viaggio in pullman dura quattro ore. I ragazzi dormono in piccole casette – tipo bungalow – con tanti letti a castello. Fuochi di bivacco, marshmallow arrostiti sul fuoco e lunghe passeggiate nei boschi.

I prof ci hanno preparati a questo per tutto l’anno, per cui tutti i ragazzi di prima non stanno più nella pelle… eccetto me. Non è che io non sia entusiasta, perché in un certo senso lo sono; è solo che non ho mai dormito prima fuori di casa e sono un tantino preoccupato.

La maggior parte dei miei compagni ha già fatto dei pigiama party a casa degli amici. Molti sono stati in campeggio, o sono rimasti a dormire dai nonni o che so io. Ma non io. A meno che non si tenga conto dei miei numerosi soggiorni in ospedale, ma anche in quel caso la mamma e il papà sono sempre rimasti con me la notte.

La sera prima del grande viaggio la mamma mi ha aiutato a preparare la valigia. Abbiamo appoggiato sul letto tutti i vestiti che volevo portare e lei ha ripiegato tutto per bene e lo ha infilato nel borsone mentre io stavo a guardare. Era di stoffa blu, per inciso: né scritte né disegni.

«E se la sera non riesco ad addormentarmi?» ho chiesto.

«Portati un libro. Se non riesci a dormire puoi tirare fuori la torcia e leggere un pochino, finché non ti viene sonno» mi ha risposto la mamma.

Ho annuito: «E se faccio un incubo?».

«Ci saranno gli insegnanti, tesoro» ha ribattuto lei. «E Jack e i tuoi amici».

«Potrei portare Baboo» ho buttato lì. Era il mio animale di peluche preferito quando ero piccolo. Un orsetto nero con un morbido naso nero.

«Però non ci dormi più con lui, giusto?» ha obiettato la mamma.

«No, però lo tengo nell’armadio casomai mi svegliassi nel cuore della notte e non riuscissi a riaddormentarmi» ho detto. «Potrei nasconderlo in valigia. Non lo saprebbe nessuno».

«Allora facciamo così» la mamma ha annuito, togliendo Baboo dall’armadio.

«Quanto vorrei che si potessero portare i cellulari» ho detto poi.

«Lo so, anch’io!» ha detto la mamma. «Anche se so che ti divertirai un sacco Auggie. Sicuro che vuoi che metta nella borsa anche Baboo?».

«Sì, ma ben in fondo dove nessuno lo possa vedere» ho detto.

La mamma ha ficcato Baboo in fondissimo e poi ci ha messo sopra l’ultima maglietta. «Un bel po’ di vestiti, per appena due giorni».

La mamma si è seduta sul letto.

«In ogni caso tesoro, devi promettermi che non ti dimenticherai di mettere lo spray antizanzare, d’accordo? Sulle gambe soprattutto quando farete le passeggiate nei boschi. È proprio qui nella tasca anteriore».

«Uh, uh».

«E mettiti anche la crema da sole. Non vorrai scottarti. E, te lo ripeto, non dimenticare di toglierti gli apparecchi acustici se andrete a nuotare».

«Resterei fulminato?».

«No, ma ti fulminerebbe tuo padre perché quegli affari costano una fortuna!» ha risposto lei ridendo.

«E se mi fa schifo, là?».

«Ti divertirai, Auggie».

Ho annuito. La mamma si è alzata e mi ha stampato un rapido bacio sulla fronte. «Bene, ma adesso dico che ora di andare a letto».

Il giorno dopo mi sono svegliato davvero presto. Era ancora buio in camera mia e persino più buio fuori anche se sapevo che presto sarebbe stato mattino.

A poco a poco la stanza ha cominciato a rischiararsi. Ho allungato la mano per prendere la cuffia con gli auricolari e me la sono messa, e adesso sì che il mondo

era davvero sveglio. Mi sono alzato dal letto, e sono andato alla scrivania e ho scritto un bigliettino per la mamma. Poi sono andato in soggiorno dove il mio borsone era posato vicino alla porta; l’ho aperto e ci ho frugato dentro, finché non ho trovato quello che cercavo.

Ho riportato Baboo in camera mia, l’ho appoggiato sul letto e gli ho attaccato sul petto il bigliettino per la mamma con un pezzetto di scotch. Quindi ho tirato su le coperte, di modo che la mamma lo trovasse solo più tardi. Sul bigliettino c’era scritto:

Cara mamma, non avrò bisogno di Baboo, ma se sentirai la mia mancanza puoi tenertelo vicino tu. xo Auggie

Il pullman sfrecciava via velocissimo. Mi sono seduto accanto al finestrino e Jack era seduto vicino a me, sul sedile del corridoio. Summer e Maya erano davanti a noi. Tutti erano di ottimo umore. Gran confusione, un sacco di risate.

Siamo arrivati alla riserva naturale intorno a mezzogiorno. La prima cosa che abbiamo fatto è stata mettere le nostre cose nei bungalow. C’erano tre letti a castello in ogni stanza, così abbiamo fatto sasso, carta, forbici per la cuccetta più in alto e ho vinto io. Yuppi!

I nostri compagni di stanza erano Reid e Tristan, Pablo e Nino.

Dopo aver pranzato nell’edificio principale, siamo andati tutti a fare un giro

guidato nel bosco per due ore. Ma non era un bosco tipo quello del Central Park: era un bosco vero. Alberi giganteschi che bloccavano quasi completamente la luce del sole. Grovigli di foglie e tronchi caduti. Ululati e cinguettii e canti di uccello a squarciagola. C’era anche una specie di nebbiolina, come un fumo azzurro chiaro, che ci avvolgeva. Forte.

La guida ci indicava e spiegava tutto. I diversi tipi di albero accanto a cui passavamo, gli insetti rintanati nei tronchi sul sentiero, le tracce del passaggio di cervi e orsi, quali tipi di uccelli stavano fischiando e dove cercarli.

Mi sono reso conto che i miei auricolari da robot mi permettevano di sentire davvero molto meglio della maggior parte degli altri, perché il più delle volte ero proprio io il primo a individuare il canto di un nuovo uccello.

Quando ci siamo di nuovo incamminati verso la base, ha cominciato a piovere. Ho tirato fuori il poncho e mi sono tirato su il cappuccio così gli apparecchi acustici non si sarebbero bagnati, ma quando abbiamo raggiunto il bungalow jeans e scarpe si erano inzuppati completamente. È stato divertente però. E una volta in camera abbiamo fatto una battaglia tirandoci le calze bagnate.

Dato che ha continuato a piovere per il resto della giornata abbiamo trascorso la maggior parte del pomeriggio a fare gli stupidi nella stanza dei giochi. C’erano un tavolo da ping-pong e vecchi videogiochi con cui ci siamo divertiti fino all’ora di cena. Per fortuna a quel punto aveva smesso di piovere perciò abbiamo potuto far da mangiare su un vero fuoco da campo. I tronchi per sedersi erano ancora un po’ bagnati, ma ci abbiamo messo sopra le giacche e siamo stati lì vicino al fuoco, ad arrostire marshmallow e a mangiare i migliori hot-dog abbrustoliti che avessi mai assaggiato in vita mia.

Mi è piaciuto un sacco stare lì intorno al fuoco dopo che aveva fatto buio. Mi piaceva il modo in cui le scintille infuocate volteggiavano verso il cielo e sparivano nell’area della notte. E come il fuoco illuminava le facce delle persone. Mi piaceva anche rumore che faceva, il fuoco. E come gli alberi fossero talmente scuri che intorno a te non potevi vedere niente, e se guardavi in su, vedevi invece un trilione di stelle. Il cielo non sembra lo stesso di North River Height. Ne ho visto uno simile a Mountauk, però: come se qualcuno avesse cosparso di sale una lucida tavola nera.

Quando siamo rientrati ero così stanco che non ho avuto bisogno di tirar fuori il libro per leggere. In pratica mi sono addormentato nell’attimo stesso in cui la mia testa ha toccato il cuscino.

E forse mi sono sognato delle stelle, non so.

R.J. Palacio, Wonder, Giunti

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