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C. Romagnoni

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Il verbo partire

Il verbo partire

Il principe Giovanni e gli omini neri

Il principe Giovanni abitava in uno splendido castello dove passava splendidamente le sue giornate. Il castello, che sorgeva sulla cima rocciosa di un’altura sovrastante un vasto territorio, aveva torri, torrette, merli, merletti, persino pinnacoli e nell’interno giardini, giardinetti, cortili, cortiletti e ancora più nell’interno, stanze, stanzoni, stanzette. Il principe aveva anche tanta servitù: servi, serve, cuochi, giardinieri e governanti per pulire, ripulire, lucidare l’intero castello. Ma la vera forza di Giovanni, che pure era un giovane felice e brillante pieno di tante bellissime qualità, stava in una piccola bimba alta tre centimetri, una piccola bimba con i capelli biondi e lisci, simpatica e carina che si chiamava Speranza. Era piccolina di statura, piccolina, piccolina, ma aveva un cuore che non si sapeva neppure da dove cominciava. Era un cuore infinito. La piccola Speranza non abbandonava mai Giovanni; l’uso infatti che il principe faceva delle sue doti naturali, del suo temperamento, del suo castello e di tutto quello che aveva era un uso lieto e simpatico proprio perché Speranza era sempre con lui e dava il tono a tutto.

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Ma un brutto giorno il principe Giovanni si svegliò con la luna di traverso. Gli sembrava che tutto andasse storto, cominciò a prendersela con la servitù e non volle neanche dar retta alla piccola Speranza che ballonzolava sempre intorno a lui. Perché dovete sapere che Speranza era affettuosissima: ora saltava sulla

spalla, ora saltava sulle mani, ora saltava addirittura sul naso, sui capelli, entrava nel taschino della giubba, nella tasca dei pantaloni, scivolava giù lungo i pantaloni, si fermava sulla punta dei piedi, poi balzava sopra un pomello del letto e guardava con occhi simpaticissimi il suo Giovanni infondendogli quella energia senza la quale la vita non è neanche bella. Ma quel giorno Giovanni non ne voleva sapere di Speranza, si aggirava sempre più tetro per il castello, imprecando e prendendo a calci tutto quello che gli capitava sotto tiro. Fu proprio da quel giorno che le cose cominciarono a precipitare: Giovanni non aveva più nessun interesse per le cose, per la sua vita, per gli ospiti e per il suo castello. Così passavano i giorni e la sporcizia si accumulò, le erbacce crebbero, la servitù sentendosi abbandonata a se stessa non ubbidì più e finì col non far più niente. Dopo tre mesi il castello era quasi irriconoscibile. Le porte non curate cominciavano a cigolare, non stavano mai chiuse e sbattevano continuamente, le erbacce erano cresciute persino nelle giunture tra una pietra e l’altra sia dei cortili che delle mura del castello, tutto aveva l’aspetto decrepito e cadente di un luogo abbandonato. Eppure in quel castello c’era sempre Giovanni e c’era sempre Speranza. Ma Speranza non veniva più ascoltata. Lei si dava da fare, giorno dopo giorno, saltava sul letto dove c’era Giovanni, lo implorava: «Ma dai, su, fatti coraggio Giovanni, guardami, guardami negli occhi».

Lui non la guardava mai negli occhi, era diventato come un uomo spento.

Speranza cominciava un po’ a dimagrire, dimagriva dal nervoso. In compenso c’era chi invece si dava alla pazza gioia: le formichine cominciavano ad entrare da una parte e dall’altra, invadendo prima la cucina e poi, da lì, via alla caccia al tesoro nel castello. Ma le formichine sono chiacchierine, hanno chiamato gli scarafaggi e, gli scarafaggi con la voce da trombone hanno chiamato i ragni, che sono pigri però sono sensibili alla voce di trombone, ed hanno deciso di venire a vedere cosa c’è di bello e di buono nel castello. Si sa che quando un castello è invaso dagli insetti non è più bello viverci. Difatti, al principe Giovanni man mano che passava il tempo veniva sempre meno la voglia di vivere, non solo di vivere nel castello, ma proprio di vivere. Tutto andava a catafascio, tutto andava in rovina. Dalla parte nord del castello c’era uno strapiombo e in fondo l’immondezzaio del castello. Normalmente la servitù puliva quella zona bruciando tutti i rifiuti, ma da quando era abbandonata a se stessa e non aveva più una guida non puliva più neanche la zona dell’immondezzaio. Una puzza veniva su da quel posto! Tutti i rifiuti abbandonati, non bruciati, avevano attirato degli omini neri, con gli occhietti rossi fosforescenti. Questi omini neri, pigri, pigrissimi, stavano accoccolati in mezzo ai cespugli: sapete che i rami a un certo punto hanno una biforcazione o una triforcazione; bene, lì dove c’era la biforcazione, la triforcazione o la quadriforcazione loro si accoccolavano e dormivano con la pancetta su, oppure guardavano maliziosi le cose intorno con gli occhietti fo-

sforescenti. Il capo dormiva su una pianta insieme a tanti altri e da lì poteva guardare bene dentro la stanza di Giovanni, dopo una lunga osservazione un giorno decise di chiamare a raccolta i suoi omini neri. «Il momento è giunto miei prodi! Vale la pena di entrare nel castello perché il principe Giovanni ormai ha rinnegato Speranza. Noi ce ne infischiamo di Giovanni, faccia la sua strada bene o male, non ci interessa. Noi abbiamo un’altra nemica, una nemica che abbiamo da sempre nel sangue e negli occhi: la piccola Speranza. Allora propongo di fare così: saliamo attraverso il pluviale, scivoliamo lungo la grondaia e, arrivati vicino alla finestra, entriamo nella stanza del principe, poi ci distribuiamo e andiamo a vedere dov’è. Quando abbiamo trovato il principe possiamo essere sicuri di aver trovato anche Speranza, lei non lo abbandona mai, e allora la prendiamo e le diamo una manica di botte».

«Bene!» gridano tutti «Proprio quello che volevamo! Ma certo, addosso a Speranza!».

«Una volta che l’avremo legata,» continuò il capo «la metteremo in prigione e la sorveglieremo notte e giorno. Ucciderla non si può perché Speranza è immortale, ma la terremo legata e imbavagliata all’infinito e diventeremo i padroni del castello!».

«Alé! Alé! Così va bene. Viva il capo!».

Così, quando giunse la mezzanotte e nel cielo splendeva una falce di luna appannata da una leggera nebbiolina, mentre tutt’intorno si respirava un’aria di brivido e di misteriosa attesa, gli omini neri con gli occhi fosforescenti misero in atto il loro piano. Salirono dal tubo di scarico della pioggia, scivolarono lungo la grondaia ed entrarono dalla finestra nella stanza del principe, ma lui non c’era. Cominciarono a girare da una parte all’altra e finalmente lo trovarono nella stanza del trono che, seduto sulla sedia reale, dormiva. Accoccolata ai suoi piedi c’era Speranza, pallida e triste. Appena la videro le furono addosso e la riempirono di botte. Speranza era fantastica, aveva i pugnetti come pallottoline durissime e cominciò subito a sferrare pugni e calci difendendosi a tutto spiano. Ma gli omini neri erano troppo numerosi, centinaia e centinaia, e la piccola Speranza fu presto sopraffatta: tutta piena di bernoccoli sulla testa, fu legata e trascinata, ormai quasi in coma, fino in cantina. Trecento omini neri si misero di guardia alla porta sbarrata, gli altri, a centinaia invasero ogni angolo del castello, buttarono tutto all’aria con gran fragore di barattoli, latte, pentole e coperchi. La gente in lontananza si guardava allibita e diceva: «Quello è diventato il castello degli spiriti! Cosa mai starà succedendo al nostro amico Giovanni?».

Ora bisogna sapere che in una delle torri del castello c’era un apparecchio con gli specchi, che serviva per mandare i messaggi notturni da un castello all’altro. Tutto quel territorio infatti era cosparso di collinette, su ogni collinetta c’era un castello e, in ogni castello, vivevano un principe o una principessa, un castella-

no o una castellana. Come facevano a comunicare tra loro? Semplice. Quando la sera scendeva, accendevano i fuochi con la legna secca che avevano sulla torre più alta; la luce del fuoco veniva riflessa dagli specchi e, veniva mandata sugli specchi dei castelli che sorgevano sulle collinette circostanti. Così, a segnali di alfabeto Morse, i vari prìncipi e principesse comunicavano tutto quello che volevano dirsi. Ma ormai, da mesi e mesi, il castello di Giovanni non rispondeva più ai segnali e dalla sua torre più alta non partiva mai nessun messaggio. Gli omini neri erano saliti fin sulla torre e avevano fracassato tutti gli specchi. Erano proprio degli omini neri della malora! Preoccupato del lungo silenzio un bel giorno il principe Igor, che abitava nel castello di un’altissima collinetta giù verso sud-est, decise: «Basta! È giunto il tempo di andare a vedere che cosa è capitato al nostro caro amico Giovanni!». Tutti i principi e le principesse si diedero appuntamento per la mattina alle 7 al ponte levatoio del castello di Igor per decidere il da farsi.

Fu la principessa Liuba, la grande amica di Giovanni, a dare le direttive. «Noi ora marceremo verso il castello di Giovanni. Quando saremo nelle vicinanze, cominceremo ad innalzare il nostro cantico di amicizia. Se non risponde ci avvicineremo di più e se non risponde ancora, entreremo!».

Così avvenne, in breve giunsero al castello di Giovanni cantando il loro inno

di amicizia, ma dall’interno non venne alcun segno di vita. C’era uno strano silenzio di morte. Scesero tutti da cavallo, si avvicinarono al portone e gridarono. «C’è nessuno? C’é nessuno?».

Nessuno rispose, allora entrarono nel castello. Si sentivano rumori sordi, giù in cantina, ogni tanto dei tonfi e dei movimenti strani. I principi si dicevano tra loro: «C’è qualcosa di strano, di misterioso in questo castello, ma non dobbiamo avere paura!».

Ciascuno di questi principi e principesse infatti era sostenuto dalla propria piccola Speranza. Ad un certo punto scorsero il principe Giovanni, seduto con occhi quasi spenti sul trono principesco. «Che fai qui, Giovanni? Ehi! Ma come sei sporco, disordinato! Hai le gambe grosse grosse, che malattia hai? Non riesci più a muoverti? Dov’è Speranza?».

Lui non rispondeva e neanche apriva gli occhi, e se li apriva, gli occhi dentro erano spenti. Si avvicinò Liuba, che era la sua grande amica, e disse: «Ma Giovanni, sono mesi che noi cerchiamo di lanciarti messaggi e tu non rispondi, ma che cosa hai fatto? Cosa ti è successo? Sono entrati i nemici? È capitato qualche cosa che non va?».

Giovanni era svagato, non sapeva cosa dire: «Ah, sì, no, no… non so… Ciao. ciao, andate».

«Ma come andate! Noi siamo venuti per darti una mano!».

«No, no, tanto ormai non c’è più niente da fare. No! per carità».

«Ma no, guarda che noi ti vogliamo sempre bene, c’è sempre la possibilità di ricominciare. Ti cureremo, cercheremo di aiutarti a guarire!».

«No, ma no, tanto ormai muoio».

«Ma che muoio, tu non muori, tu devi ritrovare Speranza. Dov’è Speranza?».

«No, io non… Speranza… ma chi è? Cos’è? No, non mi interessa, è morta, è morta».

«Tu sai che Speranza è immortale, non muore».

«Sì, ma per me è morta, morta, morta. Lei non mi interessa più, per niente».

Allora Liuba gli dà un bacio sulla fronte, poi un altro, poi gli accarezza i capelli e Giovanni la guarda. Liuba sorride, lui la guarda e gli si illuminano un po’ gli occhi, perché di fronte all’amore anche gli occhi dei più sfortunati si illuminano di letizia.

«Dov’è Speranza?» chiede Liuba.

«Mah, non so, l’han fatta prigioniera, l’hanno imprigionata gli omini neri».

«Gli omini neri? Ma chi sono gli omini neri?».

«Sono degli omini piccolissimi, brutti, che corrono dappertutto».

«Ah! sì dobbiamo averli intravvisti. Ma alzati svelto devi mandarli via subito! Devi ritrovare Speranza! Noi ti accompagneremo, ma dovrai essere tu con le tue gambe, con le tue mani, con il tuo cuore a liberare Speranza».

I principi si fanno attorno a Giovanni, lo sollevano dalla sedia e lo aiutano a fare i primi passi e lui, lentamente incomincia a camminare, si dirige verso la porta, scende da una scaletta, imbocca un lungo corridoio, gira a sinistra, attraversa un grande atrio, trova un altro corridoio. Poi scende giù, giù, fino in cantina. Uno stuolo di omini neri, centinaia e centinaia sul pavimento, sui muri, sulla porta sbarrata erano lì a difendere la loro prigioniera. Giovanni avanza con i suoi piedi che paiono enormi e… crash, crash, schiaccia tutti gli omini neri che capitano sul suo cammino, molti vorrebbero scappare ma restano come impietriti vedendo l’incedere deciso del principe. Con un calcio Giovanni apre la porta, la piccola Speranza appena lo vede freme, ma non può muoversi, non può parlare perché è tutta legata. Allora lui si china, e la libera, toglie i legacci e Speranza, che era come una Cenerentolina tutta magrolina con le guancette pallide pallide e i capellini che venivano giù tutti dritti, con il vestito tutto rotto, salta immediatamente al collo di Giovanni e gli dà un bacio e Giovanni si sente invadere da una forza nuova, che era una forza antica. E questa forza gli permette di andare all’assalto degli omini neri. Corre a prendere uno schiacciamosche e pam! pam! pam! non ne manca nemmeno uno, li uccide tutti. Speranza sulla sua spalla è raggiante! Giovanni si sente rimescolare il sangue nelle vene, scopre di essere pieno di vigore guarda i suoi amici con un gusto antico, li accarezza con gli occhi e li abbraccia uno per uno.

Tutti lo baciano lo abbracciano, poi vanno di sopra e cominciano a darsi da fare per mettere a posto il castello. Viene chiamata tutta la servitù che era diventata buzzurra, tamarra, e tutti si inchinano davanti al principe:

«Scusa Giovanni, ma noi senza guida non eravamo capaci di fare niente, per questo ci siamo buttati nell’ozio. Adesso ti seguiremo di nuovo, avanti, avanti, di nuovo tutti ai loro posti di combattimento e mettiamo a posto il castello».

Nel giro di due settimane il castello è ridiventato splendente. Tolte tutte le erbacce, tutti i ragni cacciati dai buchi, le formichine spazzate via, pulita la cucina, rimesso tutto a nuovo. E quando tutto è rimesso a nuovo Giovanni con i suoi amici fa un bellissimo banchetto. È il banchetto della ritrovata Speranza, del nuovo gusto di vivere che Speranza sempre infonde.

Carlo Romagnoni

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