A/R 1 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado

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Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli 1 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado SCUOLA

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Raffaela Paggi, Gabriele Grava, Adele Mirabelli A/R 1 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado

Cimatti Cura editoriale e ricerca iconografica: Cristina Zoli, Isabel Tozzi Stampato in Italia da D’Auria Printing, S. Egidio alla Vibrata (TE) Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo prodotto è composto da materiale che proviene da foreste ben gestite certificate FSC®, da materiali riciclati e da altre fonti controllate. Utilizziamo materiale plastic free, inchiostri vegetali senza componenti derivati dal petrolio e stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. Referenze fotografiche Shutterstock.com: Orla copertina; Cranach 7; Cristina Conti 39; frankie's 165, 263; Tomasz Bidermann 211, Vulp 303 · WikiArt.org 297 Raffaela Paggi, Gabriele Grava, Adele Mirabelli A/R Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado in tre alla realizzazione dell’opera: Benedetto Grava Giacomo ElenaDoroteaAlessandroGregoriItaliaMoscatoQuadrio Anna Zucchetti Grazie alla collaborazione con Seleggo, la versione digitale ottimizzata di questo libro per studenti dislessici può essere ottenuta in download gratuito registrandosi al sito ® I LIONS IT ALIANI PER LA DISLESSIA VEGETABLE INK

SCUOLA Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli 1 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado RaccontiFiabeFavole umoristici Re e Poesiecavalieri · la natura in versi

Lo scrittore R.L. Stevenson, autore de L’Isola del tesoro, sembra dire in un suo saggio che il piacere della lettura consista proprio in questa dinamica dell’andare e del ritornare: Quando la lettura è degna di questo nome, nel procedimento stesso dovrebbe esserci qualcosa di voluttuoso e di travolgente; davanti al libro dovremmo sen tirci esaltati, rapiti, praticamente svuotati di noi stessi; e quando smettiamo di leggerlo e lo mettiamo da parte, la nostra mente dovrebbe ancora essere pie na di un vero e proprio caleidoscopio di immagini, dense e fluttuanti, tanto da impedirci di prendere sonno o di pensare ad altro. Le parole… debbono dan zare da quel momento nelle nostre orecchie, con il rumore e la musica del le onde che si frangono sulla riva; e la storia… ricomincia da capo in una se rie di fantastiche e policrome visioni che si susseguono davanti ai nostri occhi. Era questo il piacere segreto che ci spingeva a leggere tanto accanitamente, ad amare i nostri libri con tanta dedizione, nel periodo luminoso e tormentato della fanciullezza. Lo stile prezioso, i concetti, la psicologia, la conversazione, non erano che ostacoli da spazzare via con impazienza man mano che procedevamo eccita ti e felici a scavare in cerca di quel certo tipo di incidenti, come un cinghiale fruga nel terriccio per scovare i tartufi1

4 A/R: andata e ritorno

Per introdurti nei diversi generi della nostra tradizione letteraria, nel pri mo volume di A/R ti proponiamo racconti prevalentemente fantastici (favole, fiabe, racconti di re e cavalieri), racconti umoristici basati sulla potenzialità della lingua e la polisemia delle parole, poesie liriche sugli elementi della na tura. Fantasia e realtà sono un binomio inscindibile; la fantasia infatti parte sempre da un dato di fatto, da qualcosa che nella realtà c’è, ma non ne rima ne schiava, non si limita a recepirlo e a trascriverlo, come spiega bene J.R.R. Tolkien, autore de Lo hobbit e de Il Signore degli Anelli: La Fantasia è una naturale attività umana. Certo, essa non distrugge e neppure of fende la Ragione, e non smussa neanche l’appetito per la verità scientifica, né ne oscura la percezione. Al contrario. Quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà la fantasia. Se gli uomini si trovassero in uno stato nel quale non volessero conoscere o non potessero percepire la verità (i fatti e le testimonianze),

Cioè il lettore desidera che quanto vivrà e vedrà leggendo avrà un ritorno per la sua persona: non solo scoprirà parole sconosciute, immagini inesplo rate, nuovi personaggi, luoghi, situazioni, ma si troverà lui stesso cambia to nel modo di pensare, di considerare la vita rispetto a prima della lettura.

1 R.L. Stevenson, A proposito del ‘romance’, in L’isola del romanzo, a cura di G. Almansi, Sellerio, Palermo 1987, p. 25.

Leggere non è un viaggio di solo andata: quando si inizia a leggere un raccon to, una poesia, un romanzo, si è già acquistato un biglietto di andata e ritorno.

• presentazioni degli autori dei testi;

• racconti e poesie, per ampliare la conoscenza del genere letterario pro posto in ogni sezione;

Le sezioni: testi ed esercizi Il primo volume è composto di cinque sezioni: Favole, Fiabe, Racconti umoristi ci , Racconti di re e cavalieri , Poesie liriche sulla natura . In ognuna di queste sezioni vi sono alcuni testi, scelti tra i più esemplari e significativi del loro genere, annotati dai curatori per fornirti indicazioni sul significato e l’etimologia di parole complesse o di uso letterario, e due tipi di esercizi: • il primo dedicato a guidarti nella lettura e nella comprensione approfon dita dei testi, rispondendo a domande volte a farti scoprire i suoi signifi cati espliciti e impliciti, a raccogliere e analizzare le informazioni, a utiliz zare la scrittura per sviluppare l’intelligenza della lettura e per avviarti all’argomentazione; • il secondo finalizzato a favorire le tue abilità di scrittore, principalmente di testi descrittivi e narrativi, realistici e di fantasia, di riassunti e di com menti. Alla fine del volume vi è un prontuario denominato Strumenti del poeta, nel quale vengono elencati e definiti gli elementi del linguaggio poetico da te scoperti leggendo e analizzando le poesie della sezione ad esse dedicata. Ritroverai tale prontuario anche nei volumi 2 e 3, via via arricchito da figure retoriche ed elementi stilistici presenti nei testi proposti.

5A/R: ANDATA E RITORNO allora la Fantasia languirebbe sintantoché essi non fossero guariti. E se mai giun geranno ad uno stadio di questo genere (il che non sembra del tutto impossibile), la Fantasia perirà, e diverrà Illusione Morbosa1.

Contenuti digitali Registrandoti sul sito www.itacascuola.it, puoi accedere ai seguenti contenu ti digitali:

• il circolo letterario: recensioni di libri appartenenti o in relazione ai vari generi;

• volume in formato digitale;

• cineforum: recensioni di film per avviare un cineforum sui temi e sulle tipologie narrative incontrati durante la lettura. Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli 1 J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004, p. 213.

FAvOlE6

Favole1

Le favole sono storie in cui gli animali sono gli eroi e le eroine, e gli uomini e le donne, se mai compaiono, sono semplici comparse; soprattutto in cui la forma animale non è che una maschera su un volto umano.John Ronald Reuel Tolkien a cura di Benedetto Grava

FAvOlE8

Il termine stesso favola indica la dimensione del racconto: deriva dal latino fāri , che significa ‘parlare, raccontare’. Fin da subito il termine ha avuto una connotazione di genere: i Romani chiamavano fabulae in generale tutti i rac conti di fatti inventati, non storicamente provati, e in particolare quelli che i Greci chiamavano apólogoi , i brevi racconti fantastici aventi come protagoni sti gli Nellaanimali.storia della letteratura sono stati chiamati favole i componimenti brevi seguiti da una morale, espressione della saggezza concreta e spiccio la dell’esperienza quotidiana, i cui protagonisti sono quasi sempre animali, talvolta elementi naturali, divinità o persone. Essi incarnano di volta in volta virtù, vizi e difetti degli uomini, in una forma molto semplice e diretta; i prin cipali fruitori delle favole infatti erano anzitutto i bambini e le persone non istruite, che potevano così incontrare esempi di atteggiamenti e comporta menti ritenuti giusti o sbagliati dal loro popolo. Il genere favola appartiene quindi a una letteratura popolare, destinata ai ceti più umili ed estremamente diffusa. Ne è testimonianza un passo di Ari stofane1 in cui il coro viene tacciato di ignoranza e svogliatezza perché non conosce le favole di Esopo2, per i Greci l’inventore del genere favolistico, co me Omero di quello epico. Le favole sono importanti non solo perché molto diffuse, ma anche in quanto capaci di comunicare in maniera diretta con il popolo e addirittura di modificarne le azioni.

1 Aristofane, Commedie. II, Utet, Torino 2006, p. 167, Gli uccelli, verso 471: «Perché sei un ignorante, e non hai nessuna curiosità né hai dimestichezza con Esopo». Viene riportato da alcuni lessici più tardi addirittura l’espressione proverbiale «sangue di Esopo» (usata in riferimento a chi viene ucciso ingiustamente).

La favola è un genere di racconto presente in ogni cultura ed è espressione di un’antica tradizione orale. Una forma semplice di narrazione che illustra una verità morale, riconosciuta come valida da un popolo.

2 Esopo è un autore greco vissuto intorno al VI secolo a.C. Nato schiavo, avrebbe avuto un aspetto deforme e una lingua affetta dalla balbuzie. Dopo aver viaggiato in Oriente, sarebbe stato ucciso dagli abitanti di Delfi per le accuse di dissolutezza loro rivolte. Sotto il suo nome abbiamo 500 favole. La sua fortuna, grazie a Fedro, si prolungò oltre il periodo greco-romano, tanto che nel Medioevo furono scritti diversi fabliaux, racconti popolari, nati come rielaborazioni dei testi esopici. Un esempio di questo è il Roman de Renard, vera e propria epopea della Volpe. Questa tradizione rimase radicata anche a livello letterario, soprattutto in Francia con le Fables di La Fontaine, ed è continuata fino ad oggi, ad esempio con Gianni Rodari, Leo Lionni, Arturo Loria e altri.

9FAvOlE

Leggere le favole ci fa capire che ognuno di noi è sì unico e irripetibile, ma anche partecipe della storia di un popolo che da secoli ha gli stessi de sideri, le stesse tentazioni, gli stessi vizi, e un giudizio condiviso su ciò che è bene e su ciò che è male. Questi testi ci permettono di leggere la nostra esperienza attraverso le parole fornite da una lunghissima tradizione che esprime la saggezza popolare, fondata non su verità assolute, ma piuttosto sul cosiddetto buon senso. Il mondo degli animali ha offerto un repertorio di personaggi e di situazioni attraverso i quali l’uomo ha narrato e interpre tato sé stesso senza doversi mettere troppo a nudo, consentendo una larga misura di realismo sotto vesti fantastiche. Le favole, apparentemente semplici nelle loro trame, sono testi non ba nali, densi dal punto di vista del significato e scaltri nella loro capacità ar gomentativa. Nella sezione ti saranno proposti esercizi di lettura e rilettura dedicati a ritrovare gli elementi narrativi ricorrenti nelle favole e a compren derne le mosse argomentative – cioè i ragionamenti che esse incarnano e il lustrano. Ti sarà inoltre proposto un percorso di scrittura che intende princi palmente incrementare la capacità di produrre testi narrativi di invenzione su modello dato o di racconto e riflessione sull’esperienza relativa alle tema tiche presenti nelle favole.

FAvOlE10 ESOPO Il corvo e la volpe

1 adularlo: lodarlo oltre misura, lusingarlo. 2 beffeggiò: prese in giro, derise. L’origine della parola beff- è onomatopeica: indica la presa in giro attraverso le smorfie della bocca. 3 si compiace: è contento, soddisfatto, appagato. Deriva dal latino complacere, composto da cum ‘con’ e placere ‘piacere’.

Un corvo aveva rubato un pezzo di carne ed era andato a posarsi su di un albero. Lo vide la volpe e le venne voglia di quella carne. Si fermò ai suoi piedi e cominciò ad adularlo1, facendo grandi lodi del suo corpo perfetto e della sua bellezza, della lucentezza delle sue penne, dicendo che nessuno era più adatto di lui ad essere il re degli uccelli, e che lo sarebbe diventato senz’altro, se avesse avuto la voce. Il corvo, allora, volendo mostrare che neanche la voce gli mancava, si mise a gracchiare con tutte le sue forze, e lasciò cadere la carne. La volpe si preci pitò ad afferrarla e beffeggiò2 il corvo soggiungendo: «Se poi, caro il mio cor vo, tu avessi anche il cervello, non ti mancherebbe altro, per diventare re». Chi si compiace3 degli elogi altrui troppo adulatori, finisce col pentirsene vergognandosi.

EsOp O 11

5. Completa l’affermazione seguente scegliendo un nome dall’elenco tra parentesi e dando le ragioni della scelta: La favola vuole soprattutto mettere in luce e criticare il vizio della (ottusità/ vanagloria/astuzia/adulazione) , infatti .

3. In breve tempo la volpe passa dalla lode allo scherno. Perché?

1. Che cosa spinge la volpe a parlare con il corvo?

2. Con quale strategia la volpe riesce a far aprire il becco al corvo?

8. Scrivi il discorso che faresti a un tuo amico per convincerlo a darti un oggetto di sua proprietà che desideri molto. Segui l’esempio della volpe: • adulazione delle sue doti • suggerimento su cosa potrebbe diventare se…

4. Con quali aggettivi definiresti la volpe e il corvo? Giustifica le tue scelte facendo precisi riferimenti al testo.

6. Perché l’autore, all’inizio del secondo paragrafo, utilizza la parola «neanche» riferendo il pensiero del corvo?

7. Immagina e scrivi il discorso che la volpe fa al corvo, prendendo spunto dalle parole del testo (da «si fermò» a «la voce»).

Una tartaruga e una lepre continuavano a far discussioni sulla loro veloci tà. Finalmente fissarono un giorno e un punto di partenza e presero il via. La lepre, data la sua naturale velocità, non si preoccupò della cosa: si buttò giù sul ciglio della strada e si addormentò. La tartaruga, invece, consapevo le della sua lentezza, non cessò di correre, e così, passando avanti alla lepre che dormiva, raggiunse il premio della vittoria. La favola mostra che spesso con l’applicazione1 si ottiene più che con i do ni naturali non coltivati 1 applicazione: impegno sistematico e continuativo. Dal latino applicare ‘accostare’, composto da ad + plicare ‘piegare’. ‘Applicarsi’ significa dunque ‘piegarsi a’.

FAvOlE12 ESOPO

La tartaruga e la lepre

8. Racconta un episodio in cui hai vinto contro ogni aspettativa, seguendo lo schema narrativo della favola: • discussioni e riflessioni prima della gara • svolgimento della gara • strategia della vittoria • riflessioni sull’accaduto.

1. Scegli un aggettivo per descrivere la lepre e uno per descrivere la tartaruga.

6. Riscrivi la favola aggiungendo dialoghi e riflessioni dei due personaggi per evidenziare il loro diverso atteggiamento nei confronti della sfida.

2. Perché la lepre prende sottogamba la sfida? Da quale affermazione lo capisci?

EsOp O 13

7. Scrivi una favola i cui protagonisti siano due animali contrapposti per una determinata caratteristica. Chi ha la meglio tra i due? Qual è la morale della favola?

5. Di cosa parla dunque questa favola? Scegli un nome astratto che sintetizzi il vizio o la virtù messa in evidenza nell’episodio e giustifica la tua scelta; confronta poi la tua risposta con quelle dei tuoi compagni.

4. Quali atteggiamenti contrastanti della tartaruga e della lepre sono messi in luce nella favola?

3. Perché invece la tartaruga si applica? Da quale affermazione lo capisci?

Una volpe affamata vide dei grappoli d’uva che pendevano da un pergolato e tentò di afferrarli. Ma non ci riuscì. «Robaccia acerba!», disse allora fra sé e sé; e se ne andò. Così, anche fra gli uomini, c’è chi, non riuscendo, per incapacità, a rag giungere il suo intento, ne dà la colpa alle circostanze.

FAvOlE14 ESOPO

La volpe e l’uva

• perché ciò che desiderava non era in verità di suo gradimento. Motiva la tua scelta, dando anche ragione delle opzioni escluse.

EsOp O 15

4. Scegli quale delle seguenti affermazioni meglio spiega la scelta della volpe. La volpe se ne andò… • perché in realtà non desiderava l’uva.

5. Anche in altre favole puoi incontrare il personaggio della volpe (Esopo, Il corvo e la volpe; Fedro, La volpe e la cicogna): di cosa è solitamente simbolo la volpe? Anche in questa favola ha lo stesso valore simbolico? Motiva la tua risposta.

• perché preferiva evitare una delusione. • perché si accorse di non meritare l’uva.

2. Ora ritorniamo all’inizio. Quale aggettivo descrive la volpe all’inizio della favola? Quali azioni da lei compiute in seguito rispondono a tale caratteristica, e quali invece la contraddicono?

7. Illustra la favola trasformandola in un fumetto formato dalle seguenti

•vignette:presentazione della volpe

6. Rileggi le ultime righe della favola, che ne esplicitano la morale. A quali elementi della narrazione fanno riferimento le parole incapacità, intento, circostanze?

3. Quale elemento causa il cambio di opinione della volpe rispetto all’uva? Sottolinealo nel testo.

• incontro della volpe con l’uva e sue riflessioni

• tentativi della volpe di prendere l’uva

1. Per rileggere la favola partiamo dal fondo. Che cosa intende dire la volpe affermando che l’uva è «robaccia acerba»?

• rinuncia della volpe e sue riflessioni.

FAvOlE16 FEDRO Il cane e la carne

1 appetisce: desidera vivamente. Deriva dal latino appetere ‘bramare’, composto da ad ‘verso, in direzione di’ e petere ‘cercare, chiedere’. 2 ingordo: goloso, ghiotto, vorace. 3 agogna: brama ardentemente. Deriva dal latino agonia ‘lotta, sforzo, angoscia’.

Giustamente perde il proprio chi appetisce1 l’altrui. Un cane, a nuoto, nel fiume portava un pezzo di carne. Vede specchiata nell’acqua la propria immagine: pensa che un’altra carne, portata da un altro cane, sia quella, e vuol rubargliela. Resta però deluso l’ingordo2, perché si lascia, di bocca, sfuggire il pezzo che tiene, e non c’è verso che possa toccare l’altro che agogna3

• presentazione del protagonista

3. La morale posta all’inizio sembra riferirsi a una favola con due protagonisti, invece nella favola il protagonista è uno solo, il cane. Perché?

• Chi va piano va sano e va lontano.

• incontro con il secondo cane • scontro tra i due cani

2. Il cane alla fine della favola è deluso per due motivi. Quali?

• Chi troppo vuole nulla stringe.

7. Discuti con i tuoi compagni: è sempre vero che chi pretende tanto rimane deluso? Dividetevi in due gruppi, l’uno a favore dell’affermazione e l’altro contrario. Gli interventi dovranno portare esempi e riflessioni che avvalorino le tesi del gruppo. Alla fine del dibattito sarà possibile confrontare gli argomenti portati da ciascun gruppo e determinare così la vittoria.

• Chi si contenta gode.

• sconfitta finale di entrambi

FEDRO 17

4. Rileggi la favola di Esopo, Il corvo e la volpe. In entrambe le favole i due protagonisti, ingenuamente, perdono ciò che già hanno. Da cosa dipende la loro ingenuità? Puoi rispondere allo stesso modo per entrambe le favole? Motiva la tua risposta, facendo precisi riferimenti al testo.

• Chi tutto vuole, arrabbiato muore.

6. Riscrivi la favola mettendo a confronto non un cane e la sua immagine, ma due cani entrambi desiderosi di appropriarsi del pezzo di carne altrui ed entrambi sconfitti, seguendo lo schema narrativo tratto dalla favola:

5. Quale dei seguenti proverbi non è appropriato per riassumere la favola? Motiva la tua scelta.

• Oramorale.rifletti: quale caratteristica dell’animale viene maggiormente messa in luce in questa riscrittura? Quale invece si perde?

1. Individua le scene che costruiscono la vicenda narrata e riassumi ognuna di esse in una frase.

FAvOlE18 FEDRO La volpe e la cicogna

Guardati dal far del male: ma se qualcuno ti offende, la favola ti insegna a rendergli pan per focaccia. Dicono che la volpe invitò per prima la cicogna ad un pranzo, e che le porse in un piatto liscio un guazzetto1 brodoso. La cicogna, affamata com’era, non poté nemmeno assaggiarlo! Essa ricambiò l’invito e mise in tavola un fiasco pieno di un tenero intruglio2: vi ficca il becco, se lo gusta, e all’invitata fa storcere la pancia per la fame. Mentre la volpe va leccando invano l’orlo del fiasco, sappiamo che la migratrice3 in tal maniera si espresse: «Ognuno tolleri4 in pace ciò di cui diede l’esempio». 1 guazzetto: salsa, sugo, intingolo. Deriva dal latino aquacea ‘luogo acquoso’, da cui aguazza > guazza 2 intruglio: mistura, in questo contesto indica un cibo morbido, adatto al modo di mangiare della cicogna. 3 migratrice: si riferisce alla cicogna, uccello migratore, cioè che abbandona il proprio luogo d’origine per trasferirsi altrove. 4 tolleri: subisca, sopporti senza lamentarsi.

2. Cosa impedisce alla cicogna e alla volpe di mangiare?

5. Riscrivi due volte la favola: prima dal punto di vista della cicogna, poi dal punto di vista della volpe.

3. Come cambia l’immagine dei due personaggi nel corso della vicenda?

FEDRO 19 1. In questa favola la morale è scritta all’inizio. Riscrivila sostituendo alle parole sottolineate i personaggi del testo: «Guardati dal far del male: ma se qualcuno ti offende, la favola ti insegna a rendergli pan per focaccia».

• Chi la fa l’aspetti.

• Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.

7. Sei d’accordo con la morale di questa favola? Scrivi una favola in cui il protagonista non reagisce con un dispetto a un dispetto.

6. Senza cambiare la morale della favola, riscrivila sostituendo ai due protagonisti un coccodrillo e un rinoceronte.

• Chi troppo vuole nulla stringe. • L’avarizia è la scuola di ogni vizio.

4. Quale dei seguenti proverbi è appropriato alla favola? Motiva la tua scelta.

7 a tetto: sotto un tetto, al riparo. 8 come: in questo caso è da intendersi con il significato di poiché. 9 sciolto: liberato. 10 companatico: cibo. Dal latino cum + panis, letteralmente ciò che si mangia ‘con il pane’. 11 satollato: saziato. Dal latino satis ‘abbastanza’: chi ha mangiato abbastanza.

1 sfinito: stanco. In questo caso, la s- posta a inizio parola ha un valore intensivo.

3 convenevoli: formalità e gentilezze convenzionali che si è soliti avere nei confronti dell’interlocutore quando si inizia uno scambio comunicativo.

FAvOlE20 FEDRO Il lupo e il cane

2 pasciuto: ben nutrito, in carne.

Quanto sia dolce esser liberi lo mostrerò brevemente. Magro sfinito1, per caso s’incontra il lupo in un cane pasciuto2 che è una bellezza. Si fermano, e i convenevoli3 scambiati che hanno tra loro: «Come, di grazia, sì lucido4?» dice, «E con quale vivanda5 grasso così ti sei fatto? Io son di tanto più forte e sto morendo di fame». E il cane, sinceramente: «Se tu ti adatti a prestare ugual servizio6 al padrone, il trattamento è l’identico». Domanda il lupo: «In che modo?». «Col far la guardia alla porta, e non lasciare che in casa entrino i ladri di notte». «Bene, ci sto: ché ora debbo prendere l’acqua e la neve, e trascinare nei boschi una esistenza d’inferno. Non mi sarebbe più comodo e quanto, vivere a tetto7, e senza fare un bel nulla venir nutrito coi fiocchi?» «Allora seguimi, andiamo». Mentre camminano, il lupo scorge che è logoro al cane il collo per la catena. «Amico, e ciò?» «Non è nulla». «Eppure dillo, ti prego». «Come8 un po’ troppo vivace, durante il giorno mi legano, che mi riposi col sole, e vegli scesa la notte. Sciolto9 al crepuscolo, posso correre dove mi pare. Ho, senza chiederlo, il pane: dalla sua mensa il padrone mi fa dar gli ossi, mi gettano i servitori gli avanzi e quanto del companatico10 lascia chi si è satollato11

4 lucido: splendente, in forma. 5 vivanda: cibo, piatto. 6 prestare servizio: lavorare, essere alle dipendenze di qualcuno.

1 non son tutto a me stesso: non sono libero.

1. Sottolinea le espressioni utilizzate per descrivere il lupo e il cane all’inizio della favola. Come appaiono i due protagonisti in confronto?

9. Discuti con i compagni: cosa rende più attraente una vita vissuta nella libertà rispetto a una vita più sicura e agiata? Scrivete insieme gli argomenti a favore e contro dell’una o dell’altra scelta di vita.

4. Qual è l’ultima domanda che il lupo pone al cane? Perché la risposta a questa domanda diventa decisiva per la scelta finale del lupo?

7. Amplia la battuta finale del lupo scrivendo un discorso che illustri al cane i vantaggi della sua vita nei boschi.

3. Cosa invece attira l’attenzione del lupo in un secondo momento? Perché insiste per avere una spiegazione da parte del cane?

6. In questa favola non viene esplicitata la morale: scrivila tu.

FEDRO 21

5. Leggi con attenzione l’ultima frase e prova a parafrasarla. Cosa intende il lupo con l’espressione «essere re»? E cosa significa in questa frase «non essere tutto a me stesso»?

2. Da cosa rimane stupito inizialmente il lupo osservando il cane? Quali domande gli pone?

8. Racconta la vicenda mettendo in evidenza il variare dei sentimenti e delle azioni del lupo.

Senza fatica in tal modo mi si riempie la pancia». «Dimmi, e t’è dato il permesso, se ti vien voglia, d’andartene?» «Ah, no», risponde. «E tu, cane, goditi i beni che vanti: essere re non vorrei se non son tutto a me stesso1»

Mentre ne ammira le corna ramose e se ne compiace e non gli garba la troppa esilità delle gambe, dallo schiamazzo improvviso dei cacciatori atterrito3, prende a fuggire nel piano4, e con la corsa leggera scampa5 alla furia dei cani. Entra nel bosco: ma qui s’impiglian quelle sue corna nei rami, e sì6 lo trattengono che dai terribili morsi viene sbranato dei cani. Si vuole7 ch’egli, spirando8, dicesse queste parole: «Me disgraziato! che troppo tardi m’avvedo9 quanto utili fossero a me quelle gambe che avevo tanto in dispregio, e quel che tanto lodavo, qual danno m’abbia recato!»

Bevuto ch’ebbe alla fonte, il cervo vi si trattenne, e nello specchio dell’acqua mirò2 riflesso il suo corpo.

2 mirò: guardò con attenzione e intensità.

3 atterrito: terrorizzato, spaventato.

1 sprezzare: disprezza, rifiuta, ignora.

4 piano: terreno uniforme, senza avvallamenti o rilievi, senza intralci.

Dimostra, questo racconto, che ci risulta più utile ciò che si sprezza1, alla prova, spesso, di ciò che si loda.

5 scampa: sfugge al grave pericolo. 6 sì: tanto, talmente. 7 si vuole: si dice, si racconta. 8 spirando: morendo, esalando l’ultimo respiro. 9 m’avvedo: mi accorgo, capisco.

FAvOlE22 FEDRO Il cervo alla fonte

6. Di quale difetto è simbolo il protagonista del racconto? Quale qualità invece gli manca? Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo.

FEDRO 23

2. Che cosa interrompe la riflessione del cervo? Quale diverso sentimento prova l’animale in questo momento?

3. Il cervo disprezza le proprie gambe per la loro esilità. Quale parola potrebbe usare il cervo per parlare delle proprie corna?

4. Nel proseguire della vicenda, il cervo scopre che le proprie gambe e le proprie corna possiedono qualità in precedenza a lui sconosciute. Quali?

7. Ti è mai capitato che un oggetto di tua proprietà o una tua qualità, di cui andavi orgoglioso, si rivelasse uno svantaggio per te? Racconta, seguendo lo schema narrativo della favola: • elogio dell’oggetto o della qualità • situazione in cui o l’oggetto o la qualità si rivela svantaggioso/a • morale.

5. Inizialmente le corna vengono lodate perché ramose, e sono poi loro stesse a impigliarsi nei rami. Quali sono le caratteristiche che accomunano le corna e il bosco? Perché tali caratteristiche in un primo momento sono giudicate positive, mentre successivamente assumono una connotazione negativa?

1. Quali sentimenti prova il cervo specchiandosi nell’acqua? Sottolinea le parole che ci fanno capire ciò che il cervo pensa di sé stesso.

8. Al contrario, ti è mai capitato che una tua caratteristica (o fisica o morale) che reputavi insignificante o svantaggiosa si rivelasse utile in una circostanza? Racconta, seguendo lo schema narrativo della favola: • denigrazione della caratteristica • situazione in cui tale caratteristica si rivela vantaggiosa • morale.

FAvOlE24 FEDRO Il lupo e l’agnello

1 tosto: ben presto.

2 aizzato: istigato, spinto, provocato.

E con la sua timidezza rispose l’agnello: «Come, di grazia6, o lupo, potrei far ciò di cui ti lamenti? L’acqua mi scende alle labbra sotto al posto in cui sei». E il lupo allora, colpito dall’evidenza del fatto, «Sei mesi or sono», ribatte, «m’insolentisti7». L’agnello: «Ma se non ero ancora nato», osserva. E quello: «È stato allora tuo padre che mi insolentì!». Gli balza addosso crudele e ingiustamente se lo sbrana. Questa favola è scritta per gli uomini che vanno cercando di opprimere8 gli innocenti con delle accuse mendaci9

3 predone: brigante, bandito. In questo caso si riferisce al lupo.

4 pretesto: scusa, giustificazione. Dal latino prae ‘prima’ e texere ‘tessere’. Con praetextum si indicava ‘figura ornamentale’. In seguito, per estensione, ha assunto il significato di ‘elemento secondario che viene messo in primo piano per mascherare 5altro’.intorbidi: sporchi, rendi torbida. 6 di grazia: per favore. È una formula di cortesia. 7 m’insolentisti: mi offendesti. Dal latino in ‘contro’ e solere ‘essere solito’: ‘andare contro ciò che è solito, abituale’. ‘Insolentire’ assume il significato di ‘essere arrogante e 8offensivo’.opprimere: soffocare, tiranneggiare, schiacciare. Dal latino ob ‘contro’ e premere 9‘pressare’. mendaci: bugiarde, false.

Portati lì dalla sete vennero insieme, allo stesso ruscello, il lupo e l’agnello. Il lupo stava al di sopra, parecchio sotto l’agnello. Tosto1, aizzato2 dal suo malvagio istinto, il predone3 trova un pretesto4 di lite. «Perché», gridò, «mentre bevo mi intorbidi5 l’acqua?»

6. Riscrivi la favola di Fedro inventando nuovi pretesti che il lupo potrebbe usare per giustificare la sua scelta di sbranare l’agnello.

Un lupo sazio di cibo incontrò un agnello così bianco, tenero e spaurito che pensò di risparmiarlo. Fingendosi preso da ben altre cure1, lo sogguardò ap pena e tirò innanzi verso la sua tana; poi, considerando quanto incredibi le fosse un fatto simile, o, se creduto, pregiudizievole2 al terrore che gli era necessario spandere per condur la sua vita futura, tornò indietro a cercar dell’agnello che, stimandolo3 innocuo, questa volta, non si mosse neppure. E mentre lo divorava, si diceva: «Questo agnello non ha capito che io ho una reputazione da difendere».

ARTURO LORIA Il lupo e l’agnello

2 pregiudizievole: compromettente, rischioso. Il lupo, non considerando l’agnello, rischia in futuro di non far più paura a nessuno.

3 stimandolo: considerandolo.

5. Per chi è scritta la favola? Cosa significa che è «scritta per» qualcuno?

3. Sottolinea nel testo tutte le espressioni che ci fanno conoscere il lupo nel suo carattere e nelle sue azioni. Usa colori diversi per individuare aggettivi, verbi, nomi, avverbi.

FEDRO 25

1. Quali sono i pretesti di lite di cui si serve il lupo per raggiungere il proprio obiettivo?

• Che passo in più nella riflessione sul comportamento del lupo fa Loria rispetto a Fedro? Esponi le tue considerazioni facendo precisi riferimenti ai due testi.

1 cure: preoccupazioni, occupazioni.

7. Leggi la favola di seguito riportata e confrontala con quella di Fedro.

4. Nella favola si dice che il lupo agisce «ingiustamente»: cosa nel testo mostra che l’animale non compie le proprie azioni secondo giustizia?

• Quali caratteristiche dei due animali vengono messe in luce inizialmente?

2. Quali sono invece le risposte dell’agnello? Quali sue caratteristiche mettono in evidenza tali risposte?

• Il vizio messo in risalto è il medesimo?

FAvOlE26 LEV TOLSTÒJ Il leone e il topolino Il leone dormiva. Un topolino gli corse su per il corpo. Quello si svegliò e lo acchiappò. Il topolino cominciò a pregare che lo lasciasse; diceva: «Se tu mi lasci, vedrai che io ti farò del bene». Il leone si mise a ridere, a sentire che il topolino prometteva di fargli del bene; e lo lasciò andare. Più tardi, certi cacciatori acchiapparono il leone, e lo legarono con una fu ne a un albero. Il topolino udì il leone che ruggiva, accorse, rosicò la fune tor no torno1, e disse: «Ti ricordi? Tu ridevi, non credevi che io potessi farti del bene; ma ora lo vedi: anche da un topolino si può ricevere del bene» 1 torno torno: girandovi attorno.

lE v TOls Tòj 27 1. Perché il leone ride alle parole del topolino?

3. Con quali aggettivi definiresti i protagonisti? Quali episodi mettono in luce tali caratteristiche?

5. Quale morale traduce meglio quella espressa dal topolino? Giustifica la tua risposta. • Il bene può arrivare da chiunque, al di là delle aspettative.

4. Con quale congiunzione sostituiresti e nella frase «e lo lasciò andare»? Perché?

• Non basta essere forti e potenti per fare del bene.

7. Ti è mai capitato di doverti ricredere su una persona dalla quale non ti aspettavi alcunché? Racconta la tua esperienza seguendo lo schema narrativo della favola: • incontro con la persona e nascita del pregiudizio su di lei • fatto che costringe a cambiare opinione • morale.

2. Quali sono le azioni che compiono i personaggi della favola? Trovi tra di esse somiglianze e differenze?

• Anche i piccoli possono fare cose grandi.

6. Riscrivi la favola senza cambiare la morale ma sostituendo ai due protagonisti un gigante e una bambina.

Un vitello, saltando nella sua stalletta, aveva imparato a fare giravolte e piro ette. Quando arrivò l’inverno, il vitello fu lasciato andare con l’altro bestiame sul ghiaccio, all’abbeveratoio. Tutte le vacche s’avvicinarono guardinghe1 al trogolo2; il vitello, invece, si mise a galoppare sul ghiaccio, arrotolò in alto la coda, aguzzò le orecchie, e incominciò a piroettare. Ma alla prima piroetta, il piede gli mancò, e andò a battere con la testa contro il trogolo. Allora, giù a mugliare3 «Guarda come sono disgraziato!» diceva. «Con la paglia fino al ginocchio, saltavo e non cascavo, e qui, sul liscio, sono subito sdrucciolato». Una vacca anziana gli disse: «Se tu non fossi un vitello, sapresti che dove è più facile saltare, è più dif ficile reggersi dritti».

1 guardinghe: caute, prudenti, riflessive. 2 trogolo: vasca di legno che contiene acqua o cibo per gli animali. 3 mugliare: muggire. Dal latino mugulare, che ha origine onomatopeica.

FAvOlE28 LEV TOLSTÒJ Il vitello sul ghiaccio

• Chi va piano va sano e va lontano. • Chi non risica non rosica.

2. Perché si dice che la vacca è «anziana»?

6. Confronta con i tuoi compagni le risposte alle domande, apportando eventualmente le dovute correzioni.

lE v TOls Tòj 29 1. Quale atteggiamento distingue le vacche dal vitello mentre attraversano il terreno ghiacciato?

8. Ora riscrivi la favola scegliendo la morale da te scartata in precedenza.

4. Riguarda le azioni che compie il vitello prima di saltare. Per quale motivo lo scrittore si sofferma nel descriverne i particolari?

7. Inventa una favola sul modello di quella di Tolstoj. Innanzitutto scegli due personaggi, uno anziano e l’altro giovane; quindi individua le caratteristiche che permettano di mettere a confronto la loro vecchiaia e giovinezza. Costruisci quindi la favola, scegliendo come morale uno tra i due proverbi sotto riportati.

5. Come si potrebbe esprimere in altre parole la morale pronunciata dalla vacca anziana? In particolare, cosa si nasconde dietro al giudizio «se tu non fossi un vitello»?

3. Perché il vitello si definisce «disgraziato»?

3 compunto: che mostra preoccupazione. Dal verbo latino compungere, composto da cum ‘con’ e pungere ‘pungere’.

Molte cose sa la volpe, l’istrice una, ma grande. Archiloco

4 nostrana: locale, del nostro paese. 5 prelibata: squisita, gustosa. Dal verbo latino prelibare ‘pregustare’. 6 escogita: inventa, architetta. Dal verbo latino excogitare, derivato da cogitare ‘pensare’.

Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appe na uscito dal letargo, è goffo lento impacciato. Mimì la volpe fa un bel bal zo, e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore, e con la bocca sanguinante si allontana.Chestrano animale! pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata5 se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe as saggiarlo per sapere che sapore ha!

FAvOlE30 RAFFAELE LA CAPRIA La volpe e il riccio

E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita6 e mette in atto mille artifici trucchi espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. C’è solo da restare ammirati di

1 tramestio: movimento disordinato. Dal verbo latino mestare ‘mescolare’ con il prefisso tra- che indica movimento.

2 circospetto: che agisce con cautela. Dal verbo latino circumspicere, composto da circum ‘intorno’ e spicere ‘guardare’.

Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestio1 sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve aver intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mi mì la volpe si mimetizza, si finge morta, e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio, e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. De ve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti, ma si guarda intorno circospetto2 , esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto3, pensa la volpe. Razza nostrana4 di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterra nei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio.

Dopo tutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta osti nazione, dice a sé stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di la sciarlo perdere, quell’ottuso animale. In verità: molte cose conosce la volpe, e il riccio una sola, ma buona sem pre – come ognun sa – grande giammai.

R AFFAElE lA C ApRIA 31 fronte all’inesauribile fantasia di Mimì la volpe, che supera perfino quella della Pantera Rosa, di Will Coyote e Gatto Silvestro. Eppure ogni volta il ric cio si appallottola, e così appallottolato risulta imprendibile.

4. Tenendo conto delle azioni che la volpe compie nello sviluppo della vicenda, con quali aggettivi la descriveresti? Giustifica le tue affermazioni facendo precisi riferimenti alle azioni che l’animale compie.

6. Se la favola vuole illustrare attributi e tratti propri dell’uomo, quali vengono mostrati in questo testo? Che cosa ci vuole comunicare l’autore?

FAvOlE321.

Completa la tabella sottostante mettendo a confronto le azioni dei personaggi e le riflessioni della volpe protagonista. Azioni della volpe Azioni del riccio Riflessioni della volpe

2. Osserva le riflessioni della volpe raccolte nella tua tabella: come cambia il giudizio della volpe sul riccio nel corso della vicenda?

5. Solitamente i protagonisti delle favole sono animali parlanti non singolarmente individuati, ma caratterizzati da tratti universali. Quali elementi del testo di La Capria invece si discostano dalla narrazione tipica della favola?

7. Rileggi la favola La volpe e l’uva di Esopo e rifletti sulle somiglianze tra le due vicende. Dietro quale parola, nella favola di La Capria, si nasconde il giudizio dell’animale, simile a quanto dice la volpe di Esopo quando afferma che l’uva è «robaccia acerba»?

8. Dopo aver osservato la struttura del testo e la sua divisione in paragrafi, individua i fatti essenziali della favola, costruisci un sommario e scrivine un riassunto, in circa 15 righe, che metta in evidenza le caratteristiche dei due personaggi.

3. Per quale motivo la volpe cambia giudizio? Quali sono i fatti e le caratteristiche che la spingono a cambiare la propria opinione sul riccio?

Lungo il prato, dove un tempo pascolavano le mucche, c’era un vecchio mu ro. Fra le pietre del muro, vicino al granaio, cinque allegri topi di campagna avevano costruito la loro casa.

Ma da quando i contadini avevano abbandonato la fattoria, il granaio era rimasto vuoto. L’inverno si avvicinava e i topolini dovettero pensare alle scorte. Giorno e notte si davano da fare a raccogliere grano e noci, fieno e bacche. Lavoravano tutti. Tutti, tranne Federico. «Federico, perché non lavori?» chiesero. «Come, non lavoro», rispose Federico un po’ offeso. «Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d’inverno».

E quando videro Federico seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono «E ora, Federico, che fai?» «Raccolgo i colori», rispose Federico con semplicità. «L’inverno è grigio». Un’altra volta ancora, Federico se ne stava accoccolato all’ombra di una pianta.«Stai sognando, Federico?» gli chiesero in tono di rimprovero. Federico rispose: «Oh, no! Raccolgo parole. Le giornate d’inverno sono tante e lunghe. Rimarremo senza nulla da dirci». Venne l’inverno e, quando cadde la prima neve, i topolini si rifugiarono nella tana fra le pietre. Sulle prime si rimpinzarono allegramente e si diver tirono a raccontarsi storie di gatti sciocchi e volpi rimbambite. Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle noci e delle bacche, il fieno finì e il grano era solo un lontano ricordo. Nella tana si gelava e nessu no aveva più voglia di chiacchierare.

Improvvisamente, ricordarono ciò che Federico aveva detto del sole, dei colori e delle parole: «E le tue provviste, Federico?» chiesero. «Chiudete gli occhi», disse Federico, mentre si arrampicava sopra un gros so sasso. «Ecco, ora vi mando i raggi del sole. Caldi e vibranti come oro fuso…» E mentre Federico parlava, i quattro topolini cominciarono a sentirsi più caldi. Era la voce di Federico? Era magia? «E i colori, Federico?» chiesero ansiosamente. «Chiudete ancora gli occhi», disse Federico. E quando parlò del blu dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell’e dera, videro i colori come se avessero tante piccole tavolozze nella testa. «E le parole, Federico?» Federico si schiarì la gola, aspettò un momento e poi, come da un palco scenico, disse:

33 LEO LIONNI Federico

Chi fa la neve, il prato, il ruscello?

Chi accende la luna e il sole?

FAvOlE34

Quattro topini, azzurri di pelo, che stan lassù a guardarci dal cielo. Uno fa il sole e l’aria leggera e si chiama topino di Primavera. Bouquets profumati… serenate, ce li regala il topin dell’Estate. Il topino d’Autunno fa scialli e ricami con foglie dorate strappate dai rami. Il topino d’Inverno, purtroppo si sa, ci dà questa fame… e il freddo che fa. Le stagioni son quattro. Ma a volte vorrei che fossero sette, o cinque, o sei. Quando Federico ebbe finito, i topolini scoppiarono in un caloroso ap plauso.Federico arrossì, abbassò gli occhi confuso, e timidamente rispose: «Non voglio applausi, non merito alloro. Ognuno, in fondo, fa il proprio lavoro»

Chi fa il tempo brutto oppure bello?

Chi dà il colore alle rose e alle viole?

4. Leggi la seguente favola di Esopo. Metti a confronto la favola di Esopo e quella di Lionni, completando la tabella a pagina 36. ESOPO La cicala e le formiche In una giornata d’inverno le formiche stavano facendo seccare il loro grano che si era bagnato. Una cicala affamata venne a chiedere loro un po’ di cibo. E quelle le dissero: «Ma non hai fatto provvista anche tu, quest’estate?» «Non avevo tempo», rispose lei, «dovevo cantare le mie melodiose canzoni». «E tu balla, adesso che è inverno, se d’estate hai cantato!», le dissero ridendo le formiche.Lafavola mostra che, in qualsiasi faccenda, chi vuol evitare dolori e rischi non deve essere negligente1. 1 negligente: pigro, sfaccendato, scansafatiche.

1. Con diversi colori, sottolinea nel testo ciò che raccolgono i topi e ciò che raccoglie invece Federico. Sottolinea anche gli aggettivi con i quali Federico descrive l’inverno.

2. Quando e perché i topi si ricordano di Federico? Presta attenzione agli avverbi che lo scrittore usa per descrivere il loro stato d’animo in questo momento.

lEO lIONNI 35

3. I topi, inizialmente, si raccontano storie di «gatti sciocchi e volpi rimbambite»: che differenza c’è tra le loro storie e quelle di Federico?

MoraleEventi(caratteristiche)Personaggi(spaziodellaAmbientazionevicendaetempo)

FAvOlE36 Esopo La cicala e le formiche Leo Lionni Federico

lEO lIONNI 37

5. Scrivi un testo che metta a confronto le favole di Esopo e di Lionni (vedi esercizio 4). Cosa accomuna e cosa differenzia i due personaggi di Federico e della Cicala?

6. Nella favola di Federico viene messo a tema il valore della poesia e della letteratura. Cosa ci fa capire a proposito della forza della parola? E, invece, tu che rapporto hai con la letteratura? Ti piace leggere? Cosa ti aspetti e cosa ricevi dalla lettura di testi di invenzione? Racconta la tua personale esperienza della lettura, anche paragonandoti con quanto narrato nella favola di Lionni.

Fiabe2

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Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole, e la meraviglia delle cose, di cose come pietra, e legno, e ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e Johnvino.Ronald Reuel Tolkien a cura di Giacomo Gregori

Il genere letterario della fiaba ha origini molto antiche e popolari. Ini zialmente le fiabe erano raccontate e tramandate oralmente, poi sono state trascritte in tutto il mondo. È questo il motivo per cui, ad esempio, esistono diverse versioni di alcune fiabe. Spesso, inoltre, ogni popolo ha adattato la storia al proprio ambiente e alla propria cultura. Anzi, in molti casi le fiabe si sono arricchite passando “di mano in mano”. Con il passare del tempo si è percepita la necessità di raccogliere e trascrivere questi racconti. La più fa mosa raccolta di fiabe è orientale, più precisamente araba, Mille e una notte: è una raccolta di epoca medievale che raccoglie in sé storie di cultura indiana, persiana ed egiziana. In Europa solamente nel XIX secolo si è cominciato a raccogliere in modo sistematico le fiabe. La raccolta più famosa è certamen te quella dei fratelli Grimm, di cui troverai alcune fiabe in questo volume. Successivamente, il continente europeo vide un grande fiorire di raccolte di fiabe, sia in ambito scandinavo, sia nel mondo anglosassone, sia in Russia.

F IABE40

La fiaba è un breve racconto fantastico, in cui domina il meraviglioso, che permette di esplorare mondi sconosciuti e contemporaneamente l’animo umano. Ogni fiaba rappresenta l’occasione per compiere un viaggio in luoghi e situa zioni altrimenti inaccessibili per conoscere sempre più a fondo la realtà e sé stessi. Molto spesso, infatti, i protagonisti di queste storie fantastiche sono costretti a partire per compiere un’impresa dalla quale torneranno decisa mente cambiati. La condizione necessaria per l’avverarsi di questo processo è che il personaggio accetti il compito che gli viene affidato e gli aiuti che gli vengono proposti. Una volta allontanatosi dalla patria, ritornerà avendo guadagnato qualche “tesoro” dopo aver superato prove incredibili, grazie ad aiuti insperati e incontri con creature meravigliose. Nella maggior parte dei casi, il viaggiatore della fiaba alla fine del cammino scopre le proprie doti e trova risposte alle proprie domande. Pertanto, l’incontro con questo genere letterario è fortemente adeguato per una persona in crescita come te: grazie all’esperienza della protagonista de La sirenetta comprenderai di più i tuoi desideri, con l’aiuto di Elisa de I cigni selvatici capirai un po’ di più il valore del sacrificio, con il sostegno di Bellinda, protagonista di Bellinda e il Mostro, imparerai a scrutare l’animo altrui sempre più nel profondo. Inoltre, la fiaba dà speranza, mostra un percorso che può illuminare il tuo cammino: essa, infatti, è consolatoria, illustra un percorso che porta a un significato ultimo. Anche quando questo sarà raggiunto tramite il dolore e la fatica, la conclu sione porterà con sé sempre una novità, costituirà sempre un punto di non ritorno: seguendo i passi proposti, né il protagonista né il lettore, tu, tornere te a casa uguali.

In questo libro potrai gustare, ad esempio, le fiabe dello scrittore russo Afa nasjev. Per quanto riguarda il mondo scandinavo, invece, avrai la grande op portunità di incontrare i testi dello scrittore danese Andersen, che raccolse, trascrisse e arricchì molte storie, modificandole grazie alla propria fantasia. Anche nel nostro paese, in Italia, c’erano tantissime fiabe, narrate in dialet to. Si deve allo scrittore italiano Italo Calvino una delle più famose raccolte di fiabe italiane, trascritte in italiano dai dialetti di tutte le regioni. Di tutta questa tradizione, in questa sezione sono stati introdotti i testi più significativi in ordine allo stile letterario, alla potenza evocativa delle imma gini e alla profondità del loro contenuto. Abbiamo scelto alcuni autori di fiabe letterarie, privilegiando tra le loro storie quelle maggiormente capaci di rive larti non ciò che l’uomo dovrebbe essere o fare, ma ciò che è, che lo costitui sce, convinti che la letteratura sia un luogo di incontro tra uomini desiderosi di scoprire sé stessi e la vita. Per questo motivo ti verrà proposto un lavoro di lettura, rilettura e comprensione del testo, scavando nel significato pro fondo di ogni singola parola e cercando di imparare a osservare con estrema attenzione ogni singolo termine. Inoltre, ti sarà sempre richiesto un lavoro di scrittura e riassunto, che ti permetterà di fissare le scoperte compiute du rante la lettura.

41FIABE

F IABE42 JACOB & WILHELM GRIMM

I doni del popolo piccino

Una volta un sarto e un orefice andavano insieme per il mondo; e una sera che il sole era già calato dietro i monti, udirono il suono di una musica lonta na, che si faceva sempre più distinto; era un suono inconsueto, ma così piace vole, che dimenticarono ogni stanchezza e proseguirono in fretta. La luna era già alta sull’orizzonte, quando arrivarono a un colle, dove c’era una folla di omini e di donnine, che si eran presi per mano e danzavano gioiosamente in tondo; e danzando cantavano nel modo più soave: era la musica che avevano udito i viandanti. In mezzo era seduto un vecchio, un po’ più alto degli altri, che indossava un vestito variopinto, e una barba bianca gli pendeva sul petto. I due si fermarono stupefatti e guardarono la danza. Il vecchio accennò loro di entrare, e il popolo piccino aprì premurosamente il suo cerchio. L’orefice, che aveva la gobba e, come tutti i gobbi, era piuttosto ardito, si fece avanti: il sarto in principio era un po’ ritroso e si tenne in disparte; ma quando vide che se la spassavano così allegramente, si fece coraggio e lo seguì. Subito il cerchio si richiuse e i nani continuarono a cantare e a danzare, saltando sfrenatamente; ma il vecchio prese un coltellaccio appeso alla cintura, e, quando l’ebbe affilato a dovere, si guardò intorno cercando i forestieri. Questi si spaventarono, ma non ebbero tempo di pensarci sopra: il vecchio afferrò l’orefice e in un baleno gli rasò barba e capelli; lo stesso accadde al sarto. Ma la paura svanì, quando il vecchio, a operazione compiuta, batté loro amiche volmente sulla spalla, quasi volesse dire che avevano fatto bene a tollerar tutto di buona voglia, senza far resistenza. Additò un mucchio di carbone lì accanto, e a gesti fece intendere che dovevano riempirsene le tasche. Obbedi rono entrambi, pur non sapendo che cosa dovessero farsene di quel carbone; poi proseguirono in cerca di un ricovero per la notte. Quando giunsero nella valle, la campana del vicino convento suonò mezzanotte; all’istante il canto cessò; tutto era sparito e il colle era deserto nel chiaro di luna. I due viandanti trovarono un ricovero, si sdraiarono sulla paglia e si copri rono con le giubbe; ma, per la stanchezza, dimenticarono di tirar fuori il car bone. Un gran peso sulle membra li svegliò prima del solito. Frugarono nelle tasche; e non credevano ai loro occhi, quando videro che non eran piene di carbone, ma di oro schietto; e per fortuna eran tornati, foltissimi, anche bar ba e capelli. Adesso erano ricchi; ma l’orefice che, avido com’era, si era riem pito meglio le tasche, possedeva il doppio di quel che aveva il sarto. Un avido, se ha molto, ne vuole ancor di più; e l’orefice propose al sarto di fermarsi lì ancora un giorno, e la sera uscir di nuovo, a farsi dare dal vecchio sull’altura tesori ancor più grandi. Il sarto non volle e disse: «Ne ho abbastanza e son contento: adesso metto su bottega, sposo l’oggetto del mio amore (così chia mava la sua innamorata) e sono un uomo felice». Ma, per fargli piacere, ac consentì a fermarsi ancora un giorno. La sera, l’orefice si appese alle spalle

jACOB & W IlhElM GRIMM 43 un paio di bisacce, per poter insaccare a dovere, e s’incamminò verso il colle. Trovò il popolo piccino che cantava e danzava come la notte prima, il vecchio lo rasò di nuovo e gli accennò di prendersi il carbone. Egli non pose tempo in mezzo, ficcò nelle sue bisacce tutto quel che poteva starci, tornò indietro tut to beato e si coprì con la giubba. «L’oro, anche se pesa, lo sopporterò!» disse, e finalmente si addormentò, pregustando la gioia di svegliarsi il giorno dopo, ricco sfondato. Quando aprì gli occhi, si alzò in fretta per guardar nelle bisac ce; ma quale non fu la sua meraviglia, quando, per frugar che facesse, non tirò fuori che neri pezzi di carbone! “Mi resta l’oro che mi è toccato la scorsa notte!” pensò, e andò a prenderlo; ma come si spaventò, vedendo che anche quello si era trasformato di nuovo in carbone! Si batté la fronte con la mano sudicia di polvere nera e sentì che tutta la testa era liscia e pelata come la fac cia. Ma le sue disgrazie non erano ancor finite: soltanto allora s’accorse che, oltre alla gobba che aveva sulla schiena, glien’era cresciuta un’altra, altret tanto grossa, sul petto. Allora vide ch’era quello il castigo per la sua avidità e si mise a piangere forte. Il buon sarto, svegliato dal suo pianto, consolò l’infe lice come meglio poteva e disse: «Sei stato mio compagno di viaggio; resterai con me, e vivremo insieme della mia ricchezza». Mantenne la parola, ma il povero orefice dovette portar due gobbe per tutta la vita e coprirsi la pelata con un berretto

3. Come reagiscono inizialmente quando il vecchio li invita ad entrare nel cerchio?

7. Come si comporta il sarto nei confronti dell’orefice alla fine? Perché?

F IABE1.44

4. Quali azioni compie il vecchio? Poi, che cosa ordina di fare ai due viandanti?

2. Quale spettacolo si trovano davanti una volta raggiunta la sorgente dell’attrazione?

6. Che cosa accade all’orefice la seconda volta che si riempie le bisacce di carbone?

10. Costruisci il sommario con i titoli dei fatti essenziali della fiaba. Esempio: 1) Partenza del sarto e dell’orefice.

Che cosa attrae il sarto e l’orefice durante il loro cammino?

5. Di che cosa si sorprendono i due protagonisti al loro risveglio? Scegli, per ciascuno dei due viandanti, un aggettivo che descriva il loro atteggiamento di fronte a questa novità e motiva la tua scelta, completando le seguenti frasi: • L’orefice mostra di essere …, infatti … • Il sarto mostra di essere …, infatti …

9. Riassumi la fiaba in un enunciato, cogliendo l’aspetto più significativo della vicenda.

8. Perché l’orefice dovrebbe essere castigato? In fondo ha solo provato a ottenere un’altra volta ciò che aveva già ottenuto. Che cosa pensi riguardo a questa affermazione? Motiva la tua risposta ponendo attenzione al titolo e confrontandoti con questi due passaggi del testo: «Ma la paura svanì, quando il vecchio, a operazione compiuta, batté loro amichevolmente sulla spalla, quasi volesse dire che avevano fatto bene a tollerar tutto di buona voglia, senza far resistenza». «Un avido, se ha molto, ne vuole ancor di più; e l’orefice propose al sarto di fermarsi lì ancora un giorno, e la sera uscir di nuovo, a farsi dare dal vecchio sull’altura tesori ancor più grandi».

11. Riassumi la fiaba mettendo in luce le caratteristiche dei due protagonisti in 15/20 righe.

45 JACOB & WILHELM GRIMM

I quattro fratelli ingegnosi

C’era una volta un pover’uomo, che aveva quattro figli; quando furon cresciu ti, disse loro: «Cari figlioli, ora dovete andarvene per il mondo, io non ho nulla da darvi; mettetevi in cammino e andate in paese straniero, imparate un me stiere e cercate d’ingegnarvi». I quattro fratelli presero il bordone1, dissero addio al padre e lasciarono insieme la città. Dopo aver camminato qualche tempo, giunsero a un crocicchio, che menava2 in quattro paesi diversi. Allora disse il maggiore: «Dobbiamo separarci, ma fra quattro anni ci ritroveremo qui, e nel frattempo tenteremo la nostra sorte». Ognuno andò per la sua stra da, e il maggiore incontrò un uomo, che gli domandò dove andasse e che in tenzioni avesse. «Voglio imparare un mestiere!», rispose quello. Allora disse l’uomo: «Vieni con me, e impara a fare il ladro». «No», rispose, «ormai non è più considerato un mestiere onorevole, e alla fine della canzone si diventa pendagli da forca». «Oh», disse l’uomo, «della forca non devi aver paura: vo glio soltanto insegnarti a prendere quel che nessun altro può acchiappare e dove nessuno ti può scoprire». Allora il giovane si lasciò persuadere; a quella scuola, diventò un ladro provetto, così destro che non c’era più niente al sicu ro, qualunque cosa volesse. Anche il secondo fratello incontrò un uomo, che gli domandò che cosa volesse imparare. «Non lo so ancora», rispose. «Allora vieni con me, e impara a far l’astronomo: non c’è nulla di meglio, non c’è co sa che ti sia nascosta». Egli acconsentì e diventò un astronomo così esperto che, quando si fu perfezionato e volle proseguire il suo viaggio, il maestro gli diede un cannocchiale e disse: «Con questo puoi vedere quel che accade sulla terra e nel cielo, e nulla ti può restar celato». Il terzo fratello fece pratica da un cacciatore, che l’istruì così bene nell’arte della caccia da farne un cacciatore provetto. Quando si licenziò, il maestro gli donò uno schioppo e disse: «Que sto non sbaglia mai e quel che prendi di mira lo cogli senza fallo». Anche il fratello minore incontrò un uomo, che gli rivolse la parola e gli chiese cosa intendesse fare. «Non ti piacerebbe fare il sarto?» «Non saprei», disse il gio vane: «Non mi va a genio star gobbo da mattina a sera e spinger su e giù l’ago e il ferro da stiro». «Macché!», rispose l’uomo, «questo te lo figuri tu! Da me imparerai un’arte ben diversa, un’arte ammodo e decorosa e persino onore vole». Egli si lasciò persuadere, lo seguì e imparò la sua arte alla perfezione. Quando si licenziò, il maestro gli diede un ago e disse: «Con quest’ago puoi ricucire tutto quel che ti capita, sia molle come un uovo o duro come l’acciaio; e ridiventerà d’un sol pezzo, che non si potrà più vedere la cucitura». Quando i quattro anni furono trascorsi, i quattro fratelli arrivarono insie me al crocicchio, si abbracciarono e si baciarono e tornarono a casa dal pa 1 bordone: grosso e lungo bastone con manico ricurvo usato dai pellegrini. 2 menava: portava, conduceva.

F IABE46 dre. «Be’», disse questi tutto felice, «che buon vento vi porta?» Essi raccon tarono com’era andata, e che ognuno aveva imparato il suo mestiere. Se ne stavano appunto davanti alla casa sotto un grande albero, e il padre disse: «Adesso voglio mettervi alla prova e veder quel che sapete fare». Alzò gli oc chi e disse al secondo figlio: «Lassù in cima, fra due rami, c’è un nido di frin guelli; dimmi un po’: quante uova ci sono?». L’astronomo prese il suo can nocchiale, guardò in alto e disse: «Sono cinque». Disse il padre al maggiore: «Portale giù, senza disturbar l’uccello che sta covando». Il ladro ingegnoso salì, tolse le cinque uova di sotto al ventre dell’uccellino, che non se ne accor se neppure e restò tranquillamente a covare. Egli le portò al padre, che le pre se, le mise sulla tavola, una per angolo e la quinta nel mezzo, e disse al cac ciatore: «Con un colpo solo, devi spezzarle tutt’e cinque a metà». Il cacciatore puntò lo schioppo e colpì le uova proprio come voleva il padre, tutt’e cinque con un colpo solo. Egli aveva certo quella polvere che, a sparare, fa anche le voltate. «Ora tocca a te!», disse il padre al quarto figlio, «devi ricucir le uova e anche gli uccellini che ci son dentro, in modo che la schioppettata non faccia loro alcun danno». Il sarto tirò fuori il suo ago e le cucì, come voleva il padre. Quand’ebbe finito, il ladro dovette riportarle nel nido sull’albero e rimetterle sotto l’uccello, senza che se n’accorgesse. L’uccellino finì di covarle, e dopo qualche giorno sbucarono fuori i piccoli, e avevano una righina rossa attorno al collo, là dove il sarto li aveva ricuciti. «Sì», disse il vecchio ai suoi figli, «non c’è lode che basti. Avete speso bene il vostro tempo e imparato a dovere. Non posso dire chi sia da preferirsi: lo si vedrà appena avrete occasione di usar l’arte vostra». Poco tempo dopo il paese fu in subbuglio, perché la principessa era stata rapita da un drago. Il re si angustiava giorno e notte, e bandì che chiunque la riportasse l’avrebbe avuta in isposa. I quattro fratelli dissero: «Sarebbe un’oc casione per farci conoscere!», e pensarono di partire insieme per liberare la principessa. «Dove sia, voglio saperlo subito!», disse l’astronomo; guardò nel suo cannocchiale e disse: «La vedo già: è su uno scoglio nel mare, lontano di qui e il drago le sta accanto e fa la guardia». Andò dal re, chiese una nave per sé e per i suoi fratelli e navigarono fino allo scoglio. Là sedeva la principessa, ma il drago le giaceva in grembo e dormiva. Il cacciatore disse: «Non posso sparare, ucciderei anche la bella fanciulla». «Proverò io!», disse il ladro; le si avvicinò quatto quatto e la tolse di sotto al drago, ma così piano e con tanta destrezza, che il mostro non s’accorse di nulla e continuò a russare. Pieni di gioia, la portarono di corsa sulla nave e presero il largo; ma il drago, che al ri sveglio non aveva più trovato la principessa, li inseguì, sbuffando furioso per l’aria. E quando si librò sopra di loro e stava per calar sulla nave, il cacciatore puntò lo schioppo e lo colpì in mezzo al cuore. Il mostro piombò giù morto, ma era così grosso e pesante, che nel cadere sfasciò tutta la nave. Per fortuna essi riuscirono ad afferrar qualche tavola e si tennero a galla nel vasto mare. Erano di nuovo in grave pericolo, ma il sarto, senza por tempo in mezzo, pre se l’ago miracoloso, in quattro e quattr’otto a punti lunghi cucì insieme le ta vole, ci si accomodò sopra e raccolse tutti i rottami della nave. E ricucì anche

jACOB & W IlhElM GRIMM 47 questi con tanta abilità, che ben presto la nave fu di nuovo pronta a far vela ed essi poterono tornare felicemente a casa. Che gioia ebbe il re quando rivide sua figlia! Disse ai quattro fratelli: «Uno dei quattro deve averla in isposa, ma chi debba essere, decidetelo voi». Al lora scoppiò tra di loro un violento litigio, perché ognuno avanzava pretese. L’astronomo diceva: «Se io non avessi visto la principessa, tutte le vostre arti sarebbero state vane: è dunque mia». Il ladro diceva: «A che serviva il veder la, se non l’avessi tolta di sotto al drago? È dunque mia». Il cacciatore diceva: «Ma il mostro avrebbe sbranato voi e la principessa, se la mia palla non l’a vesse colpito: è dunque mia». Il sarto diceva: «E se non vi avessi rabberciato la nave, sareste annegati tutti miseramente: è dunque mia». Allora il re sen tenziò: «Avete tutti ugual diritto e, poiché non potete aver tutti la fanciulla, non l’avrà nessuno; ma in premio darò a ciascuno la metà di un regno». La decisione piacque ai fratelli, che dissero: «È meglio così, piuttosto che venia mo a discordia». E così ebbero mezzo regno per ciascuno, e vissero felici col padre finché Dio volle.

Quali indicazioni dà il padre ai suoi figli prima di mandarli per il mondo?

3. Quale motivazione offre l’astronomo al secondo fratello per sostenere che il suo mestiere è il migliore?

2. Perché inizialmente il primo fratello non vuole fare il ladro? Da che cosa, poi, si lascia convincere?

F IABE1.48

5.IVIIIIIfratellofratellofratellofratelloPerché, secondo te, il fratello maggiore è l’unico che non riceve doni? Di che cosa si deve servire per compiere il proprio mestiere? Per rispondere aiutati rintracciando un aggettivo significativo che viene riferito a lui nel testo.

6. Completa la tabella con le ragioni per cui i quattro fratelli sostengono di aver diritto di sposare la Ragioneprincipessa: I IVIIIIIfratellofratellofratellofratello

4. Costruisci una tabella che presenti cosa impara e cosa riceve ogni personaggio e gli eventi in cui mette alla prova ciò che ha imparato e ricevuto: imparaCosa riceveCosa Come si mette alla prova di fronte al padre Come si mette alla prova con la principessa I

10. Costruisci il sommario della fiaba, i cui titoli siano brevi frasi al tempo presente. Esempio: 1) Un padre manda i figli per il mondo a imparare un mestiere 11. Riassumi la fiaba in 15/20 righe, al tempo presente, mettendo in luce il significato della fiaba, che hai scoperto in modo particolare lavorando sul punto 9. 1 J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il medioevo e il fantastico, Luni, Milano 2000, p. 176.

8. Cerca sul dizionario e trascrivi sul quaderno il significato, l’etimologia e il contrario del termine «discordia», utilizzato alla fine della fiaba.

jACOB & W IlhElM GRIMM 49 7. Ti sembra giusto che alla fine nessuno abbia in sposa la fanciulla o pensi che uno dei quattro avrebbe maggior diritto di averla in sposa rispetto agli altri? Argomenta la tua risposta.

9. Che cosa hanno scoperto alla fine i quattro fratelli? Rendi ragione della tua risposta, ripensando al valore di ognuna delle loro azioni nell’impresa compiuta e riflettendo su due passaggi della fiaba e su una affermazione dello scrittore J.R.R. Tolkien: «Pensarono di partire insieme per liberare la principessa. […] L’astronomo […] andò dal re, chiese una nave per sé e per i suoi fratelli». «La decisione piacque ai fratelli, che dissero: “È meglio così, piuttosto che veniamo a discordia”. E così ebbero mezzo regno per ciascuno, e vissero felici col padre finché Dio volle». «La magia del Regno Fatato non è fine a sé stessa, la sua virtù risiede nei suoi effetti: e fra questi vi è la soddisfazione di alcuni primordiali desideri umani. Uno di questi desideri è contemplare la profondità dello spazio e del tempo. Un altro è essere in comunione con altri esseri viventi»1.

I sei servi C’era una volta una vecchia regina, che era una maga; e sua figlia era la più bella fanciulla del mondo. Ma la vecchia ad altro non pensava che ad attirare gli uomini per rovinarli; e se arrivava un pretendente, diceva che chi voleva sua figlia doveva prima eseguire un compito o morire. Molti rischiavano, ab bagliati dalla bellezza della fanciulla, ma non potevano compiere quel che la vecchia imponeva; allora non c’era remissione: dovevano inginocchiarsi, e gli mozzavano la testa. Un principe, che aveva anche lui sentito parlare della gran bellezza della fanciulla, disse a suo padre: «Lasciatemi andare, voglio chieder la sua mano». «Mai e poi mai!» rispose il re: «Se parti, vai incontro alla morte». Allora il principe si mise a letto, s’ammalò mortalmente e così stette per sette anni, e nessun medico poteva giovargli. Quando il padre vide che non c’era più speranza, gli disse tristemente: «Va’ e tenta la sorte: non so come aiutarti in altro modo». A queste parole il figlio si levò, sano come un pesce, e si mise allegramente in via. Or gli avvenne di passare a cavallo per una prateria, e di lontano vide per terra un gran mucchio di fieno; e avvicinandosi poté distinguere che era la pancia di un uomo coricato; ma pareva un monticello. Vedendo il cavaliere, il Grassone si alzò e disse: «Se vi occorre qualcuno, prendetemi al vostro ser vizio». Il principe rispose: «Che devo farmene di un uomo così impacciato?». «Oh», disse il Grassone, «non vuol dir nulla! Se mi allargo tutto, sono tremi la volte più grasso». «Se è così», disse il principe, «forse puoi essermi utile: vieni con me». Il Grassone lo seguì; e non andò molto che trovarono un tale, sdraiato per terra, con l’orecchio sull’erba. «Cosa fai?» gli domandò il princi pe. «Ascolto!» rispose l’uomo. «Cos’ascolti così attentamente?» «Quel che sta succedendo nel mondo, perché nulla sfugge al mio orecchio: sento persino crescere l’erba». Il principe domandò: «Dimmi, cosa senti alla corte di quella vecchia regina, che ha una bella figlia?». E quello rispose: «Sento fischiar la spada, che mozza la testa a un pretendente». Il principe disse: «Puoi essermi utile, vieni con me». Proseguirono, ed ecco, videro per terra due piedi e un tratto di gambe, ma non riuscirono a vederne la fine; dopo un bel pezzo, ar rivarono al torso e finalmente alla testa. «Ehi», disse il principe «che spilun gone!» «Oh», rispose l’altro, «questo è nulla! Se mi distendo bene, son tremi la volte più lungo e supero il monte più alto della terra. Vi servirò volentieri, se mi volete». «Vieni», disse il principe «puoi essermi utile». Proseguirono, e trovarono un tale, seduto sul ciglio della strada con gli occhi bendati. Disse il principe: «Hai la vista debole, che non puoi sopportar la luce?». «No», rispose l’uomo: «non posso togliermi la benda, perché, qualunque cosa guardi, salta per aria, tanta forza ho nello sguardo. Se posso esservi utile, vi servirò volen tieri». «Vieni con me», disse il principe «puoi essermi utile». Proseguirono, e trovarono un uomo che, sotto il sole ardente, rabbrividiva di freddo e tremava

F IABE50 JACOB & WILHELM GRIMM

jACOB & W IlhElM GRIMM 51 verga a verga1. «Come mai hai tanto freddo, con un sole così caldo?» doman dò il principe. «Ah», rispose l’uomo, «io non sono come gli altri: più fa caldo, più sento freddo, e il gelo mi penetra nelle ossa; e più fa freddo, più sento cal do: in mezzo al ghiaccio non reggo al caldo e in mezzo al fuoco non reggo al freddo». «Sei un bel tipo!» disse il principe «ma se vuoi entrare al mio servi zio, vieni con me». Proseguirono, e videro un uomo che, fermo sui due piedi, allungava il collo, girava gli occhi intorno e guardava lontano lontano. Disse il principe: «Cosa guardi con tanto zelo?». L’uomo rispose: «Ho una vista così acuta, che arriva al di là di boschi e campi, monti e piani, per tutto il mondo». Il principe disse: «Se vuoi, vieni con me: uno come te non ce l’avevo ancora». E il principe entrò coi suoi servi nella città dove stava la vecchia regina. Non disse chi era, ma dichiarò: «Se volete darmi la vostra bella figlia, farò quel che m’imponete». La maga si rallegrò che venisse a cader nelle sue re ti un bel giovane, e disse: «Per tre volte ti imporrò un compito: se ogni volta lo porti a buon fine, sarai sposo e signore di mia figlia». «Qual è il primo?» domandò il principe. «Che mi porti l’anello, che ho lasciato cadere nel mar Rosso». Allora il principe tornò dai suoi servi e disse: «Il primo compito non è facile: bisogna ripescare un anello nel mar Rosso. Consigliatemi voi». Allo ra disse Occhiodilince: «Voglio veder dov’è!». Guardò in fondo mare, e disse: «È là, infilato in una pietra aguzza». Spilungone li trasportò tutti sul mare e disse: «Lo pescherei ben io, se potessi vederlo». «Gran difficoltà!» esclamò il Grassone; si coricò con la bocca sull’acqua: le onde vi caddero dentro come in un abisso ed egli bevve tutto il mare, che restò asciutto come un prato. Lo spilungone si curvò un poco e tirò fuori l’anello. Tutto contento, il principe lo portò alla vecchia. Ella trasecolò e disse: «Sì, è proprio quello. Il primo compi to l’hai eseguito, ma adesso viene il secondo. Guarda: là su quel prato, davanti al mio castello, pascolano trecento buoi; son bestie grasse e devi mangiarle tutte, con il pelo, le corna e le ossa; e giù in cantina ci sono trecento botti di vino, e te le berrai tutte quante; e se avanza il pelo di un bue o una gocciolina di vino mi pagherai con la vita». Disse il principe: «Non posso invitar com mensali? Senza compagnia non c’è gusto a mangiare». La vecchia rise mali gnamente e disse: «Per aver compagnia, puoi invitarne uno, ma non di più». Allora il principe andò dai suoi servi e disse al Grassone: «Oggi t’invito a pranzo e una volta tanto mangerai a sazietà». Allora il Grassone si allargò tut to e mangiò i trecento buoi, fino all’ultimo pelo, e domandò se dopo la cola zione non c’era altro; e il vino lo bevve dalle botti, senza bisogno di bicchiere, e l’ultima goccia se la leccò sul dito. Dopo il pasto, il principe andò dalla vec chia e le disse che il secondo compito era eseguito. Ella si meravigliò e disse: «A tanto non è ancora arrivato nessuno, ma resta il terzo». E pensava: “Non mi sfuggirai, e non salverai la testa!”. «Stasera» disse, «ti porto mia figlia in camera, tu devi abbracciarla; e mentre siete là insieme, bada di non addor mentarti! Io verrò allo scoccar delle dodici, e se non è più fra le tue braccia, hai perduto». Il principe pensò: “Il compito è facile, terrò gli occhi ben aperti”. 1 tremava … verga: era preso da tremito violento (verga = bacchetta lunga e sottile).

Non c’era più scampo, la bella fanciulla dovette sposare il giovane scono sciuto. Ma quando andarono in chiesa, la vecchia disse: «Non posso soppor tare questa vergogna!». E li fece inseguire dai suoi soldati, che dovevano an

Tuttavia chiamò i suoi servitori, narrò loro quel che aveva detto la vecchia e disse: «Chissà che malizia c’è sotto! È bene esser prudenti: fate la guardia e badate che la fanciulla non esca dalla stanza». Sul far della notte, arrivò la vecchia con sua figlia, la spinse nelle braccia del principe; e poi lo Spilungone si acciambellò intorno a loro e il Grassone si mise davanti alla porta, così che non poteva entrare anima viva. Se ne stavano là tutt’e due, e la fanciulla non diceva una parola; ma dalla finestra la luna le illuminava il viso, ed egli po teva vedere la sua meravigliosa bellezza. Non faceva che guardarla, innamo rato e felice, e i suoi occhi non erano mai stanchi. Durò così fino alle undici; allora la vecchia gettò un incantesimo su tutti quanti, così che s’addormenta rono; e subito la fanciulla sparì. Dormirono sodo fino a mezzanotte meno un quarto; allora cessò l’incan tesimo ed essi si risvegliarono. «Oh, sventura!» esclamò il principe: «Sono perduto!». Anche i servi fedeli presero a lamentarsi, ma Finorecchio disse: «Zitti! Voglio ascoltare». Ascoltò un istante, poi disse: «È dentro una rupe, a trecent’ore di qui, e piange sul suo destino. Questo è proprio affar tuo, Spilun gone: se ti rizzi, con due passi ci sei». «Sì», rispose lo Spilungone, «ma deve accompagnarmi Occhiosaetta, per toglier di mezzo la rupe». Si caricò sulle spalle quello dagli occhi bendati e in men che non si dica furono davanti al la rupe incantata. Subito lo Spilungone tolse la benda al compagno, che girò gli occhi intorno, e la rupe andò in mille pezzi. Allora lo Spilungone prese in braccio la fanciulla, la portò a casa in un baleno e in un baleno tornò a pren dere il camerata; e prima che scoccassero le dodici eran di nuovo tutti là, al legri e contenti. Allo scoccar delle dodici, arrivò pian piano la vecchia maga, prese un’aria sprezzante, come se volesse dire: «Adesso è mio!» e credeva che sua figlia fosse dentro la rupe, a trecent’ore di distanza. Ma quando la vide nelle braccia del principe, inorridì e disse: «Ecco uno che ne sa più di me». Ma non c’era niente da ridire, e dovette dargli sua figlia. Allora le disse all’o recchio: «Che vergogna per te dover obbedire a gente ordinaria, e non poterti scegliere uno sposo a tua voglia!». Nel suo cuore superbo, la fanciulla si colmò d’ira e meditò la vendetta. Il giorno dopo, ella fece ammucchiare trecento cataste di legna e disse al prin cipe che i tre compiti eran certo eseguiti, ma lei non sarebbe diventata sua moglie, se prima qualcuno non fosse stato disposto a mettersi in mezzo alla legna e sopportare il fuoco. Pensava che nessuno dei servi si sarebbe lasciato bruciare per lui, e per amor suo ci sarebbe andato il principe, e così lei sareb be stata libera. Ma i servi dissero: «Noi abbiamo fatto tutti qualcosa, soltanto il Freddoloso non ha ancora fatto nulla, adesso tocca a lui». Lo misero in mez zo alla catasta e vi appiccarono il fuoco. Il fuoco divampò e arse per giorni, finché consumò tutta la legna; e quando le fiamme si spensero, il Freddolo so era là, in mezzo alla cenere, che tremava come una foglia e diceva: «Non ho mai sofferto tanto freddo in vita mia! Se durava ancora, sarei assiderato».

F IABE52

jACOB & W IlhElM GRIMM 53 nientare chiunque si trovasse davanti, e riportarle la figlia. Ma Finorecchio era stato in ascolto e aveva sentito gli ordini segreti della vecchia. «Che fac ciamo?» disse il Grassone; ma questi non esitò: vomitò un paio di volte die tro la carrozza parte dell’acqua marina che aveva bevuto, ed ecco formarsi un gran lago, dove i soldati furono sommersi e annegarono. Quando la maga lo seppe, mandò i corazzieri, ma Finorecchio udì lo strepito delle armature e tolse la benda ad Occhiosaetta; e questi fissò un istante i nemici, che andaro no in pezzi, come se fossero di vetro. Finalmente proseguirono indisturbati, e quando gli sposi ebbero ricevuto la benedizione in chiesa, i servitori si licen ziarono e dissero al loro padrone: «Il vostro desiderio è soddisfatto, non avete più bisogno di noi; vogliamo metterci in via e tentar la fortuna». A mezz’ora dal castello c’era un villaggio, e là davanti un porcaro custodi va il suo branco; quando ci arrivarono, il principe disse alla moglie: «Sai tu chi sono? Non sono un principe, ma un porcaro, e quello là col branco è mio padre: anche noi due dobbiamo far quel lavoro e aiutarlo a custodire i por ci». Poi scesero insieme alla locanda, e il principe disse di nascosto ai padro ni di portar via alla sposa le vesti regali durante la notte. Al mattino, quando la principessa si svegliò, non aveva nulla da mettersi; e la padrona le diede un vecchio vestito e un paio di vecchie calze di lana, e aveva l’aria di farle un gran regalo e le disse: «Non fosse per vostro marito, non ve l’avrei dato». Ed ella credette di aver proprio sposato un porcaro; con lui custodiva il branco e pensava: “L’ho meritato con la mia superbia e la mia presunzione”. Durò così per otto giorni, ed ella non ne poteva più, perché aveva i piedi coperti di piaghe. Allora vennero degli sconosciuti, e le domandarono se sapesse chi era suo marito. «Sì», rispose, «è un porcaro; ed è appena uscito per vendere un po’ di nastri e di stringhe». Ma quelli dissero: «Venite, vi condurremo da lui». E la portarono al castello; e quando ella entrò nella sala, ecco suo mari to in abiti regali. Ma ella non lo riconobbe, finché il principe non la prese fra le braccia; la baciò e disse: «Io ho sofferto tanto per te, e anche tu hai dovuto soffrire per me». Allora furon festeggiate le nozze, e chi l’ha raccontato, vor rebbe esserci stato.

Perché, invece, successivamente lo lascia andare?

5. Quali sono i tre compiti che vengono imposti dalla maga al principe?

F IABE1.54

3.VIVIVIIIIIIPerché

Perché inizialmente il padre non vuole che il figlio parta?

il protagonista cambia idea e decide di prendere con sé il Grassone? Come può essergli utile?

2. Costruisci una tabella che presenti le caratteristiche straordinarie di ogni personaggio incontrato dalSoprannomeprincipe: Caratteristica

6. Costruisci una tabella che presenti come le caratteristiche straordinarie dei servi si rivelano utili per aiutare il protagonista ad affrontare le prove elencate nell’esercizio 5: I prova II prova III prova IV prova V prova I VIVIVIIIIIservoservoservoservoservoservo

4. Rileggi la frase pronunciata dal principe dopo l’incontro con il quinto servo, il Freddoloso:«Seiunbel tipo! Ma se vuoi entrare al mio servizio, vieni con me». Rifletti sull’utilizzo della congiunzione avversativa ma: perché il fatto di entrare al servizio del principe dovrebbe essere in opposizione con il fatto di essere un bel tipo? Cosa intende qui il protagonista usando l’espressione «sei un bel tipo»?

Quale ulteriore prova viene aggiunta in seguito dalla fanciulla? Infine, cosa fa la vecchia per cercare di evitare che si celebri il matrimonio?

10. Inventa un sottotitolo per il testo letto, che presenti il tema dominante della fiaba.

9. Dopo esserti confrontato con la seguente frase di una studiosa, prova a presentare il protagonista, facendo emergere quali sue caratteristiche gli permettono di raggiungere il suo obiettivo, e che cosa lo aiuta a superare i propri limiti: «A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A chi senza speranza si affida all’insperabile»1.

Come interpreti l’utilizzo della congiunzione allora? Quali sono il significato e la funzione dell’ultima sezione della fiaba?

jACOB & W IlhElM GRIMM 55 7. «È dentro una rupe, a trecent’ore di qui, e piange sul suo destino». Come interpreti questa frase con cui a un certo punto viene descritto l’atteggiamento della fanciulla? Perché «piange sul suo destino»?

8. Rileggi con attenzione il finale della fiaba: «“Io ho sofferto tanto per te, e anche tu hai dovuto soffrire per me”. Allora furon festeggiate le nozze, e chi l’ha raccontato, vorrebbe esserci Cosastato».vuole comunicare il protagonista usando il verbo dovere?

11. Costruisci il sommario della fiaba. I titoli possono essere brevi frasi al presente: 1) Un principe va a tentare la sorte per cercare di ottenere la mano di una fanciulla. Oppure frasi nominali: 1) Partenza di un principe per la conquista di una fanciulla.

12. Riassumi il testo, al tempo presente, mettendo in luce il tema dominante della fiaba.

1 C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 41.

F IABE56 CARLO COLLODI

Le fate C’era una volta una vedova che aveva due figliuole. La maggiore somiglia va tutta alla mamma, di lineamenti e di carattere, e chi vedeva lei, vedeva sua madre, tale e quale. Tutte e due erano tanto antipatiche e così gonfie di superbia, che nessuno le voleva avvicinare. Viverci insieme poi, era impos sibile addirittura. La più giovane invece, per la dolcezza dei modi e per la bontà del cuore, era tutta il ritratto del suo babbo… e tanto bella poi, tanto bella, che non si sarebbe trovata l’eguale. E naturalmente, poiché ogni si mile ama il suo simile, quella madre andava pazza per la figliuola maggio re; e sentiva per quell’altra un’avversione, una ripugnanza spaventevole. La faceva mangiare in cucina, e tutte le fatiche e i servizi di casa toccavano a lei.Fra le altre cose, bisognava che quella povera ragazza andasse due volte al giorno ad attingere acqua a una fontana distante più d’un miglio e mezzo, e ne riportasse una brocca piena.

Un giorno, mentre stava appunto lì alla fonte, le apparve accanto una po vera vecchia che la pregò in carità di darle da bere. «Ma volentieri, nonnina mia…» rispose la bella fanciulla «aspettate; vi sciacquo la brocca…» E subito dette alla mezzina1 una bella risciacquata, la riempì di acqua fresca, e gliela presentò sostenendola in alto con le sue proprie mani, affin ché la vecchiarella bevesse con tutto il suo comodo.

Quand’ebbe bevuto, disse la nonnina: «Tu sei tanto bella, quanto buona e quanto per benino, figliuola mia, che non posso fare a meno di lasciarti un dono».

Quella era una Fata, che aveva preso la forma di una povera vecchia di campagna per vedere fin dove arrivava la bontà della giovinetta. E continuò: «Ti do per dono che ad ogni parola che pronunzierai ti esca di bocca o un fiore o una pietra preziosa». La ragazza arrivò a casa con la brocca piena, qualche minuto più tardi; la mamma le fece un baccano del diavolo per quel piccolo ritardo. «Mamma, abbi pazienza, ti domando scusa…», disse la figliuola tutta umi le, e intanto che parlava le uscirono di bocca due rose, due perle e due bril lanti«Magrossi.cheroba è questa!…», esclamò la madre stupefatta, «sbaglio o tu sputi perle e brillanti!… O come mai, figlia mia?…»

Era la prima volta in tutta la sua vita che la chiamava così, e in tono af fettuoso. La fanciulla raccontò ingenuamente quel che le era accaduto alla 1 mezzina: brocca di rame usata in campagna per attingere l’acqua alla fonte (termine toscano).

Il figliuolo del Re, che vide uscire da quella bocchina cinque o sei perle e altrettanti brillanti, la pregò di raccontare come mai era possibile una cosa tanto meravigliosa. E la ragazza raccontò per filo e per segno tutto quello che le era accaduto. Il Principe reale se ne innamorò subito e considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un’altra donna, la condusse senz’altro al palazzo del Re suo padre e se la sposò. Quell’altra sorella frattanto si fece talmente odiare da tutti, che sua madre stessa la cacciò via di casa; e la disgraziata dopo aver corso invano cercando chi acconsentisse a riceverla andò a morire sul confine del bosco.

C ARlO COllODI 57 fontana; e durante il racconto, figuratevi i rubini e i topazi che le caddero giù dalla bocca! «Oh, che fortuna…», disse la madre, «bisogna che ci mandi subito anche quest’altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono?… Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera». «E non ci mancherebbe altro!…», rispose quella sbadata. «Andare alla fon tana«Tiora!»dico che tu ci vada… e subito», gridò la mamma. Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d’argento che fosse in casa. La superbia, capite, e l’infin gardaggine!… Appena arrivata alla fonte, eccoti apparire una gran signora vestita magnificamente, che le chiede un sorso d’acqua. Era la medesima Fata apparsa poco prima a quell’altra sorella; ma aveva preso l’aspetto e il vestiario di una principessa, per vedere fino a quale punto giungeva la mal creanza di quella pettegola. «O sta’ a vedere…», rispose la superba, «che son venuta qui per dar da bere a voi!… Sicuro!… per abbeverare vostra Signora, non per altro!… Guardate, se avete sete, la fonte eccola lì». «Avete poca educazione, ragazza…», rispose la Fata senza adirarsi punto, «e giacché siete così sgarbata, vi do per dono che ad ogni parola pronunziata da voi vi esca di bocca un rospo o una serpe». Appena la mammina la vide tornare da lontano, le gridò a piena gola: «Dunque, Cecchina, com’è andata?». «Non mi seccate, mamma!…», replicò la monella; e sputò due vipere e due rospacci.«ODio!… che vedo!…», esclamò la madre. «La colpa deve essere tutta di tua sorella, ma me la pagherà…» E si mosse per picchiarla. Quella povera figliuola fuggì via di rincorsa e andò a rifugiarsi nella foresta vicina.

Il figliuolo del Re che ritornava da caccia la incontrò per un viottolo, e vedendola così bella, le domandò che cosa faceva in quel luogo sola sola, e perché piangeva tanto. «La mamma…», disse lei, «m’ha mandato via di casa e mi voleva picchiare…»

Gli smeraldi, le perle, ed i diamanti Abbaglian gli occhi col vivo splendore; Ma le dolci parole e i dolci pianti Hanno spesso più forza e più valore. Altra morale La cortesia che le bell’alme accende, Costa talora acerbi affanni e pene; Ma presto o tardi la virtù risplende, E quando men ci pensa il premio ottiene.

5. Alla fine della fiaba come si comporta la madre con la figlia più grande? Che cosa ti fa capire il commento inziale («ogni simile ama il suo simile») sul suo comportamento?

6. Rileggi con attenzione il seguente passaggio del testo: «Brontolò, brontolò; ma brontolando prese la strada portando con sé la più bella fiasca d’argento che fosse in casa. La superbia, capite, e Cercal’infingardaggine!»suldizionarioetrascrivi sul quaderno il significato dei due nomi astratti superbia e infingardaggine. Poi, spiega per ognuno di essi perché vengono utilizzati per descrivere il comportamento di Cecchina in queste righe.

1. Sottolinea con due diversi colori i passaggi del testo che rivelano le caratteristiche della figlia maggiore e della ragazza più giovane.

3. Quali doni ricevono le due figlie dalla Fata? Qual è il significato di questi due doni?

4. Come si conclude la vicenda per le due ragazze?

Morale

2. Scegli, per ciascuna delle due figlie, un aggettivo che descriva il loro atteggiamento di fronte alla Fata e motiva la tua scelta, completando le seguenti frasi: • La figlia maggiore mostra di essere …, infatti … • La figlia più giovane mostra di essere …, infatti …

F IABE58

8. Dopo aver riletto la prima morale, spiega il collegamento tra le parole sottolineate al punto 7 e la vicenda narrata nella fiaba. Ora fai lo stesso con l’altra morale.

10. Costruisci il sommario con i titoli dei fatti essenziali della fiaba.

• Di che cosa non tiene conto la madre?

• Perché non funziona allo stesso modo con l’altra figlia?

Rileggi le seguenti frasi tratte dalla fiaba: «“Oh, che fortuna…”, disse la madre, “bisogna che ci mandi subito anche quest’altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono?… Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera”».

• Ha realmente capito il motivo per cui la figlia giovane ha ricevuto quel dono?

• Da che cosa lo capisci?

Ora rispondi, considerando con attenzione le parole sottolineate.

9. Riassumi la fiaba in un enunciato, cogliendo l’aspetto più significativo della vicenda.

11. Riassumi la fiaba mettendo in luce le caratteristiche delle due figlie.

C ARlO COllODI 59 7.

F IABE60 ITALO CALVINO Bellinda e il Mostro C’era una volta un mercante di Livorno, padre di tre figlie a nome Assunta, Carolina e Bellinda. Era ricco, e le tre figlie le aveva avvezzate che non man casse loro niente. Erano belle tutte e tre, ma la più piccola era d’una tale bellezza che le avevano dato quel nome di Bellinda. E non solo era bella, ma buona e modesta ed assennata, quanto le sorelle erano superbe, caparbie e dispettose, e per di più sempre cariche d’invidia. Quando furono più grandi, andavano i mercanti più ricchi della città a chiederle per spose, ma Assunta e Carolina tutte sprezzanti li mandavano via dicendo: «Noi un mercante non lo sposeremo mai». Bellinda invece rispondeva con buone maniere: «Sposare io non pos so perché sono ancora troppo ragazza. Quando sarò più grande, se ne potrà riparlare». Ma dice il proverbio: finché ci sono denti in bocca, non si sa quel che ci tocca. Ecco che al padre successe di perdere un bastimento con tutte le sue mercanzie e in poco tempo andò in rovina. Di tante ricchezze che aveva, non gli rimase che una casetta in campagna, e se volle tirare a campare alla me glio, gli toccò d’andarcisi a ritirare con tutta la famiglia, e a lavorare la terra come un contadino. Figuratevi le boccacce che fecero le due figlie maggiori quando intesero che dovevano andare a far quella vita. «No, padre mio» dis sero, «alla vigna noi non ci veniamo; restiamo qui in città. Graziaddio, abbia mo dei gran signori che vogliono prenderci per spose». Ma sì, valli a rincorrere i signori! Quando sentirono che erano rimaste al verde, se la squagliarono tutti quanti. Anzi, andavano dicendo: «Gli sta be ne! Così impareranno come si sta al mondo. Abbasseranno un po’ la cresta». Però, quanto godevano a vedere Assunta e Carolina in miseria, tanto erano spiacenti per quella povera Bellinda, che non aveva mai arricciato il naso per nessuno. Anzi, due o tre giovinotti andarono a chiederla in sposa, bella com’era e senza un soldo. Ma lei non voleva saperne, perché il suo pensiero era d’aiutare il padre, e ora non poteva abbandonarlo. Infatti, alla vigna era lei ad alzarsi di buonora, a far le cose di casa, a preparare il pranzo alle sorelle e al padre. Le sorelle invece s’alzavano alle dieci e non muovevano un dito; an zi ce l’avevano sempre con lei, quella villana1, come la chiamavano, che s’era subito abituata a quella vita da cani.

Un giorno, al padre arriva una lettera che diceva che a Livorno era arriva to il suo bastimento che si credeva perso, con una parte del carico che s’era salvato. Le sorelle più grandi, già pensando che tra poco sarebbero tornate in 1 villana: da villano, contadino, viene a significare rozza, incivile.

I TAlO C Alv INO 61 città e sarebbe finita la miseria, quasi diventavano pazze dalla gioia. Il mer cante disse: «Io ora parto per Livorno per vedere di recuperare quel che mi spetta. Cosa volete che vi porti in regalo?». Dice l’Assunta: «Io voglio un bel vestito di seta color d’aria». E Carolina: «A me invece portatemene uno color di pesca». Bellinda invece stava zitta e non chiedeva niente. Il padre dovette do mandarle ancora, e lei disse: «Non è il momento di far tante spese. Portate mi una rosa, e sarò contenta». Le sorelle la presero in giro, ma lei non se ne curò.Ilpadre andò a Livorno, ma quando stava per metter le mani sopra alla sua mercanzia, saltarono fuori altri mercanti, a dimostrare che lui era inde bitato con loro e quindi quella roba non gli apparteneva. Dopo molte discus sioni, il povero vecchio restò con un pugno di mosche. Ma non voleva delude re le sue figlie, e con quei pochi quattrini che gli rimanevano comprò il vestito color aria per Assunta e il vestito color pesca per Carolina. Poi non gli era ri masto neanche un soldo e pensò che tanto la rosa per Bellinda era così poca cosa, che comprarla o no non cambiava nulla. Così, s’avviò verso la sua vigna. Cammina cammina, venne notte: s’ad dentrò in un bosco e perse la strada. Nevicava, tirava vento: una cosa da morire. Il mercante si ricoverò sotto un albero, aspettandosi da un momen to all’altro d’essere sbranato dai lupi, che già sentiva ululare da ogni parte. Mentre stava così, voltando gli occhi, scorse un lume lontano. S’avvicinò e vide un bel palazzo illuminato. Il mercante entrò. Non c’era anima viva; gira di qua, gira di là: nessuno. C’era un camino acceso: zuppo fradicio com’era, il mercante ci si scaldò, e pensava: “Adesso qualcheduno si farà avanti”. Ma aspetta, aspetta, non si faceva viva un’anima. Il mercante vide una tavola apparecchiata con ogni sorta di graziadidio, e si mise a mangiare. Poi prese il lume, passò in un’altra camera dov’era un bel letto ben rifatto, si spogliò e andò a dormire. Al mattino, svegliandosi, restò di stucco: sulla seggiola vicino al letto c’era un vestito nuovo nuovo. Si vestì, scese le scale e andò in giardino. Un bellis simo rosaio era fiorito, in mezzo ad una aiola. Il mercante si ricordò del de siderio di sua figlia Bellinda e pensò che ora poteva soddisfare anche quello. Scelse la rosa che gli pareva più bella e la strappò. In quel momento, dietro alla pianta si sentì un ruggito e un Mostro comparve tra le rose, così brut to che faceva incenerire solo a guardarlo. Esclamò: «Come ti permetti, dopo che t’ho alloggiato, nutrito, e vestito, di rubarmi le rose? La pagherai con la vita!».

Il povero mercante si buttò in ginocchio e gli disse che quel fiore era per sua figlia Bellinda che non desiderava altro che una rosa in dono. Quando il Mostro ebbe sentito la storia, si ammansì; e gli disse: «Se hai una figlia così, portamela, che io la voglio tenere con me, e starà come una regina. Ma se non me la mandi, perseguiterò te e la tua famiglia dovunque siate».

Al poveretto, più morto che vivo, non parve vero di dirgli di sì pur di an darsene, ma il Mostro lo fece ancora salire nel palazzo e scegliere tutte le

Bellinda, rimasta sola (il Mostro le aveva dato la buonanotte e se n’era subito andato) si spogliò e si mise a letto e dormì tranquilla per la conten tezza d’aver fatto una buona azione e salvato suo padre da chissà quali scia gure.

F IABE

Le sorelle grandi cominciarono subito a dire: «Ecco! Lo dicevamo, noi! Con le sue idee strane. La rosa, la rosa! Ora dovremo tutti pagarne le conse guenze».MaBellinda, senza scomporsi, disse al padre: «Il Mostro ha detto che se vado da lui non ci fa nulla? Allora, io ci andrò perché è meglio che mi sacrifi chi io piuttosto di patire tutti».

Al palazzo del Mostro arrivarono di sera e lo trovarono tutto illuminato. Salirono le scale: al primo piano c’era una tavola imbandita per due, zep pa di graziadidio. Fame non ne avevano molta, pure si sedettero a piluccar qualcosa. Finito ch’ebbero di mangiare, si sentì un gran ruggito, e apparve il Mostro. Bellinda restò senza parola: brutto fino a quel punto non se l’era proprio immaginato. Ma poi, piano piano, si fece coraggio, e quando il Mo stro le chiese se era venuta di sua spontanea volontà, franca franca gli ri spose di sì.

62 gioie, gli ori e i broccati che gli piacevano e ne riempì una cassa, che avrebbe pensato lui a mandargliela a casa.

La mattina dopo, dunque, padre e figlia all’alba si misero in strada. Ma prima, alzandosi per partire, il padre aveva trovato a piè del letto la cassa con tutte le ricchezze che aveva scelto al palazzo del Mostro. Senza dir nien te alle due figlie grandi, egli la nascose sotto il letto.

Il padre le disse che mai e poi mai ve l’avrebbe condotta, e anche le so relle – ma lo facevano apposta – le dicevano che era matta: ma Bellinda non sentiva più nulla: puntò i piedi e volle partire.

Il Mostro parve tutto contento. Si rivolse al padre, gli diede una valigia piena di monete d’oro e gli disse di lasciar subito il palazzo e di non metter vi più piede: avrebbe pensato lui a tutto quel che poteva servire alla fami glia. Il povero padre diede l’ultimo bacio alla figlia, come avesse avuto cento spine in cuore e se ne tornò a casa piangendo da commuovere anche i sassi.

Tornato che fu il mercante alla sua vigna, le figlie gli corsero incontro, le prime due con molte smorfie chiedendogli i regali, e Bellinda tutta contenta e premurosa. Lui diede uno dei vestiti ad Assunta, l’altro a Carolina, poi guar dò Bellinda e scoppiò in pianto, porgendole la rosa, e raccontò per filo e per segno la sua disgrazia.

La mattina, s’alzò serena e fiduciosa, e volle visitare il palazzo. Sulla por ta del suo appartamento c’era scritto: Appartamento di Bellinda. Sullo spor tello del guardaroba c’era scritto: Guardaroba di Bellinda. In ognuno dei be gli abiti c’era ricamato: Vestito di Bellinda. E dappertutto c’erano cartelli che dicevano:Laregina qui voi siete, Quello che volete avrete.

La sera, quando Bellinda si sedette a cena, si sentì il solito ruggito, e com parve il Mostro. «Permettete» le disse, «che vi faccia compagnia mentre ce nate?»Bellinda, garbata, gli rispose: «Siete voi il padrone». Ma lui protestò: «No, qui padrona siete solo voi. Tutto il palazzo e quel che ci sta dentro è roba vostra». Stette un po’ zitto, come sovrappensiero, poi chiese: «È vero che sono così brutto?». E Bellinda: «Brutto siete brutto, ma il cuore buono che avete vi fa quasi bello».Eallora lui, subito: «Bellinda, mi vorresti sposare?». Lei tremò da capo a piedi e non seppe cosa rispondere. Pensava: “Ora se gli dico di no, chissà come la prende!”. Poi si fece coraggio e rispose: «Se ho da dirvi la verità, di sposarvi non me la sento proprio». Il Mostro, senza far parola, le diede la buonanotte e se n’andò via sospi rando.Così avvenne che Bellinda restò tre mesi in quel palazzo. E tutte le sere il Mostro veniva a chiederle la stessa cosa, se lo voleva sposare, e poi se n’anda va via sospirando. Bellinda ci aveva tanto preso l’abitudine, che se una sera non l’avesse visto, se l’avrebbe avuta a male.

I TAlO C Alv INO 63

Bellinda passeggiava tutti i giorni nel giardino, e il Mostro le spiegava le virtù delle piante. C’era un albero fronzuto che era l’albero del pianto e del riso. «Quando ha le foglie diritte in su» le disse il Mostro, «in casa tua si ride; quando le ha pendenti in giù, in casa tua si piange».

Un giorno Bellinda vide che l’albero del pianto e del riso aveva tutte le fronde diritte con la punta in su. Domandò al Mostro: «Perché s’è così ringalluzzito?». E il Mostro: «Sta andando sposa tua sorella Assunta». «Non potrei andare ad assistere alle nozze?» chiese Bellinda. «Va’ pure» disse il Mostro. «Ma che entro otto giorni tu sia ritornata, se no mi troveresti bell’e morto. E questo è un anello che ti do: quando la pietra s’intorbida vuol dire che sto male e devi correre subito da me. Intanto prendi pure nel palazzo quel che più ti garba da portare in regalo di nozze, e metti tutto in un baule stasera a piè del letto».

Bellinda ringraziò, prese un baule e lo riempì di vestiti di seta, biancheria fine, gioie e monete d’oro. Lo mise a piè del letto e andò a dormire: e la mat tina si svegliò a casa di suo padre, col baule e tutto. Gli fecero una gran festa, anche le sorelle, ma quando seppero che lei era così contenta e ricca, e il Mo stro era tanto buono, ripresero a esser ròse dall’invidia, perché loro condu cevano una vita che, pur senza mancar di nulla per via dei regali del Mostro, tuttavia non poteva dirsi ricca, e l’Assunta sposava un semplice legnaiolo. Di spettose com’erano, riuscirono a portar via a Bellinda l’anello, con la scusa di tenerlo un po’ in dito, e glielo nascosero. La Bellinda cominciò a disperarsi, perché non poteva vedere la pietra dell’anello; e arrivato il settimo giorno tanto pianse e pregò, che il babbo ordinò alle sorelle di renderle subito l’a nello. Appena l’ebbe in mano, lei vide che la pietra non era più limpida come prima; e allora volle subito partire e tornare al palazzo.

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Tornò al palazzo ed era spento e buio, come fosse disabitato da cent’anni. Prese a chiamare il Mostro strillando e piangendo, ma nessuno rispondeva. Lo cercò dappertutto, e correva disperata per il giardino, quando lo vide steso sot to il rosaio che rantolava tra le spine. S’inginocchiò accanto a lui, sentì che an cora il cuore gli batteva, ma poco. Si buttò sopra di lui a baciarlo e a piangere e diceva: «Mostro, Mostro, se tu muori non c’è più bene per me! Oh, se tu vivessi, se tu vivessi ancora, ti sposerei subito per farti felice!».

Non aveva finito di dirlo, che d’un tratto si vide il palazzo tutto illuminato e da ogni finestra uscivano canti e suoni. Bellinda volse il capo sbalordita e quando tornò a guardare nel rosaio, il Mostro era sparito e in vece sua c’era un bel cavaliere che s’alzò di tra le rose, fece una riverenza e disse: «Grazie, Bellinda mia, m’hai liberato». E Bellinda restata di stucco: «Ma io voglio il Mostro» disse. Il cavaliere si gettò in ginocchio ai suoi piedi e le disse: «Eccolo il Mostro. Per un incantesimo, dovevo restare mostro finché una bella giovane non avesse promesso di sposarmi brutto com’ero».

All’ora di desinare il Mostro non comparve, e Bellinda era preoccupata e lo cercava e chiamava dappertutto. Lo vide solo a cena comparire con un’a ria un po’ patita. Disse: «Sai che sono stato male e se tardavi ancora m’avresti trovato morto? Non mi vuoi più niente bene?». «Sì che ve ne voglio» lei rispose. «E mi sposeresti?» «Ah, questo no» esclamò Bellinda. Passarono altri due mesi e si ripeté il fatto dell’albero del riso e del pian to con le foglie alzate perché si sposava la sorella Carolina. Anche stavolta Bellinda andò con l’anello e un baule di roba. Le sorelle l’accolsero con un risolino falso; e Assunta era diventata ancora più cattiva perché il marito le gnaiolo la bastonava tutti i giorni. Bellinda raccontò alle sorelle cosa aveva rischiato per essersi trattenuta troppo la volta prima e disse che stavolta non poteva fermarsi. Ma ancora le sorelle le trafugarono l’anello e quando glie lo ridiedero la pietra era tutta intorbidita. Tornò piena di paura e il Mostro non si vide né a pranzo né a cena; venne fuori la mattina dopo, con l’aria lan guente e le disse: «Sono stato lì lì per morire. Se tardi un’altra volta sarà la mia fine». Altri mesi passarono. Un giorno, le foglie dell’albero del pianto e del riso pendevano tutte giù come fossero secche. «Che c’è a casa mia?» gridò Bellin da.«C’è tuo padre che sta per morire» disse il Mostro. «Ah, fatemelo rivedere!» disse Bellinda. «Vi prometto che stavolta tornerò puntuale!» Il povero mercante, a rivedere la figlia minore al suo capezzale, dalla contentezza cominciò a star meglio. Bellinda l’assistette giorno e notte, ma una volta nel lavarsi le mani posò l’anello sul tavolino e non lo trovò più. Di sperata lo cercò dappertutto, supplicò le sorelle, e quando lo ritrovò la pie tra era nera, tranne un angolino.

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Bellinda diede la mano al giovane, che era un Re, e insieme andarono ver so il palazzo. Sulla porta c’era il padre di Bellinda che l’abbracciò, e le due sorelle.Lesorelle, dall’astio che avevano, restarono una da una parte una dall’al tra della porta e diventarono due statue. Il giovane Re sposò Bellinda e la fece Regina. E così felici vissero e regna rono. Montale Pistoiese

2. All’inizio viene citato questo proverbio: «finché ci sono denti in bocca, non si sa quel che ci tocca». Cosa significa?

7. Quali elementi magici scopre Bellinda grazie al Mostro? Come viene aiutata da questi oggetti?

8. Alla fine della fiaba, pur avendo davanti a sé un bel cavaliere, Bellinda dice: «Ma io voglio il Mostro». Cosa intende dire con queste parole? Perché dice di preferire un Mostro a un cavaliere? Cosa è accaduto in Bellinda?

3. Cosa succede improvvisamente al padre e alla famiglia? Come si collega il proverbio citato nel punto 2 a questo passaggio del testo?

Quali sono le differenze tra Bellinda e le sue sorelle Assunta e Carolina? Presenta tre passaggi del testo in cui si evidenziano queste differenze.

9. Ripercorri la fiaba e sottolinea i passaggi in cui viene descritto l’ambiente. In che senso i luoghi rispecchiano chi li abita?

5. Perché il padre, prima di tornare dal Mostro con Bellinda, nasconde la cassa con tutte le ricchezze «senza dir niente alle due figlie grandi»? Cosa ha capito il mercante riguardo alle sue figlie maggiori?

F IABE1.66

4. Dopo il racconto del mercante riguardo a Bellinda, il Mostro pronuncia queste parole: «Se hai una figlia così, portamela, che io la voglio tenere con me, e starà come una regina». Il Mostro decide che Bellinda è la donna giusta senza averla mai vista. Cosa intende dire con l’espressione «se hai una figlia così…»? Cosa ha colto della fanciulla il Mostro sentendo le parole del padre?

6. Rileggi con attenzione queste parole riferite all’animo di Bellinda nella prima sera al palazzo del Mostro: «Dormì tranquilla per la contentezza d’aver fatto una buona azione e salvato suo padre da chissà quali sciagure». Cosa capisci in più del personaggio di Bellinda leggendo queste righe?

“Non mi vuoi più niente bene?”. “Sì che ve ne voglio” lei rispose.

10. Vai a sottolineare e a rileggere nel testo i seguenti passaggi relativi allo sguardo di Bellinda nei confronti del Mostro, dalla prima volta in cui lo incontra fino alla conclusione: «Bellinda restò senza parola: brutto fino a quel punto non se l’era proprio “Bruttoimmaginato.siete brutto, ma il cuore buono che avete vi fa quasi bello”.

• cambiamento di Bellinda nei confronti del mostro. Scegli una di queste tematiche e scrivi il riassunto della fiaba seguendo una delle tre tracce seguenti.

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“Mostro, Mostro, se tu muori non c’è più bene per me! Oh, se tu vivessi, se tu vivessi ancora, ti sposerei subito per farti felice! […] Ma io voglio il Mostro”». Ora rispondi: come e perché cambia il giudizio di Bellinda nei confronti del Mostro?

• Riassumi la fiaba mettendo in evidenza le caratteristiche di Bellinda e delle sue sorelle.

• caratteristiche di Bellinda in confronto alle sorelle • rapporto fra ambientazione e personaggi

• Riassumi la fiaba mettendo in evidenza il legame fra ambientazione e personaggi.

• Riassumi la fiaba mettendo in evidenza il cambiamento di Bellinda nei confronti del Mostro.

11. Ti sarai accorto analizzando il testo che in esso sono presenti tre tematiche:

12. Ora scegli un’altra tematica e riscrivi il riassunto seguendo la traccia corrispondente.

F IABE68 ITALO CALVINO Il principe canarino C’era un Re e aveva una figlia. La madre di questa figlia era morta e la ma trigna era gelosa della figlia e parlava sempre male di lei al Re. La ragazza, a scolparsi, a disperarsi; ma la matrigna tanto disse e tanto fece che il Re, sebbene affezionato a sua figlia, finì per darla vinta alla Regina: e le disse di condurla pure via fuori di casa. Però doveva metterla in un posto dove stesse bene, perché non avrebbe mai permesso che fosse maltrattata. «Quanto a questo», disse la matrigna, «sta’ tranquillo, non ci pensare», e fece chiudere la ragazza in un castello in mezzo al bosco. Prese una squadra di dame di Corte, e gliele mise lì per compagnia, con la consegna che non la lasciassero uscire e neanche affacciarsi alle finestre. Naturalmente le pagava con sti pendi da Casa reale. Alla ragazza fu assegnata una stanza ben messa, e da mangiare e da bere tutto quello che voleva: solo che non poteva uscire. Le dame invece, ben pagate com’erano, con tanto tempo libero, se ne stavano per conto loro e non la badavano neppure. Il Re ogni tanto chiedeva alla moglie: «E nostra figlia, come sta? Che fa di bello?» e la Regina, per far vedere che se ne interessava, andò a farle visita. Al castello, appena scese di carrozza, le dame le corsero tutte incontro, a dirle che stesse tranquilla, che la ragazza stava tanto bene ed era tanto felice. La Regina salì un momento in camera della ragazza. «E così, stai bene, sì? Non ti manca niente, no? Hai buona cera, vedo, l’aria è buona. Stai allegra, neh! Tanti saluti!» e se ne andò. Al Re disse che non aveva mai visto sua figlia tan to contenta.Invecela Principessa, sempre sola in quella stanza, con le dame di com pagnia che non la guardavano neanche, passava le giornate tristemente af facciata alla finestra. Stava affacciata coi gomiti puntati al davanzale e le sa rebbe venuto un callo ai gomiti, se non avesse pensato di metterci sotto un cuscino. La finestra dava sul bosco e la Principessa per tutto il giorno non vedeva altro che le cime degli alberi, le nuvole e giù il sentiero dei cacciato ri. Su quel sentiero passò un giorno il figlio d’un Re. Inseguiva un cinghiale e passando vicino a quel castello che sapeva da chissà quanti anni disabi tato, si stupì vedendo segni di vita: panni stesi tra i merli, fumo dai camini, vetri aperti. Stava così guardando, quando scorse, a una finestra lassù, una bella ragazza affacciata, e le sorrise. Anche la ragazza vide il Principe, ve stito di giallo e con le uose1 da cacciatore e la spingarda2, che guardava in su e le sorrideva, e anche lei gli sorrise. Così restarono un’ora a guardarsi e a sorridersi, e anche a farsi inchini e riverenze, perché la distanza che li se parava non permetteva altre comunicazioni.

1 uose: specie di ghette, gambaletti che si calzano sopra le scarpe, di grossa tela. 2 spingarda: grosso fucile da caccia, a canna lunga.

L’indomani quel figlio di Re vestito di giallo, con la scusa d’andare a caccia, era di nuovo lì, e stettero a guardarsi per due ore; e questa volta oltre a sorrisi, inchini e riverenze, si misero anche una mano sul cuore e poi sventolarono a lungo i fazzoletti. Il terzo giorno il Principe si fermò tre ore e si mandaro no anche un bacio sulla punta delle dita. Il quarto giorno era lì come sempre, quando da dietro a un albero fece capolino una Masca1 e si mise a sghignaz zare: «Uah! Uah! Uah!». «Chi sei? Cos’hai da ridere?» disse vivamente il Principe. «Ho che non s’è mai visto due innamorati così stupidi da starsene tanto lontani!»«Sapessi come fare a raggiungerla, nonnina!» disse il Principe. «Mi siete simpatici», disse la Masca, «e vi aiuterò». E bussato alla porta del castello diede alle dame di compagnia un vecchio librone incartapecorito e bisunto, dicendo che era un suo regalo per la Principessa perché passasse il tempo leggendo. Le dame lo portarono alla ragazza che subito lo aprì e lesse: «Questo è un libro magico. Se volti le pagine nel senso giusto l’uomo diventa uccello e se volti le pagine all’incontrario l’uccello diventa uomo». La ragazza corse alla finestra, posò il libro sul davanzale e cominciò a vol tar le pagine in fretta in fretta e intanto guardava il giovane vestito di giallo, in piedi in mezzo al sentiero, ed ecco che da giovane vestito di giallo che era, muoveva le braccia, frullava le ali, ed era diventato un canarino; il canarino spiccava il volo ed ecco era già più in alto delle cime degli alberi, ecco che veniva verso di lei, e si posava sul cuscino del davanzale. La Principessa non resistette alla tentazione di prendere quel bel canarino nel palmo della mano e di baciarlo, poi si ricordò che era un giovane e si vergognò, poi se ne ricordò ancora e non si vergognò più, ma non vedeva l’ora di farlo tornare un giovane come prima. Riprese il libro, lo sfogliò facendo scorrere le pagine all’incon trario, ed ecco il canarino arruffava le piume gialle, frullava le ali, muoveva le braccia ed era di nuovo il giovane vestito di giallo con le uose da cacciatore che le si inginocchiava ai piedi, dicendole: «Io ti amo!».

I TAlO C Alv INO 69

Così ogni giorno il libro veniva sfogliato per far volare il Principe alla finestra in cima alla torre, risfogliato per rendergli forma umana, poi sfo gliato ancora per farlo volar via, e risfogliato perché tornasse a casa. I due giovani non erano mai stati così felici.

Quando s’ebbero detto tutto il loro amore, era già sera. La Principessa lentamente cominciò a girare le pagine del libro. Il giovane guardandola negli occhi ridiventò canarino, si posò sul davanzale, poi sulla gronda, poi s’affidò al vento e volò giù a grandi giri, andandosi a posare su un basso ramo d’albero. Allora ella voltò le pagine all’incontrario, il canarino tornò Principe, il Principe saltò a terra, fischiò ai cani, lanciò un bacio verso la fi nestra, e s’allontanò per il sentiero.

Un giorno, la Regina venne a trovare la figliastra. Fece un giro per la stan za, sempre dicendo: «Stai bene, sì? Ti vedo un po’ magrolina, ma non è nien 1 masca: fattucchiera.

Portato alla sua reggia, il Principe non accennava a guarire, e i dottori non sapevano portargli alcun sollievo. Le ferite non si chiudevano e continuavano a dolergli. Il Re suo padre mise bandi a tutti gli angoli delle strade, promet tendo tesori a chi sapesse il modo di guarirlo; ma non si trovava nessuno.

F IABE70 te, vero? Non sei stata mai così bene, no?». E intanto s’assicurava che tutto fosse al suo posto: aperse la finestra, guardò fuori, e giù nel sentiero vide il Principe vestito di giallo che s’avvicinava coi suoi cani. “Se questa smorfio sa crede di fare la civetta alla finestra, le darò una lezione”, pensò. Le chiese d’andare a preparare un bicchiere d’acqua e zucchero; poi in fretta si tolse cinque o sei spilloni dai capelli che aveva in testa e li piantò nel cuscino, in modo che restassero con la punta in su ma non si vedessero spuntare. “Co sì imparerà a starsene affacciata al davanzale!” La ragazza tornò con l’acqua e zucchero, e lei disse: «Uh, non ho più sete, bevitela tu, eh piccina! Io devo tornare da tuo padre. Hai bisogno di niente, no? Addio, allora», e se ne andò.

La Principessa spaventata, senza ancora rendersi ben conto di cos’era successo, girò velocemente i fogli all’incontrario sperando che a ridargli forma umana gli sarebbero scomparse le trafitture, ma, ahimè, il Princi pe riapparve grondante sangue da profonde ferite che gli squarciavano sul petto il vestito giallo, e così giaceva riverso attorniato dai suoi cani.

Appena la carrozza della Regina si fu allontanata, la ragazza girò in fret ta le pagine del libro, il Principe si trasformò in canarino, volò alla finestra e piombò come una freccia sul cuscino. Subito si levò un altissimo pigolio di dolore. Le piume gialle s’erano tinte di sangue, il canarino s’era conficcato gli spilloni nel petto. Si sollevò con un disperato annaspare d’ali, si affidò al vento, calò giù a incerti giri e si posò sul suolo ad ali aperte.

All’ululare dei cani sopraggiunsero gli altri cacciatori, lo soccorsero e lo portarono via su una lettiga di rami, senza nemmeno alzare gli occhi alla finestra della sua innamorata ancora atterrita di dolore e di spavento.

La Principessa intanto si struggeva di non poter raggiungere l’innamora to. Si mise a tagliare le lenzuola a strisce sottili e ad annodarle insieme in mo do da farne una fune lunga lunga, e con questa fune una notte calò giù dall’al tissima torre. Prese a camminare per il sentiero dei cacciatori. Ma tra il buio fitto e gli urli dei lupi, pensò che era meglio aspettare il mattino e trovata una vecchia quercia dal tronco cavo entrò e s’accoccolò là dentro, addormentan dosi subito, stanca morta com’era. Si svegliò mentre era ancora notte fonda: le pareva d’aver sentito un fischio. Tese l’orecchio e sentì un altro fischio, poi un terzo e un quarto. E vide quattro fiammelle di candela che s’avvicinavano. Erano quattro Masche, che venivano dalle quattro parti del mondo e s’erano date convegno sotto quell’albero. Da una spaccatura del tronco la Principes sa, non vista, spiava le quattro vecchie con le candele in mano, che si faceva no grandi feste e sghignazzavano: «Uah! Uah! Uah!». Accesero un falò ai piedi dell’albero e si sedettero a scaldarsi e a far arro stire un paio di pipistrelli per cena. Quand’ebbero ben mangiato, comincia rono a domandarsi cosa avevano visto di bello nel mondo. «Io ho visto il Sultano dei Turchi che s’è comprato venti mogli nuove».

I TAlO C Alv INO 71 «Io ho visto l’Imperatore dei Cinesi che s’è fatto crescere il codino di tre metri».«Ioho visto il Re dei Cannibali che s’è mangiato per sbaglio il Ciambellano». «Io ho visto il Re qui vicino che ha il figlio ammalato e nessuno sa il rime dio perché lo so solo io». «E qual è?» chiesero le altre Masche. «Nella sua stanza c’è una piastrella che balla, basta alzare la piastrella e si trova un’ampolla, nell’ampolla c’è un unguento che gli farebbe sparire tutte le ferite».LaPrincipessa da dentro all’albero stava per lanciare un grido di gio ia: dovette mordersi un dito per tacere. Le Masche ormai s’eran dette tutto quel che avevano da dirsi e presero ognuna per la sua strada. La Principes sa saltò fuori dall’albero, e alla luce dell’alba si mise in marcia verso la città. Alla prima bottega di rigattiere comprò una vecchia roba1 da dottore, e un paio d’occhiali, e andò a bussare al palazzo reale. I domestici, vedendo quel dottorino male in arnese non volevano lasciar lo entrare, ma il Re disse: «Tanto, male al mio povero figliolo non gliene può fare, perché peggio di come sta è impossibile. Fate provare anche a questo qui». Il finto medico chiese d’esser lasciato solo col malato e gli fu concesso.

Quando fu al capezzale dell’innamorato che gemeva privo di conoscenza nel suo letto, la Principessa voleva scoppiare in lagrime e coprirlo di baci, ma si trattenne, perché doveva in fretta seguire le prescrizioni della Masca. Si mi se a camminare in lungo e in largo nella stanza finché non trovò una piastrel la che ballava. La sollevò, e trovò un’ampollina piena d’unguento. Con questo unguento si mise a fregare le ferite del Principe, e bastava metterci sopra la mano unta d’unguento e la ferita spariva. Piena di contentezza, chiamò il Re, e il Re vide il figlio senza più ferite, col viso tornato colorito, che dormiva tran quillo.«Chiedetemi quel che volete, dottore», disse il Re, «tutte le ricchezze del tesoro dello Stato sono per voi». «Non voglio danari», disse il dottore, «datemi solo lo scudo del Principe con lo stemma della famiglia, la bandiera del Principe e il suo giubbetto gial lo, quello trafitto e insanguinato». E avuti questi tre oggetti se ne andò. Dopo tre giorni, il figlio del Re era di nuovo a caccia. Passò sotto il castello in mezzo al bosco ma non levò neppure gli occhi alla finestra della Principes sa. Lei prese subito il libro, lo sfogliò, e il Principe, sebbene tutto contrariato, fu obbligato a trasformarsi in canarino. Volò nella stanza e la Principessa lo fece ritrasformare in uomo. «Lasciami andare», disse lui, «non ti basta aver mi fatto trafiggere dai tuoi spilloni e avermi causato tante sofferenze?» Infatti il Principe aveva perso ogni amore per la ragazza, pensando che lei fosse la causa della sua disgrazia. La ragazza era lì lì per svenire. «Ma io t’ho salvato! Sono io che t’ho guarito!» 1 roba: veste.

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«Non è vero», disse il Principe. «Chi m’ha salvato è un medico forestiero, che non ha voluto altra ricompensa che il mio stemma, la mia bandiera e il mio giubbetto insanguinato!» «Ecco il tuo stemma, ecco la tua bandiera, ed ecco il tuo giubbetto! Ero io quel medico! Gli spilli erano una crudeltà della mia matrigna!»

Il Principe la guardò un momento negli occhi stupefatto. Mai gli era par sa così bella. Cadde ai suoi piedi chiedendole perdono, e dicendole tutta la sua gratitudine e il suo amore. La sera stessa disse a suo padre che voleva sposare la ragazza del castello nel bosco. «Tu devi sposar solo la figlia d’un Re o d’un Imperatore», disse il padre.«Sposo la donna che m’ha salvato la vita». E si prepararono le nozze, con l’invito per tutti i Re e le Regine dei dintor ni. Venne anche il Re padre della Principessa, senza saper nulla. Quando vide venir avanti la sposa: «Figlia mia!» esclamò. «Come?» disse il Re padron di casa. «La sposa di mio figlio è vostra figlia? E perché non ce l’ha detto?» «Perché», disse la sposa, «non mi considero più figlia d’un uomo che m’ha lasciato imprigionare dalla mia matrigna», e puntò l’indice contro la Regina. Il padre, a sentire tutte le disgrazie della figlia, fu preso dalla commozio ne per lei e dallo sdegno per la sua perfida moglie. E non aspettò nemmeno d’essere tornato a casa per farla arrestare. Così le nozze furono celebrate con soddisfazione e letizia di tutti, tranne che di quella sciagurata. Torino

1. Sottolinea i passaggi del testo che rivelano lo stato d’animo della principessa appena dopo essere stata imprigionata. Poi scegli un aggettivo per descrivere il suo stato d’animo iniziale e indicane la causa, completando l’enunciato: Inizialmente la principessa è … perché …

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7. Rileggi i seguenti passaggi tratti dal testo: «Nella sua stanza c’è una piastrella che balla, basta alzare la piastrella e si trova un’ampolla, nell’ampolla c’è un unguento che gli farebbe sparire tutte le ferite». «La Principessa da dentro all’albero stava per lanciare un grido di gioia: dovette mordersi un dito per tacere». 1 Vocabolario Treccani.

3. Perché la Masca decide di aiutare i due innamorati? Che cosa regala alla principessa? Come funziona questo elemento magico e come si rivela utile per i due protagonisti?

6. Quale sacrificio deve affrontare il principe per la sua amata?

2. Ora sottolinea le espressioni del testo che mostrano il cambiamento che avviene nella protagonista. Che cosa è accaduto? In che cosa consiste il cambiamento della fanciulla?

4. Leggi con attenzione il seguente passaggio, che descrive il primo incontro ravvicinato tra la ragazza e il principe canarino: «La Principessa non resistette alla tentazione di prendere quel bel canarino nel palmo della mano e di baciarlo, poi si ricordò che era un giovane e si vergognò, poi se ne ricordò ancora e non si vergognò più, ma non vedeva l’ora di farlo tornare un giovane come prima». Nel dizionario la parola tentazione viene definita come «impulso o stimolo, esterno o interno, a compiere qualche cosa che non si dovrebbe»1. Perché l’autore usa il termine tentazione? Perché la principessa non dovrebbe prendere il canarino e baciarlo? Perché, poi, si vergogna? E perché successivamente non si vergogna più?

5. Sottolinea e rileggi nel testo i passaggi in cui la matrigna parla con la principessa. Che cosa noti? Ti sembra un vero dialogo il loro? Rendi ragione della tua risposta.

10. Inventa un sottotitolo per il testo letto, che presenti il tema dominante della fiaba.

12. Riassumi la fiaba mettendoti nei panni non del narratore ma della principessa ed esplicitando il suo punto di vista sugli eventi narrati. Ricordati di usare la prima persona singolare e il tempo presente.

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9. Nella parte finale si dice che «il Principe, sebbene tutto contrariato, fu obbligato a trasformarsi in canarino». Che cosa significa il termine contrariato? Prova a scrivere una definizione di questa parola senza cercarla sul dizionario, ma cercando di capirne il significato dal contesto. Poi, vai sul dizionario a verificare e trascrivi sul quaderno la definizione che hai trovato. Ora rispondi: perché l’autore dice che in questa circostanza il principe è contrariato?

11. Costruisci il sommario con i titoli dei fatti essenziali della fiaba.

«Quando fu al capezzale dell’innamorato che gemeva privo di conoscenza nel suo letto, la Principessa voleva scoppiare in lagrime e coprirlo di baci, ma si trattenne, perché doveva in fretta seguire le prescrizioni della Masca».

Come si comporta in questi passaggi la principessa? Perché si comporta così? Scegli un nome astratto per indicare la caratteristica che dimostra di possedere la fanciulla in questa circostanza. Poi, vai sul dizionario a verificare che la tua ipotesi sia corretta: in questo caso, trascrivi sul tuo quaderno la definizione del termine da te scelto. Altrimenti, cerca un altro termine più adatto.

8. Quali prove deve affrontare la principessa per salvare il principe? Racconta. Adesso prova a immedesimarti con lei e rispondi: secondo te tra queste prove qual è la più difficile per lei? Perché?

I

Io mi chiamo Cetonia Dorata. Cerco le rose di terra lontana. Un giorno forse ti compenserò». E la cetonia volò via.

Piumadoro e Piombofino

Un giorno di primavera vide sui garofani della sua finestra una farfalla candida e la chiuse tra le dita. «Lasciami andare, per pietà!…» Piumadoro la lasciò andare. «Grazie, bella bambina; come ti chiami?» «Io«Piumadoro».michiamo Pieride del Biancospino. Vado a disporre i miei bruchi in terra lontana; un giorno forse ti ricompenserò». E la farfalla volò via. Un altro giorno Piumadoro ghermì, a mezzo il sentiero, un bel soffione niveo, trasportato dal vento, e già stava lacerandone la seta leggera. «Lasciami andare, per pietà!» Piumadoro lo lasciò andare. «Grazie, bella bambina. Come ti chiami?» «Grazie,«Piumadoro».Piumadoro.

Piumadoro era orfana e viveva col nonno nella capanna del bosco. Il nonno era carbonaio ed essa lo aiutava nel raccattar fascine e nel far carbone. La bimba cresceva buona, amata dalle amiche, dalle vecchiette degli altri ca solari, e bella, bella come una regina.

Io mi chiamo Achenio del Cardo; vado a deporre i miei semi in terra lontana. Un giorno forse ti compenserò». E il soffione volò via. Un altro giorno Piumadoro ghermì nel cuore d’una rosa uno scarabeo di smeraldo.«Lasciami andare, per pietà!…» Piumadoro lo lasciò andare. «Grazie, bella bambina. Come ti chiami?»  «Grazie,«Piumadoro».Piumadoro.

75 GUIDO GOZZANO

Restava pur sempre la bella bimba bionda e fiorente ma s’alleggeriva ogni giornoSullepiù.prime non se ne dette pensiero. La divertiva, anzi, l’abbandonarsi dai rami degli alberi altissimi e scender giù, lenta, lenta, lenta, come un fo glio di carta. E cantava: … Non altre adoro – che Piumadoro… Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. Ma col tempo divenne così leggera che il nonno dovette appenderle alla gonna quattro grosse pietre perché il vento non la portasse via. Poi nemme no le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa. «Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!»

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Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso.

II

E il vecchio sospirava. E Piumadoro s’annoiava, così rinchiusa. «Soffiami, nonno!» E il vecchio, per divertirla, la soffiava in alto per la stanza. Piumadoro sa liva e scendeva, lenta come una piuma. … Non altre adoro – che Piumadoro… Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. «Soffiami, nonno!» E il vecchio soffiava forte e Piumadoro saliva leggera fino alle travi del soffitto. Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. «Piumadoro, che cosa canti?» «Non son io; è una voce che canta in me». Piumadoro sentiva, infatti, ripetere le parole da una voce dolce e lontanis sima. E il vecchio soffiava e sospirava: «Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!…»

GuIDO GOzz ANO 77

III

Un mattino Piumadoro si svegliò più leggera e più annoiata del consueto. «Soffiami, nonno!» Ma il nonno non rispondeva. «Soffiami, nonno!»  Piumadoro s’avvicinò al letto del nonno. Il nonno era morto. Piumadoro pianse.Pianse tre giorni e tre notti… All’alba del quarto giorno volle chiamar gen te. Ma socchiuse appena l’uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, come una bolla di sapone… Piumadoro gettò un grido e chiuse gli occhi. Osò riaprirli a poco a poco; e guardare in giù, attraverso la sua gran ca pigliatura disciolta. Volava ad un’altezza vertiginosa. Sotto di lei passavano le campagne verdi, i fiumi d’argento, le foreste cu pe, le città, le torri, le abazie minuscole come giocattoli. Piumadoro, chiusi gli occhi per lo spavento, si avvolse, si adagiò nei suoi capelli immensi come nelle coltri del suo letto e si lasciò trasportare. «Piumadoro, coraggio!» Aprì gli occhi. Erano la farfalla, la cetonia ed il soffione. «Il vento ci porta con te, Piumadoro. Ti seguiremo e ti aiuteremo nel tuo destino».Piumadoro si sentì rinascere. «Grazie, amici miei». … Non altre adoro – che Piumadoro… Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. «Chi è che mi canta all’orecchio, da tanto tempo?» «Lo saprai verso sera, quando giungeremo dalla Fata della Fanciullezza». Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, tra sportati dal vento. IV Verso sera giunsero dalla Fata della Fanciullezza. Entrarono per la finestra aperta. La buona fata li accolse amorevolmente. Prese Piumadoro per mano, at traversarono stanze immense e corridoi senza fine, poi la fata tolse da un cofano d’oro uno specchio rotondo. «Guarda qui dentro». Piumadoro guardò. Vide un giardino meraviglioso, palmizi ed alberi tro picali e fiori mai più visti.

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E nel giardino un giovinetto vestito come un re e bello come un sole. E quel giovinetto stava su di un carro d’oro che cinquecento coppie di buoi trascinavano a fatica. E cantava: Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina.

«Quegli che vedi è Piombofino, il reuccio delle Isole Fortunate, ed è que gli che ti chiama da tanto tempo con la sua canzone. È vittima di una malia opposta alla tua. Cinquecento coppie di buoi lo trascinano a stento. Diventa sempre più pesante. Il malefizio sarà rotto nell’istante che vi darete il primo bacio».Lavisione disparve e la buona fata diede a Piumadoro tre chicchi di grano. «Prima di giungere alle Isole Fortunate il vento ti farà passare sopra tre castelli. In ogni castello ti apparirà una fata maligna che cercherà di attirarti con la minaccia o con la lusinga. Tu lascerai cadere ogni volta uno di questi chicchi». Piumadoro ringraziò la fata, uscì dalla finestra coi suoi compagni e ri prese il viaggio, trasportata dal vento… V Giunsero verso sera in vista del primo castello. Sulle torri apparve la Fata Variopinta e fece un cenno con le mani. Piumadoro si sentì attrarre da una forza misteriosa e cominciò a discendere lentamente. Le parve distinguere, nei giardini, volti di persone conosciute e sorridenti: le compagne e le vec chiette del bosco natío, il nonno che la salutava. Ma la cetonia le ricordò l’avvertimento della Fata della Fanciullezza e Piu madoro lasciò cadere un chicco di grano. Le persone sorridenti si cangiarono in demoni e in fattucchiere coronate di serpi sibilanti. Piumadoro si risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza. Viaggiarono due altri giorni. Giunsero verso sera in vista del secondo ca stello. Era un castello color di fiele1 striato di sanguigno. Sulle torri la Fata Verde si agitava furibonda. Una turba di persone livide accennava tra i mer li e dai cortili, Piumadorominacciosamente.cominciòadiscendere attratta dalla forza misteriosa. Ter rorizzata, lasciò cadere il secondo chicco. Appena il grano toccò terra, il castello si fece d’oro, la Fata e gli ospiti apparvero benigni e sorridenti salu tando Piumadoro con le mani protese. Questa si risollevò e riprese il cam mino trasportata dal vento; e capì che quello era il grano della Bontà. 1 fiele: liquido giallo e amarissimo prodotto dal fegato.

Viaggia, viaggia, giunsero due giorni dopo al terzo castello. Era un castello meraviglioso fatto d’oro e di pietre preziose. La Fata Azzurra apparve sulle torri, accennando benevolmente verso Piu madoro. Piumadoro si sentì attrarre dalla forza invisibile. Avvicinandosi a terra udiva un confuso clamore di risa, di canti, di musiche; distingueva nei giardini immensi gruppi di dame e di cavalieri scintillanti, intesi a banchetti, a balli, a giostre, a teatri.

Viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una di stesa azzurra ed infinita. Era il mare. Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali. Viaggiarono così sette giorni. All’alba dell’ottavo giorno apparvero sull’o rizzonte i minareti d’oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate. VI Nella Reggia si era disperati. Il reuccio Piombofino aveva sfondato col suo pe so la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. Biondo, con gli occhi azzurri, tutto vestito di velluto rosso, Piom bofino era bello come un dio, ma la malia si faceva ogni giorno più perversa. Ormai il peso del giovinetto era tale che tutti i buoi del regno non bastava no a smuoverlo d’un dito. Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiama ti inutilmente intorno all’erede incantato.

Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l’ammonimento della Fata della Fanciullezza, ed ella lasciò cadere, a malin cuore, il terzo chicco di grano; appena questo toccò terra, il castello si cangiò in una spelonca, la Fata Azzurra in una megera spaventosa e le dame e i cava lieri in poveri cenciosi e disperati che correvano piangendo tra sassi e roveti. Piumadoro, sollevandosi d’un balzo nell’aria, capì che quello era il Castello dei Desideri e che il chicco gettato era il grano della Saggezza. Proseguì la via, trasportata dal vento. La pieride, la cetonia ed il soffione la seguivano fedeli, chiamando a rac colta tutti i compagni che incontravano per via. Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine.

… Non altre adoro – che Piumadoro… Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. E Piombofino affondava sempre più, come un mortaio di bronzo nella sabbia del mare.

GuIDO GOzz ANO 79

Piombofino, ricevuto il primo bacio di lei, si riebbe come da un sogno e balzò in piedi libero e sfatato, tra le grida di gioia della Corte esultante. Furono imbandite feste mai più viste. E otto giorni dopo Piumadoro la car bonaia sposava il reuccio delle Isole Fortunate.

E Piombofino affondava sempre più. «Mastro Simone, che vedi?» «Nulla, Maestà… Una galea veneziana carica d’avorio». Il Re, la Regina, i ministri, le dame erano disperati. Piombofino emergeva ormai con la testa soltanto; e affondava cantando: Oh! BellaPiumadoro,bambina– sarai regina. S’udì a un tratto, la voce di mastro Simone: «Maestà!… Una stella cometa all’orizzonte! Una stella che splende in pieno meriggio». Tutti accorsero alla finestra, ma prima ancora la gran vetrata di fondo s’aprì per incanto e Piumadoro apparve col suo seguito alla Corte sbigottita. I soffioni le avevano tessuta una veste di velo, le farfalle l’avevano colora ta di gemme. Le diecimila cetonie, cambiate in diecimila paggetti vestiti di smeraldo, fecero ala alla giovinetta che entrò sorridendo, bella e maestosa come una dea.

«Nulla, Maestà. La Flotta Cristianissima che torna di Terra Santa». E Piombofino affondava sempre. «Mastro Simone! Che vedi?» «Nulla, Maestà. Uno stormo d’aironi migratori…»

Un mago aveva predetto che tutto era inutile, se l’aiuto non veniva dall’in crociarsi di certe stelle benigne. La Regina correva ogni momento alla finestra e consultava a voce alta gli astrologhi delle torri. «Mastro Simone! Che vedi, che vedi all’orizzonte?»

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5. Dove viene condotta Piumadoro dai suoi nuovi amici? Come viene accolta in questo luogo? Che cosa vede guardando dentro lo specchio?

2. Che cosa accade a Piumadoro all’età di quattordici anni? Come reagisce inizialmente di fronte a questa improvvisa trasformazione? Perché?

GuIDO GOzz ANO 81

8. Rileggi con attenzione il seguente passaggio tratto dal testo e riferito all’esperienza della protagonista presso il terzo castello: «Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l’ammonimento della Fata della Fanciullezza, ed ella lasciò cadere, a malincuore, il terzo chicco di grano». Ora rispondi: che cosa significa l’espressione a malincuore? Perché in queste righe viene detto che Piumadoro lascia cadere il chicco di grano a malincuore?

1. Quali personaggi incontra Piumadoro all’inizio della fiaba? Come si comporta con ognuno di loro? E loro che cosa le promettono?

3. Cerca sul dizionario e trascrivi sul quaderno il significato e l’etimologia del termine malefizio (se non trovi malefizio cerca maleficio). Ora rispondi: perché il mutamento avvenuto in Piumadoro, precedentemente percepito come positivo, poi viene definito malefizio?

4. Perché, dopo la morte del nonno, Piumadoro apre la porta di casa? Che cosa vuole fare? Di che cosa ha bisogno? Nelle righe successive come trova risposta a questo suo desiderio? Rintraccia nel testo e trascrivi sul quaderno un passaggio che sostenga la tua risposta all’ultima domanda.

7. Costruisci una tabella che presenti, per ogni tappa del viaggio di Piumadoro verso le Isole Fortunate, in che luogo giunge, chi incontra, che cosa le accade e che cosaLuogoimpara: Chi incontra Cosa accade Cosa impara I IIIIItappatappatappa

6. Di quale malefizio è vittima Piombofino?

Leggi la seguente affermazione di uno studioso, il quale elenca e spiega le tre finalità delle prove a cui sono sottoposti i protagonisti delle fiabe: «La prova è duplice, come sempre accade nelle fiabe: innanzitutto, deve svelare di cosa è fatta una persona; in secondo luogo, deve insegnare a quella persona a diventare quel che non è (coraggiosa, obbediente, misericordiosa, o generosa…). Tuttavia si scopre poi che la prova possiede una terza, ancora più importante funzione: sembra sempre essere finalizzata al bene di un altro. Non è una questione di semplici, inutili prove, tentazioni e sofferenze: in gioco c’è sempre il bene di qualcun altro»1. I tre scopi delle prove, enunciati nelle parole appena lette, vengono tutti raggiunti nella fiaba Piumadoro e Piombofino tramite l’esperienza della protagonista? Prova a spiegare, in un breve testo, come vengono raggiunti (se hai risposto “sì”) o perché non vengono raggiunti (se la tua risposta è “no”), facendo precisi riferimenti al testo per sostenere le tue affermazioni.

1 T. Howard, Narnia e oltre. I romanzi di C.S. Lewis, Marietti, Milano 2008, p. 43.

10. Riassumi il testo mettendo in luce ciò che Piumadoro ha scoperto e imparato nel corso del suo viaggio.

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9. Costruisci il sommario, dividendo la fiaba in tre grandi sequenze e dando un titolo a ognuna di esse.

E il Reuccio rideva e i cortigiani ridevano con lui. Passò una vecchia dai ca pelli candidi, dal naso enorme e paonazzo e il Reuccio cominciò a berteggiarla1: «Oh, comare Peperona! Oh, comare Peperona!…»

Tre giorni ancora e il Reuccio Sansonetto compiva diciott’anni, età che, se condo le leggi del regno, gli permetteva di togliere moglie. Egli stava ad una loggia del palazzo reale, raggiante ed impaziente di sposare Biancabella re ginetta di Pameria, con la quale era fidanzato fin dall’infanzia. Ingannava il tempo mangiando ciliege e scagliando i noccioli sui passanti, con una picco la fionda. I beffati alzavano il volto incollerito, ma l’inchinavano tosto, osse quiosi, appena riconosciuto il reale schernitore.

E come l’ebbe a tiro la colpì con un nocciolo sul naso. La vecchietta si grattò il naso dolente, si chinò tremante, raccolse, strinse il nocciolo tra il pollice e l’indice e lo rinviò all’erede del trono. Le grida sdegnate della Corte scagliarono cento guardie sulle tracce della strega Nasuta, ma quella aveva svoltato l’angolo della via, ed era scomparsa. Al tocco aspro del nocciolo il Reuccio Sansonetto vacillò, come preso da vertigini; poi cominciò a ridere, premendosi gli orecchi con le mani. I cortigiani lo guardarono sbigottiti ed inquieti: «Che cosa vi sentite?»

«Sento sento…»

E tutti lo credevano ammattito. 1 berteggiarla: prenderla in giro, schernirla. Derivato dal nome Berta che indicava una donna qualunque.

Il Reuccio Gamberino

«Sento… sento il tempo che va indietro! Il tempo che va indietro! Che cosa buffa! Ah, se provaste! Che cosa buffa!…»

I

83 GUIDO GOZZANO

La Corte lo credeva ammattito. Quando poi fece per muoversi e lo videro camminare a ritroso, tutti scoppiarono dalle risa. «Reuccio, che cosa è questo?»

E rideva, e per quanto tentasse di avanzare il piede non gli riusciva di fa re un passo innanzi, ed era costretto a retrocedere, come un gambero. Poi riprendeva a premersi gli occhi, come preso da vertigini. «Il tempo che va indietro! Che strano effetto, che cosa buffa, amici miei!…»

E i cortigiani ridevano ed egli rideva con loro…

E il Reuccio rideva, rideva senza poter rispondere. «Che cosa vi sentite?»

«È che non posso più andare avanti!…»

Ma non era ammattito. I più famosi medici del regno constatarono che il Reuccio ringiovaniva. Era una malattia nuova e inesplicabile, contro la quale la scienza non aveva rimedio. Il Reuccio ringiovaniva. Compì i diciassette, poi i sedici, poi quindici anni. Prese a decrescere di giorno in giorno, scom parvero i piccoli nascenti baffetti biondi. Il suo volto riacquistava un aspetto sempre più fanciullesco. Sansonetto era disperato. Le nozze di Biancabella di Pameria erano state contramandate, poi rotte del tutto. Il Re di Pameria aveva ritirato la mano della figlia. «Ragazzo mio, come volete ch’io vi conceda Biancabella? Fra qualche an no sarete un marito bambino, poi un marito lattante, poi nascerete; cioè mo rirete… scomparirete nel nulla…» Biancabella fu costretta dal padre a rendere il suo anello di nozze; ma congedandosi piangeva, e promise a Sansonetto eterna fedeltà. «Vi aspetterò finché sarete guarito di questa malattia. Tenete intanto l’a nello e portatelo in dito; esso vi stringerà più forte, quando la mia fedeltà sarà in pericolo…» III Sansonetto era disperato; correva a ritroso per le stanze e pei giardini reali, piangendo, strappandosi le chiome bionde. Bisognava rintracciare la vec chietta beffata, supplicarla di ritornarlo a diciott’anni, di risanarlo da quella malia. Il Re e la Regina avevano fatto un bando con mezzo il regno di premio per chi desse notizie della vecchietta che aveva incantato il figliuolo. Ma nes suno l’aveva più vista. Sansonetto andava sovente a caccia, per distrarre la sua malinconia. Ga loppava a ritroso, perché la malia gamberina s’appiccicava pure alla sua cavalcatura.Icontadini che vedevano passare, scomparire all’orizzonte quel cavalie re piumato, sul cavallo che galoppava all’indietro, si facevano il segno della croce temendo un’apparizione diabolica. Un giorno il Reuccio giunse in un bosco, e vide tra gli abeti centenari una casetta minuscola, con una sola porta e una sola finestra. E alla finestra ri conobbe il volto della vecchietta che lo guardava sorridendo. Sansonetto s’inginocchiò sulla soglia. «Ah! vecchina, vecchina! Restituitemi il giusto andazzo del tempo e del camminare!»«Bisognariportarmi il nocciolo di quel giorno…» «Se non è che questo, l’avrete…» Sansonetto ritornò a palazzo. Ma come ritrovare proprio il nocciolo di quattr’anni prima?… Pensò di prenderne uno qualunque, lo portò nel bosco, lo fece vedere sulla palma della mano. La vecchietta l’osservò dalla finestra.

F IABE84

II

«Figliuolo mio, non è quello! Quello porta incise intorno certe parole che so io…»IlReuccio capì che non era cosa d’inganno, ritornò a palazzo, prese com miato dal Re e dalla Regina e si pose in cammino, alla ricerca del nocciolo salvatore.Siricordava confusamente d’averlo visto rimbalzare nel rigagnolo della via. Seguì il rigagnolo fin dove questo metteva foce nel torrente. Ma innanzi a quelle spume turbinose si sentì prendere dallo sconforto. Una libellula passò, librandosi su di lui con bagliori di smeraldo. «Che c’è, bambino bello?» Lo chiamavano già bambino! Come ringiovaniva in fretta!… Sansonetto sospirò:«C’èche divento sempre più giovane!» «Poco male, ragazzo mio!» «Molto male! Fra qualche anno io tornerò bambino lattante, poi rinascerò, infine scomparirò del tutto. Mi può salvare soltanto il nocciolo della Fata Na suta. L’hai tu visto passare?» «Io no. Ma ne sentii parlare dai miei vecchi: un nocciolo strano, che porta va scritte intorno certe parole cabalistiche1… Ha preso la via del mare». Sansonetto si pose in cammino, seguì il torrente fino al fiume, il fiume fino al mare. Dinanzi a quell’azzurro infinito la speranza gli cadde dal cuore e si abbandonò sulla spiaggia. Piangeva e guardava le onde accartocciarsi ribollendo; e le lacrime gli cadevano nell’acqua, ad una ad una. «Che c’è, bambino bello?» Era un’asteria, una stella di mare che strisciava lentissima sulla spiag gia«C’èd’oro.che divento sempre più giovane». «Poco male, figliuolo mio!» «Molto male. Nascerò, scomparirò del tutto se non trovo il nocciolo della Fata«UnNasuta».nocciolo strano, inciso di parole che non ricordo… L’ho visto qualche anno fa. L’ha inghiottito un fenicottero mio amico. Se attendi, te lo mando qui…»IlReuccio attese tre giorni. Apparve il fenicottero bianco e roseo, sulle due gambe lunghissime. «Sì, ho inghiottito il nocciolo; ma poi emigrai nel mezzogiorno e lo rimisi nei giardini del gigante Marsilio, fra i monti della Soria… Il gigante è feroce ed invincibile; lo potrà vincere soltanto chi gli strapperà un capello verde tra i folti capelli rossi». 1 cabalistiche: misteriose, incomprensibili. Da cabala ‘arte di interpretazione del futuro per mezzo di numeri, lettere e segni’, che deriva dall’ebraico qabbālāh ‘legge tradizionale, tradizione’.

GuIDO GOzz ANO 85

«Il gigante non lascia passare nessuno nei suoi domini. Ogni giorno fa strage di cavalieri temerari che vogliono affrontarlo».

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E il Reuccio Sansonetto proseguiva la via. Giunse al regno del gigante Mar silio.A

picco sulla valle dominava il Castello dalle Cento Torri, si stendevano sotto i giardini immensi circondati da alte mura, e attorno biancheggiavano le ossa dei temerari che avevano sfidato il mostro.

Una delle porte immense si aprì e apparve il gigante seminudo e senza arme. Come vide il Reuccio sorrise di scherno.

«Lo affronterò anch’io e vincerò, se questa è la mia sorte».

Il Reuccio Sansonetto ebbe libero il passo nel regno di Marsilio. Cercò nei giardini, trovò il luogo indicato dal fenicottero. Ma in cinque anni il nocciolo era diventato un ciliegio altissimo, tutto ca rico di frutti rossi e lucenti come rubini. Sansonetto ne mangiò uno, poi un altro, e un altro ancora; e osservò i noccioli, e ogni nocciolo portava inciso attorno: “Grano dell’irriverenza”… Ad un tratto il Reuccio ebbe come una specie di vertigine e socchiuse gli occhi.Quando li riaprì si trovò dinanzi alla casetta della Fata Nasuta e la vec chietta gli sorrideva. Si guardò, si palpò, era ritornato come alla vigilia delle nozze, con la sua alta statura diciottenne e i piccoli nascenti baffetti biondi. Provò a dare qual che passo: era risanato della buffa andatura gamberina.

Sansonetto suonò il corno di sfida, invitando il gigante a battaglia.

Il Reuccio s’imbarcò su una galea di mercanti e giunse dopo sette setti mane in Soria. Ma quando chiedeva del gigante Marsilio, la gente lo guardava stupita, e impallidiva.

Questi si scagliava a ritroso volteggiando la sua spada affilata; tagliava ora un braccio, ora una mano, ora il naso, ora il mento del gigante, che si chinava tranquillo e raccattava il pezzo amputato rimettendolo a segno. Sansonetto mirava alla testa, spiccando salti sul suo cavallo focoso. Già due volte gliel’aveva fatta cadere, ma il mostro si chinava, la raccoglieva, la riap piccicava all’istante sulle spallacce robuste. Una terza volta il Reuccio gliela troncò, e appena in terra fu pronto a spingerla con le due mani sull’orlo d’un declivio, rotolandola a valle. Poi si mise a cercare in fretta il capello verde nella folta chioma rossa. Sentiva alle spalle il mostro decapitato che correva, bran colando qua e là; lo sentiva avvicinarsi, e cercava e non trovava il capello mi cidiale. Allora trasse la spada, rasò in pochi colpi la testaccia dalla fronte alla nuca; e il capello verde fu reciso con tutta la chioma. La testa impallidì, gli oc chi dettero un guizzo spaventoso, e il gigante, che brancolava all’intorno, cad de con tonfo sordo. Era morto. IV

GuIDO GOzz ANO 87

«Forse. Ma fa cuore, mettiti in armi e corri alla Corte. Dal canto mio t’aiuterò».Sansonetto s’armò di tutto punto e partì di gran galoppo. Sentiva l’anello stringergli, stringergli il dito sempre più… «Si sarà stancata di questa lunga attesa! Purché io arrivi in tempo ancora…» Giunse in Pameria e vide la capitale imbandierata e festante. Chiese per ché. «Da una settimana è aperto un torneo a Palazzo Reale. Il Re ha imposto alla figlia la scelta d’uno sposo. E cento cavalieri si contendono la mano di Biancabella. Ma v’è un cavaliere sconosciuto che li abbatte tutti; e si prevede che pel tramonto di quest’oggi avrà sbaragliato i rivali». Sansonetto accorse alla giostra e scese tra gli spettatori; il cavaliere mi sterioso, tutto rivestito di una corazza di acciaio chermisi1, stava sbalzando di sella l’ultimo avversario e già il popolo lo proclamava di diritto sposo di Biancabella.IlReuccio calò la visiera, e, fra lo stupore generale, scese in lizza; ed ec co che al primo colpo di Sansonetto l’invincibile campione chermisi dà un suono metallico e cupo e cade disteso. Fu scosso, rialzato, aperto. Era vuoto. Il cavaliere chermisi era una semplice corazza che la buona Fata Nasuta aveva animata d’uno spirito benigno e inviata alla giostra per sopprimere gli altri combattenti e dar modo al Reuccio di giungere in tempo. Il Reuccio Sansonetto alzò la visiera, e s’inchinò sugli arcioni, dinanzi alla loggia della sposa. Biancabella quasi venne meno dalla gioia improvvisa e il Re abbrac ciò come figliuolo il giovinetto risanato. Furono celebrate le nozze splendidissime. E i noccioli favolosi, seminati nei giardini reali, crebbero con gli anni e formarono un boschetto detto della “irriverenza”. 1 chermisi: color rosso vivo, dall’arabo qirmizī ‘rosso scarlatto’.

«Il tuo errore è espiato» disse la vecchietta; «conserva i noccioli del cilie gio salvatore, e seminali nei tuoi giardini». «Grazie, vecchietta mia!» Il Reuccio baciò la buona fata, ma sentiva l’anello donatogli da Bianca bella di Pameria stringergli il dito. «Ah! Fata mia, la fedeltà della mia sposa corre pericolo».

F IABE1.88

3. Per riferirsi alla trasformazione avvenuta nel Reuccio vengono impiegati sempre termini negativi, i quali hanno la stessa radice: malattia (derivato di malato, dal latino male habitus ‘che sta male’); malia (derivato del latino malus ‘cattivo’); e il Reuccio dice: molto male (dal latino male, derivato di malus Perché‘cattivo’)1.vengonousate queste parole per indicare ciò che gli è successo? Cosa ti fa capire in più l’etimologia di questi termini riguardo alla vicenda del protagonista? Perché il Reuccio è disperato?

5. Costruisci una tabella che presenti i tre personaggi incontrati dal protagonista e come egli viene aiutato da ciascuno di loro: Personaggio Come aiuta il Reuccio I IIIIIincontroincontroincontro

4. Fin da subito la vecchietta accoglie positivamente il Reuccio al suo arrivo («il volto della vecchietta lo guardava sorridendo») e gli dà una possibilità per guarire dal maleficio. Qual è la richiesta della Fata Nasuta?

Nella prima parte del testo sottolinea i passaggi che presentano il comportamento del Reuccio Sansonetto nei confronti degli altri. Poi, scegli un aggettivo che descriva il suo atteggiamento e motiva la tua scelta, completando la seguente frase: Il Reuccio mostra di essere …, infatti …

2. Chi è la strega Nasuta? Che cosa accade al Reuccio dopo l’incontro con lei?

6. Sui noccioli trovati da Sansonetto nel regno di Marsilio c’è scritto: Grano dell’irriverenza. Cerca sul dizionario e trascrivi sul quaderno il significato del sostantivo irriverenza e dell’aggettivo irriverente. Cosa c’entrano questi termini con le vicende narrate? 1 Vocabolario Treccani.

10. Inventa un sottotitolo per il testo letto, che presenti il tema dominante della fiaba. 11. Costruisci il sommario, dividendo la fiaba in sequenze e dando un titolo a ognuna di esse. 12. Riassumi il testo mettendo in evidenza come cambia il protagonista, anche grazie all’aiuto della Fata.

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7. Verso la fine della fiaba la Fata Nasuta sorride nuovamente al Reuccio Gamberino («la vecchietta gli sorrideva») e addirittura lo aiuta. Come lo aiuta? Perché lo fa?

9. Rileggi i seguenti passaggi tratti dalla fiaba:

8. Rileggi con attenzione questo passaggio del testo: «Era risanato dalla buffa andatura gamberina. “Il tuo errore è espiato” disse la vecchietta. […] “Grazie, vecchietta mia!”»

Cerca sul dizionario e trascrivi sul quaderno il significato del verbo espiare.

Perché la Fata usa questo verbo? Come questo passaggio ti aiuta a comprendere meglio la storia del Reuccio e le intenzioni della vecchietta? Quale cambiamento noti nel protagonista rileggendo le sue parole in queste righe?

• «E i noccioli favolosi, seminati nei giardini reali, crebbero con gli anni e formarono un boschetto detto della “irriverenza”». Perché la Fata Nasuta consegna al Reuccio Gamberino il compito di seminare i noccioli dell’irriverenza nei suoi giardini?

• «Conserva i noccioli del ciliegio salvatore, e seminali nei tuoi giardini».

Il Principe si sdegnò quasi, poi vedendo Nonsò supplicante, cedette alle sue preghiere e comperò la giumenta. Il mugnaio, consegnando la bestia a Nonsò, gli disse all’orecchio: «Vedete questi nodi nella criniera della cavalla? Ogni volta che ne sfarete uno, essa vi porterà sull’istante a cinquecento leghe lontano». Ritornarono a casa. Pochi giorni dopo il Principe venne invitato dal Re, e Nonsò fu ospite col suo signore nel palazzo reale. Una notte di plenilunio passeggiava nel par co, e vide appesa ad un albero una collana di diamanti che scintillava alla luna.«Prendiamola, dunque…» disse ad alta voce. «Guardati bene o te ne pentirai» fece una voce ignota e vicina. Si guardò intorno. Chi aveva parlato era la sua cavalla. Esitò un poco, ma poi si lasciò vincere dal desiderio e prese la collana.

F IABE90 GUIDO GOZZANO Nonsò

C’era una volta un Principe che ritornando dalla caccia vide nella polvere, sul margine della via, un bimbo di forse otto anni che dormiva tranquillo. Scese da cavallo, lo svegliò. «Che fai qui, piccolino?» «Non so», rispose quegli, fissandolo senza timidezza. «E tuo padre?» «Non so». «E tua madre?» «Non so». «Di dove sei?» «Non so». «Qual è il tuo nome?» «Non so». Preso il bimbo in groppa, il Principe lo portò al suo castello e lo consegnò alla servitù, perché ne avesse cura. E gli fu dato il nome di Nonsò. Quando ebbe vent’anni, il Principe lo prese per suo scudiero. Un giorno passando in città gli disse: «Sono contento di te e voglio regalarti un cavallo magnifico, per tuo uso particolare». Andarono alla fiera. Nonsò esaminava gli splendidi cavalli, ma nessuno gli piaceva, e se ne andarono senza aver nulla comperato. Passando dinanzi ad un mulino videro una vecchia giumenta quasi cieca, che girava la maci na. Nonsò guardò attentamente la bestia e disse: «Signore, quello è il destriero che mi abbisogna». «Tu «Signore,scherzi!»compratemelo e ne sarò felice».

Il Re aveva affidato a Nonsò la cura di alcuni suoi cavalli, e di notte egli il luminava la sua scuderia con la collana sfavillante. Gli altri staffieri, gelosi di lui, cominciarono ad insinuare che nella scuderia di Nonsò splendeva una luce sospetta, che egli si dava a stregonerie misteriose. Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fer maglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la principessa più sdegnosa del mondo. «Bisogna che tu mi conduca la principessa dalle Chiome Verdi» disse il Sovrano «o non c’è che la morte per te». Nonsò era disperato. Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra cri niera.«Conosco la causa del tuo dolore» gli disse la bestia fedele «è venuto il gior no del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa’ cuore e ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio». Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe. «Libera quel poveretto» gli consigliò la cavalla. Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa dall’acqua, disse: «Tu mi hai salvata la vita e il tuo beneficio non sarà dimenticato. Se tu ab bisognassi di me, chiamami e verrò». Poco dopo videro un uccello preso alla pania1. «Libera quel poveretto!» gli consigliò la giumenta. Nonsò ubbidì e l’uccello disse: «Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi». Giunsero dinanzi al castello della principessa. «Entra» disse la giumenta «e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose». Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, che egli prese per la principessa in E«Non«Principessa…»persona.soniolaprincipessa».l’accompagnòinun’altra sala dove l’attendeva una fanciulla più bella ancora.Equesta volta l’accompagnò in una sala attigua da un’altra compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all’altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi. Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice. 1 pania: sostanza vischiosa, trappola.

GuIDO GOzz ANO 91

F IABE92

E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimen to, e guardava la sua giumenta, accorato. «Ti ricordi» disse questa, «d’aver salvata la vita all’uccello impaniato? Chiamalo e t’aiuterà». Nonsò chiamò e l’uccello comparve. «Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata».

«Parlate, principessa, e ciò che vorrete sarà fatto».

«Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai».

Nonsò rimase soddisfatto.

E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino1, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla principessa. «Al presente» disse il Re «voi non avete piú motivo per ritardare le nozze».

«Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui…»

«Saltatele in groppa, principessa, ed essa danzerà con voi danze meravi gliose».LaBella, un poco esitante, ubbidì. Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re. «M’avete ingannata», gridava la principessa, «ma non mi do per vinta, e prima d’essere la sposa del Re vi farò piangere più d’una volta…»

Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l’anello, e quegli si mise in viag gio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve.«Ritroveremo l’anello, fatti cuore!» E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare, e l’anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d’un corallo.

«Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi!» Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all’istante. Ma la principessa chiese che le si portasse prima una forcella d’oro tem pestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello.

La principessa dovette acconsentire alle nozze.

Il giorno stabilito s’avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: 1 reattino: scricciolo, uccellino passeriforme.

1. Che cosa accade al bambino all’inizio della fiaba? Perché gli viene dato il nome Nonsò?

2. A un certo punto del racconto il Principe decide di regalare un cavallo a Nonsò. Come reagisce il Principe alla scelta del ragazzo? Dopo aver risposto, riporta sul quaderno le parole che mostrano la reazione del Principe. Perché reagisce così?

4. Rileggi il seguente passaggio, riferito al momento in cui Nonsò vede la collana:«“Prendiamola, dunque…” disse ad alta voce. “Guardati bene o te ne pentirai” […] Chi aveva parlato era la sua cavalla. Esitò un poco, ma poi si lasciò vincere dal desiderio e prese la collana». Trova un aggettivo per descrivere il comportamento della cavalla in questa circostanza e uno per Nonsò, completando le frasi seguenti e rendendo ragione della tua scelta: • La cavalla mostra di essere …, perché … • Nonsò mostra di essere …, perché … Ha fatto bene Nonsò a prendere la collana? Perché?

6. Come agisce Nonsò nei confronti del pesce e dell’uccello? E loro che cosa gli promettono? Rispondi alla prima domanda dopo aver letto con attenzione il significato e l’etimologia del termine beneficio, utilizzato dal pesce per descrivere l’azione del ragazzo:

3. Sottolinea in tutto il testo le espressioni che illustrano le caratteristiche della cavalla di Nonsò. Ora rispondi: quali sono le caratteristiche della cavalla? Quale potere magico possiede?

5. Che cosa succede a Nonsò dopo aver preso la collana? Che cosa gli dice la cavalla in questa situazione? Ricopia sul quaderno le sue parole.

GuIDO GOzz ANO 93 «Sono la figlia del Re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio padre e sarò la tua sposa». Nonsò e la principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né piú se n’ebbe novella

10. Inventa un sottotitolo per il testo letto, che presenti il tema dominante della fiaba. 11. Dividi il testo in sequenze. Sottolinea per ogni sequenza l’enunciato (anche solo soggetto + predicato) o gli enunciati più importanti (massimo tre). Riassumi ogni sequenza in una riga. Sottolinea per ogni sequenza le parole più importanti (massimo dieci). Riassumi ogni sequenza in cinque righe. Unifica i riassunti curando in modo appropriato il collegamento tra di essi.

7. Quali prove deve affrontare Nonsò dopo aver portato al Re la Bella dalle Chiome Verdi? Come riesce a superarle?

9. In che cosa consiste il vero cambiamento di Nonsò nel corso della fiaba? Motiva la tua risposta dopo aver riletto i seguenti passaggi tratti dalla fiaba «È venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio «Nonsòconsiglio».videun pesce prigioniero fra le alghe. “Libera quel poveretto” gli consigliò la cavalla. Nonsò ubbidì. […] Poco dopo videro un uccello preso alla pania. “Libera quel poveretto!” gli consigliò la giumenta. Nonsò ubbidì». e dopo esserti confrontato con le seguenti parole di uno studioso: «L’eroismo non ha nulla a che fare col sentirsi coraggiosi. […] Come è possibile che prove come queste vengano assegnate a persone come noi, dei codardi? L’importante è che queste vengono assegnate e la risposta ha a che fare con la semplice pratica dell’obbedienza»2.

8. Nella parte finale del testo, riferita alle nozze, si dice che «Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei Perchépresenti».lagente reagisce così alla vista di Nonsò e della sua cavalla? Come si conclude la fiaba?

1 Vocabolario Treccani. 2 T. Howard, Narnia e oltre. I romanzi di C.S. Lewis, Marietti, Milano 2008, p. 41.

F IABE94 beneficio: [dal latino beneficium, composto di bene, ‘bene’ e facere, ‘fare’] –qualsiasi atto o concessione con cui si fa del bene ad altra persona e le si giova materialmente o anche spiritualmente1.

Tutti lo ammiravano: «È bello come l’angelo che gira con il vento» osservò un consigliere comunale che desiderava farsi una reputazione come persona di buon gusto «con la sola differenza che non è altrettanto utile» soggiunse, per timore di essere giudicato poco pratico, quale in realtà non era.

«Perché non puoi essere come il Principe Felice?» chiese una madre as sennata al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. «Il Principe Feli ce non si sogna mai di piangere perché vuole qualcosa».

«Sono contento che al mondo vi sia almeno uno interamente felice» bron tolò un deluso guardando la bellissima statua. «Sembra proprio un angelo» dissero i bambini del collegio mentre usciva no dalla cattedrale con i loro mantelli rossi fiammanti e i lindi grembiulini. «Come fate a saperlo?» disse il maestro pedante1. «Non ne avete mai ve duti».«Sì che ne abbiamo veduti, in sogno» risposero i bambini, e il maestro pedante aggrottò severamente le ciglia perché non approvava che i bambini sognassero.Unanotte un rondinino sorvolò la città. I suoi amici erano partiti per l’Egit to già da sei settimane, ma lui era rimasto indietro perché s’era innamorato di una bellissima femminuccia della famiglia dei giunchi. L’aveva incontrata all’inizio della primavera mentre scendeva lungo il fiume dietro a una gros sa falena gialla e si sentì tanto attratto dal vitino sottile di lei, che si fermò a conversare.«Vuoiche ti ami?» chiese il rondinino al quale piaceva venire subito al so do, e la femminuccia gli fece un profondo inchino. Egli allora le svolazzò in torno e con le ali sfiorò l’acqua formando tanti anelli d’argento. Questa fu la sua corte e durò tutta l’estate. «È un amore ridicolo» garrivano le rondini. «Non ha denaro, poi ha troppi parenti». In verità il fiume era gremito di giunchi. Poi venne l’autunno e tutti presero il Quandovolo.sene furono andati il rondinino si sentì triste e incominciò a stan carsi della sua bella. «Non sa conversare» disse «poi temo che sia leggerina, perché scherza sempre con il vento». Infatti, ogni volta che il vento soffiava, essa faceva inchini più aggraziati che mai. «Riconosco che è casalinga» con 1 pedante: eccessivamente pignolo, che si preoccupa troppo dei dettagli perdendo di vista il senso complessivo. Dal latino pes, pedis, cioè colui che accompagnava a piedi gli scolari.

Alta sulla città, in cima a una colonna, s’ergeva la statua del Principe Feli ce. Era interamente ricoperta di foglioline d’oro puro, per occhi aveva due grandi zaffiri e sull’elsa della spada fiammeggiava un grosso rubino.

95 OSCAR WILDE Il Principe Felice

tinuò «ma siccome a me piace viaggiare, bisognerebbe che anche mia moglie avesse la stessa passione». Infine: «Vuoi venire con me?» le chiese, ma essa scrollò la testina: era trop po attaccata alla sua casa. «Ti sei presa gioco di me» le gridò. «Io parto per le Piramidi, addio» e pre se ilVolòvolo.tutto il giorno e la notte giunse in città. «Dove mi poserò?» disse. «Speriamo che la città abbia già provveduto». Poi vide la statua del principe sull’alta colonna. «Mi poserò lassù» disse, «è una bella posizione con tanta aria fresca» e si appollaiò tra i piedi del Principe Felice. «Ho una stanza tutta d’oro» disse tra sé guardandosi attorno, e si dispose a dormire; ma mentre stava per mettere il capino sotto l’ala una grossa goc cia gli cadde addosso. «Com’è strano!» disse. «Non c’è una nuvola, le stelle sono chiare e lucenti, eppure piove. Questo clima dell’Europa Settentrionale è veramente terribile. Alla mia amica la pioggia piaceva, ma solo perché era egoista».Poicadde un’altra goccia. «A che serve una statua se non può nemmeno riparare dalla pioggia?» dis se. «Bisogna che mi cerchi un buon camino», e decise di andarsene. Ma non aveva ancora spiegato le ali quando cadde una terza goccia: guardò in su e vide… Ah! Che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano colmi di lacrime, e lacrime scorreva no lungo le sue guance d’oro. La sua faccia era tanto bella al chiarore della luna che il rondinino s’impietosì. «Chi sei?» chiese. «Sono il Principe Felice». «E perché piangi allora?» domandò il rondinino. «Mi hai inzuppato». «Quando ero vivo e avevo un cuore» rispose la statua «non sapevo che co sa fossero le lacrime, perché abitavo nel palazzo di Sans-Souci1, dove il dolo re non può entrare. Di giorno giocavo nel giardino con i miei compagni e la sera conducevo le danze nel grande salone. II giardino era circondato da un muro altissimo e tutto era così bello intorno a me che mai mi curai di chiede re che cosa vi fosse oltre il muro. I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e lo ero veramente, se si può dire che il piacere sia felicità. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo quassù, così in alto che vedo tutte le miserie della mia città, e sebbene il mio cuore sia solo di stagno, non posso fare a meno di piangere».

F IABE96

«Ma come? Non è d’oro massiccio?» disse tra sé il rondinino, ma era trop po educato per fare considerazioni personali ad alta voce. «Lontano» continuò la statua con la voce sommessa e armoniosa «lonta no, in una stradicciola, c’è una misera casa. C’è una finestra aperta e dietro a quella finestra io vedo una donna seduta a un tavolo. Ha la faccia emaciata 1 Sans-Souci: in francese significa ‘senza preoccupazione’.

2 passiflore: piante rampicanti con fiori bianchi all’interno e verdi all’esterno, dette anche “fiori della passione” perché le loro forme richiamano la corona e i chiodi usati per la crocifissione di Cristo.

OsCAR W IlDE 97 e consunta1, le sue mani rosse e grossolane sono tutte punzecchiate perché fa la ricamatrice. Sta ricamando passiflore2 sull’abito di raso che la più bella damigella della Regina indosserà al prossimo ballo di corte. Nel letto, in un angolo della stanza, giace il suo bambino ammalato. Ha la febbre e va chie dendo arance. La sua mamma non ha nulla da dargli, se non acqua di fiume, e lui piange. Rondinotto, rondinotto, rondinino, non vorresti tu portarle il ru bino dell’elsa della mia spada? I miei piedi son legati a questo piedistallo e non mi posso muovere».

Sorvolò i marmorei angeli bianchi scolpiti in cima alla torre della catte drale; sorvolò un palazzo e udì il chiasso delle danze. Una bella ragazza uscì sul balcone con il suo innamorato. «Che cosa meravigliosa le stelle!» egli dis se «e che cosa meravigliosa è la potenza dell’amore!»

«Credo che i bambini non mi piacciano» rispose il rondinotto. «L’estate scorsa, quando abitavo sul fiume, i figli del mugnaio, due ragazzi maleducati, mi scagliavano sempre sassi. Naturalmente non mi colpivano mai perché noi rondini voliamo troppo bene, e per di più io appartengo a una famiglia famo sa per la sua agilità; nondimeno mi mancavano di rispetto». Ma il Principe Felice sembrava tanto triste che il rondinino s’impietosì e disse: «Fa freddo qui, ma stanotte mi fermerò e sarò tuo messaggero».

«Grazie rondinino» disse il Principe. Così il rondinotto staccò a colpi di becco il grande rubino dalla spada del Principe e si levò a volo sui tetti della città, portandolo con sé.

«Sono atteso in Egitto» rispose il rondinino. «I miei amici stanno ora svo lazzando lungo il Nilo, e ciarlano3 con i grossi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba regale. In una bara dipinta c’è il gran re. È avvolto in lini gialli e imbalsamato con aromi d’ogni genere. Intorno al collo porta una collana di giada verde pallido, e le sue mani sembrano foglie avvizzite».

«Rondinotto, rondinotto, rondinino» disse il Principe «vuoi rimanere con me una notte ancora ed essere il mio messaggero? Il ragazzo è assetato e la mamma è tanto triste».

«Voglio sperare che il mio vestito sarà pronto per il ballo di corte» ella rispo se: «Ho fatto ricamare le passiflore, ma le ricamatrici sono tanto indolenti!».

3 ciarlano: parlano. Si usa il verbo ciarlare per significare una conversione su argomenti di poca importanza. 4 smaniando: desiderando fortemente qualcosa che non poteva avere.

Sorvolò il fiume e vide le luci sugli alberi delle navi; il Ghetto, e vide gli ebrei intenti a trafficare tra di loro e a pesare monete su bilance di rame. Giunse infine alla misera casa e gettò uno sguardo all’interno. Il ragazzo si agitava nel letto, smaniando4; la madre s’era addormentata per la stanchez za. Con un saltello il rondinino fu dentro e depose il grosso rubino sul tavo 1 emaciata e consunta: magra e smunta, che porta i segni della stanchezza e della fame.

F IABE98 lo, accanto al ditale della donna. Poi volteggiò intorno al letto, facendo ven taglio delle ali per rinfrescare la fronte del ragazzo. «Come mi sento fresco» diss’egli, «devo cominciare a star meglio» e sprofondò in un delizioso sonno ristoratore.Ilrondinino ritornò dal Principe e gli raccontò quanto aveva fatto. «È stra no» disse «ma ora, nonostante il freddo, mi sento tutto caldo». «È perché hai fatto una buona azione» disse il Principe. E il rondinino cominciò a pensare, ma poi finì con l’addormentarsi. Quando pensava gli veniva sempre sonno. Allo spuntare del giorno il rondinino scese al fiume a fare un bagno. «Che strano fenomeno» disse il professore di ornitologia mentre l’uccelli no passava sul ponte. «Una rondine d’inverno» e scrisse una lunga lettera al giornale locale. Tutti ne parlarono tanto era zeppa di parole che non riusci vano a «Staseracapire!parto per l’Egitto» disse il rondinino, e la prospettiva lo mise di buon umore. Visitò tutti i monumenti della città e rimase a lungo appollaia to in cima al campanile. Ovunque andasse i passeri cinguettavano tra loro: «Che straniero distinto!» Perciò il rondinino si divertì un mondo. Quando si levò la luna ritornò dal Principe Felice. «Hai qualche commis sione per l’Egitto?» chiese «Parto ora». «Rondinotto, rondinotto, rondinino» disse il Principe «non vuoi rimanere con me ancora una notte?» «Sono atteso in Egitto» rispose il rondinino. «Domani i miei amici partono per la seconda cateratta. L’ippopotamo s’acquatta tra i giunchi, e il dio Mem none è assiso sopra una grande casa di granito. Tutta la notte osserva le stel le, e al primo luccicore della stella del mattino, prorompe in un grido di gioia e poi ammutolisce. A mezzogiorno leoni fulvi scendono a bere sulla riva del fiume. I loro occhi sono verdi come berilli1 e il ruggito è più forte del fragore della cateratta». «Rondinotto, rondinotto, rondinino» disse il Principe «in una soffitta lon tana vedo un giovane. È chino su di un tavolo coperto di carte, e al suo fianco, in un grosso bicchiere, vi sono delle violette avvizzite. I suoi capelli sono neri e ricciuti, le labbra rosse come una melagrana, e gli occhi grandi e sognanti. Vorrebbe finire una commedia per il direttore del teatro, ma è così infreddo lito che non può continuare a scrivere. Nel fornello non c’è fuoco e la fame l’ha«Staròstremato».conte ancora una notte» disse il rondinino che aveva buon cuore. «Vuoi che gli porti un altro rubino?» «Ahimé! Non ho più rubini! Gli occhi sono quanto mi è rimasto. Sono zaffi ri preziosi e furono portati dall’India mille anni fa. Staccane uno e portaglie lo. Potrà venderlo a un gioielliere e comprarsi la legna e finire così la comme dia».«Principe caro» disse il rondinino «non posso farlo» e si mise a piangere. 1 berilli: minerali cristallini che presentano due varietà: lo smeraldo e l’acquamarina.

«Starò con te ancora una notte, ma non mi sento di levarti l’occhio. Diven teresti«Rondinotto,cieco». rondinotto, rondinino, fa’ come ti dico» disse il Principe. Allora il rondinino staccò l’altro occhio e con quello nel becco sfrecciò via. Piombò sulla sigaraia e le lasciò cadere il gioiello nel palmo della mano. «Che bel pezzo di vetro» esclamò la bambina, e corse a casa ridendo. Il rondinino ritornò dal Principe e gli disse: «Ora che sei cieco rimarrò sempre con te». «No, rondinino» disse il povero Principe «devi andare in Egitto». «Resterò sempre con te» ripeté il rondinino, e si mise a dormire ai piedi delL’indomaniPrincipe. il rondinino trascorse tutto il giorno sulla spalla del Princi pe, narrandogli quanto aveva veduto nei paesi lontani. Gli raccontò dei ros si ibis1 che, posati in lunghe file lungo le rive del Nilo, pescano con il becco pesci dorati; della sfinge che abita nel deserto dal principio del mondo e sa tutto, dei mercanti che camminano lentamente al fianco dei loro cammelli 1 ibis: uccelli della stessa famiglia delle cicogne, erano sacri agli antichi Egizi.

«Comincio ad essere apprezzato» esclamò felice «questo viene da qualche grande ammiratore. Ora posso finire la commedia». Il giorno seguente il rondinino scese al porto. Si posò sull’albero di una grande nave, dove osservò i marinai che, servendosi di grosse corde, andava no scaricando grandi casse dalla stiva. «Tira! Su!» gridavano in coro, come le casse si alzavano. «Io vado in Egitto» gridò il rondinino, ma nessuno gli badò e quando si levò la luna, ritornò dal Principe Felice. «Sono venuto a dirti addio» esclamò. «Rondinotto, rondinotto, rondinino, non vuoi rimanere con me ancora una«Ènotte?»inverno» rispose il rondinino «e la neve gelata sarà qui tra poco. In Egit to sulle grandi palme il sole è caldo e i coccodrilli, sdraiati sulla melma, si guardano pigramente attorno. I miei compagni stanno costruendo il nido nel tempio di Baalbec e le colombelle rosa e bianche li stanno a osservare e tuba no. Principe caro, devo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai: in primavera ti porterò due bei gioielli in cambio di quelli che hai donato. Il rubino sarà più rosso della rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il mare». «Nella piazza qui sotto c’è una sigaraia. Ha perduto i cerini nel rigagnolo e sono diventati inservibili. La fanciulla è in lacrime perché, se non porterà a casa qualche soldo, suo padre la batterà. Non ha calze né scarpe, è a testa nu da. Stacca l’altro mio occhio e daglielo, così suo padre non la batterà».

«Rondinotto, rondinotto, rondinino» disse il Principe «fa quel che ti dico». Allora il rondinino staccò un occhio del Principe e volò via, verso la sof fitta dello studente. Fu abbastanza facile entrarvi, perché nel tetto c’era un buco. Vi sfrecciò dentro e si trovò nella stanza. Il giovane aveva la testa tra le mani e non udì il fruscio delle ali dell’uccellino, ma quando levò gli occhi trovò, accanto alle violette avvizzite, il bellissimo zaffiro.

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F IABE100 e tengono tra le mani collane d’ambra; del re delle montagne della luna, che è nero come l’ebano e venera un grosso cristallo; del grande serpente verde che dorme su una palma e viene nutrito con dolci di miele da venti sacerdoti; dei pigmei che navigano per i fiumi su grandi foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle. «Caro rondinino» disse il Principe «tu mi racconti cose meravigliose, ma più meravigliosa di tutto è la sofferenza degli uomini e delle donne. Non vi è mistero grande quanto quello della Miseria. Vola sulla mia città, o rondinino, e raccontami quanto vedi».

E baciò il Principe Felice sulle labbra e cadde ai suoi piedi stecchito. In quel momento, nell’interno della statua, si udì uno strano schianto, come se qualcosa si fosse rotto. Infatti il cuore di stagno del Principe si era spezzato in due. Era davvero un gelo spaventoso.

Il rondinino ritornò dal Principe a raccontargli quanto aveva veduto.

Il rondinino volò sulla città, e vide i ricchi che facevano baldoria nelle loro case, mentre i mendicanti sedevano alle loro porte. Volò su vicoli oscuri, e vi de le facce pallide dei bambini affamati, che guardavano indifferenti le stra de buie. Sotto l’arco di un ponte due bambini giacevano abbracciati cercando di riscaldarsi. «Quanta fame abbiamo!» dissero. «Non si può sdraiarsi qui!» disse il guardiano ed essi presero a vagare sotto la pioggia.

Il povero rondinino si sentiva gelare sempre di più, ma non voleva la sciare il Principe perché l’amava troppo. Raccoglieva le briciole davanti al la porta del fornaio quando questi non guardava, e cercava di mantenersi caldo sbattendo le ali.

«Sono ricoperto d’oro puro» disse il Principe «devi toglierlo foglia per foglia e darlo ai miei poveri; quando si è vivi si crede che l’oro possa rendere felici».

E il rondinino tolse l’oro puro foglia per foglia, finché il Principe Felice as sunse un aspetto assai triste e incolore. Foglia per foglia il rondinino portò ai poveri, e le loro facce divennero più rosse: ridevano e giocavano sulla strada. «Ora abbiamo pane» gridavano. Poi venne la neve e, dopo la neve, il gelo. Le strade sembravano nastri d’argento, tanto erano chiare e splendenti; lunghi ghiaccioli, simili a stiletti di cristallo, pendevano dalle grondaie delle case; la gente andava in giro im pellicciata, e i ragazzi portavano berretti rossi e pattinavano sul ghiaccio.

«Sono contento che finalmente tu vada in Egitto, rondinino» disse il Prin cipe. «Sei stato qui troppo a lungo, ma devi baciarmi sulle labbra perché io ti amo».«Non vado in Egitto», disse il rondinino «ma alla casa della morte. La mor te è la sorella del sonno, non è vero?»

Il mattino seguente di buon’ora, il Sindaco passeggiava nella piazza sotto stante con i suoi consiglieri. Passando davanti alla statua sollevò lo sguardo: «Povero me! Che aspetto sparuto ha il Principe Felice!» disse.

Ma infine capì che stava per morire. Raccolse le forze e volò ancora una volta sulla spalla del Principe. «Addio Principe caro» mormorò «mi permetti di baciarti la mano?»

«Sparuto per davvero!» esclamarono i consiglieri che si trovavano sempre d’accordo con il Sindaco, e salirono a guardarlo. «Il rubino è caduto dalla spada, gli occhi sono spariti, e non è più dorato» disse il Sindaco «in verità, è poco più di un mendicante». «Poco più di un mendicante» fecero eco i consiglieri. «E qui ai suoi piedi, c’è un uccello morto!» esclamò il Sindaco. «Dobbiamo emanare un’ordinanza perché non si permetta agli uccellini di venire quassù a morire». L’impiegato del municipio prese nota. E finì che la statua del Principe Felice fu rimossa. «Non è più bello, quin di non è più utile» disse il Professore di belle arti all’Università. Poi la statua venne fusa in una fornace e il Sindaco tenne una riunione per decidere che cosa si dovesse fare con il metallo. «Dobbiamo fare un’altra statua» disse «e sarà la statua di me stesso». «Di me, di me» dissero i consiglieri, e presero a litigare. L’ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando. «Com’è strano» disse il capo fonditore. «Lo stagno di questo cuore non vuole fondersi. Dobbiamo gettarlo via». E lo gettarono nel mucchio dei rifiuti dove giaceva anche l’uccellino morto. «Portami le due cose più preziose della città» disse Dio ad uno dei suoi an geli, e l’angelo gli portò il cuore di piombo e l’uccellino morto. «Hai scelto bene» disse Dio «perché questo uccellino continuerà a cantare nel mio grande giardino, in Paradiso, e il Principe Felice canterà le mie lodi nella città d’oro».

OsCAR W IlDE 101

4. Rileggi la parte riferita alle tre missioni che il rondinino compie per conto del Principe e completa la tabella: Missione ilall’inizioPerchérondinino si rifiuta di compiere la missione? Perché poi l’incarico?accetta Come cambia la statua dopo la missione? Come cambia il missione?doporondininola

Rileggi l’inizio del racconto fino al punto in cui compare per la prima volta il rondinino e completa la tabella: Personaggio attratto dal Principe Felice Cosa Comedice?sicomporta? Cosa rivela di sé attraverso le sue parole e il comportamento?suo

2. Rileggi la parte del racconto che presenta la storia del rondinino prima di incontrare la statua. Perché inizialmente non parte con i suoi amici? Perché poi, invece, decide di partire? Quali aggettivi useresti per descrivere il rondinino?

F IABE1.102

3. Rileggi il primo incontro tra il rondinino e il Principe Felice, sottolineando tutti i termini che esprimono lo stato d’animo del Principe. Quali sentimenti prova? Da che cosa vengono suscitati? Ora spiega questa domanda del rondinino, in modo particolare il significato della parola allora in questo contesto: «E perché piangi allora?».

9. Costruisci il sommario, dividendo la fiaba in sequenze e dando un titolo a ognuna di esse.

• «Tu mi racconti cose meravigliose, ma più meravigliosa di tutto è la sofferenza degli uomini e delle donne. Non vi è mistero grande quanto quello della Miseria».

• «I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e lo ero veramente, se si può dire che il piacere sia felicità».

5. Spiega come si sviluppa nel corso di tutto il racconto e in che cosa consiste il cambiamento del rondinino grazie all’incontro col Principe.

6. Rileggi queste tre affermazioni del Principe:

OsCAR W IlDE 103

• «Quando si è vivi si crede che l’oro possa rendere felici». Ora rispondi: qual è il significato di queste tre affermazioni? Qual è la concezione di felicità del Principe? Quando il Principe è veramente felice? Tu concordi con questa concezione di felicità? Perché? Tu quando sei felice?

8. Scrivi in una frase il significato del racconto Il Principe Felice.

10. Riassumi il racconto mettendo in luce lo speciale rapporto di amicizia che si instaura tra il rondinino e il Principe Felice.

7. Rileggi questa frase pronunciata alla fine dal Professore di belle arti riguardo al Principe: «Non è più bello, quindi non è più utile». Sei d’accordo con questa affermazione del Professore? Motiva la tua risposta.

ALEKSANDR NIKOLAEVIČ AFANASJEV

La principessa Senza Sorriso Cosa credi tu, com’è grande questo mondo! Ci vivono uomini ricchi e uomi ni poveri, e c’è posto per tutti, e tutti protegge e giudica il Signore. Vivono i ricchi, e fan festa; vivono i poverelli, e lavorano; a ciascuno la sua sorte! Nelle sale dello zar, negli appartamenti reali, si pavoneggiava la princi pessa che non rideva mai. Che vita faceva, che abbondanza, che lusso! C’era d’ogni cosa gran quantità, tutto quel che si può desiderare; ma lei non sorri deva mai, né rideva, come se nulla potesse far contento il suo cuore. A guardar quella figlia così triste lo zar suo padre s’amareggiava. A tutti apre i suoi saloni, a chiunque desideri esser suo ospite. «Che cerchino di ral legrare la principessa Senza Sorriso», dice. «Chi ci riuscirà l’avrà in moglie». Non appena ebbe detto questo, il popolo cominciò a ribollire ai cancelli reali! Da ogni parte vengono e vanno figli di zar e di re, boiari1 e nobili, militari e borghesi; cominciarono i banchetti, il vino scorreva: ma la principessa segui tava a non Nell’altrosorridere!estremo del paese, viveva nel suo angolino un onesto lavoran te; al mattino scopava il cortile, la sera pascolava il bestiame, era in continuo movimento. Il suo padrone era un uomo ricco, leale, che non gli lesinava il pagamento. Non appena ebbe finito l’anno, mise sul tavolo un sacchetto di denaro: «Prendi quel che vuoi!» dice, e uscì dalla porta. Il lavorante s’avvi cina al tavolo e pensa: “Come fare per non peccare di fronte a Dio, come sa pere quel che mi spetta?”. Scelse una monetina, la mise nel portamonete e pensò di bere un po’ d’acqua; si sporse sul pozzo e la monetina rotolò e andò a fondo.Ilpoveretto restò senza niente. Un altro al suo posto avrebbe pianto, si sa rebbe afflitto e dalla rabbia non avrebbe più lavorato, ma lui no: «Tutto pro viene da Dio» dice, «il Signore sa a chi e cosa dare: a chi dispensa soldi, e a chi toglie gli ultimi. Si vede che sono stato poco diligente, che ho lavorato poco; adesso sarò più scrupoloso!». E di nuovo si rimise al lavoro; ogni cosa tra le sue mani ardeva come una fiamma! Finito il termine – era passato ancora un anno – il padrone mette sul tavolo un sacchetto di denaro: «Prendi quel che ti pare!» dice, ed esce dalla porta. Di nuovo il lavorante pensa come non incor rere nel corruccio del Signore, come non prender più del necessario; prese una monetina, andò a bere e quella gli sfuggì inavvertitamente dalle mani, cadde nel pozzo e affondò. Con maggior zelo si rimise al lavoro; la notte non dormiva, di giorno non mangiava. Guardi attorno: da chi il grano si seccava, da chi ingialliva, ma dal suo padrone era sempre più verdeggiante; il bestia me degli altri aveva le zampe storte e il suo saltellava per la strada; i cavalli 1 boiari: titolo nobiliare russo dato a capi militari e proprietari terrieri (dal russo bojar ‘aristocratico’).

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AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 105 altrui si trascinavano a stento anche in discesa, i suoi non si riusciva a tener li. Il padrone capiva a chi doveva esser grato, a chi doveva dir grazie. Finito il termine – era passato il terzo anno – mise sul tavolo un ponticello di denari: «Prendi quel che vuoi, mio caro lavorante; tuo è il lavoro e tuoi i soldi!». E se ne uscì.Illavorante prende di nuovo una monetina, va al pozzo a bere un po’ d’ac qua, guarda: l’ultima moneta è salva, e le due di prima galleggiano alla su perficie. Le raccolse, indovinò che Dio lo ricompensava per il suo lavoro; si rallegra e pensa: “È ora ch’io vada a vedermi il mondo, a conoscer la gente!”. Pensò, e andò dove gambe lo portavano. Va su un campo, corre un topo: «La voratore, caro compare! Dammi una monetina, verrà il momento che avrai bisogno di me!». Gli diede una moneta. Va per il bosco, ecco uno scarabeo: «Lavoratore, caro compare! Dammi una monetina, verrà il momento che ti compenserò!». Gli diede una moneta. Rema su un fiume, incontra un pesce siluro: «Lavoratore, caro compare! Dammi una monetina; verrà il momento che ti farò comodo!». Non la rifiutò neppure a lui, gli diede l’ultima. Giunse in una città; quanta gente! Quante porte! Il lavorante guarda attor no, si gira da ogni lato: non sa dove andare. C’è dinanzi a lui il palazzo dello zar, tutto adorno d’argento e d’oro; la principessa Senza Sorriso sta alla fi nestra e guarda fisso, proprio lui. Dove ficcarsi? I suoi occhi si velarono, un sonno profondo scese su di lui ed egli cadde dritto in mezzo al fango. Ed ecco comparire all’improvviso il pesce siluro dal muso duro, lo scarabeo babbeo, il topolino di pel cortino; corrono tutti insieme. Gli fanno grandi inchini, rive renze e sorrisini: il topo il vestito gli aggiusta, lo scarabeo le scarpe gli lustra, il siluro acchiappa una mosca. La principessa Senza Sorriso guarda i loro servizietti, e scoppia a ridere. «Chi, chi ha messo di buon umore mia figlia?» domanda lo zar. Questo dice: «Io!». L’altro dice: «Io!». «No», disse la principes sa Senza Sorriso, «è stato quell’uomo!» e indicò il lavorante. Subito lo porta rono alla reggia e sotto gli occhi del sovrano il lavorante si tramutò in un bel lissimo giovane! Lo zar tenne la sua parola di zar; quel che aveva promesso mantenne. Dico io: non sarà tutto un sogno del lavorante? M’assicurano di no, che è la pura verità; allora bisogna crederci.

3. Scegli tre aggettivi per definire le caratteristiche della principessa. Per ognuno di essi, motiva la tua scelta mettendo in relazione queste caratteristiche con gli avvenimenti della narrazione in cui esse si mostrano, completando, per tre volte, la seguente frase: La principessa è …, infatti …

4. Scegli tre aggettivi per definire le caratteristiche del lavorante. Per ognuno di essi, motiva la tua scelta mettendo in relazione queste caratteristiche con gli avvenimenti della narrazione in cui esse si mostrano, completando, per tre volte, la seguente frase: Il lavorante è …, infatti …

5. Rileggi con attenzione l’introduzione: «Cosa credi tu, com’è grande questo mondo! Ci vivono uomini ricchi e uomini poveri, e c’è posto per tutti, e tutti protegge e giudica il Signore. Vivono i ricchi, e fan festa; vivono i poverelli, e lavorano; a ciascuno la sua sorte!» Rifletti sulla prima frase: a chi si rivolge il narratore? Perché? Come si collega questa introduzione con la storia raccontata nella fiaba? Cosa significa, rispetto a quanto narrato, che «tutti protegge e giudica il Signore»?

6. Rileggi con attenzione la parte in cui viene presentata la principessa per la prima volta: «Nelle sale dello zar, negli appartamenti reali, si pavoneggiava la principessa che non rideva mai. Che vita faceva, che abbondanza, che lusso! C’era d’ogni cosa gran quantità, tutto quel che si può desiderare; ma lei non sorrideva mai, né rideva, come se nulla potesse far contento il suo cuore». Perché viene utilizzata la congiunzione ma? Spiega con precisione qual è il suo valore in questo contesto.

2. Sottolinea le frasi e le espressioni che rivelano la personalità del lavorante.

F IABE1.106Sottolinea

le frasi e le espressioni che rivelano la personalità della principessa.

7. Rileggi il passaggio in cui viene raccontato l’incontro tra la principessa e il«Illavorante:lavorante guarda attorno, si gira da ogni lato: non sa dove andare. C’è dinanzi a lui il palazzo dello zar, tutto adorno d’argento e d’oro; la principessa Senza Sorriso sta alla finestra e guarda fisso, proprio lui. Dove ficcarsi? I suoi occhi si velarono, un sonno profondo scese su di lui ed egli cadde dritto in mezzo al fango». Cosa accade al lavorante in questo episodio? Spiega il significato e la funzione del termine proprio in questo contesto. Perché il lavorante si chiede dove ficcarsi? Come interpreti il fatto che davanti a questo spettacolo lui si addormenti?

8. A differenza di quanto accade in altre fiabe, al lavorante nessuno impone di sostenere una prova per ottenere un premio. Eppure il premio lo ottiene lo stesso. In che modo?

9. Perché alla fine il lavorante viene trasformato in un bellissimo giovane? In fondo non era necessaria questa trasformazione, visto che la principessa lo aveva già riconosciuto come il suo salvatore…. Che cosa pensi riguardo a questa affermazione? Rendi ragione della tua risposta, provando a spiegare le motivazioni per le quali lo scrittore ha deciso di inserire questa trasformazione.

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 107

10. Inventa un nuovo titolo per la fiaba che ne condensi il significato in una frase. 11. Riassumi la fiaba mettendo in luce le caratteristiche dei due personaggi principali.

C’era una volta un vecchio e una vecchia, che avevano tre figlie. Alla più gran de la vecchia non voleva bene (era una figliastra), e spesso la sgridava, la sve gliava al mattino presto e la caricava di tutto il lavoro. La bambina accudiva il bestiame, portava nell’isba1 l’acqua e la legna, accendeva la stufa, faceva i vestiti, scopava la casa e metteva tutto in ordine sin dall’alba; ma neanche così la vecchia era contenta, e gridava a Martina: «Che pigrona, che disor dinata! La scopa non l’hai neppur toccata, eppure non costa tanto, guarda com’è sporca l’isba!». La ragazza taceva e piangeva; essa si sforzava di ac contentare la matrigna quanto meglio poteva, e di servire le sue figlie; ma le sorelle, vedendo come faceva la matrigna, l’offendevano in tutto, litigando con lei finché non si metteva a piangere: era proprio quello che loro volevano! Loro s’alzavano tardi, si lavavano con l’acqua già pronta, s’asciugavano con asciugamani candidi, e si sedevano a lavorare dopo mangiato.

Ecco che le nostre ragazzette cominciarono a crescere, si fecero grandi e divennero ragazze da marito. Si fa presto a raccontarlo, non così presto a farlo. Il padre aveva pietà della figlia più grande; le voleva bene perché era ubbidiente, lavoratrice, non era testarda, faceva quel che c’era da fare e non contraddiceva neppure con una parola; ma il vecchio non sapeva come al leviare le pene della ragazza. Lui era debole, la moglie litigiosa, e le figlie di lei pigre e caparbie. Ed ecco che i nostri vecchi cominciarono a ruminar pensieri: il vecchio pensava come accasare le figlie; mentre la vecchia pensava come liberarsi della più grande. E una volta la vecchia disse al marito: «Suvvia vecchio! Bi sogna maritare Martina». «Bene», dice il marito, e intanto s’arrampica pian piano sulla stufa; e la vecchia alle calcagna: «Senti vecchio, domani alzati più presto, lega la cavalla al traino e parti con Martina; e tu Martina, raccogli la tua robetta in una scatola, e mettiti una camicia pulita: domani devi anda re a far visite!». La buona Martina fu tutta contenta di quella fortuna che le capitava, d’esser portata a far visite l’indomani; tutta la notte dormì dolce mente; al mattino presto s’alzò, si lavò, disse le preghiere, raccolse tutta la sua roba, la ripose per benino, si vestì, ed era così bella… una vera fidanzata! Tutto questo accadeva d’inverno, e fuori c’era un gelo da spaccare le pietre. Al mattino, tra il lusco e il brusco2, il vecchio legò la cavalla al traino e lo portò avanti alla porta; entrò nell’isba, sedette sulla cassapanca e disse: «Tutto è pronto». «Venite a tavola, e mettete qualcosa sotto i denti!» disse la 1 isba: in russo izba, tipica abitazione di campagna costruita con tavole e tronchi 2d’albero. tra il lusco e il brusco: quando la luce è incerta, nell’indeciso chiarore del crepuscolo.

F IABE108 ALEKSANDR NIKOLAEVIČ AFANASJEV Il gelo

Tacendo il vecchio mise su il bagaglio, ordinò alla figlia di indossare il pel licciotto, e si pose in cammino: camminò tanto, camminò poco? Non so; si fa presto a raccontarlo, non così presto a farlo. Finalmente arrivò al bosco, la sciò la strada e si spinse dritto nella neve, sulla crosta indurita; arrivato nel folto si fermò, e ordinò alla figlia di scendere, mise lui stesso la scatola sotto un enorme abete e disse: «Siedi e aspetta il fidanzato; ma bada, sii garbata con lui». Poi voltò il cavallo e andò a casa. La ragazza siede tutta tremante, il freddo comincia a invaderla. Avrebbe voluto piangere, ma le mancava la forza: solo i denti battevano. D’improvvi so sente non lontano da lei Gelo che scricchiola sugli abeti; saltava dall’uno all’altro, faceva certi schiocchi! Comparve anche sull’abete sotto cui sedeva la ragazza, e dall’alto le dice: «È tiepido, ragazza?». «Tiepido, tiepido, mio caro Gelo!» Gelo cominciò a scendere lungo il tronco, scricchiolando e schioccan do sempre più. E chiede alla ragazza: «È caldo, ragazza mia? È caldo, bella?». La ragazza può appena tirare il fiato, ma dice: «È caldo, Gelo! È caldo, caro!». Gelo scricchiolò ancor peggio, schioccò più forte ancora, e disse: «Hai caldo, ragazza? Hai caldo, bella? Hai caldo, zampino mio?». La ragazza si sentì di ventar di ghiaccio; la sua voce s’udiva appena quando disse: «Oh com’è caldo, Gelo mio caro!». A questo punto Gelo ebbe pietà di lei, l’avvolse fra pellicce, la riscaldò con coperte. Al mattino la vecchia dice al marito: «Va’ vecchia barba, e sii coraggio so!». Il vecchio legò il cavallo e andò. Avvicinatosi alla figlia la trovò viva; ave va indosso una bella pelliccia e un prezioso velo da sposa, e inoltre una sca tola di ricchi regali. Senza dire una parola il vecchio depose tutto sul traino, sedette con la figlia e andò a casa. Arrivarono e la ragazza si gettò ai piedi del la matrigna. La vecchia rimase sbalordita al vedere la ragazza viva, la pellic cia nuova e la scatola di biancheria. «Eh, cagna, a me non m’inganni!» Ed ecco, la vecchia lasciò passare un po’ di tempo e poi disse al vecchio: «Porta un po’ anche le mie figlie dallo sposo; egli non ha ancora presentato loro i regali!». Ci vuol del tempo a fare, si fa presto a raccontare. Ecco che una mattina all’alba la vecchia diede da mangiare alle sue figlie, le adornò come si deve col velo e la corona, e le mise in viaggio. Il vecchio seguì la stessa strada e lasciò le ragazze sotto l’abete. Le nostre ragazzette si metton sedute e rido no: «Cosa è saltato in mente a nostra madre, di maritarci tutte due insieme?

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 109 vecchia. Il vecchio sedé a tavola e si mise la figlia accanto. Il cesto del pane era sulla tavola, lui tirò fuori una pagnotta tonda tonda e ne tagliò per sé e per la figlia. Intanto la vecchia, scodellato un piatto di minestra di cavoli per il marito, disse: «Mio caro, mangia e vattene, ne ho abbastanza di starti a guar dare!

Vecchio, porterai Martina dallo sposo; bada barbone, va’ dritto per la strada, poi volta a destra verso il bosco, sai dove, là dove c’è quel vecchio pino che sta sul ponticello, e lì darai Martina a Gelo». Il vecchio spalancò gli occhi, aprì la bocca e smise di mangiare; la ragazza si mise a gemere. «Cosa stai a piagnucolare! Forse che lo sposo non è bello e ricco? Guarda quanti beni pos siede: tutti gli abeti, i pini, e le betulle ben adorne; farai una vita invidiabile, e lo sposo è un eroe!»

F IABE110 Come se al nostro paese non ci fossero ragazzi! Chi sa chi diavolo verrà: non sappiamo neppure chi è!». Sebbene fossero avvolte nei pelliccioni, le ragazze cominciavano ad aver freddo. «Paracha, mi sta entrando il gelo nelle ossa. Be’, se il nostro preten dente in maschera non arriva, ci congeleremo». «Basta dire sciocchezze, Ma ska! Purché i fidanzati arrivino presto. Adesso a casa staranno pranzando». «O Paracha! Se viene uno solo, chi sceglierà?» «Non crederai che prenda te, stupidona». «O guarda! E allora te, forse?» «Naturale che prenderà me». «Te! Ma smettila di farmi ridere e di dire stupidaggini!» Intanto Gelo aveva fatto diventar di ghiaccio le mani delle ragazze. Esse le infilarono sotto le ascelle e ricominciarono come prima. «Ehi tu, muso insonnolito! Brutto ceffo, grugno immondo tu non sai presentarti né comportarti, e in generale ti manca il cer vello». «Oh tu, fanfarona! Cosa sai fare tu? Solo andare attorno a chiacchiera re e lisciarti. Stiamo a vedere chi sceglierà per prima!» Così si bisticciavano le ragazze, ma intanto si congelavano sul serio; e d’improvviso esclamarono ad una voce: «Ma che fesso, perché non viene? Guarda, sei diventata blu!». Ed ecco da lontano Gelo comincia a scricchiolare; salta schioccando da un abete all’altro. Le ragazze sentono che qualcuno s’avvicina. «Paracha, sen ti? Sta arrivando con una campanella». «Vattene, cagna, non sento, il freddo m’ha assordito». «E vuoi anche trovar marito!» Cominciarono a soffiarsi sul le dita. Gelo s’avvicina sempre più e più; infine comparve sull’abete, sopra le ragazze. E dice loro: «Siete al calduccio, ragazze? Siete al calduccio, bellezze? Siete al calduccio, colombelle mie?». «Ohi Gelo, fa terribilmente freddo! Ci siam congelate in attesa del promesso sposo, ma quel maledetto se l’è squa gliata». Gelo cominciò a scender da basso scricchiolando sempre piú, schioc cando ancor piú forte. «Avete caldo, ragazze? Avete caldo, belle?» «Va’ al dia volo! Sei cieco? Vedi bene che abbiamo mani e piedi congelati». Gelo scese ancor piú basso, picchiò forte e disse: «Avete caldo, ragazze?». «Che tu possa sprofondare all’inferno tra i diavoli, sparisci, maledetto!» E in così dire le ra gazze divennero dure come ghiaccio. Al mattino la vecchia dice al marito: «Attacca un po’ il traino, vecchio; met tici una bracciata di fieno, e porta una coperta di pelli. Quelle ragazze debbo no esser gelate; fuori c’è un freddo terribile. Bada di andare svelto, vecchio barbone!». Il vecchio aveva appena finito di mangiare un boccone, che già era fuori, in istrada. Arriva dalle figlie e le trova morte. Le gettò sul traino, le avvolse nella coperta e le ricoprì con una pezzuola. Vistolo da lontano la vec chia gli corse incontro, e così domandò: «E le ragazze?». «Sono nel traino». La vecchia tirò via la pezzuola, tolse la coperta, e trovò le figlie morte.

Qui la vecchia scoppiò come un uragano, e cominciò a maltrattare il vec chio: «Cosa hai fatto, vecchio cane? Tu hai assassinato le mie figliette, il san gue del mio sangue, la mia semenza, i miei bei boccioli! Io ti acchiappo e t’ammazzo, con l’attizzatoio ti finirò!». «Basta, vecchiaccia! Lo vedi, ti sei fatta sedurre dalla ricchezza, e anche quelle testarde delle tue figlie! È colpa mia forse? Tu stessa l’hai voluto». La vecchia s’infuriò, gridò, ma infine fece la pa ce con la figliastra, e da allora vissero felici e contenti, dimenticando i mali.

8. Il gelo, inteso come elemento della natura, rispecchia il cuore di alcuni personaggi del racconto. Quali? Motiva la tua risposta.

3. Sottolinea con due diversi colori i passaggi del testo che rivelano le caratteristiche della figlia maggiore e delle due sorelle.

4. Che cosa ha progettato la vecchia per Martina?

1. Elenca i cinque diversi modi in cui il narratore si riferisce alla protagonista nel primo paragrafo.

La ragazza fu chiesta in moglie da un vicino, si celebrarono le nozze, e ora Martina vive felice. Quando i nipotini fanno i capricci, il vecchio li spaventa chiamando Gelo. Anch’io fui alle nozze, bevvi idromele e birra; sui baffi sci volò, in bocca niente andò

2. Come si comporta la vecchia con la figlia maggiore? Perché? E il vecchio? Perché?

5. Perché Gelo ha pietà di Martina?

6. Scegli, per Martina e per le sue sorelle, un aggettivo che descriva il loro atteggiamento di fronte a Gelo. Motiva la tua scelta, completando le seguenti frasi: • Martina mostra di essere …, infatti … • Le sue sorelle mostrano di essere …, infatti …

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7. Sottolinea i passaggi in cui vengono descritti il Gelo e la sua azione.

Rileggi il seguente passaggio tratto dalla fiaba Le fate, contenuta all’interno di questa stessa sezione: «“Oh, che fortuna…”, disse la madre, “bisogna che ci mandi subito anche quest’altra. Senti, Cecchina, guarda che cosa esce dalla bocca della tua sorella quando parla. Ti piacerebbe avere anche per te lo stesso dono? … Basta che tu vada alla fonte; e se una vecchia ti chiede da bere, daglielo con buona maniera”»1.

• rapporto fra il gelo e il cuore di alcuni personaggi. Scegli una di queste tematiche e scrivi il riassunto della fiaba seguendo una delle due tracce seguenti.

• Riassumi la fiaba mettendo in evidenza le caratteristiche di Martina in confronto a quelle delle sue sorelle e della vecchia.

1 C. Collodi, Le fate, in I racconti delle fate, Bompiani, Milano 1983, pp. 60-72.

• caratteristiche di Martina in confronto alle sorelle e alla vecchia

11. Racconta di quella volta in cui, guardandoti attorno, hai scoperto che il paesaggio rispecchiava perfettamente quello che avevi dentro il cuore. Nel testo descrivi dettagliatamente l’ambiente che ti circondava.

Mettilo a confronto con due passaggi della fiaba Il gelo: «Ed ecco, la vecchia lasciò passare un po’ di tempo e poi disse al vecchio: “Porta un po’ anche le mie figlie dallo sposo; egli non ha ancora presentato loro i regali!”». «“Basta, vecchiaccia! Lo vedi, ti sei fatta sedurre dalla ricchezza, e anche quelle testarde delle tue figlie! È colpa mia forse? Tu stessa l’hai voluto”». Che cosa accomuna queste due fiabe? Spiega approfonditamente.

10. Ti sarai accorto che analizzando la fiaba hai dovuto lavorare principalmente sulle seguenti tematiche:

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• Riassumi la fiaba mettendo in evidenza il legame fra il gelo e il cuore di alcuni personaggi. Ora riscrivi il riassunto seguendo l’altra traccia.

La prima notte andò di sentinella nel giardino il principe Dimitrij e, se dutosi sotto il melo da cui l’uccello di fuoco rubava i frutti, s’addormentò e non sentì quando l’uccello arrivò e strappò moltissime mele. Al mattino lo zar Vyslav Andronovič chiamò suo figlio Dimitrij e gli chiese: «Dunque, mio caro figlio, hai veduto l’uccello di fuoco o no?». Egli rispose al genitore: «No, sovrano e padre! Questa notte non è venuto». La notte dopo montò la guardia al giardino il principe Vasilij. Sedette sotto lo stesso melo e, rimasto lì qual che ora, nella notte s’addormentò così forte che non sentì quando l’uccello di fuoco arrivò a rubare le mele. Al mattino lo zar Vyslav lo chiamò e gli chiese: «Allora, figlio mio caro, l’hai veduto questo uccello di fuoco, o no?». «Sovrano e padre! Questa notte non è venuto». La terza notte andò a far la guardia il principe Ivan, e sedette sotto il me desimo melo. Sta lì un’ora, un’altra, una terza; d’improvviso tutto il giardino s’illumina, come fossero stati accesi tanti falò: l’uccello di fuoco arriva, si po sa sull’albero e comincia a strappare le mele. Furtivo, il principe Ivan gli si fece dappresso con tale abilità da afferrarlo per la coda. Ma non poté tenerlo: l’uccello di fuoco si strappò dalle sue mani e volò via; al principe Ivan non ri mase fra le dita che una penna della coda, alla quale egli s’era attaccato con forza. Al mattino, non appena lo zar Vyslav si svegliò dal suo sonno, il princi pe Ivan andò da lui, e gli diede la piuma dell’uccello di fuoco. Lo zar fu assai contento che il suo figlio minore fosse riuscito a prendere almeno una penna dell’uccello di fuoco. Era una penna così meravigliosa e splendente, che se la

AFANASJEV La favola del principe Ivan, di fuoco e del lupo grigio In un certo reame, in un certo stato, viveva una volta uno zar di nome Vyslav Andronovič. Egli aveva tre figli: il primo era il principe Dimitrij, il secondo il principe Vasilij, e il terzo il principe Ivan. Questo zar Vyslav Andronovič ave va un giardino così ricco che non ce n’era uno migliore in nessun altro stato; in quel giardino crescevano vari alberi pregiati, da frutto e senza frutto, e lo zar aveva un melo preferito, da cui nascevano tutte mele d’oro. Aveva preso l’abitudine di volare nel giardino dello zar Vyslav un uccello di fuoco; le sue penne erano d’oro e gli occhi simili a cristalli d’Oriente. Ogni notte volava in quel giardino e si posava sul melo preferito dello zar Vyslav, coglieva le mele d’oro e se ne volava via. Lo zar Vyslav era assai afflitto per quel melo, perché l’uccello di fuoco aveva strappato parecchie mele; perciò chiamati a sé i suoi tre figli disse loro: «Figli miei adorati! Chi di voi prenderà l’uccello di fuoco nel mio giardino? A chi lo acchiapperà vivo darò metà del mio regno io vi vente, e dopo la mia morte lo avrà tutto». Allora i principi suoi figli dissero ad una voce: «Sovrano e padre, maestà! Con infinito piacere noi cercheremo di prendere vivo l’uccello di fuoco».

dell’uccello

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Di nuovo lo zar Vyslav chiamò i suoi figli, e disse loro: «Miei amati figli! Vi do la mia benedizione, partite alla ricerca dell’uccello di fuoco, e portateme lo vivo; quel che ho già promesso prima lo riceverà naturalmente colui che mi riporterà l’uccello di fuoco». I principi Dimitrij e Vasilij cominciarono a provar del rancore contro il fratello minore principe Ivan, che era riuscito a strappare una penna dalla coda dell’uccello di fuoco; essi accolsero la bene dizione del padre loro e insieme partirono alla ricerca dell’uccello di fuoco. Anche il principe Ivan chiese la benedizione del genitore. Lo zar Vyslav gli disse: «Figlio mio amato, creatura mia! Tu sei ancora giovane, non sei abitua to a viaggi così lontani e difficili; perché vuoi allontanarti da me? I tuoi fratelli son già partiti. E se, partendo anche tu, per lungo tempo non ritornasse nes suno dei tre? Io son vecchio ormai, e già vicino a Dio; se mentre siete lontani Dio si prende la mia vita, chi governerà il mio regno in vece mia? Potrebbero nascere discordie tra le nostre popolazioni, e nessuno riuscirebbe a pacifi carle; oppure il nemico potrebbe marciare sul nostro territorio, e nessuno guiderebbe il nostro esercito». Ma per quanto lo zar Vyslav tentasse di tratte nere il principe Ivan, non poté fare a meno di accondiscendere alle sue con tinue preghiere. Il principe Ivan ricevette la benedizione del suo genitore, si scelse un cavallo e si mise in strada, senza sapere neppure lui dove andava.

Cammin facendo – vicino, lontano, sali e scendi; si fa presto a raccontare, meno presto a fare – arrivò finalmente in aperta campagna, sui verdi pra ti. E in mezzo a un campo c’era un pilastro, e sul pilastro eran scritte queste parole: “Chi andrà dritto oltre questo pilastro avrà fame e freddo; chi andrà a destra sarà sano e salvo, ma il suo cavallo morirà; chi andrà a sinistra sarà ucciso, ma il suo cavallo resterà sano e salvo”. Letta quell’iscrizione il prin cipe Ivan andò a destra, pensando che anche se il suo cavallo avesse trovato la morte, lui sarebbe rimasto vivo, e col tempo ne avrebbe trovato un altro. Andò avanti un giorno, e un altro, e il terzo, ed ecco venirgli incontro improv visamente un grossissimo lupo grigio, che disse: «Ah, sei tu, giovanotto, prin cipe Ivan! Non hai letto cos’era scritto sul pilastro, che il tuo cavallo sarebbe morto; allora perché sei venuto qua?». Pronunziate che ebbe quelle parole, il lupo sbranò il cavallo di Ivan e corse via da una parte. Il principe Ivan rimase tutto afflitto per il suo cavallo, pianse amaramente e proseguì a piedi. Camminò tutto il giorno e si stancò in modo indicibile; sta va proprio per sedersi a riposare quando d’un tratto lo raggiunse il lupo gri gio, che gli disse: «Mi dispiace, principe Ivan, che tu ti sia estenuato andando a piedi, sono spiacente anche d’aver mangiato il tuo buon cavallo. Ebbene! Siediti su di me, sul lupo grigio, e dimmi dove vuoi che ti porti e perché». Il principe disse al lupo grigio dove doveva andare, e il lupo galoppò con lui più 1 gabinetto: stanza privata, studio. Dal francese cabinet, diminutivo di cabine ‘cabina’.

F IABE114 si portava in una stanza buia brillava in modo tale da sembrare vi fosse sta ta accesa una gran quantità di candele. Lo zar Vyslav mise quella piuma nel suo gabinetto1 come un oggetto da conservarsi in eterno. Da allora l’uccello di fuoco non volò più nel giardino.

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 115 d’un cavallo; dopo un certo tempo, era notte ormai, portò il principe Ivan a una muraglia di pietra non molto alta, si fermò e disse: «Su, principe Ivan! Scendi da me, dal lupo grigio, e arrampicati al di là del muro; dietro c’è un giardino, e nel giardino l’uccello di fuoco dentro una gabbia d’oro. Tu prendi l’uccello di fuoco, ma non toccare la gabbia d’oro; se la prenderai non potrai andar via, e ti prenderanno subito!». Il principe Ivan s’arrampicò sul muro, scivolò nel giardino, vide l’uccello di fuoco nella gabbia dorata, che gli parve deliziosa, gli fece proprio gola. Tirato l’uccello fuori dalla gabbia tornò indie tro, ma poi ci ripensò e disse a sé stesso: “Perché ho preso l’uccello senza la gabbia, dove lo metterò adesso?”. Si voltò, e non appena ebbe staccato la gabbia d’oro s’intesero improvvisamente suoni e rumori per tutto il giardino, poiché alla gabbia erano attaccate delle corde musicali. Subito le sentinelle si svegliarono, corsero nel giardino, acchiapparono il principe Ivan con l’uccel lo di fuoco e lo portarono dinanzi al loro zar, che si chiamava Dolmat. Lo zar Dolmat s’infuriò terribilmente contro il principe Ivan e gli gridò con voce for te, e arrabbiata: «Giovanotto, non ti vergogni di rubare? E chi sei tu, e di qual terra, e di qual padre sei figlio, e come ti chiami di nome?». Il principe Ivan gli disse: «Io sono del reame di Vyslav, figlio dello zar Vyslav Andronovič, e mi chiamo principe Ivan. Il tuo uccello di fuoco aveva preso l’abitudine di vola re ogni notte nel nostro giardino e strappava le mele d’oro dal melo favorito di mio padre, e aveva quasi rovinato tutto l’albero; perciò il mio genitore mi ha mandato a cercare l’uccello di fuoco per riportarglielo». «O tu, giovanotto, principe Ivan, ti par bello comportarti così?» disse lo zar Dolmat. «Se tu fossi venuto da me, io t’avrei dato l’uccello di fuoco con tutti gli onori; sarai con tento ora, quando io farò dichiarare per ogni stato che tu nel mio regno ti sei comportato in modo indecoroso? Ascolta però, principe Ivan! Se tu mi farai un servigio, se andrai ai confini della terra, nell’ultimo dei reami e mi ripor terai dallo zar Afron il cavallo dalla criniera d’oro, io perdonerò la tua colpa e ti darò l’uccello di fuoco con ogni onore; ma se non mi fai questo servigio allora farò sapere per ogni stato che tu sei un ladro senza onore». Tutto triste il principe Ivan lasciò lo zar Dolmat, promettendo che gli avrebbe trovato il cavallo dalla criniera d’oro. Arrivato dal lupo grigio, gli raccontò tutto quello che lo zar Dolmat gli ave va detto. «Ah giovanotto, principe Ivan!» gli disse il lupo grigio. «Perché non hai dato ascolto alle mie parole e hai preso la gabbia d’oro?» «Son colpevole dinanzi a te» disse il principe al lupo. «Bene, così sia!» fa quello. «Siediti su di me, sul lupo grigio; ti porterò dove occorre». Il principe Ivan sedette sul dorso del lupo grigio, e il lupo corse veloce come una freccia; corse molto, corse po co, finalmente a notte alta giunse nel reame dello zar Afron. E avvicinatosi alle bianche scuderie reali, disse al principe: «Principe Ivan, entra in quelle bian che scuderie (adesso tutti gli stallieri dormono profondamente!) e prendi il ca vallo dalla criniera d’oro. Vedrai appesa al muro la briglia d’oro, bada di non prenderla, o succederanno dei pasticci». Il principe Ivan entrò nelle bianche scuderie, prese il cavallo e tornò indietro; ma vide al muro la briglia d’oro, e gli parve così bella che la staccò dal chiodo; l’ebbe appena staccata che s’intesero

F IABE116 nella scuderia suoni e rumori, perché a quella briglia erano attaccate delle cor de musicali. Gli stallieri di guardia si svegliarono immediatamente, accorsero, afferrarono il principe Ivan e lo portarono dinanzi allo zar Afron. Lo zar Afron cominciò a chiedergli: «Ah sei tu, giovanotto! Dimmi: di che stato sei, di chi sei figlio, e qual è il tuo nome?». Rispose il principe: «Vengo dal regno di Vyslav, son figlio dello zar Vyslav Andronovič, e mi chiamo principe Ivan». «O tu, gio vanotto, principe Ivan!» gli disse lo zar Afron. «È da cavaliere onesto quel che hai fatto? Se fossi venuto da me t’avrei dato il cavallo dalla criniera d’oro con ogni onore. Sarai contento quando manderò a dire per ogni paese che tu da me ti sei comportato in maniera disonesta? Ma ascolta, principe Ivan! Se tu mi farai un servigio, se andrai ai confini della terra, nell’ultimo dei reami e mi tro verai la principessa Elena la Bella – che amo da lungo tempo con tutta l’anima e il cuore, ma non riesco a trovarla – allora ti perdonerò la tua colpa e ti darò il cavallo dalla criniera d’oro, e la briglia d’oro, con tutti gli onori. Ma se non mi farai questo servigio io ti farò conoscere in ogni stato per quel ladro disonesto che sei, e descriverò tutto il tuo indegno comportamento nel mio reame». Al lora il principe Ivan promise allo zar Afron di trovare la principessa Elena la Bella, poi uscì dal palazzo e pianse amaramente. Arrivato dal lupo grigio, gli raccontò tutto quello che gli era successo. «Ah giovanotto, principe Ivan!» gli disse il lupo. «Perché non hai ascoltato le mie parole e hai preso la briglia d’oro?» «La colpa è mia» disse il principe al lupo. «Bene, così sia!» proseguì il lupo grigio. «Siediti su di me, sul lupo grigio; e io ti porterò dove occorre». Il principe Ivan sedette sul suo dorso, e il lupo cor se come una freccia; corse – come si direbbe nelle fiabe – per un po’, e infi ne giunse nel reame della principessa Elena la Bella. E arrivato a una griglia d’oro, che circondava il giardino incantato, il lupo disse al principe Ivan: «Su, Ivan! Scendi adesso dal mio dorso e torna indietro per la via di dove siamo venuti, e aspettami nei campi sotto la verde quercia». E il lupo grigio sedette accanto alla griglia d’oro e aspettò che la principessa Elena la Bella scendesse in giardino a passeggiare. A sera, quando il sole era sul tramonto e l’aria non più tanto calda, la principessa Elena la Bella uscì nel giardino con le sue go vernanti e con le boiare1 di corte. Quando passò dinanzi al punto dove sedeva il lupo grigio, dietro la griglia, questo la scavalcò d’un balzo, afferrò la princi pessa e tornò indietro correndo con quante forze aveva. Corse al prato sotto la verde quercia, dove il principe Ivan l’aspettava, e gli disse: «Svelto, principe Ivan! Siediti su di me, sul lupo grigio!». Il principe gli salì in groppa, e al gran galoppo il lupo li portò tutt’e due nello stato dello zar Afron. Le governanti e le nutrici e le boiare di corte che passeggiavano nel giardino con la principessa Elena la Bella, corsero subito alla reggia e mandarono all’inseguimento, per raggiungere il lupo grigio; ma per quanto gli inseguitori gli dessero la caccia, non poterono raggiungerli, e tornarono indietro. 1 boiare: titolo nobiliare russo dato a capi militari e proprietari terrieri (dal russo bojar ‘aristocratico’).

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 117 Il principe Ivan, sedendo sul lupo grigio insieme alla bella principessa Elena, si innamorò di lei con tutto il cuore, e lei del principe Ivan, e quando il lupo grigio fu arrivato nel regno dello zar Afron, e il principe Ivan avrebbe dovuto portare alla reggia la bella principessa Elena e consegnarla allo zar, egli si fece tutto triste e cominciò a piangere a calde lacrime. Gli chiese il lu po: «Perché piangi, principe?». Rispose Ivan: «Amico mio, lupo grigio, come non piangere, come non affliggersi? Il mio cuore s’è innamorato della bella principessa Elena, e ora devo darla allo zar Afron per avere il cavallo dalla criniera d’oro; e se non gliela do lo zar mi coprirà di disonore per ogni sta to». «T’ho reso molti servigi, principe Ivan», disse il lupo grigio, «e ti farò an che questo. Ascolta Ivan: io mi tramuterò nella principessa Elena la Bella, tu portami allo zar Afron e prendi il cavallo dalla criniera d’oro; egli mi crederà la vera principessa. Tu intanto salta in groppa al cavallo dalla criniera d’o ro e allontanati; allora io pregherò lo zar Afron di mandarmi a passeggio fra i campi, e quando lui mi manderà con le balie e le governanti e con tutte le boiare di corte, e sarò con loro in mezzo ai prati, tu allora pensa a me, e io sa rò di nuovo da te». Fatto questo discorso il lupo grigio si gettò contro l’umida terra e divenne identico alla bella principessa Elena; tanto che era impossi bile accorgersi che non era lei. Il principe prese il lupo grigio, andò alla reg gia dello zar Afron, e intanto diede ordine alla bella principessa di aspettarlo fuori della città. Quando il principe Ivan arrivò dallo zar Afron con la falsa principessa Elena, lo zar si rallegrò tutto in cuor suo d’aver ricevuto quel te soro che desiderava da tanto tempo. Prese la falsa principessa e consegnò al principe Ivan il cavallo dalla criniera d’oro. Il principe sedette sul cavallo e andò fuori della città, mise in groppa Elena la Bella e s’avviò verso il rea me dello zar Dolmat. Il lupo grigio vive dallo zar un giorno, un altro e il terzo, nelle spoglie della bella principessa Elena; poi il quarto giorno andò dallo zar Afron a pregarlo di lasciarla passeggiare nei campi aperti, per dissipare la tristezza che l’aveva invasa. Dice lo zar Afron: «Ah, mia bella principessa Elena! Per te son pronto a far tutto, va’ pure a passeggio nei campi». E subito ordinò alle balie e alle governanti e a tutte le boiare di corte di andare in cam pagna, a passeggio con la bella principessa. Intanto il principe Ivan se ne andava con Elena la Bella, passeggiando lun go la strada, e aveva dimenticato il lupo grigio; ma poi si ricordò: «Ah, dove sarà il mio lupo grigio?». E di colpo quello apparve dinanzi a lui, e gli disse: «Vieni a sederti sulla mia groppa, principe Ivan, e che la principessa bella vada sul cavallo dalla criniera d’oro». Il principe sedette sul lupo grigio, e co sì andarono nel reame dello zar Dolmat. Cammina cammina, arrivarono in quello stato, e si fermarono a tre leghe dalla città. Il principe Ivan cominciò a supplicare il lupo: «Ascolta, amico mio caro, lupo grigio! Tu m’hai reso tanti servigi, rendimi anche l’ultimo: ecco cosa vorrei adesso: non puoi tramutarti nel cavallo dalla criniera d’oro al posto di questo? Perché io non ho voglia di separarmi da questo cavallo». Il lupo grigio si gettò di colpo contro l’umida terra e divenne un cavallo dalla criniera d’oro. Lasciata la bella principessa Elena in mezzo a un verde prato, il principe Ivan sedette in groppa al lupo

F IABE118 grigio e andò alla reggia dallo zar Dolmat. E appena arrivato, come lo zar Dol mat vide il principe sul cavallo dalla criniera d’oro, tutto allegro uscì dalle sue stanze per andargli incontro, e in mezzo al vasto cortile lo baciò sulle labbra zuccherine, lo prese per la mano destra e lo condusse nelle candide sale. Poi ordinò di preparare un banchetto in segno di gioia, ed essi sedettero a tavo li di quercia, dalle tovaglie imbandite; bevvero, mangiarono, scherzarono e fecero baldoria per due giorni filati, e al terzo giorno lo zar Dolmat consegnò al principe l’uccello di fuoco con la gabbia d’oro. Il principe prese l’uccello di fuoco, uscì dalla città insieme alla bella principessa Elena, sedette sul ca vallo dalla criniera d’oro e andò nella sua patria, nello stato dello zar Vyslav Andronovič. Il giorno dopo lo zar Dolmat pensò di andarsene a fare un giro in campagna sul suo cavallo dalla criniera d’oro; ordinò di sellarlo, poi gli se dette in groppa e se ne andò per i campi; ma non appena l’ebbe spronato, il cavallo sbalzò di sella lo zar Dolmat e, ripresa la sua forma primitiva di lupo grigio, corse a raggiungere il principe Ivan. «Principe!» disse, «siediti su di me, sul lupo grigio; sul cavallo dalla criniera d’oro andrà la principessa Elena la Bella». Il principe sedette in groppa al lupo, e si misero in viaggio. Giunti che furono al luogo dove il lupo grigio aveva sbranato il cavallo del principe Ivan, il lupo si fermò e disse: «Ebbene, principe Ivan! T’ho servito con gran fede e lealtà. Eccoci nello stesso punto dove io sbranai il tuo cavallo. T’ho ri portato qui. Scendi dalla mia groppa, dal lupo grigio; adesso hai il cavallo dalla criniera d’oro, balzagli in sella e va’ dove ti occorre; io non son più tuo servo». Pronunziò queste parole e corse via da un lato; allora il principe Ivan pianse amaramente per il lupo grigio, poi riprese la sua strada insieme alla bellaVaprincipessa.evainsieme alla bella principessa Elena sul cavallo dalla criniera d’o ro, e giunto a venti leghe dal suo stato si fermò, scese dal cavallo e con la bella principessa si stese a riposare sotto un albero, che li riparava dall’ardore del sole; legò all’albero il cavallo dalla criniera d’oro, e si mise accanto la gabbia con l’uccello di fuoco. Stesi sull’erba morbida, parlando teneramente d’amo re, essi s’addormentarono d’un sonno profondo. In quel frattempo i fratelli del principe Ivan – Dimitrij e Vasilij – dopo aver viaggiato per diversi stati senza riuscire a trovare l’uccello di fuoco, se ne tornavano nella loro patria, a mani vuote; per caso passarono vicino al loro fratello che giaceva addormen tato accanto alla bella principessa Elena. Vedendo sull’erba il cavallo dalla criniera d’oro, e l’uccello di fuoco nella gabbia d’oro, ne ebbero sì gran tenta zione che pensarono d’uccidere il loro fratello Ivan. Il principe Dimitrij snu dò la spada, sgozzò il principe Ivan e lo fece a pezzettini; poi svegliò la bella principessa Elena, e cominciò a chiederle: «Bella ragazza! Di che paese sei, e di chi sei figlia, e qual è il tuo nome?». Al veder morto il principe Ivan, la bella principessa Elena si spaventò, cominciò a piangere amaramente e fra le la crime disse: «Io sono la principessa Elena la Bella, mi conquistò il principe Ivan al quale voi deste morte crudele. Se foste dei prodi cavalieri, voi sareste scesi con lui in campo aperto e l’avreste vinto da vivo; invece uccidendo uno che dormiva, qual vanto ne avete tratto? Un uomo addormentato è lo stesso

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 119 che un uomo morto!». Allora il principe Dimitrij mise la spada al cuore della bella principessa Elena e disse: «Ascolta, Elena la Bella! Adesso sei nelle no stre mani; noi ti porteremo da nostro padre, dallo zar Vyslav Andronovič, e tu digli che ti abbiamo conquistata noi, e anche l’uccello di fuoco, e il cavallo dalla criniera d’oro. Se non dirai questo ti mettiamo subito a morte!». Spaven tata da morire, la bella principessa Elena promise e giurò su tutti i santi che avrebbe parlato come loro le dicevano. Allora i principi Dimitrij e Vasilij co minciarono a tirare a sorte a chi sarebbe toccata la principessa Elena e a chi il cavallo dalla criniera d’oro. E la principessa Elena toccò in sorte al principe Vasilij, e il cavallo al principe Dimitrij. Allora Vasilij prese la bella principessa Elena e la mise sul suo buon cavallo, mentre Dimitrij sedette sul cavallo dalla criniera d’oro e prese l’uccello di fuoco per consegnarlo al suo genitore, allo zar Vyslav Andronovič e si misero in cammino. Il principe Ivan giacque morto in quel luogo tredici giorni precisi, e al tre dicesimo accorse a lui il lupo grigio, che dall’odore riconobbe il principe Ivan. Voleva aiutarlo, farlo resuscitare, ma non sapeva come si faceva. In quel mo mento il lupo grigio vide un corvo con due corvicini, che volavano sul cadave re e volevano scendere a terra per mangiare la carne del principe Ivan. Il lupo grigio si nascose tra i cespugli e non appena i corvicini si posarono a terra e cominciarono a beccare il corpo del principe Ivan, lui saltò fuori dagli arbu sti, ne afferrò uno con l’intenzione di sbranarlo. Allora il corvo scese a terra, si posò a una certa distanza dal lupo e gli disse: «O tu, lupo grigio! Non toccare il mio figliolino; non t’ha mica fatto niente». «Ascolta, Corvo Corvonič», disse il lupo grigio, «io non toccherò il tuo bambino e lo lascerò sano e salvo quando tu m’avrai reso un servigio: vola ai confini del mondo, nell’ultimo dei reami, e portami l’acqua della morte e della vita». Al che Corvo Corvonič rispose: «Io ti renderò questo servigio, ma ti raccomando di non toccare mio figlio». Dette queste parole l’uccello volò via e presto scomparve alla vista. Il terzo giorno il corvo tornò, portando con sé due boccette: in una c’era l’acqua della vita, nell’altra l’acqua della morte; e le diede al lupo grigio. Il lupo prese le boccet te, fece in due pezzi il corvicino, lo spruzzò con l’acqua della vita, e il corvici no starnazzò e volò via. Poi il lupo asperse il principe Ivan con l’acqua della morte, e il suo corpo tornò a saldarsi; spruzzò l’acqua della vita e il principe Ivan s’alzò e disse: «Ah, quanto ho dormito!». Allora il lupo grigio gli rispose: «Sì, principe Ivan, avresti dormito per l’eternità se non ci fossi io; i tuoi fra telli t’hanno ucciso e han portato con sé la bella principessa Elena, il cavallo dalla criniera d’oro e l’uccello di fuoco. Affrettati adesso più che puoi, verso la tua patria; tuo fratello Vasilij sposa oggi la tua fidanzata, la bella principessa Elena. E perché tu arrivi più presto, sarà meglio che ti sieda su di me, sul lu po grigio; ti porterò io in groppa». Il principe Ivan sedette sul lupo grigio, e il lupo corse con lui nel regno dello zar Vyslav Andronovič e corri e corri, arri varono alla città. Il principe Ivan scese dalla groppa del lupo grigio, entrò in città e avvicinatosi alla reggia trovò che suo fratello Vasilij stava sposandosi con la bella principessa Elena: tornava insieme a lei dallo sposalizio e stava seduto al pranzo. Il principe Ivan entrò nelle sale, e non appena Elena la Bel

F IABE120 la lo scorse saltò su da tavola, e cominciò a baciarlo sulle labbra zuccherine esclamando: «Ecco il principe Ivan, questo è il mio adorato sposo e non quel perfido che siede a tavola!». Allora lo zar Vyslav Andronovič si alzò dal suo posto e cominciò a interrogare la bella principessa Elena sul significato delle sue parole: di cosa parlava? Elena la Bella gli raccontò tutta la verità vera, il come e il quando; come il principe Ivan aveva conquistato lei, il cavallo dal la criniera d’oro e l’uccello di fuoco, come i fratelli maggiori l’avevano ucciso mentre dormiva e come l’avevano minacciata perché dicesse che erano stati loro a conquistare tutto. Lo zar Vyslav s’infuriò terribilmente contro i princi pi Dimitrij e Vasilij e li mise in prigione; allora il principe Ivan sposò la bella principessa Elena e vissero d’amore e d’accordo, tanto che non potevano sta re un solo minuto uno senza l’altra

2. Quali aiuti riceve il principe Ivan?

AleksAndr nikol Aevič AfAnA sjev 121

4. Scegli tre aggettivi per definire le caratteristiche del lupo grigio. Per ognuno di essi, metti in relazione queste caratteristiche con gli avvenimenti della narrazione in cui esse si mostrano, completando, per tre volte, la seguente frase: Il lupo grigio è …, infatti …

6. Quale prova deve affrontare il corvo?

7. Ricopia sul quaderno la frase con cui, verso la fine, il lupo fa capire al principe Ivan che il suo aiuto è stato essenziale. Che cosa ti fa capire questa frase sulla vicenda del principe Ivan?

1. Quali prove deve affrontare il principe Ivan? Ti sembrano adeguate al compito che il padre gli ha affidato o ti sembrano spropositate? Motiva la tua risposta.

8. Da che cosa capisci che il principe Ivan nel corso della vicenda cambia? In che cosa consiste il suo cambiamento?

9. Alla fine della vicenda che cosa porta a casa veramente il principe Ivan? Il premio ti sembra adeguato alle sue capacità? Motiva la tua risposta.

3. Scegli tre aggettivi per definire le caratteristiche del principe Ivan. Per ognuno di essi, metti in relazione queste caratteristiche con gli avvenimenti della narrazione in cui esse si mostrano, completando, per tre volte, la seguente frase: Il principe Ivan è …, infatti …

5. Come si comporta il lupo grigio con il principe Ivan tutte le volte che quest’ultimo disubbidisce? Come giudichi tale atteggiamento? Motiva la tua risposta.

F IABE10.122

• Racconta di quella volta in cui qualcuno ha avuto nei tuoi confronti uno sguardo simile a quello del lupo grigio verso il principe Ivan.

• Racconta di quella volta in cui anche a te è capitato di compiere un sacrificio o superare una prova e ottenere molto di più di quanto speravi.

13. Quale aspetto di questa fiaba ha a che fare con la tua vita?

12. Riassumi la fiaba in dieci parole. Spiega perché hai scelto proprio quelle parole.

Costruisci il sommario della fiaba dividendo il testo in sequenze e assegnando a ciascuna un titolo.

• …

Rispondi motivando le tue affermazioni e raccontando almeno un esempio a sostegno di quello che dici. Ad esempio:

11. Riassumi la fiaba mettendo in luce il senso complessivo del testo.

La settimana successiva trasferì Elisa in campagna da alcuni contadini e non passò molto tempo che riuscì a far credere al re cose molto brutte sui poveri principini, così che egli non si preoccupò più di loro.

Era ancora mattino presto quando arrivarono alla casa dei contadini in cui abitava la sorellina Elisa; dormiva ancora, e loro volarono un po’ sopra il tetto, girarono il collo da ogni parte e batterono le ali, ma nessuno li vide né li sentì! Dovettero riprendere il volo, in alto verso le nubi, lontano nel va sto mondo, finché giunsero a una immensa e oscura foresta che si stendeva fino alla spiaggia.

Molto lontano da qui, dove le rondini volano quando qui viene l’inverno, vive va un re con undici figli e una figlia, Elisa. Gli undici fratelli, che erano princi pi, andavano a scuola con la stella sul petto e la spada al fianco; scrivevano su una lavagna d’oro usando punte di diamante e sapevano leggere bene i libri e recitare a memoria: si capiva subito che erano principi. La loro sorella, Elisa, stava seduta su uno sgabellino di cristallo e guardava un libro di figure che valeva metà del regno.

Al castello c’era una grande festa e i bambini giocavano a farsi visita; ma invece di dar loro tutte le torte e le mele al forno che riuscivano a mangiare, la matrigna gli diede solo della sabbia nelle tazze da tè e disse di far finta che fosse qualcosa di buono.

«Volatevene via per il mondo e arrangiatevi da soli!» disse la regina catti va. «Volate via come grandi uccelli senza voce!»; non riuscì tuttavia a far loro tutto il male che avrebbe voluto: i principini si trasformarono in undici bel lissimi cigni selvatici. Con uno strano verso si sollevarono e andarono via dal castello verso il parco e il bosco.

123 HANS CHRISTIAN ANDERSEN I cigni selvatici

Oh, quei bambini stavano proprio bene, ma la loro felicità non poteva durare per sempre! Il padre, re dell’intero paese, si risposò con una principessa cattiva che non amava affatto quei poveri bambini, e loro dovettero accorgersene fin dal primo giorno.

La povera Elisa giocava nella casa dei contadini con una foglia verde: non aveva altri giocattoli; fece un buco nella foglia e guardò attraverso, verso il so le: le sembrò di vedere i begli occhi chiari dei suoi fratelli, e ogni volta che i caldi raggi del sole le illuminavano il viso, pensava alle loro carezze.

Passarono i giorni, uno uguale all’altro. Quando soffiava tra i cespugli di rose davanti alla casa, il vento sussurrava alle rose: «Chi può essere più grazioso di voi?» e le rose scuotevano la testa e dicevano: «Elisa». E quando la vecchia con tadina, la domenica, seduta sulla soglia, leggeva il libro dei salmi, il vento girava le pagine e chiedeva al libro: «Chi può essere più devoto di te?» e il libro rispon deva: «Elisa»; e quello che le rose e il libro dei salmi dicevano era la pura verità.

Era giunta da poco tempo nel bosco quando sopraggiunse la notte; aveva perso la strada e così sedette sul morbido muschio, recitò la preghiera della sera e appoggiò la testa a un tronco d’albero. C’era una grande quiete e l’aria era mite, e sull’erba e tra il muschio si accendevano centinaia di lucciole; quando Elisa con delicatezza sfiorò un ramoscello con la mano, quegli in setti luminosi caddero su di lei come stelle.

Per tutta la notte sognò i suoi fratelli, sognò di quando da bambini gioca vano insieme e di quando scrivevano con la mina di diamante sulla lavagna d’oro e guardavano il bel libro che era costato metà del regno. Ma sulla lava gna non scrivevano più, come allora, le aste e gli zeri, ora disegnavano le affa scinanti avventure che avevano vissuto e tutto quel che avevano visto.

La povera Elisa cominciò a piangere pensando ai suoi undici fratelli che erano lontani. Malinconica, uscì dal castello e camminò per tutto il giorno per campi e paludi finché giunse nel grande bosco. Non sapeva dove si tro vava, ma era molto triste e provava una grande nostalgia dei fratelli, che sicuramente erano stati cacciati via dal castello come lei, e decise che li avrebbe ritrovati a tutti i costi.

F IABE124

Quando la cattiva principessa lo vide, spalmò la ragazza con succo di noci, per scurirle la pelle; poi le unse il viso con un unguento puzzolente e le ar ruffò i capelli: ora era assolutamente impossibile riconoscere le bella Elisa.

Di primo mattino la regina si recò nel bagno, costruito in marmo e de corato con soffici cuscini e bellissimi tappeti; lì prese tre rospi, li baciò e disse al primo: «Mettiti sulla testa di Elisa, quando entrerà nella vasca da bagno, e rendila indolente come te! Tu invece devi saltarle in fronte» dis se al secondo rospo «così che diventi orribile come te e suo padre non la riconosca! E in quanto a te, devi metterti sul suo cuore» sussurrò al terzo animale «e renderla tanto malvagia che ne soffra lei stessa!». Intanto fece scivolare i tre rospi nell’acqua limpida, che subito divenne verdognola; poi chiamò Elisa, la svestì e la fece entrare nella vasca da bagno; mentre lei si immergeva i tre rospi saltarono uno sul suo capo, uno sulla fronte e l’ulti mo sul cuore, ma Elisa sembrò non accorgersene neppure. Quando si rialzò, galleggiavano nell’acqua tre papaveri rossi; se gli animali non fossero stati velenosi e baciati dalla strega, si sarebbero trasformati in rose rosse; ma di vennero comunque fiori soltanto perché avevano riposato sul suo capo e sul suo cuore; Elisa era così pura e innocente che i sortilegi non avevano alcun effetto su di lei.

Gli uccelli cantavano, i personaggi uscivano dal libro illustrato e chiac

Quando compì quindici anni, Elisa venne richiamata al castello; e appena la principessa vide che la ragazza era così bella, cominciò a odiarla crudel mente. Avrebbe voluto trasformare anche lei in cigno selvatico, proprio come i fratelli, ma non osò farlo, perché il re voleva vedere la figlia.

Infatti suo padre, vedendola, inorridì e dichiarò che quella non poteva es sere sua figlia. In realtà nessuno la riconobbe, a parte il cane da guardia e le rondini, ma quelli erano dei poveri animali e non aveva alcuna importanza ciò che dicevano.

hANs ChRIs

Quando si risvegliò al mattino non seppe dire se aveva sognato o se tutto era veramente accaduto. Si incamminò, ma dopo pochi passi incontrò una vecchia che portava bacche selvatiche in un cestello. Questa gliele offrì e Elisa le chiese se aveva visto undici principi cavalcare per il bosco. «No» rispose la vecchia «ma ieri ho visto undici cigni con una corona in testa, che nuotavano nel fiume che passa qui vicino!»

E condusse Elisa verso un pendio in fondo al quale scorreva un fiume; gli alberi più grandi stendevano i loro lunghi rami folti verso quelli degli albe ri dell’altra riva, con cui si intrecciavano; le piante che non erano cresciute abbastanza per toccarsi, avevano divelto le radici dal terreno e si sporgeva

TIAN ANDERsEN 125 chieravano con Elisa e con i suoi fratelli, ma quando lei girava pagina, ritor navano dentro di corsa per non creare confusione tra le figure.

Quando si svegliò, il sole era già alto nel cielo; in verità lei non riusciva a vederlo, perché gli alti alberi si allargavano sopra di lei con rami fitti e fol ti, ma i raggi penetravano tra le foglie formando un velo d’oro svolazzante. C’era un buon profumo d’erba e gli uccelli quasi si posavano sulle sue spal le. Elisa sentiva il gorgoglio dell’acqua, perché c’erano diverse sorgenti che sfociavano in un laghetto con il fondo di bellissima sabbia. Tutt’intorno cre scevano fitti cespugli, ma in un punto i cervi avevano creato un’apertura e da lì Elisa arrivò fino alla riva. L’acqua era così limpida, che se il vento non avesse mosso i rami e i cespugli, lei li avrebbe creduti dipinti sul fondo; si ri specchiava nell’acqua ogni singola foglia, quelle illuminate dal sole e quelle in ombra. Quando vide riflesso il proprio volto Elisa si spaventò, tanto era nera e brutta, ma non appena si toccò gli occhi e la fronte con la mano bagnata, su bito la pelle chiara ricomparve. Allora si tolse i vestiti e si immerse nell’acqua fresca; una figlia di re più bella di lei non si trovava in tutto il mondo.

Poi si rivestì di nuovo e si intrecciò i lunghi capelli, andò verso la sor gente zampillante e bevve dal cavo delle mani, e si diresse nel bosco, senza sapere dove andare. Pensava ai suoi fratelli, pensava al buon Dio che cer tamente non l’avrebbe abbandonata, lui che fa crescere le mele selvatiche per dar da mangiare agli affamati. Elisa trovò infatti uno di questi alberi, con i rami piegati per il gran peso dei frutti; ne mangiò, poi mise dei soste gni sotto i rami e s’incamminò nella parte più buia del bosco. C’era un tale silenzio che sentiva il rumore dei suoi passi, sentiva ogni singola foglia sec ca che scricchiolava sotto i suoi piedi, non si vedeva un uccello e neppure un raggio di sole riusciva a passare attraverso i fitti rami degli alberi: i tron chi alti erano così vicini tra loro che quando guardava davanti a sé, le sem bravano una inferriata che la tenesse prigioniera; per la prima volta prova va una solitudine tanto profonda! La notte fu proprio buia, neppure una lucciola brillava nel muschio; allo ra, tristemente, Elisa si sdraiò per dormire; le sembrò che i rami degli albe ri si traessero da parte e che il buon Dio la guardasse con dolcezza, mentre gli angioletti le facevano capolino sopra la testa e sotto le braccia.

F IABE126 no più che potevano sull’acqua per intrecciare i rami con quelli delle altre piante.

L’immenso mare si stendeva ora davanti alla fanciulla, ma non c’era né una vela né una barchetta. Come poteva proseguire? Cominciò a guarda re gli innumerevoli ciottoli che si trovavano sulla spiaggia; l’acqua li aveva tutti levigati, vetro, ferro, pietra, tutto quello che era stato depositato sulla spiaggia era stato levigato dall’acqua, che pure era molto più delicata della pelle e delle mani!

Elisa salutò la vecchia e s’incamminò lungo il fiume, finché questo non sfociò nella spiaggia aperta.

«Noi fratelli» spiegò il più grande «voliamo come cigni finché è giorno; non appena il sole è calato, assumiamo le sembianze di uomini: per questo dobbiamo badare bene ad avere un luogo per posare i piedi, quando è l’ora del tramonto. Infatti, se in quel momento stiamo ancora volando tra le nu vole, diventando uomini, precipiteremmo giù. Noi non abitiamo qui, c’è un altro paese altrettanto bello, dall’altra parte del mare; ma la strada per arri vare fin là è lunga, dobbiamo attraversare l’immenso mare e non c’è neppure un’isola su cui posarci e passare la notte, solamente un unico scoglio, molto

«L’acqua è instancabile nel suo lavoro e così riesce a smussare gli oggetti più duri; anch’io voglio essere altrettanto instancabile! Grazie per quanto mi avete insegnato, chiare onde fluttuanti; un giorno, me lo dice il mio cuore, voi mi porterete dai miei cari fratelli!»

Tra i relitti portati dall’onda, c’erano undici bianche piume di cigno; lei le raccolse e ne fece un mazzetto, e vide delle goccioline d’acqua; ma chi pote va dire se erano lacrime o gocce di rugiada? Elisa era sola sulla spiaggia, ma non soffriva di solitudine, il mare infatti era in continuo mutamento, si tra sformava in poche ore più volte che non un lago nell’arco di un anno intero. Se sopraggiungeva una grande nuvola nera, il mare sembrava dire: «Posso anche oscurarmi!». Quando soffiava il vento le onde mostravano il bianco, se il vento calava e le nubi erano rosse, allora il mare diventava liscio come i petali di rosa; poi si faceva ora verde ora bianco, ma per quanto potesse sta re calmo c’era sempre un lieve movimento lungo la riva, l’acqua si sollevava dolcemente, come il petto di un bambino che dorme. Mentre il sole tramontava Elisa vide undici cigni bianchi con le coro ne d’oro in testa volare verso la riva; allineati com’erano uno dietro l’altro, sembravano un lungo nastro bianco. Elisa si arrampicò sulla scarpata e si nascose dietro un cespuglio: i cigni si posarono vicino a lei e sbatterono le loro grandi ali bianche. Non appena il sole scomparve nel mare, i cigni persero il loro manto di piume e apparvero undici bellissimi principi, i fratelli di Elisa! Lei mandò un grido perché, benché fossero cambiati molto, sentiva che erano loro; si precipitò nelle loro braccia chiamandoli per nome, e loro, riconoscendo la sorellina che si era fatta così grande e bella, si rallegrarono immensamen te. Ridevano e piangevano, e subito si resero conto di quanto la matrigna fosse stata cattiva con loro.

«Sì, portatemi con voi!» supplicò Elisa.

Erano già lontani dalla riva quando Elisa si svegliò; credette di sognare ancora, tanto era strano venire trasportata sul mare, così in alto nel cielo. Al suo fianco si trovavano un ramoscello di belle bacche mature e un mazzetto di radici saporite; li aveva raccolti il più giovane dei fratelli, e lei gli sorrise riconoscente, poiché era proprio lui, l’aveva riconosciuto, che le volava sul capo per farle ombra con le ali.

Erano così in alto che la prima nave che videro sotto di loro sembrò un gabbiano bianco che galleggiasse sull’acqua.

«Come posso fare per salvarvi?» esclamò la sorellina.

Elisa fu svegliata dal rumore delle ali dei cigni, che sibilavano sopra di lei. I suoi fratelli si erano già trasformati di nuovo e volavano in larghe spirali, e presto scomparvero; ma uno di loro, il più giovane, rimase con lei; posò il suo capo di cigno sul suo grembo e lei gli accarezzò le bianche ali. Rimasero insieme tutto il giorno, verso sera ritornarono gli altri, e quando il sole scom parve ripresero la loro forma umana.

«Domani partiremo e non potremo tornare prima che sia passato un anno intero, ma non possiamo lasciarti così! Hai il coraggio di venire con noi? Le nostre braccia sono abbastanza robuste da portarti per il bosco, quindi anche le ali saranno abbastanza forti da portarti con noi sul mare!»

Per tutta la notte intrecciarono una rete con la corteccia del salice e dei giunchi pieghevoli, e la rete riuscì grande e robusta; Elisa vi si adagiò sopra e quando il sole sorse, i fratelli si trasformarono in cigni selvatici, afferraro no la rete con il loro becco e si sollevarono tra le nuvole con la cara sorellina che ancora dormiva. I raggi del sole le cadevano dritti sul capo, allora uno dei cigni volò proprio sopra di lei perché le ali le facessero ombra.

Continuarono a parlare per quasi tutta la notte, dormendo solo poche ore.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 127 piccolo, che affiora: soltanto stringendoci riusciamo a starci tutti e quando il mare è mosso, l’acqua ci spruzza; ma nonostante ciò ne ringraziamo Dio. Lì passiamo la notte nelle sembianze di uomini e senza quello scoglio non potremmo mai rivedere la nostra cara terra natale, perché utilizziamo i due giorni più lunghi dell’anno per compiere il viaggio. Solo una volta all’anno ci è permesso visitare la nostra patria e possiamo restare qui solamente undici giorni. Allora voliamo sopra questa grande foresta e rivediamo il castello do ve siamo nati e dove nostro padre ancora vive, scorgiamo anche il campanile della chiesa dove nostra madre è sepolta».

«Un richiamo del sangue ci lega a questi alberi e a questi cespugli, qui ca valcano per le praterie i cavalli selvaggi, proprio come ai tempi della nostra infanzia, qui i carbonai cantano le vecchie canzoni al cui ritmo noi ballavamo quand’eravamo piccoli; questa è la nostra cara patria che ci chiama a sé, e qui abbiamo ritrovato te, cara sorellina! Possiamo rimanere ancora due giorni, poi siamo costretti a partire per quella bella terra, che però non è la nostra patria! Come facciamo a portarti con noi? Non c’è una vela né una barca!»

Alle loro spalle sopraggiunse una nube grande quanto una montagna do ve Elisa vide proiettarsi la sua ombra e quella degli undici cigni; erano ombre

Quando il sole fu più alto Elisa vide davanti a sé una montagna quasi so spesa nell’aria; tra le rocce luccicavano i ghiacciai e nel mezzo si innalzava un castello lungo miglia e miglia, cinto da arditi colonnati sovrapposti; bo schi di palme e fiori meravigliosi, grandi come ruote di mulini, circondavano ondeggiando il castello.

Elisa chiese se quello era il paese dove dovevano arrivare, ma i cigni scos sero il capo: quello che si vedeva era il bellissimo ma sempre mutevole ca stello di nuvole della Fata Morgana, e nessun uomo vi poteva entrare. Elisa lo osservò con attenzione; le montagne, i boschi e il castello stesso crollarono in un attimo, e apparvero venti chiese superbe, tutte uguali tra loro, con alti cam panili e finestre appuntite. Le sembrò di sentire la musica di un organo, ma in realtà sentiva il mare. Ora era molto vicina alle chiese e queste si trasforma rono in una flotta di navi che navigavano sotto di lei. Guardò più attentamen te e vide solo la nebbia del mare sospinta dal vento. Era dunque vero! Stava assistendo a una continua trasformazione; ma infine avvistò la vera terra che

Volarono per tutto il giorno come frecce nell’aria, sebbene fossero meno veloci del solito perché dovevano portare la sorella. Il tempo peggiorava e la sera si avvicinava; preoccupata, Elisa guardava il sole che calava: ancora non si riusciva a scorgere lo scoglio. Le sembrò che i cigni battessero con più rapidità le ali. Oh, era colpa sua se non arrivavano in tempo! Una volta tra montato il sole, sarebbero diventati uomini, sarebbero precipitati nel mare e affogati. Allora rivolse dal profondo del suo cuore una preghiera al Signore, ma ancora lo scoglio non si vedeva. Le nuvole nere si avvicinavano, violen te raffiche di vento annunciavano una tempesta, le nuvole ormai formavano insieme un’onda nera e minacciosa che avanzava inesorabilmente; i lampi rischiaravano il cielo senza posa.

Il mare si frangeva contro lo scoglio e li spruzzava come se stesse pioven do; il cielo sembrava infuocato e i tuoni rimbombavano in continuità. Ma i fra telli si tenevano stretti e intonarono un salmo, con cui ritrovarono il coraggio.

F IABE128 gigantesche, in una visione meravigliosa, come non ne aveva viste mai, ma il sole continuava a salire nel cielo e la nuvola rimase indietro: l’immagine del le ombre piano piano svanì.

Il sole era ormai all’orizzonte. Il cuore di Elisa fremeva; all’improvviso i cigni si abbassarono così rapidamente che lei credette di cadere, poi si ri alzarono nuovamente. Il sole era già scomparso per metà, solo in quel mo mento lei scorse sotto di sé quel piccolo scoglio: non sembrava più grande di una foca che sporge la testa fuori dell’acqua. Il sole calava rapidamente, ora era grande solo come una stella. Il suo piede toccò la dura roccia, pro prio mentre il sole soffocava l’ultima scintilla della sua carta incendiata. Elisa vide intorno a sé i fratelli che si tenevano per mano, non c’era altro spazio oltre a quello occupato da lei e da loro.

All’alba l’aria era di nuovo calma e limpida, e non appena comparve il sole, i cigni e Elisa ripresero il volo. Il mare era ancora grosso, e guardando dall’alto, la spuma bianca sul mare verde scuro sembrava costituita da mi lioni di cigni che nuotavano nell’acqua.

Quando il sole tramontò giunsero i fratelli che si spaventarono nel ve derla così silenziosa; all’inizio credettero fosse un nuovo incantesimo della matrigna cattiva, ma quando videro le sue mani, capirono quel che lei stava facendo per la loro salvezza, e il più giovane dei fratelli pianse; dove cade vano le sue lacrime scompariva il dolore e sparivano le bolle brucianti. Elisa trascorse tutta la notte al lavoro, perché non poteva trovare pace pri ma di aver salvato i cari fratelli; passò tutto il giorno dopo da sola, dato che i cigni s’erano allontanati, ma il tempo volò. Una tunica era già finita e ora ini ziava la Improvvisamenteseconda. risuonarono i corni da caccia tra le montagne e lei si

«Vorrei poter sognare come fare a salvarvi!» rispose la fanciulla, e quel pensiero la occupò completamente; nel suo intimo pregò Dio di aiutarla, an che nel sonno continuò a pregare; poi le sembrò di volare fino al castello di nuvole della Fata Morgana e vide la fata venirle incontro, bella e scintillante, e tuttavia assomigliava proprio alla vecchietta che le aveva dato le bacche nel bosco e le aveva raccontato dei cigni con la corona d’oro.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 129 dovevano raggiungere. Si innalzavano splendide montagne azzurre, con bo schi di cedro, città e castelli. Molto tempo prima che il sole tramontasse, Elisa si trovò seduta su una roccia davanti a una grande grotta nascosta da verdi piante rampicanti sottili come tende ricamate.

Con le sue manine delicate colse quelle orribili ortiche che sembravano infuocate; grosse bolle le si formarono sulle mani e sulle braccia, ma lei sof friva volentieri se questo poteva salvare i suoi cari fratelli. Pestò ogni pianta di ortica con i piedini nudi e ne ricavò la verde fibra.

«I tuoi fratelli possono essere salvati!» esclamò la fata «ma tu sarai ab bastanza coraggiosa e perseverante? È vero che il mare è più lieve delle tue belle mani e pure smussa le pietre più dure, ma non sente il dolore che le tue dita dovranno patire, non ha cuore, non soffre la paura e il supplizio che tu dovrai sopportare. Vedi questa ortica che ho in mano? Di queste ne cre scono tante vicino alla grotta dove dormi. Ma ricordati, solo queste piante e quella che cresce tra le tombe del cimitero possono essere usate; tu dovrai raccoglierle, anche se ti bruceranno la pelle e te la copriranno di bolle, poi dovrai pestarle con i piedi per ottenerne la fibra: con questa dovrai tessere undici tuniche e gettarle sugli undici cigni selvatici; solo così l’incantesimo verrà rotto. Ma ricorda, dal momento in cui comincerai questo lavoro fino a quando non sarà finito, e possono passare anni, non dovrai più parlare; la prima parola pronunciata trapasserebbe come un pugnale il cuore dei tuoi fratelli. Dalla tua lingua dipende la loro vita. Ricorda tutto quel che ti ho detto!» Intanto sfiorò con l’ortica la mano di Elisa, e a quella sensazione di fuoco acceso Elisa si svegliò. Era già giorno e vicino al suo giaciglio c’era un’ortica, proprio come quella vista nel sogno. Allora s’inginocchiò, ringraziò il Signore e uscì dalla grotta per cominciare il suo lavoro.

«Chissà cosa sognerai questa notte!» esclamò il più giovane dei fratelli mostrando a Elisa la sua camera da letto.

In quel momento comparve dalla macchia un grosso cane, seguito da un altro e da un altro ancora. Abbaiavano forte, tornavano indietro e compari vano di nuovo. Dopo pochi minuti tutti i cacciatori stavano all’ingresso della grotta e tra loro il più bello era il re del paese, che si avvicinò a Elisa: non ave va mai visto una ragazza più bella.

F IABE130 spaventò. Il suono si avvicinava, Elisa sentiva i cani abbaiare; terrorizzata, si rifugiò nella grotta, legò in un fascio le ortiche che già aveva raccolto e pesta to e vi sedette sopra.

Poi il re aprì una cameretta che si trovava vicino alla camera da letto di Eli sa; era tappezzata di preziosi tendaggi verdi che la facevano assomigliare alla grotta in cui era stata; sul pavimento il fascio di fibre che aveva ricavato dalle ortiche e dal soffitto pendeva la tunica già terminata. Tutto questo era stato raccolto da un cacciatore per pura curiosità. «Qui puoi ripensare alla tua vecchia dimora» le disse il re. «Questa è l’atti vità che ti teneva occupata allora; adesso, in tanto lusso, ti divertirai a ripen sare a quei tempi!»

Il re non lo ascoltò, fece suonare la musica, fece preparare le pietanze più prelibate e fece danzare intorno a lei le fanciulle più graziose. Elisa ven ne condotta attraverso giardini profumati e in saloni meravigliosi, ma sulle sue labbra non comparve un sorriso, e neppure nei suoi occhi; c’era posto solo per il dolore, per sempre!

Non appena Elisa vide quegli oggetti, che le stavano tanto a cuore, si mise a sorridere e il sangue le ravvivò le guance; pensò alla salvezza dei fratelli e baciò la mano del re, che la abbracciò con forza e fece suonare tutte le campa

«Come sei arrivata qui, bella fanciulla?» le chiese. Elisa scosse la testa: non poteva parlare, ne andava di mezzo la salvezza e la vita dei suoi fratel li; e nascose le sue mani sotto il grembiule, perché il re non vedesse quanto soffriva.«Vieni con me!» le disse «qui non puoi certo restare! Se sei buona quanto sei bella, ti rivestirò con seta e velluto, ti metterò una corona d’oro sul capo e tu abiterai nel più ricco dei miei castelli» e così dicendo la sollevò sul suo ca vallo; lei piangeva e si torceva le mani, ma il re disse: «Io voglio la tua felicità! Un giorno mi ringrazierai per questo!» e così ripartì verso i monti tenendola davanti a sé sul cavallo, seguito dai cacciatori. Quando tramontò il sole apparve la splendida capitale, ricca di chiese e cupole. Il re condusse la fanciulla al castello, dove grandi fontane zampilla vano negli alti saloni di marmo, le pareti e i soffitti erano splendidamente affrescati, ma Elisa non vedeva nulla e piangeva sconsolata. Senza opporsi, lasciò che le dame di corte la rivestissero di abiti regali, le intrecciassero perle nei capelli e le infilassero morbidi guanti sulle dita bruciate. Così vestita, appariva di una bellezza insuperabile; tutta la corte le si in chinò con una riverenza molto profonda e il re la chiamò sua sposa, sebbe ne l’arcivescovo scuotesse il capo commentando che la bella fanciulla del bosco in realtà era certo una strega che aveva accecato gli occhi di tutti e sedotto il cuore del re.

Sapeva che nel cimitero crescevano le ortiche che lei doveva usare, ma doveva coglierle lei stessa; come poteva recarsi fin là?

L’arcivescovopaese!sussurrò

“Il dolore alle dita non è nulla in confronto al tormento del mio cuore!” pensava. “Devo tentare! Il buon Dio non mi abbandonerà!”. Col cuore treman te, come stesse per compiere una cattiva azione, uscì in una notte di luna, in giardino, attraversò i grandi viali, passò per le strade deserte fino al cimitero. Vide sedute su una delle tombe più grandi un gruppo di lamie, streghe cat tive che si strappavano i vestiti come volessero fare il bagno e poi scavavano con le lunghe dita magre nelle tombe più fresche, tirandone fuori i corpi e mangiandone la carne. Elisa dovette passare accanto a loro, che le lanciaro no sguardi cattivi; ma lei recitò le sue preghiere, raccolse l’ortica infuocata e la portò al castello. Un solo uomo l’aveva vista, l’arcivescovo, che stava sveglio quando gli altri dormivano. Aveva dunque avuto ragione a sospettare della regina: era una strega che aveva sedotto il re e tutto il popolo. In confessione riferì al re quanto aveva visto e quel che sospettava; mentre egli pronunciava quelle cattiverie le immagini intagliate dei santi scossero la testa, come per dire: «Non è vero! Elisa è innocente!». Ma l’arcivescovo inter pretò il fatto in un altro modo, sostenne che i santi testimoniavano contro di lei e scuotevano la testa per i suoi peccati. Due lacrime solcarono le guance del re, che tornò a casa col cuore pieno di dubbi: la notte fingeva di dormire, ma i suoi occhi non riuscivano a trovare quiete: si accorse così che Elisa si al zava ogni notte e, seguendola, la vide scomparire nella cameretta. Un giorno dopo l’altro il suo sguardo si faceva più scuro; Elisa, veden dolo, ne soffriva, sebbene non ne comprendesse la ragione, e soffriva tanto anche per i fratelli!

Ogni giorno egli le voleva più bene; oh, se solo avesse potuto confidarsi con lui, dirgli la sua pena! Ma doveva rimanere muta, muta doveva compie re il suo lavoro. Per questo ogni notte si allontanava da lui e si recava nel la cameretta che somigliava alla grotta, e lì tesseva una tunica dopo l’altra; stava cominciando la settima, quando restò senza fibra.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 131 ne per annunciare il matrimonio. La bella fanciulla muta del bosco diventava la regina del

Sul velluto e sulle porpore principesche cadevano le sue lacrime salate e lì restavano come diamanti splendenti; tutte coloro che vedevano una tale magnificenza desideravano diventare regina. Elisa aveva quasi terminato il suo lavoro; le mancava ancora una sola tunica, ma era rimasta senza fibre e senza ortiche.

parole cattive all’orecchio del re, ma queste non gli raggiunsero il cuore. Il matrimonio venne celebrato; l’arcivescovo in persona dovette cingere con la corona il capo di Elisa e di proposito gliela calzò troppo sulla fronte perché le facesse male; ma su di lei gravava una pena ben pesante, il dolore per i suoi fratelli, e non sentì affatto la sofferenza fisica. La sua bocca restò muta, una sola parola avrebbe infatti ucciso i fratelli, ma nei suoi occhi c’era un profondo amore per il buon re, che faceva di tutto per renderla felice.

Elisa dunque andò e il re e l’arcivescovo la seguirono, la videro sparire dietro l’inferriata del cimitero e quando si avvicinarono, videro le lamie se dute sulle tombe, proprio come le aveva viste Elisa, e il re si voltò dall’altra parte, perché pensò che tra di loro ci fosse anche Elisa, la cui testa, anche quella notte aveva riposato sul suo petto! «Il popolo giudicherà» dichiarò, e il popolo decise che fosse arsa tra le fiamme.

Dalle splendide sale del palazzo Elisa venne condotta in un carcere buio e umido, dove il vento sibilava tra le sbarre della finestra. Invece di seta e vel luto le diedero i fasci di ortica che aveva raccolto, lì avrebbe potuto appoggia re il capo. E le tuniche ruvide e brucianti che aveva tessuto dovevano essere il suo materasso e le sue coperte. Non potevano darle niente di più caro! Lei ricominciò a lavorare e pregò il Signore. Dalla strada i monelli le rivolgevano ingiurie; non un’anima la confortava con una buona parola.

I topolini correvano sul pavimento portando ai suoi piedi i fili di ortica per aiutarla, il merlo si appollaiò sull’inferriata e cantò per tutta la notte meglio che poté, perché lei non si scoraggiasse.

Giunse l’arcivescovo, per trascorrere con lei le ultime ore come aveva promesso al re, ma lei scosse la testa, e coi gesti e gli occhi lo pregò di an darsene; quella notte doveva terminare il suo lavoro, altrimenti tutto sa rebbe stato inutile, i dolori, le lacrime e le notti insonni. L’arcivescovo se ne andò pronunciando nuove cattiverie su di lei, ma la povera Elisa sapeva di essere innocente e continuò a lavorare.

Verso sera un’ala di cigno sfiorò l’inferriata: era il più giovane dei fratel li che aveva ritrovato la sorellina; lei singhiozzò forte per la gioia, sebbene sapesse che quella sarebbe stata probabilmente l’ultima notte per lei; ma ormai il lavoro era terminato e i suoi fratelli erano lì.

Non era ancora l’alba, mancava un’ora al sorgere del sole quando gli undici fratelli che si trovavano all’ingresso del castello chiesero di essere condotti dal re; ma «Non è possibile!» fu risposto «è ancora piena notte, il re dorme e non può essere svegliato». Loro supplicarono, minacciarono; giunse la sentinella; persino il re uscì e chiese che cosa stava succedendo. Ma in quel momento il so le sorse e i fratelli non si videro più: sul castello volavano undici cigni bianchi.

Un’ultima volta doveva andare al cimitero a raccogliere qualche manciata di ortiche. Ripensò con terrore alla passeggiata solitaria e alle terribili lamie, ma la sua volontà era ferma, come la sua fiducia nel Signore.

Tutto il popolo affluiva alla porta della città per vedere bruciare la strega. Un misero cavallo tirava il carretto su cui Elisa era seduta; l’avevano vestita con una tela di sacco ruvida, i lunghi e bei capelli cadevano sciolti intorno al viso grazioso, le guance erano pallide come la morte, le labbra si muovevano piano mentre le dita intrecciavano la verde fibra: persino andando verso la morte non aveva smesso il suo lavoro; le dieci tuniche giacevano ai suoi pie di, e lei stava terminando l’undicesima. Il volgo la ingiuriava. «Guardate la strega! Come borbotta! Non ha il libro dei salmi con sé, no, è circondata dai suoi luridi sortilegi. Strappateglieli in mille pezzi!»

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hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 133

Tutte le campane delle chiese suonarono da sole e gli uccelli sopraggiun sero a stormi in direzione del castello; si formò un corteo nuziale così lungo che nessun re mai aveva visto l’eguale.

E tutti si spinsero verso di lei e le volevano strappare il lavoro; allora giun sero undici cigni bianchi in volo e circondarono il carretto sbattendo le grandi ali, così allontanarono la folla spaventata.

«È un segno del cielo! È sicuramente innocente!» sussurravano in molti, ma nessuno osò dirlo a voce alta. Il boia la afferrò per una mano, allora lei gettò in fretta le undici tuniche sui cigni e subito apparvero undici bellissimi principi. Il più giovane aveva però ancora un’ala di cigno al posto del braccio, perché Elisa non aveva an cora potuto tessere una manica all’ultima tunica. «Adesso posso parlare!» esclamò. «Sono innocente!» E il popolo, che aveva visto l’accaduto, si inchinò davanti a lei come da vanti a una santa, ma lei cadde svenuta tra le braccia dei fratelli, dopo tutta quella tensione, quell’angoscia, quel dolore. «Sì, è innocente!» disse il fratello maggiore e raccontò tutto quel che era successo. Mentre lui parlava si sparse nell’aria un profumo come di migliaia di rose: ogni piccolo legno del rogo aveva messo radici e fioriva; ora era un cespuglio alto e profumato, di rose rosse, e in cima c’era un fiore bianco e lu minoso come una stella; il re lo colse e lo mise sul seno di Elisa e lei subito si risvegliò col cuore pieno di pace e di felicità.

7. Rileggi il seguente passaggio: «Con le sue manine delicate colse quelle orribili ortiche che sembravano infuocate; grosse bolle le si formarono sulle mani e sulle braccia, ma lei soffriva volentieri se questo poteva salvare i suoi cari fratelli».

4. Rileggi con attenzione il passaggio in cui Elisa, dopo aver incontrato la vecchia, si trova davanti al mare. Che cosa scopre guardando i ciottoli che si trovano sulla spiaggia? Quale desiderio esprime? Che cosa ha imparato la ragazza da questa osservazione?

3. Rileggi il seguente passaggio, immediatamente precedente alla descrizione del punto «Pensava2: ai suoi fratelli, pensava al buon Dio che certamente non l’avrebbe abbandonata, lui che fa crescere le mele selvatiche per dar da mangiare agli affamati». Come definiresti Elisa in questo passaggio? Perché è sicura che Dio non la abbandonerà?

5. Qual è l’incantesimo a cui sono sottoposti i fratelli di Elisa? Come sono di giorno e che cosa succede loro al tramonto? Come e quando possono visitare la loro patria?

2. Rileggi con attenzione la seguente descrizione tratta dalla fiaba: «C’era un tale silenzio che sentiva il rumore dei suoi passi, sentiva ogni singola foglia secca che scricchiolava sotto i suoi piedi, non si vedeva un uccello e neppure un raggio di sole riusciva a passare attraverso i fitti rami degli alberi: i tronchi alti erano così vicini tra loro che quando guardava davanti a sé, le sembravano una inferriata che la tenesse prigioniera; per la prima volta provava una solitudine tanto profonda!»

F IABE1.134

6. Cosa deve fare Elisa per salvare i suoi fratelli? Quali condizioni deve rispettare?

Quali sono le caratteristiche del luogo in cui si trova la protagonista? Che rapporto c’è tra i sentimenti di Elisa e questo ambiente?

Nella prima parte della fiaba sottolinea i passaggi che presentano la malinconia di Elisa. Ora rispondi: perché è triste e prova nostalgia?

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 135

8. Come si comporta Elisa nella parte finale della fiaba, da quando incontra il re in avanti? Che cosa le permette di compiere questo sacrificio?

9. Come si conclude la vicenda? Che cosa accade alla protagonista? Che cosa prova alla fine della fiaba?

10. Completa la frase, raccontando un episodio che giustifichi questa affermazione: Elisa è capace di sacrificio, infatti … 11. Ora scegli tre aggettivi per presentare tre caratteristiche di Elisa che si mostrano nella fiaba. Come nel punto precedente, per ciascuna delle tue affermazioni racconta un episodio che giustifichi la tua scelta, completando, per tre volte, questa frase: Elisa è …, infatti … 12. Evidenzia il termine che condensa meglio il significato più profondo della fiaba: Dolore Speranza Perseveranza Pazienza Devozione Amore Fiducia Amicizia Salvezza Gentilezza Tenacia Felicità Generosità Sacrificio Pace Assegna alla fiaba un nuovo titolo che comprenda la parola scelta. Scrivi un riassunto della fiaba che giustifichi il titolo che hai dato.

Ora rispondi, osservando in modo particolare le parole sottolineate: come giudichi il comportamento di Elisa? Ti sembra ragionevole? Motiva la tua risposta.

F IABE136 HANS CHRISTIAN ANDERSEN

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l’avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati; la cicogna passeggiava sul le sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva imparato quel la lingua da sua madre. Intorno ai campi e ai prati c’erano grandi boschi, e in mezzo ai boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campa gna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da profondi canali, e tra il muro e l’acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio1, ed erano così alte che i bambini piccoli potevano stare dritti all’ombra delle più grandi. Quel luogo era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un’anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai era quasi stanca, sia perché ci voleva tanto tempo, sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risa lire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.

Il brutto anatroccolo

Finalmente una dopo l’altra, le uova scricchiolarono. «Pip, pip» si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e sporgevano fuori la testolina.

«Qua, qua!» disse l’anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardas sero, perché il verde fa bene agli occhi.

«Com’è grande il mondo!» esclamarono i piccoli; adesso infatti avevano molto più spazio di quando stavano nell’uovo. «Credete forse che questo sia tutto il mondo?» chiese la madre. «Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non sono mai stata. Ci siete tutti, vero?» e intanto si alzò. «No, non siete tutti. L’uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa» e si rimise a covare.«Allora, come va?» chiese una vecchia anatra giunta a farle visita.

«Ci vuole tanto tempo per quest’unico uovo!» rispose l’anatra che covava. «Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più deliziosi ana troccoli che io abbia mai visto: assomigliano tanto al loro padre, quel bricco ne, che non viene neppure a trovarmi». «Fammi vedere l’uovo che non si vuole rompere!» disse la vecchia. «Può essere un uovo di tacchina! Anch’io sono stata ingannata una volta, e ho pas sato dei guai con i piccoli che avevano una paura incredibile dell’acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi ve dere l’uovo. Sì, è un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuo tare ai tuoi piccoli». 1 farfaraccio: pianta che si trova solitamente ai bordi dei ruscelli, dei fiumi e nelle zone umide. Ha foglie molto grandi e fiori rosei riuniti in spighe. Può raggiungere il metro d’altezza.

«Lasciatelo stare» gridò la madre «non ha fatto niente a nessuno!»

«Sì, ma è troppo grosso e strano!» rispose l’anatra che lo aveva beccato «e quindi ne prenderà un bel po’!»

«Adesso lo covo ancora un po’, l’ho covato così a lungo che posso farlo an cora un po’!» «Fai come vuoi!» commentò la vecchia anatra andandosene. Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L’anatra lo osservò. «È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!» Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole splendeva sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra arrivò con tutta la famiglia al canale. Splash! Si buttò in acqua; «Qua, qua!» disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno do po l’altro. L’acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleg giarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c’erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro. «No, non è un tacchino!» esclamò l’anatra «guarda come muove bene le zampe, come si tiene ben dritto! È proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! Venite con me, vi condurrò nel mondo e vi presen terò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre vicino a me, che nessuno vi calpesti, e fate attenzione al gatto!»

Entrarono nel pollaio. C’era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d’anguilla, che alla fine andò al gatto.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 137

«Non è possibile, Vostra Grazia!» rispose mamma anatra «non è bello, ma è di animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po’ meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. È rimasto troppo a lungo nell’uovo, per questo ha un corpo non del tutto nor

«Vedete come va il mondo!» disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d’anguilla. «Adesso muovete le zam pe» aggiunse «provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. È la più distinta di tutte, è di origine spagnola, per questo è così pesante! Guardate, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. È una cosa proprio straordinaria, la massima onorificenza che un’anatra possa ottenere. Significa che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muo vetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!»

E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: «Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e… mamma mia com’è brutto quell’anatroccolo! Lui non lo vogliamo!» e subi to un’anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.

«Che bei piccini ha mamma anatra!» disse la vecchia con lo straccetto in torno alla zampa «sono tutti belli, eccetto uno che non è venuto bene. Sareb be bello che lo potesse rifare!»

Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alza rono in volo spaventati. “È perché io sono così brutto” pensò l’anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre. Arrivò così nella grande palude, abi tata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.

Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall’uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: «È troppo grosso!» dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e quindi credeva di essere imperatore, si gonfiò come un’imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto ab battuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.

F IABE138 male». E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. «Comun que è un maschio» aggiunse «e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!» «Gli altri anatroccoli sono graziosi» disse la vecchia. «Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d’anguilla, portatemela». E così fecero come se fossero a casa loro.

Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero ana troccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: «Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!» e la madre pensava: “Se tu fossi lontano da qui!”. Le anatre lo beccavano, le galline lo col pivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.

«Ascolta, compagno» dissero «tu sei così brutto che ci piaci molto! Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un’altra palude qui vicino si tro vano delle graziose oche selvatiche, tutte signorine che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!»

«Pum, pum!» si sentì di nuovo, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere. Poi spararono di nuovo. C’era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni s’erano arrampicati sui rami degli alberi e si affaccia vano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull’acqua. Nel fango giunsero i cani da caccia; plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero ana troccolo piegò la testa cercando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso

Il mattino dopo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. «E tu chi sei?» gli chiesero, e l’anatroccolo si voltò da ogni parte e salutò come meglio poté. «Sei proprio brutto!» esclamarono le anatre selvatiche «ma a noi non im porta nulla, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!» Quel poveretto non pensava certo a sposarsi, gli bastava solamente poter stare tra i giunchi e bere un po’ di acqua della palude.

Lì rimase due giorni, poi giunsero due oche selvatiche, o meglio, due pa peri selvatici, dato che erano maschi. Era passato poco tempo da quando erano usciti dall’uovo e per questo erano molto spavaldi.

«Pum, pum!» si sentì in quel momento, entrambe le anatre caddero morte tra i giunchi e l’acqua si arrossò per il sangue.

Verso sera raggiunse una povera e piccola casa di contadini, era così mi sera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così rimaneva in piedi. Il vento soffiava intorno all’anatroccolo, tanto che lui dovette sede re sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da un lato ed era tutta inclinata, e che lui, at traverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.

Al mattino si accorsero subito dell’anatroccolo estraneo, e il gatto co minciò a fare le fusa e la gallina a chiocciare. «Che succede?» chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vede va bene e così credette che l’anatroccolo fosse una grassa anatra che si era smarrita. «È proprio una bella preda!» disse «ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova». E così l’anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina era la padrona, e sempre dice vano: «Noi e il mondo!» perché credevano di esserne la metà, e naturalmente la metà migliore. L’anatroccolo pensava che si potesse avere anche un’altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava. «Fai le uova?» chiese la gallina. «Allora«No». te ne vuoi stare zitto!»

E il gatto gli disse: «Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare«Bene,«No!»scintille?».allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli».El’anatroccolo se ne stava in un angolo, di cattivo umore. Poi cominciò a pensare all’aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell’acqua, alla fine non poté trattenersi e lo disse alla gallina.

Solo a giorno inoltrato tornò la quiete, ma il povero giovane ancora non osava rialzarsi; attese ancora molte ore prima di guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude il più presto possibile. Corse per campi e prati, ma c’era molto vento e faceva fatica ad avanzare.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 139 momento si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli pendeva fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all’anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! Se ne andò senza fargli nulla.«Dio sia lodato!» sospirò l’anatroccolo «sono così brutto che persino il ca ne non osa mordermi».

Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chia mava “figliolo”, sapeva incurvare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo era chiamata “coccodè gamba corta”, faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.

E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si sentiva sparare un colpo dopo l’altro.

«Sì, è certo un gran divertimento!» commentò la gallina «tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull’acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama! Più intelligente di lei non c’è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l’acqua sopra la testa?»«Voinon mi capite!» disse l’anatroccolo. «Certo, se non ti capiamo noi chi dovrebbe capirti, allora? Non sei certo più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! E ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non sei forse stato in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. A me puoi credere: io faccio il tuo bene se ti dico cose spiacevoli; da questo si riconosco no i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!» «Credo che me ne andrò per il mondo» disse l’anatroccolo. «Fai come vuoi!» gli rispose la gallina. E così l’anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull’acqua e vi si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza. Venne l’autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare; e su nel cielo sembrava facesse proprio freddo. Le nuvole era no cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo. Vengono i brividi solo a pensarci. Il po vero anatroccolo non stava certo bene. Una sera che il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l’anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessibili: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, allargarono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si al zarono così alti che il brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia, si roto lò nell’acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro ed emise un grido così acuto e strano, che lui stesso ne ebbe paura. Oh, non riusciva a dimen ticare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò nell’acqua fino sul fondo, e tornato a galla era come fuori di sé. Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove si stavano dirigendo, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava affatto. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato con tento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale! E l’inverno fu freddo, molto freddo. L’anatroccolo dovette nuotare conti nuamente per evitare che l’acqua ghiacciasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più stretto. Ghiacciò, poi la superficie scricchio lò. L’anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l’ac

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«Ma è così bello galleggiare sull’acqua!» disse l’anatroccolo «così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo!»

«Cosa ti succede?» gli chiese lei. «Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!»

I bambini volevano giocare con lui, ma l’anatroccolo credette che gli vo lessero fare del male; per paura cadde nel secchio del latte e lo fece tra boccare nella stanza. La donna gridò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c’era il burro, e poi nel barile della farina, e poi fuori di nuo vo! Uh, come si era ridotto! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di afferrarlo e intanto ri devano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l’anatroccolo volò fuori tra i cespugli, nella neve caduta, e lì restò, stordito. Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude tra le canne, quando il sole ricominciò a splendere caldo. Le allodole cantavano, era giunta la bella primavera! Allora sollevò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di pri ma e che lo sostennero con forza, e prima ancora di accorgersene si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lillà profuma vano e piegavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! E com’era fresca l’aria di primavera! Dalle fitte piante uscirono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e gal leggiarono dolcemente sull’acqua. L’anatroccolo riconobbe quegli splendi di animali e fu invaso da una strana tristezza. «Voglio volare da loro, da quegli uccelli reali; mi uccideranno con le lo ro beccate, perché io, così brutto, oso avvicinarmi a loro. Ma non mi impor ta! È meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che ha cura del pollaio, e soffrire tanto d’inverno!» E volò nell’acqua e nuotò verso quei magnifici cigni; questi lo guardarono e si diressero verso di lui frullando le piume. «Uccidetemi!» esclamò il povero animale e abbassò la testa verso la superficie dell’acqua in attesa della morte, ma, che cosa vide in quell’acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgra ziato, era anche lui un cigno. Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si è usciti da un uovo di cigno? Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco. Nel giardino giunsero alcuni bambini e gettarono pane e grano nell’acqua; poi il più piccolo gridò: «Ce n’è uno nuovo!». E gli altri bambini esultarono con lui: «Sì, ne è arrivato uno nuovo!». Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il padre e la madre, e gettarono di nuovo pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: «Il nuovo è il più bello, così giovane e fiero!». E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 141 qua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e restò intrappolato nel ghiaccio.Almattino

presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.

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Allora si sentì timidissimo e infilò la testa dietro le ali, non sapeva neppu re lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato persegui tato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lillà piegarono i rami fino all’acqua e il sole splendeva caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato ed esultò nel cuore: «Tanta felicità non l’avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!».

6. Qual è lo stato d’animo dell’anatroccolo quando incontra i cigni per la seconda volta? Che cosa decide dopo averli rivisti? Che cosa è cambiato nel suo comportamento rispetto alla prima volta?

Che cosa significa la loro espressione: «Noi e il mondo!»? Che cosa intende l’anatroccolo quando dice loro: «Voi non mi capite!»?

3. Perché il cane se ne va senza fare nulla all’anatroccolo?

Che cosa viene detto di lui dal narratore dopo l’incontro con queste anatre? Che cosa pensano di lui i paperi selvatici?

4. Perché il gatto e la gallina credono di essere superiori all’anatroccolo?

5. Che cosa prova il brutto anatroccolo quando vede per la prima volta i cigni? Che cosa significa l’espressione: «Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza!»? Quali conseguenze trae l’anatroccolo da questo primo incontro con loro?

2. Che cosa pensano le anatre selvatiche del brutto anatroccolo?

8. Leggi con attenzione la definizione e l’etimologia del termine nostalgia, presente nel testo: nostalgia: [dal greco νόστος, ‘ritorno’] desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano1. 1 Vocabolario Treccani.

7. Rileggi il seguente passaggio tratto dalla prima parte del testo: «Entrarono nel pollaio. C’era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d’anguilla, che alla fine andò al gatto. “Vedete come va il mondo!” disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d’anguilla». Ora rispondi: che cosa intende dire la mamma anatra con la frase «Vedete come va il mondo?» Come si collega questa frase con le vicende dell’anatroccolo narrate nel racconto?

1. Dopo aver riletto la fiaba dall’inizio fino alla fine del dialogo tra la madre e la vecchia anatra, rispondi: come cambia nella prima parte il giudizio della madre sul brutto anatroccolo? Cosa pensa di lui? Perché crede che sia importante per lui il fatto di essere un maschio?

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Ora rispondi: a cosa è riferito nel testo questo termine? Come la definizione e l’etimologia di questa parola ti aiutano a comprendere meglio la vicenda dell’anatroccolo?

10. Dividi il testo in quattro parti in base alle stagioni che si susseguono.

12. Riassumi la fiaba in dieci parole. Spiega perché hai scelto proprio queste parole.

13. Quale aspetto di questa fiaba ha a che fare con la tua vita? Rispondi motivando le tue affermazioni e raccontando almeno un esempio a sostegno di quello che dici. Ad esempio: • Racconta di quella volta in cui anche te, affrontando sofferenze e prove, hai scoperto qualcosa di te stesso che non conoscevi.

11. Riassumi la fiaba mettendo in luce il rapporto tra le stagioni e gli eventi narrati.

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9. Rileggi con attenzione il seguente passaggio: «Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si è usciti da un uovo di cigno? Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano». Che cosa scopre l’anatroccolo alla fine? Come giudichi le affermazioni contenute nelle frasi sottolineate? Argomenta con precisione la tua risposta, anche attingendo dalla tua esperienza.

• …

HANS CHRISTIAN ANDERSEN La sirenetta

Non si deve credere che ci sia solo sabbia bianca, no! Crescono alberi stra nissimi, e piante con gli steli e i petali così sottili che si muovono al minimo movimento dell’acqua, come fossero esseri viventi. Tutti i pesci, grandi e pic coli, nuotano tra i rami proprio come fanno gli uccelli nell’aria. Nel punto più profondo si trova il castello del re del mare. Le mura sono di corallo e le alte finestre ad arco sono fatte con ambra chiarissima, il tetto è formato da con chiglie che si aprono e si chiudono secondo il movimento dell’acqua; sono proprio belle, perché contengono perle meravigliose; una sola di quelle ba sterebbe alla corona di una regina.

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In mezzo al mare l’acqua è azzurra come i petali dei più bei fiordalisi e tra sparente come il cristallo più puro; ma è molto profonda, così profonda che un’anfora non potrebbe raggiungere il fondo; bisognerebbe mettere molti campanili, uno sull’altro per arrivare dal fondo fino alla superficie. Laggiù abitano le genti del mare.

Il re del mare era vedovo da molti anni, ma la sua vecchia madre gover nava la casa, una donna intelligente, molto orgogliosa della sua nobiltà; e per questo aveva dodici ostriche sulla coda, quando le altre persone nobili pote vano averne solo sei. Comunque aveva grandi meriti, soprattutto perché vo leva molto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Erano sei graziose fanciulle, ma la più giovane era la più bella di tutte, dalla pelle chia ra e delicata come un petalo di rosa, gli occhi azzurri come un lago profondo; ma come tutte le altre non aveva piedi, il corpo terminava con una coda di pesce.Per tutto il giorno potevano giocare nel castello, nei grandi saloni, dove fiori viventi crescevano alle pareti. Le grandi finestre di ambra venivano aperte e i pesci potevano nuotare dentro, proprio come fanno le rondini quando apriamo le finestre, ma i pesci nuotavano vicino alle principessine, mangiavano dalle loro manine e si lasciavano accarezzare.

Fuori dal castello vi era un grande giardino con alberi color rosso fuoco e blu scuro; i frutti brillavano come oro e i fiori come fiamme di fuoco, poi ché steli e foglie si agitavano continuamente. La terra stessa era costituita da sabbia finissima, ma azzurra come lo zolfo ardente. E una strana luce az zurra avvolgeva tutto; si poteva quasi credere di trovarsi nell’aria e di vede re il cielo da ogni parte, invece di essere sul fondo del mare. Quando il mare era calmo si poteva vedere il sole: sembrava un fiore color porpora dal cui calice sgorgava tutta la luce. Ogni principessa aveva una piccola aiuola nel giardino, in cui poteva pian tare i fiori che voleva; una di loro diede alla sua aiuola la forma di una bale na; un’altra preferì che assomigliasse a una sirenetta; la più giovane la fece rotonda come il sole e vi mise solo fiori rossi. Era una bambina strana, mol

L’anno dopo la sorella più grande avrebbe compiuto quindici anni, ma le altre… già, avevano tutte un anno di differenza tra loro, e la più giovane dove va aspettare cinque anni prima di poter risalire il mare e vedere come vivia mo noi uomini. Tra sorelle si promisero che si sarebbero raccontate le cose più significative che avrebbero visto durante il loro primo viaggio: la nonna non raccontava abbastanza, e c’era tanto che loro volevano sapere. Nessuno però lo voleva quanto la più giovane, proprio lei che doveva aspettare più a lungo e che era così silenziosa e pensierosa. Per molte notti restava affacciata alla finestra a guardare verso l’alto, attraverso l’acqua scu ra, dove i pesci muovevano le pinne e la coda. Poteva vedere la luna e le stel le, in realtà brillavano debolmente, ma attraverso l’acqua sembravano molto più grandi che ai nostri occhi; se qualcosa le oscurava, come un’ombra nera, lei sapeva che forse una balena nuotava sopra di lei, o forse era una nave con tanti uomini. Questi non immaginavano certo che una graziosa sirenetta si potesse trovare sotto di loro tendendo verso la carena della nave le sue bian che braccia.

La principessa più grande compì quindici anni e poté raggiungere la su perficie del mare.

Tornata a casa, aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella, se condo lei, era stato stendersi al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo e guardare verso la costa la grande città, piena di luci che brillavano come centinaia di stelle, sentire la musica e il rumore delle carrozze e degli uomini, guardare le moltissime torri e i campanili e ascoltare le campane che suonavano. Proprio perché non sarebbe mai potuta andare lassù, aveva so prattutto interesse per quei posti.

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146 to tranquilla e pensierosa; le altre sorelle decorarono le aiuole con le cose più bizzarre che avevano trovato tra le navi affondate, lei invece, oltre ai fio ri rossi che assomigliavano al sole, volle avere solo una bella statua di mar mo, raffigurante un giovane scolpito in una pietra bianca e trasparente, che era arrivata fin lì dopo qualche naufragio. Vicino alla statua piantò un salice piangente di color rossiccio, che crebbe splendidamente ripiegando i suoi freschi rami sul giovane fino a raggiungere il suolo di sabbia azzurra, dove l’ombra diventava viola e si muoveva come i rami stessi: sembrava così che i rami e le radici si baciassero con dolcezza. Non c’era per lei gioia più grande che sentir parlare del mondo degli uo mini sopra di loro; la vecchia nonna dovette raccontare tutto quanto sapeva delle navi e delle città, degli uomini e degli animali; soprattutto la colpiva in modo particolare il fatto che i fiori sulla terra profumassero (naturalmente non profumavano in fondo al mare!) e che i boschi fossero verdi e che i pe sci che si vedevano tra i rami potessero cantare così bene che era un piacere ascoltarli; erano gli uccellini, ma la vecchia nonna li chiamava pesci, per farsi capire da loro che non avevano mai visto un uccello.

«Quando compirete quindici anni» disse la nonna «avrete il permesso di affacciarvi fuori dal mare, sedervi al chiaro di luna sulle rocce e osservare le grosse navi che navigano; vedrete i boschi e le città».

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Venne poi il turno della quinta sorella; il suo compleanno cadeva in in verno, e per questo vide cose che le altre non avevano visto. Il mare appariva verde e tutt’intorno galleggiavano grosse montagne di ghiaccio; sembrava no perle, raccontò, ma erano molto più grandi dei campanili che gli uomini costruivano. Si mostravano nelle forme più svariate e brillavano come dia manti. Si era seduta su una delle più grosse e tutti i naviganti erano fuggiti spaventati dal luogo in cui lei si trovava, con il vento che le agitava i lunghi capelli; poi, verso sera, il cielo si era ricoperto di nuvole, c’erano stati lampi e tuoni, e il mare nero aveva sollevato in alto i grossi blocchi di ghiaccio illu minati da lampi infuocati. Su tutte le navi si ammainavano le vele, dominava la paura e l’angoscia, lei invece se ne stava tranquilla sulla sua montagna di ghiaccio galleggiante e guardava i fulmini azzurri colpire a zig-zag il mare illuminato.Laprima volta che le sorelle uscirono dall’acqua, restarono incantate per le cose nuove e magnifiche che avevano visto, ma ora che erano cresciute e

La quarta sorella non fu così coraggiosa; restò in mezzo al mare aperto, e raccontò che proprio lì stava il piacere; poteva guardare per molte miglia in ogni direzione e il cielo sopra di lei le era sembrato una grossa campana di vetro. Aveva visto delle navi, ma da lontano, e le erano parse simili a gabbia ni; allegri delfini avevano fatto le capriole e le grandi balene avevano soffiato l’acqua dalle narici, e era stato come vedere cento fontane attorno a sé.

Oh, con che attenzione la sorellina minore ascoltò! E quando poi a se ra inoltrata andò alla finestra per guardare in alto, attraverso l’acqua scura, pensò alla grande città con tutto quel rumore, e le sembrò di sentire il suono della campana che arrivava fino a lei. L’anno dopo la seconda sorella ebbe il permesso di risalire l’acqua e di nuotare dove voleva. Si affacciò proprio quando il sole stava tramontando, e trovò che quella vista fosse la cosa più bella. Tutto il cielo sembrava dorato, raccontò, e le nuvole, sì, la loro bellezza non si poteva descrivere! Rosse e vio la avevano navigato sopra di lei, ma, molto più veloce delle nuvole era pas sato come un lungo velo bianco uno stormo di cigni selvatici, che si dirigeva verso il sole. Anche lei aveva cominciato a nuotare verso il sole, ma questo era scomparso e i riflessi rosati si erano spenti sulla superficie del mare e sulle nuvole.L’anno successivo toccò alla terza sorella; era la più coraggiosa di tutte e risalì un largo fiume che sfociava nel mare. Vide belle colline verdi con vigne ti, castelli e fattorie che spuntavano tra bellissimi boschi; sentì come canta vano gli uccelli, e il sole scaldava tanto che dovette spesso buttarsi in acqua per rinfrescare il viso infuocato. In una piccola insenatura incontrò un grup po di bambini che, nudi, correvano e si gettavano in acqua; volle giocare con loro, ma questi scapparono via spaventati; poi giunse un piccolo animale ne ro, era un cane ma lei non ne aveva mai visto uno prima, e questo cominciò ad abbaiarle contro, così lei, spaventata, tornò nel mare aperto, ma non poté più dimenticare quei meravigliosi boschi, quelle verdi colline, e quei graziosi bambini che sapevano nuotare, pur non avendo la coda di pesce.

Oh! Come avrebbe voluto togliersi di dosso tutti quegli ornamenti e quella pesante corona! I fiori rossi della sua aiuola la avrebbero adornata molto me glio, ma non osò cambiare le cose. «Addio!» esclamò, e salì leggera come una bolla d’aria attraverso l’acqua. Il sole era appena tramontato quando affacciò la testa dall’acqua, tutte le nuvole però ancora brillavano come rose e oro; nel cielo color lilla splendeva chiara e bellissima la stella della sera; l’aria era mite e fresca e il mare cal mo. C’era una grande nave con tre alberi, ma una sola vela era tesa perché non c’era il minimo soffio di vento; tra le sartie e i pennoni stavano seduti i marinai. C’era musica e canti e man mano che scendeva la sera si accende vano centinaia di luci multicolori. Sembrava che ondeggiassero nell’aria le bandiere di tutte le nazioni. La sirenetta nuotò fino all’oblò di una cabina e ogni volta che l’acqua la sollevava, vedeva attraverso i vetri trasparenti molti uomini ben vestiti; il più bello di tutti era però il giovane principe, con grandi occhi neri: non aveva certo più di sedici anni e compiva gli anni proprio quel giorno. Per questo c’erano quei festeggiamenti! I marinai ballavano sul ponte e quando il giovane principe uscì, si levarono in aria più di cento razzi che il luminarono a giorno. La sirenetta si spaventò e si rituffò nell’acqua, ma poco dopo riaffacciò la testa e le sembrò che tutte le stelle del cielo cadessero su di lei. Non aveva mai visto fuochi di quel genere. Grandi soli giravano tutt’in torno, bellissimi pesci di fuoco nuotavano nell’aria azzurra, e tutto si riflette

Molte volte, di sera, le cinque sorelle, tenendosi sottobraccio, risalivano alla superficie; avevano belle voci, più belle di quelle umane, e quando c’era tempesta nuotavano fino alle navi che credevano potessero capovolgersi, e cantavano dolcemente di come era bello stare in fondo al mare e pregavano i marinai di non aver paura di arrivare laggiù; ma questi non erano in grado di capire le loro parole, credevano fosse la tempesta e non riuscivano comun que a vedere le bellezze del fondo del mare perché, quando la nave affondava, gli uomini affogavano e arrivavano al castello del re del mare già morti.

«Ah! Se solo avessi quindici anni» esclamava. «So bene che amerei quel mondo che è sopra di noi e gli uomini che vi abitano e vi costruiscono!»

Finalmente compì quindici anni. «Adesso sei grande anche tu!» disse la nonna, la vecchia regina vedova. «Vieni! Lascia che ti adorni, come le tue sorelle» e le mise una coroncina di gigli bianchi sui capelli, ma ogni petalo di fiore era formato da mezza perla; poi la vecchia fissò sulla coda della principessa otto grosse ostriche, per mo strare il suo alto casato. «Ma fa male!» disse la sirenetta. «Bisogna pur soffrire un po’ per essere belli!» rispose la vecchia.

F IABE148 avevano il permesso di salire quando volevano, erano diventate indifferenti, sentivano nostalgia di casa, e dopo un mese dissero che presso di loro c’erano in assoluto le cose più belle e che era molto meglio stare a casa.

Quando le sorelle, di sera, a braccetto, salivano sul mare, la sorellina più piccola restava tutta sola e le osservava; sembrava che volesse piangere, ma le sirene non hanno lacrime e per questo soffrono molto di più.

Poi vide davanti a sé la terra ferma, alte montagne azzurre sulla cui cima la bianca neve risplendeva come ci fossero stati candidi cigni; lungo la costa si stendevano bei boschi verdi e proprio lì davanti si trovava una chiesa o un convento, non sapeva bene, ma era un edificio. Aranci e limoni crescevano

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 149 va nel bel mare calmo. Anche sulla nave c’era tanta luce che si poteva vedere ogni corda, e naturalmente gli uomini. Com’era bello quel giovane principe! Dava la mano a tutti, ridendo e sorridendo, mentre la musica risuonava nella splendida notte. Era ormai tardi, ma la sirenetta non seppe distogliere lo sguardo dalla na ve e dal bel principe. Le luci variopinte vennero spente, i razzi non vennero più lanciati in aria, non si sentirono più colpi di cannone, ma dal profondo del mare si sentì un rombo, e lei intanto si faceva dondolare su e giù dall’ac qua, per guardare nella cabina; ma la nave prese velocità, le vele si spiegaro no una dopo l’altra, le onde si fecero più grosse, comparvero grosse nuvole e da lontano si scorsero dei lampi. Sarebbe venuta una terribile tempesta! Per questo i marinai ammainarono le vele. La grande nave filava a gran veloci tà sul mare agitato, l’acqua si alzò come grosse montagne nere che volevano rovesciarsi sull’albero maestro; la nave si immerse come un cigno tra le alte onde e si fece sollevare di nuovo dall’acqua in movimento. La sirenetta pensò che quella fosse una bella corsa, ma i marinai non erano della stessa opinio ne; la nave scricchiolava terribilmente, le assi robuste cedevano sotto quei forti colpi, l’acqua colpiva la carena, l’albero maestro si spezzò come fosse stato una canna; la nave si piegò su un fianco, e l’acqua subito la riempì. Allo ra la sirenetta capì che erano in pericolo, lei stessa doveva stare attenta alle assi e ai relitti della nave che galleggiavano sull’acqua. Per un attimo fu tal mente buio che non riuscì a vedere nulla, quando poi lampeggiò divenne co sì chiaro che riconobbe tutti gli uomini della nave; ognuno se la cavava come poteva; lei cercò il principe e lo vide scomparire nel mare profondo, proprio quando la nave affondò. Al primo momento fu molto felice, perché lui ora sa rebbe sceso da lei, ma poi ricordò che gli uomini non potevano vivere nell’ac qua, e che anche lui sarebbe arrivato al castello di suo padre solo da morto. No, non doveva morire. Nuotò tra le assi e i relitti della nave, senza pensare che avrebbero potu to schiacciarla, si immerse nell’acqua e risalì tra le onde finché giunse dal giovane principe, che quasi non riusciva più a nuotare nel mare infuriato. Cominciava a indebolirsi nelle braccia e nelle gambe, gli occhi gli si chiuse ro; sarebbe certo morto se non fosse giunta la sirenetta. Lei gli tenne la testa sollevata fuori dall’acqua e con lui si lasciò trasportare dalla corrente dove capitava.Almattino il brutto tempo era passato; della nave non era rimasta traccia, il sole sorgeva rosso e risplendeva sull’acqua; fu come se le guance del prin cipe riacquistassero colore, ma gli occhi rimasero chiusi. La sirena lo baciò sulla bella fronte alta e carezzò indietro i capelli bagnati; le sembrò che asso migliasse alla statua di marmo che aveva nel suo giardinetto, lo baciò di nuo vo e desiderò con forza che continuasse a vivere.

Non passò molto tempo e una fanciulla si avvicinò; si spaventò molto, ma solo per un attimo, poi andò a chiamare altra gente, e la sirena vide che il principe tornò in vita e sorrise a quanti lo circondavano, ma non sorrise a lei, anche perché non sapeva che era stata lei a salvarlo. Si sentì molto triste e quando lo ebbero portato dentro quel grande edificio, si reimmerse dispia ciuta nell’acqua e tornò al castello del padre.

Suonarono in quel momento le campane di quel grande edificio bianco, e molte ragazze comparvero nel giardino. Allora la sirenetta si ritirò nuotando dietro alcune alte pietre che spuntavano dall’acqua, si mise della schiuma tra i capelli e sul petto affinché nessuno la vedesse e aspettò che qualcuno an dasse dal povero principe.

Per molte volte al mattino e alla sera, risalì fino al punto in cui aveva la sciato il principe. Vide che i frutti del giardino erano maturi e venivano colti, vide che la neve si scioglieva dalle alte montagne; ma non vide mai il princi pe e così se ne tornava a casa ogni volta sempre più triste. La sua unica con solazione era quella di andare nel suo giardinetto e di abbracciare la bella statua di marmo che assomigliava al principe; non curava più i suoi fiori, che crescevano in modo selvaggio anche sui viali e intrecciavano i loro steli e le foglie con i rami degli alberi, così che c’era molto buio.

Questo era fatto di una lucente pietra gialla, aveva grandi scalinate di mar mo, una delle quali scendeva fino al mare. Splendide cupole dorate si innal zavano dal tetto, e tra le colonne che circondavano l’intero edificio si trovava no statue di marmo, che sembravano vive. Attraverso i vetri trasparenti delle alte finestre si poteva guardare in saloni meravigliosi, con preziose tende di seta e tappeti, con grandi quadri alle pareti che erano proprio divertenti da guardare. In mezzo al salone si trovava una fontana con lo zampillo che arri vava fino alla cupola di vetro del soffitto, attraverso la quale il sole faceva luc cicare l’acqua e le belle piante che vi crescevano dentro.

Ora lei sapeva dove abitava il principe e vi tornò per molte sere; nuotava molto vicino alla terra, come nessun altro aveva osato fare, risaliva addirit

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«Vieni, sorellina!» dissero le altre principesse e, tenendosi sotto braccio, risalirono il mare fino al punto in cui si trovava il castello del principe.

150 nel giardino e davanti all’ingresso si alzavano delle palme; il mare disegnava lì una piccola insenatura, calmissima ma molto profonda, fino alla scogliera dove c’era sabbia bianca e sottile. Lei nuotò là col suo bel principe, lo posò sulla sabbia e si preoccupò che la testa fosse sollevata e rivolta verso il caldo sole.

Alla fine non resse più, raccontò tutto a una sorella, e così anche le altre ne furono subito al corrente, ma poi nessun altro fu informato, eccetto poche altre amiche che pure non lo dissero a nessuno se non alle loro amiche più intime. Una di loro sapeva chi fosse quel principe, anche lei aveva visto la fe sta sulla nave e sapeva da dove veniva e dov’era il suo regno.

Se era sempre stata calma e pensierosa, ora lo fu molto di più. Le sorelle le chiesero che cosa avesse visto la prima volta che era stata lassù, ma lei non raccontò nulla.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 151

Per molte notti sentì i pescatori, che stavano in mare con le lanterne, par lare molto bene del principe, e fu felice di avergli salvato la vita quella volta che era quasi morto e si era abbandonato alle onde; pensò anche al capo che aveva riposato sul suo petto, e con quanta dolcezza lo aveva baciato, ma lui non ne sapeva niente e non poteva neppure sognarla.

«Allora io devo morire e diventare schiuma del mare e non sentire più la musica delle onde, o vedere i bei fiori e il sole rosso! Non posso fare proprio nulla per ottenere un’anima immortale?»

«Perché non abbiamo un’anima immortale?» chiese la sirenetta tutta tri ste «io darei cento degli anni che devo ancora vivere per essere un solo gior no come gli uomini e poi abitare nel mondo celeste!»

«Non devi neanche pensare queste cose!» esclamò la vecchia. «Noi siamo molto più felici e stiamo certo meglio degli uomini».

Gli uomini le piacevano ogni giorno di più, e sempre più desiderava salire e stare con loro; pensava che il loro mondo fosse molto più grande del suo: loro potevano navigare sul mare con le navi, arrampicarsi sulle alte monta gne fin sopra le nuvole, e i campi che possedevano si estendevano con boschi molto lontano, così lontano che non riusciva a vederli. C’erano tante cose che le sarebbe piaciuto sapere, ma le sorelle non sapevano rispondere a tutto, al lora le chiese alla nonna che conosceva bene quel mondo di sopra che chia mava giustamente “il paese sopra il mare”. «Se gli uomini non affogano» chiese la sirenetta «possono vivere per sem pre? Non muoiono come facciamo noi, nel mare?» «Certo» rispose la vecchia. «Anche loro devono morire e la lunghezza del la loro vita è più breve della nostra. Noi possiamo vivere fino a trecento anni; quando però non viviamo più diventiamo schiuma dell’acqua, non abbiamo una tomba tra i nostri cari; non abbiamo un’anima immortale e non vivremo mai più: siamo come le verdi canne che, una volta tagliate, non rinverdisco no! Gli uomini invece hanno un’anima che continua a vivere, vive anche dopo che il corpo è diventato terra; sale attraverso l’aria fino alle stelle lucenti! Co me noi saliamo per il mare e vediamo la terra degli uomini, così loro salgono fino a luoghi bellissimi e sconosciuti, che noi non potremo mai vedere!»

«No» rispose la vecchia. «Solo se un uomo ti amasse più di suo padre e di sua madre, e tu fossi l’unico suo pensiero e il solo oggetto del suo amore, e se un prete mettesse la sua mano nella tua con un giuramento di fedeltà eterna; solo allora la sua anima entrerebbe nel tuo corpo e tu riceveresti parte della felicità degli uomini. Egli ti darebbe un’anima, conservando sempre la pro pria. Ma questo non potrà mai accadere. La cosa che qui è così bella, la coda

Lo vide molte volte navigare in una splendida barca, con la musica e le bandiere al vento; allora si affacciava tra le verdi canne e il vento le sollevava il lungo velo argenteo, e se qualcuno la vedeva poteva pensare che fosse un cigno a ali spiegate.

tura lo stretto canale fino alla magnifica terrazza di marmo che gettava una grande ombra sull’acqua. Qui si metteva a guardare il giovane principe, che credeva di trovarsi tutto solo al chiaro di luna.

F IABE152 di pesce, è considerata orribile sulla terra. Non capiscono niente; per loro bi sogna avere due strani sostegni che chiamano gambe, per essere belle!»

La sirenetta sospirò guardando la sua coda di pesce. «Stiamo allegre!» disse la vecchia. «Saltiamo e balliamo per i trecento an ni che possiamo vivere; non è certo poco tempo! Poi ci riposeremo più volen tieri nella tomba. Stasera c’è il ballo a corte».

Quello era uno spettacolo meraviglioso che non si vede mai sulla terra! Le pareti e il soffitto dell’ampia sala da ballo erano costituite da un vetro grosso e trasparente. Migliaia di conchiglie enormi, rosa e verdi come l’erba, erano al lineate da ogni lato, con un fuoco azzurro fiammeggiante che illuminava tutta la sala e si rifletteva oltre le pareti, così che il mare di fuori fosse tutto illumi nato. Si potevano vedere innumerevoli pesci, grandi e piccoli, che nuotavano contro la parete di vetro; su alcuni brillavano squame rosse scarlatte, su altri, d’oro e d’argento. In mezzo alla sala scorreva un largo fiume dove danzavano i delfini e le sirene, che cantavano così soavemente. Gli uomini sulla terra non hanno certo voci così belle. La sirenetta cantò meglio di tutte, e tutti le batte rono le mani; per un istante si sentì felice, perché sapeva di avere la voce più bella sia sul mare che sulla terra! Ma subito tornò a pensare al mondo che c’e ra sopra di loro; non riusciva a dimenticare quel bel principe e il suo dolore per il fatto di non possedere, come lui, un’anima immortale. Uscì in silenzio dal castello del padre e andò a sedersi nel suo giardinetto, mentre dall’inter no risuonavano canti pieni d’allegria. Allora sentì attraverso l’acqua il suono dei corni e pensò: “Sta certamente navigando qua sopra, colui che amo più di mio padre e di mia madre, che riempie ogni mio pensiero e nella cui mano io voglio riporre la felicità della mia vita. Voglio fare qualunque cosa per con quistare lui e un’anima immortale! Mentre le mie sorelle ballano nel castello di mio padre, io andrò dalla strega del mare; ho sempre avuto tanta paura di lei, ma forse mi potrà consigliare e aiutare!”. La sirenetta uscì dal suo giardino e si avviò verso il torrente ribollente, dietro il quale abitava la strega. Non aveva mai percorso quella strada; non vi crescevano né fiori né erba, solo un fondo di sabbia grigia si stendeva verso il torrente, dove l’acqua, che sembrava spinta dalle ruote del mulino, girava come un vortice e inghiottiva tutto quel che poteva afferrare. Lei dovette pas sare in mezzo a quei vortici tremendi per arrivare nel territorio della strega, e qui c’era da attraversare una vasta pianura bollente, che la strega chiamava la sua torbiera. Oltre la torbiera si trovava la sua casa, in mezzo a un bosco orribile. Tutti gli alberi e i cespugli erano polipi, per metà bestie e per metà piante: sembravano centinaia di teste di serpente che crescevano dal terre no; tutti i rami erano lunghe braccia vischiose, con le dita simili a vermi ri pugnanti, che si muovevano in ogni loro parte, dalle radici fino alla punta più estrema. Si avvolgevano intorno a tutto quel che potevano afferrare e non lo lasciavano mai più. La sirenetta si fermò spaventatissima; il cuore le batteva forte per la paura, stava per tornare indietro, ma pensò al principe e all’ani ma degli uomini, così le tornò il coraggio. Legò per bene i lunghi capelli svo lazzanti affinché i polipi non riuscissero a afferrarli; mise le mani sul petto

«Però mi devi ricompensare!» aggiunse la strega «e non è poco quello che pretendo. Tu possiedi la voce più bella tra tutti gli abitanti del mare, e credi con quella di poterlo sedurre; ma la devi dare a me. Io voglio ciò che tu di me glio possiedi per la mia preziosa bevanda! Devo versarci del sangue, affinché il filtro sia tagliente come una spada a due lame!»

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 153 e partì passando come un pesce guizzante nell’acqua, tra gli orribili polipi, che allungavano i vischiosi tentacoli verso di lei. Vide ciò che ognuno di essi aveva afferrato, centinaia di tentacoli trattenevano le prede come tenaglie di ferro: uomini che erano morti in mare e caduti sul fondo si affacciavano co me bianchi scheletri tra i tentacoli; remi di imbarcazioni e casse erano tenuti stretti, scheletri di animali e persino una sirenetta che avevano catturato e soffocato. Questa vista fu per lei la più spaventosa! Poi giunse in un’ampia radura di fango nel bosco, dove grossi serpenti di mare si rivoltavano mostrando i loro orribili denti gialli. Nel mezzo si trovava una casa fatta con le bianche ossa di uomini calati sul fondo; lì stava la strega del mare e lasciava che un rospo mangiasse dalla sua mano, come gli uomini fanno con i canarini quando gli danno lo zucchero. Quegli orribili grossi ser penti di mare erano chiamati “pulcini” dalla strega che lasciava le striscias sero sui grossi seni cadenti.

«Lo voglio ugualmente!» disse la sirenetta che era pallida come una morta.

«So bene che cosa vuoi!» disse la strega del mare «sei proprio ammattita! Comunque il tuo desiderio verrà soddisfatto, perché ti porterà sventura, mia bella principessa! Vuoi liberarti della tua coda di pesce e ottenere in cambio due sostegni per camminare come gli uomini, così che il giovane principe si innamori di te e tu possa ottenere un’anima immortale!» La strega rideva co sì sguaiatamente che il rospo e i serpenti caddero a terra e lì continuarono a rotolarsi. «Arrivi appena in tempo!» riprese. «Domani, una volta sorto il sole, non potrei più aiutarti e dovresti aspettare un anno intero. Ti preparerò una bevanda, ma con questa devi nuotare fino alla terra, salire sulla spiaggia e ber la prima che sorga il sole. Allora la tua coda si dividerà e si trasformerà in ciò che gli uomini chiamano gambe. Soffrirai come se una spada affilata ti trapas sasse. Tutti quelli che ti vedranno, diranno che sei la più bella creatura umana mai vista! Conserverai la tua aggraziata andatura, nessuna ballerina sarà mi gliore di te, ma a ogni passo che farai, sarà come se camminassi su un coltello appuntito, e il tuo sangue scorrerà. Se vuoi soffrire tutto questo, ti aiuterò!» «Sì» esclamò la principessa con voce tremante, pensando al principe, e all’anima immortale.

«Ma ricordati» aggiunse la strega «una volta che ti sarai trasformata in donna, non potrai mai più ritornare a essere una sirena! Non potrai più di scendere nel mare dalle tue sorelle e al castello di tuo padre; e se non con quisterai l’amore del principe, cosicché lui dimentichi per te suo padre e sua madre, dipenda da te per ogni suo pensiero e chieda al prete di congiungere le vostre mani rendendovi marito e moglie, non avrai mai un’anima immor tale! E se lui sposerà un’altra, il primo mattino dopo il matrimonio il tuo cuo re si spezzerà e tu diventerai schiuma dell’acqua!»

Vide il castello di suo padre, le luci erano spente nella grande sala da ballo; certamente tutti dormivano, e lei comunque non avrebbe osato cercarli: ora era muta e doveva andarsene per sempre. Le sembrò che il cuore si spezzasse per il dolore. Andò in silenzio nel giardino e prese un fiore da ogni giardinetto delle sorelle; gettò con le dita mille baci verso il castello e salì per il mare blu.

«Se i polipi volessero afferrarti, mentre passi di nuovo attraverso il mio bosco» spiegò la strega «getta una goccia di bevanda su di loro e le loro brac cia e dita si romperanno in mille pezzi». Ma la sirenetta non ebbe bisogno di farlo; i polipi si allontanarono spaventati da lei non appena videro quella be vanda lucente che teneva in mano come fosse una stella luminosa. Così pas sò in fretta per il bosco, per la palude e il torrente che ribolliva.

Il sole non era ancora sorto quando vide il castello del principe e salì per la bellissima scalinata di marmo. La luna splendeva meravigliosa. La sirenet ta bevve allora il filtro infuocato, e subito fu come se una spada a due lame le trafiggesse il corpo delicato; svenne e rimase distesa come morta. Quando il sole spuntò all’orizzonte, si svegliò e sentì un dolore lancinante, ma proprio davanti a lei stava il giovane principe, bellissimo, che la fissava con i magnifi ci occhi neri, così lei abbassò i suoi e vide che la sua coda di pesce era sparita e ora possedeva le più belle gambe bianche che mai nessuna fanciulla aveva avuto. Ma era tutta nuda e così si avvolse nei suoi capelli. Il principe le chiese chi fosse e come fosse arrivata fin lì, lei lo guardò dolcemente e tanto triste mente coi suoi occhi azzurri: non poteva parlare. Lui la prese per mano e la portò al palazzo. A ogni passo le sembrava, come la strega le aveva detto, di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentie ri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d’aria e sia lui che gli altri ammirarono la sua armoniosa andatura. Ricevette costosi abiti di seta e di mussola, era la più bella del castello, ma era muta, non poteva né cantare né parlare. Graziose damigelle vestite d’oro e di seta avanzarono e cantarono davanti al principe e ai suoi genitori, una di loro cantò meglio delle altre e il principe batté le mani e le sorrise. In quel momento la sirenetta si rattristò; sapeva che avrebbe saputo cantare molto meglio, e pensò: “Dovrebbe proprio sapere che io, per stare vicino a lui, ho ceduto per sempre la mia voce!”.

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«La tua splendida persona, la tua armoniosa andatura e i tuoi occhi espressivi; con questo riuscirai certo a conquistare il cuore di un uomo. Allo ra! Hai perso il coraggio? Tira fuori la lingua così te la taglio; è il pagamento per quella potente bevanda!» «Va bene!» esclamò la sirenetta, e la strega mise sul fuoco la pentola per far bollire la bevanda magica. «La pulizia è un’ottima cosa!» disse mentre strofinava la pentola con alcune serpi legate insieme, poi si tagliò il petto e fece gocciolare il suo sangue nero, e il vapore assunse forme molto strane che facevano proprio paura.

«Se mi prendi la voce» chiese la sirenetta «che cosa mi resta?»

«Eccola qui!» disse la strega e tagliò la lingua alla sirenetta, che ora era muta e non poteva più né cantare né parlare.

«Non vuoi più bene a me che a tutti gli altri?» sembrava chiedessero gli oc chi della sirenetta, quando il principe la prendeva tra le braccia e le baciava la bella fronte.

Una notte giunsero le sue sorelle a braccetto, cantarono tristemente, nuo tando sulle onde, lei le salutò con la mano e loro la riconobbero e raccontaro no quanto li avesse resi tristi. Da quella volta tutte le notti le facevano visita, e una notte vide, lontano, la vecchia nonna, che da molti anni non era più salita in superficie, e il re del mare, con la corona in testa; tesero le braccia verso di lei, ma non osarono avvicinarsi alla terra come le sue sorelle.

Quando al castello di notte gli altri dormivano, lei andava alla scalinata di marmo e si rinfrescava i piedi doloranti immergendoli nell’acqua fresca del mare, e intanto pensava a coloro che stavano nelle profondità marine.

Ogni giorno il principe le voleva più bene, la amava come si può amare una cara fanciulla, ma non pensava certo di renderla regina; eppure lei dove va diventare sua moglie, altrimenti non avrebbe mai ottenuto un’anima im mortale, e al mattino successivo al matrimonio del principe con un’altra sa rebbe diventata schiuma.

Poi le damigelle danzarono balli meravigliosi su una musica dolcissima; allora anche la sirenetta tese le braccia bianche, si alzò sulla punta dei pie di e volteggiò, ballò come mai nessuno aveva fatto; a ogni movimento la sua bellezza era sempre più visibile e i suoi occhi parlavano al cuore meglio dei canti delle damigelle. Tutti rimasero incantati, soprattutto il principe, che la chiamò la sua tro vatella, e lei continuò a danzare, anche se ogni volta che i piedi toccavano ter ra, era come toccassero coltelli affilati. Il principe le disse che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lui e le diede il permesso di dormire fuori dalla sua stanza su un cuscino di velluto.

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«Sì, tu sei la più cara di tutte!» diceva il principe «perché hai un cuore che è migliore di tutti gli altri, poi mi sei molto devota, e assomigli tanto a una fanciulla che vidi una volta, ma che non troverò mai più. Ero su una nave che affondò, le onde mi trascinarono a riva vicino a un tempio dove servivano molte fanciulle; la più giovane mi trovò sulla spiaggia e mi salvò la vita, la vi di solo due volte; è l’unica persona che potrei amare in questo mondo, e tu le assomigli, e hai quasi sostituito la sua immagine nel mio animo. Lei appar tiene al tempio e per questo la mia buona sorte ti ha mandato da me; non ci separeremo mai».

Fece preparare per lei un costume da amazzone, affinché potesse accom pagnarlo a cavallo. Cavalcarono in mezzo ai boschi profumati, dove i verdi rami sfioravano loro le spalle e gli uccellini cantavano tra le foglie fresche. La sirenetta si arrampicò col principe sulle alte montagne, e nonostante i suoi piedi sanguinassero a tal punto che anche gli altri se ne accorsero, lei ne ri deva e lo seguì fino a dove poterono vedere le nuvole spostarsi sotto di loro, come fossero state stormi di uccelli che si dirigevano verso paesi stranieri.

“Oh, lui non sa che sono stata io a salvargli la vita!” pensò la sirenetta. “Io l’ho sorretto in mare fino al bosco dove si trova il tempio, io mi sono nascosta

il principe «tu che mi hai salvato quando giacevo come morto sulla costa!» e strinse tra le braccia la fidanzata che era arrossita. «Oh, sono troppo felice!» disse alla sirenetta. «La cosa più bella, che non avevo mai

Il mattino dopo la nave entrò nel porto della bella città del re vicino. Tutte le campane suonarono e dalle alte torri suonarono le trombe, mentre i sol dati, tra lo sventolare delle bandiere, presentavano le baionette lucenti. Ogni giorno ci fu una festa. Balli e ricevimenti si susseguirono, ma la principessa non c’era, abitava molto lontano, in un tempio, dissero, per imparare tutte le virtù necessarie a una regina. Finalmente un giorno arrivò.

F IABE156 tra la schiuma per vedere se arrivava gente. E ho visto quella bella fanciulla che lui ama più di me!” e intanto sospirava profondamente, poiché non pote va piangere. “Ma quella ragazza appartiene al tempio, ha detto il principe, e non verrà mai nel mondo, non si incontreranno mai più, e io sono vicino a lui, lo vedo ogni giorno, avrò cura di lui, lo amerò e gli sacrificherò la mia vita!”. Un giorno si venne a sapere che il principe si doveva sposare con la bella principessa del reame confinante, e per questo stava allestendo una splen dida nave. Il principe sarebbe andato a visitare il regno vicino, così si diceva, ma in realtà era per vedere la figlia del re; e avrebbe portato con sé un ric co seguito. Ma la sirenetta scuoteva la testa e rideva; conosceva il pensiero del principe molto meglio degli altri. «Sono costretto a partire» le aveva det to «devo incontrare quella bella principessa; i miei genitori lo vogliono, ma non mi costringeranno a portarla a casa come mia sposa. Non lo voglio! Non posso amarla, non assomiglia alla bella fanciulla del tempio, come le somi gli tu. Se mai dovessi scegliere una sposa, allora prenderei te, mia trovatella muta con gli occhi parlanti!» E le baciò la bocca rossa, le carezzò i lunghi ca pelli e posò il capo sul suo cuore, che sognò una felicità umana e un’anima immortale.«Nonhai paura del mare, vero, mia fanciulla muta?» le chiese il principe quando furono sulla meravigliosa nave che doveva portarli nel regno vicino, e le raccontò della tempesta e del mare calmo, degli strani pesci e di quello che i palombari avevano visto sul fondo, e lei sorrideva ai suoi racconti, lei che conosceva meglio di chiunque altro il fondo del mare. Nella chiara notte di luna, mentre tutti gli altri dormivano fuorché il timo niere, si appoggiò al parapetto della nave e guardò verso l’acqua trasparente; le sembrò di vedere il castello di suo padre e la vecchia nonna con la coro na d’argento in testa che osservava, attraverso le correnti del mare, il movi mento della nave. Poi giunsero alla superficie le sue sorelle, che la fissaro no tristemente tendendo le mani bianche verso di lei; lei le salutò, sorrise, e avrebbe voluto dire che tutto andava bene ma il mozzo si avvicinò e le sorelle si immersero nell’acqua, così lui credette che quel biancore che aveva visto fosse la schiuma del mare.

La piccola sirena era ansiosa di vedere la sua bellezza e dovette ricono scere di non aver mai visto una figura così graziosa. La pelle era molto deli cata e trasparente, e sotto le lunghe ciglia scure due occhi azzurri e fiduciosi sorridevano.«Seitu!»esclamò

Le vele sventolavano al vento, e la nave scivolava leggera, senza scossoni, sul mare Quandotrasparente.vennebuio si accesero le lampade variopinte e i marinai ballaro no allegramente sul ponte. La sirenetta ripensò alla prima volta in cui si era affacciata sulla terra e aveva visto lo stesso splendore e la stessa gioia, si in serì nelle danze, volteggiò come fa la rondine quando viene inseguita, e tutti le mostrarono la loro ammirazione: non aveva mai ballato così bene. Sentiva i piedini come tagliati da coltelli affilati, ma non vi badò, le faceva più male il cuore. Sapeva che quella era l’ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva immaginare. Quella era l’ultima notte in cui avrebbe respi rato la sua stessa aria; guardò verso il profondo mare e verso il cielo stellato: una notte eterna senza pensieri né sogni la aspettava, poiché non aveva un’a nima, né poteva ottenerla. L’allegria e la gioia sulla nave durarono a lungo, anche dopo mezzanotte; anche lei rise e danzò ma aveva pensieri di morte nel cuore. Il principe baciò la sua bella sposa e lei gli accarezzò i capelli neri, poi a braccetto andarono a riposarsi nella splendida tenda.

Calò il silenzio sulla nave, solo il timoniere era sveglio al timone; la sire netta pose le bianche braccia sul parapetto e guardò verso est, per vedere il rosso dell’alba: il primo raggio di sole la avrebbe uccisa. Allora vide le sue so relle spuntare fuori dal mare, erano pallide come lei, i loro lunghi e bei capelli non si agitavano più nel vento, erano stati tagliati.

hANs ChRIs TIAN ANDERsEN 157 osato sperare, è avvenuta! Rallegrati con me, tu che mi vuoi così bene tra tut ti!» E la sirenetta gli baciò la mano, ma sentì che il suo cuore si spezzava. Il mattino dopo le nozze sarebbe morta, trasformata in schiuma del mare.

«Li abbiamo dati alla strega, perché ti venisse ad aiutare affinché tu non muoia questa notte. Allora ci ha dato un coltello; eccolo! Vedi com’è affilato? Prima che sorga il sole devi infilzarlo nel cuore del principe; quando il suo caldo sangue bagnerà i tuoi piedi, questi riformeranno una coda di pesce e tu ridiventerai una sirena e potrai gettarti in acqua con noi e vivere i tuoi tre cento anni prima di morire e diventare schiuma salata. Fai presto! O tu o lui dovete morire prima che sorga il sole! La nonna soffre tanto e ha perso tutti

Tutte le campane suonarono, gli araldi cavalcarono per le strade ad an nunciare il fidanzamento. Su tutti gli altari si bruciarono oli profumati in pre ziose lampade d’argento. I preti fecero oscillare gli incensieri mentre gli spo si si strinsero le mani e ricevettero la benedizione del vescovo. La sirenetta, vestita di seta e d’oro, reggeva lo strascico, ma le orecchie non sentivano quella musica gioiosa, i suoi occhi non vedevano quella sacra cerimonia: pensava alla sua morte e a tutto quel che avrebbe perso in questo mondo.Lasera stessa gli sposi salirono a bordo della nave, i cannoni spararono, e le bandiere sventolarono; in mezzo alla nave era stata montata una tenda re ale fatta d’oro e di porpora, con cuscini sofficissimi, su cui la coppia di sposi avrebbe dovuto dormire in quella quieta e fredda notte.

«Dalle figlie dell’aria!» le risposero. «Le sirene non hanno un’anima im mortale e non possono ottenerla se non conquistando l’amore di un uomo! La loro esistenza immortale dipende da una forza estranea. Anche le figlie dell’aria non hanno un’anima immortale, ma possono conquistarne una da sole, tramite le buone azioni. Noi andiamo verso i paesi caldi; dove l’a ria calda e pestilenziale uccide gli uomini, noi portiamo il fresco. Spandia mo il profumo dei fiori nell’aria e portiamo ristoro e guarigione. Se per tre cento anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un’anima immortale e possiamo partecipare all’eterna felicità degli uomini.

F IABE158 i capelli bianchi, e i nostri sono caduti sotto le forbici della strega. Uccidi il principe e torna indietro! Presto! Non vedi quella striscia rossa nel cielo? Tra pochi minuti sorgerà il sole e allora morrai!» Sospirarono profondamente e si reimmersero tra le onde. La sirenetta sollevò il tappeto di porpora della tenda e vide la bella sposi na dormire col capo sul petto del principe, si chinò verso di lui e gli baciò la bella fronte, guardò verso il cielo dove la luce dell’alba si faceva sempre più intensa, guardò il coltello affilato e poi fissò di nuovo gli occhi del principe, che in sogno pronunciò il nome della sua sposa; solo lei era nei suoi pen sieri, e il coltello tremò nella mano della sirena. Allora lo gettò lontano tra le onde, che brillarono rosse dove era caduto: sembrava che gocce di san gue zampillassero dall’acqua. Ancora una volta guardò con lo sguardo spen to verso il principe; poi si gettò in mare e sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma.Ilsolesorse alto sul mare, i raggi battevano caldi sulla gelida schiuma e la sirenetta non sentì la morte, vedeva il bel sole e su di lei volavano centinaia di bellissime creature trasparenti; attraverso le loro immagini poteva vedere la bianca vela della nave e le rosse nuvole del cielo; la loro voce era una me lodia così spirituale che nessun orecchio umano poteva sentirla; così come nessun occhio umano poteva vederle. Volavano nell’aria senza ali, grazie al la loro stessa leggerezza. La sirenetta vide che aveva un corpo come il loro, e che si sollevava sempre più dalla schiuma. «Dove sto andando?» chiese la sirenetta, e la sua voce risuonò come quel la delle altre creature, così spirituale che nessuna musica terrena poteva riprodurla.

La sirenetta sollevò le braccia trasparenti verso il sole del Signore e per la prima volta sentì le lacrime agli occhi. Sulla nave era ripresa la vita e il rumore; vide che il principe e la sua bella sposa la cercavano, e guardarono tristemente verso la schiuma del mare, quasi sapessero che si era gettata tra le onde. Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell’aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo. «Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio!»

Tu, povera sirenetta, lo hai desiderato con tutto il cuore; anche tu, come noi, hai sofferto e sopportato, e sei arrivata al mondo delle creature dell’aria: ora puoi compiere delle buone azioni e conquistarti un’anima immortale fra tre cento anni!»

«Anche prima potremo arrivarci» sussurrò una di loro. «Senza farci ve dere entriamo nelle case degli uomini, dove c’è qualche bambino; ogni volta che troviamo un bambino buono che rende felici i suoi genitori e merita il lo ro amore, il Signore ci abbrevia il periodo di prova. Il bambino non sa quan do entriamo in casa, ma noi gli sorridiamo per la gioia, e così ci viene tolto un anno dei trecento che ci toccano; se invece troviamo un bambino cattivo e capriccioso, allora dobbiamo piangere di dolore e ogni lacrima aumenta di un giorno il nostro tempo di prova!».

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3. Costruisci una tabella che presenti, per ognuna delle fanciulle, ciò da cui rimangono maggiormente impressionate durante la loro prima visita sulla terra. Per ognuna, inoltre, riporta l’espressione del testo che ti ha fatto capire che quella è la cosa più importante per loro, seguendo l’esempio: Ciò che maggiormente impressiona le fanciulle Espressione del testo I stendersi al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo; guardare verso la costa la grande città piena di luci; sentire la musica e il rumore delle carrozze e degli uomini; guardare le torri e i campanili; ascoltare le campane. aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella…

4. Come si sente la sirenetta dopo aver salvato il principe, e in modo particolare dopo il risveglio dell’uomo? Perché?

5. Sottolinea nel testo i desideri e le riflessioni della protagonista. Quali sono i desideri della sirenetta? Tra tutti questi, che cosa desidera più di tutto? Riporta un passaggio del testo a sostegno della tua risposta all’ultima domanda.

2. Che differenze ci sono fra la più giovane delle principesse del mare e le sue sorelle?

F IABE1.160Rileggi con attenzione le prime due descrizioni dell’ambiente del fondale marino, soffermandoti in modo particolare su nomi e aggettivi (da «In mezzo al mare» a «corona di una regina» e da «Fuori dal castello» a «tutta la luce»). Sottolinea tutte le espressioni che richiamano il mondo terrestre. Perché l’ambiente marino viene descritto con continui rimandi alla terra?

RiproduciVIVIVIIIII e completa questo schema sul tuo quaderno.

«Nonostante i suoi piedi sanguinassero a tal punto che anche gli altri se ne accorsero, lei ne rideva e lo seguì». «Io sono vicino a lui, lo vedo ogni giorno, avrò cura di lui, lo amerò e gli sacrificherò la mia vita».

«“Se vuoi soffrire tutto questo, ti aiuterò!”. “Sì” esclamò la principessa con voce tremante, pensando al principe, e all’anima immortale».

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6. Vai a rileggere il passaggio riferito al secondo incontro tra la sirenetta e il principe, ponendo particolare attenzione alle seguenti parole: «Il principe le chiese chi fosse e come fosse arrivata fin lì, lei lo guardò dolcemente e tanto tristemente coi suoi occhi azzurri: non poteva Cheparlare».cosaprova la fanciulla in questa occasione? Perché il testo dice che lei guarda il principe dolcemente e tristemente? Spiega con precisione il significato dei due avverbi utilizzati dall’autore.

«Sentì un dolore lancinante, ma proprio davanti a lei stava il giovane principe, bellissimo, che la fissava con i magnifici occhi neri».

8. Rileggi con attenzione i seguenti passaggi relativi alla sofferenza e al sacrificio della fanciulla: «Bisogna pur soffrire un po’ per essere belli!» «La sirenetta si fermò spaventatissima; il cuore le batteva forte per la paura, stava per tornare indietro, ma pensò al principe e all’anima degli uomini, così le tornò il coraggio».

«A ogni passo le sembrava […] di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentieri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d’aria».

7. Rileggi con attenzione il seguente passaggio del finale della fiaba: «La sirenetta sollevò le braccia trasparenti verso il sole del Signore e per la prima volta sentì le lacrime agli occhi». Perché viene detto che «per la prima volta sentì le lacrime agli occhi»? Quale cambiamento è avvenuto nella fanciulla?

10. In questa fiaba è importante ciò che avviene non solo esternamente ai personaggi, ma anche nel loro animo. Elenca le azioni della protagonista per mettere in luce le sue aspettative, i suoi dubbi, i suoi desideri, i suoi timori, le sue riflessioni…

9. Cerca e trascrivi la definizione e l’etimologia del termine sacrificio Come l’origine di questa parola ti aiuta a comprendere meglio la vicenda della sirenetta?

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12. Riassumi in una frase la fiaba, mettendo in luce il senso globale del testo.

11. Ricopia la frase del racconto che ritieni più significativa per la comprensione del senso di tutto il racconto e giustifica la tua scelta.

• Che cosa le permette di sopportare questi sacrifici?

Osservando in modo particolare le parole sottolineate e in grassetto, rispondi alle domande:

• Perché la sirenetta deve soffrire tutti questi tormenti?

«Sentiva i piedini come tagliati da coltelli affilati, ma non vi badò, le faceva più male il cuore. Sapeva che quella era l’ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva «Seimmaginare».pertrecento

13. Riassumi la fiaba in un testo, mettendo in luce il suo senso globale.

• Ponendo a confronto questi passaggi, quale evoluzione si può notare?

• Perché vengono usate le congiunzioni ma e nonostante?

anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un’anima immortale e possiamo partecipare all’eterna felicità degli uomini. Tu, povera sirenetta, lo hai desiderato con tutto il cuore; anche tu, come noi, hai sofferto e sopportato, e sei arrivata al mondo delle creature dell’aria: ora puoi compiere delle buone azioni e conquistarti un’anima immortale fra trecento anni».

Al termine della sezione dedicata alle fiabe ti proponiamo alcune osservazioni dello scrittore

1 J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004, pp. 224-225.

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J.R.R. Tolkien sul lieto fine che solitamente le caratterizza. «Ma la consolazione procurata dalle fiabe ha anche un altro aspetto oltre alla soddisfazione fantastica di antichi desideri. Di gran lunga più importante è la Consolazione del Lieto Fine […] lo chiamerò Eucatastrofe.

La consolazione delle fiabe, la gioia del lieto fine; o più correttamente della buona catastrofe, dell’improvviso capovolgimento felice […] è una grazia improvvisa e miracolosa: e non bisogna mai contare sul suo ripetersi. Non nega l’esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la possibilità che ciò si verifichi è necessaria alla gioia della liberazione; essa nega (a dispetto di un gran numero di prove, se si vuole) la sconfitta finale e universale»1 .

umoristiciRacconti3

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.Luigi Pirandello a cura di Dorotea Moscato

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Ridere, infatti, permette di approfondire la sintonia con gli altri, creando una complicità speciale, oppure permette di sdrammatizzare momenti particolarmente difficili della vita. Fin dalle origini della letteratura classica è presente un genere volto al divertimento (dal latino divertere ‘volgersi da un’altra parte, separarsi’): la commedia teatrale greca in cui i commediografi, creando situazioni comiche, mostrano una via alternativa di osservazione della realtà. Ma cosa suscita il riso?

Ma dalla risata può nascere una riflessione più profonda se non ci si ferma all’«avvertimento del contrario» e addentrandosi nelle motivazioni che lo causano, si arriva al «sentimento del contrario», alla coscienza dello scarto fra apparenza e realtà nascosta.

Tra gli svariati tipi di racconti umoristici che rappresentano le molteplici possibilità di contrasto tra l’essere e il dover essere, tra l’essere e l’apparire, tra il dire e l’intendere, tra il dire e il fare, si è scelto di introdurre a questo genere letterario attraverso l’incontro con alcuni testi la cui comicità nasce dai giochi di parole, dai possibili difetti della comunicazione, dagli equivoci

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Chi di noi non si è mai gustato una risata in famiglia o con gli amici?

Pertanto chi legge un racconto umoristico, cogliendo la trasgressione della norma che provoca il riso, diviene consapevole della normalità, del suo desiderio innato e costitutivo di armonia, e ancora della malinconia provocata dal fatto che spesso la realtà non è come dovrebbe essere, arri vando a capire che riso e pianto sono due facce della stessa medaglia!

Come ben ci spiega Luigi Pirandello, noi ridiamo quando cogliamo nelle situazioni a cui assistiamo o di cui veniamo a conoscenza degli aspetti disso nanti da come ci aspettiamo che debbano essere: è l’accadere di qualcosa che sovverte il normale svolgimento delle situazioni quotidiane o che contrasta con il nostro senso di armonia e di bellezza a muoverci al riso.

167RACCONTI uMORIs TICI derivati da un mancato accordo sul rapporto tra significante e significato dei segni linguistici e dalla polisemia di alcuni termini. Ridendo delle situazioni esilaranti che tali aspetti possono causare nella comunicazione, potrai prendere maggiore coscienza delle dinamiche della lingua e sorridere anche dei tuoi errori! Inoltre imitando l’esempio dei famosi autori di racconti umoristici da te incontrati potrai esercitarti a tua volta nella scrittura creativa umoristica.

La fiocina di Tegumai era fatta di legno, con un dente di pescecane ad una estremità, e prima di aver preso un solo pesce egli la ruppe proprio nel mezzo lanciandola troppo forte sul fondo del fiume. Essi erano miglia e miglia lontani da casa (naturalmente avevano portato la colazione in una borsa), e Tegumai aveva dimenticato di portare qualche fiocina di scorta. «Sono in un bel pasticcio!» esclamò Tegumai. «Mi ci vorrà mezza giornata per aggiustarla».

Or sono molti e molti millenni fa c’era un uomo Neolitico. Non era uno Iuta o un Anglo e nemmeno un Dravidico1, mentre avrebbe potuto benissimo es serlo, miei cari ragazzi. Era un Primitivo, e viveva allo stato selvaggio in una Caverna, indossava pochi vestiti, non sapeva leggere, non sapeva scrivere, e non gliene importava, e tranne quando aveva fame, era completamente felice. Si chiamava Tegumai Bopsulai, che significa: Uomo-che-non-Avanza-il-Pie de-in-Fretta; ma noi, miei cari ragazzi, lo chiameremo brevemente Tegumai. E il nome di sua moglie era Teshumai Tewindrow, che significa: Donna-cheFa-Moltissime-Domande; ma noi, miei cari ragazzi, la chiameremo sempli cemente Teshumai. E il nome della loro figlioletta era Taffimai Metallumai, che significa: Personcina-senza-Alcuna-Educazione-che-Dovrebbe-EssereSculacciata; ma noi la chiameremo Taffy. Era la Beniamina di Tegumai Bop sulai, e il Tesoro della mamma, e non veniva sculacciata nemmeno la metà di quanto si sarebbe meritata; ed erano tutti e tre felici e contenti. Non appena Taffy fu in grado di camminare, incominciò ad andarsene dovunque col suo babbo Tegumai, e talvolta essi non tornavano a casa finché non avevano fa me, e allora Teshumai soleva dire: «Dove mai siete stati voi due, per sporcar vi così? Veramente, Tegumai, non sei per niente migliore di Taffy».

Come fu scritta la prima lettera

R ACCONTI uMORIs TICI168 RUDYARD KIPLING

«C’è la tua grossa fiocina nera, a casa» disse Taffy. «Lasciami fare una cor sa fino alla Caverna a dire alla mamma di darmela». «È troppo lontano per le tue gambette» disse Tegumai. «Inoltre potresti cadere nella palude dei castori e annegarti. Dobbiamo cavarcela come pos siamo». Si sedette e tirò fuori una piccola borsa di pelle piena di tendini di renna, di strisce di pelle e di blocchi di cera e di resina, e si accinse ad aggiu stare la fiocina. Anche Taffy si sedette, con la punta dei piedi nell’acqua, e il mento fra le mani, e si mise a pensare intensamente. Poi disse: «Babbo, non è una bella scocciatura che tu ed io non sappiamo scrivere? Se sapessimo scrivere, potremmo inviare un messaggio per farci mandare una fiocina nuova». 1 Iuta, Anglo, Dravidico: sono nomi di antichissimi popoli.

Un giorno Tegumai attraversò la palude dei castori, e si spinse fino al fiu me Wagai, per pescare delle carpe per il pranzo; e Taffy andò con lui.

«Taffy», disse Tegumai «quante volte ti ho detto che non devi usare parole simili? Scocciatura non è una parola da bambina educata; ma, a pensarci sa rebbe davvero una bella comodità, se potessimo scrivere a casa».

Lo Straniero (che era un Tewara) pensò: “Questa bambina è veramente straordinaria. Essa agita le braccia e grida, ma io non capisco una sola parola di ciò che dice. Ma se non farò ciò che vuole, ho una gran paura che quell’orgo glioso Capo, l’Uomo-che-Volge-le-Spalle-agli-Ospiti, si arrabbierà”. Egli si al zò, e strappò via un grosso pezzo di corteccia da una betulla, e lo diede a Taffy. Lo fece, miei cari ragazzi, per mostrare che il suo cuore era puro come la cor teccia della betulla, e che non intendeva farle nessun male; ma Taffy non capì. «Oh», disse. «Ora capisco. Vuoi l’indirizzo di casa della mamma. Natu ralmente io non so scrivere, ma so disegnare delle figure, se ho qualcosa di aguzzo con cui incidere. Imprestami per favore il dente di pescecane attac cato alla tua collana».

Lo Straniero (che era un Tewara) non disse nulla cosicché Taffy allungò la mano e diede uno strattone alla bella collana di grani, perline, e denti di pe scecane, che egli aveva intorno al collo.

L’incontro con lo Straniero Proprio allora uno Straniero scendeva lungo il fiume, ma apparteneva ad una tribù lontana, i Tewaras, e non capiva una sola parola della lingua di Tegumai. Si fermò sulla riva e sorrise a Taffy, perché aveva anche lui una figlioletta a casa. Tegumai trasse fuori dalla sua borsa una matassa di ten dini di cervo, e si mise ad aggiustare la sua fiocina.

RuDyARD KIpl ING 169

«Vieni qui» disse Taffy «sai dove abita la Mamma?» E lo Straniero fece: «Uhm!» poiché era, come sapete, un Tewara. «Sciocco!» esclamò Taffy, e batté i piedi, poiché aveva visto un branco di grosse carpe che scendevano il fiume, proprio mentre il suo babbo non pote va usare la fiocina. «Non disturbare i grandi» fece Tegumai, senza neppure voltarsi, tanto era occupato ad aggiustare la sua fiocina. «Non lo sto disturbando» rispose Taffy. «Voglio solo che faccia ciò che gli dico, e lui non capisce». «Allora lascia tranquillo me» disse Tegumai, e continuò a tirare e a spin gere i tendini di cervo, con la bocca piena di fili. Lo Straniero (un vero Tewara egli era) si sedette sull’erba, e Taffy gli mostrò che cosa il babbo stava facen do. Lo Straniero pensò: “Questa bambina è straordinaria, batte i piedi per terra e fa delle smorfie. Dev’essere la figlia di quel nobile Capo che è tanto importante che non si accorge nemmeno di me”. E sorrise più gentilmente che mai. «Ora», disse Taffy «voglio che tu vada dalla mamma, perché le tue gambe sono più lunghe delle mie, e non cadrai nella palude dei castori e le chiede rai l’altra fiocina del babbo, quella col manico nero, appesa sopra il focolare».

R ACCONTI uMORIs TICI170

Lo Straniero (che era un Tewara) sorrise e pensò: “Deve essere imminente una grande battaglia da qualche parte, e questa bambina straordinaria, che ha toccato il mio dente di pescecane senza gonfiarsi e scoppiare, mi sta di cendo di chiamare in aiuto tutta la Tribù del grande Capo. Egli deve essere un gran Capo, perché altrimenti si sarebbe accorto di me”. «Guarda» soggiunse Taffy, disegnando con molto impegno e molti scara bocchi, «ora io ho disegnato te, e ti ho messo in mano la fiocina che serve al babbo, perché tu ti ricordi che devi portarla. Ora ti mostrerò come devi fare per trovare l’abitazione della mamma. Vai avanti finché trovi due alberi (que sti sono alberi), e poi valica una collina (questa è una collina), e infine trove rai una palude tutta piena di castori. Non vi ho messo i castori perché non so disegnare i castori, ma ho disegnato le loro teste, che è tutto ciò che vedrai di loro quando attraverserai la palude. Stai attento a non caderci dentro! La nostra Caverna è proprio oltre la palude dei castori. A dire la verità, non è al ta come le colline, ma non so disegnare le cose molto in piccolo. Questa è la mamma. Essa è bella. È la più bella mamma del mondo, ma non si offenderà quando vedrà che l’ho disegnata così brutta. Sarà contenta di me, perché so disegnare. Ora, in caso che tu lo dimentichi, ho disegnato la fiocina, di cui il babbo ha bisogno, fuori della nostra Caverna. In realtà è dentro, ma tu mo strerai il disegno alla mamma ed essa te la darà. L’ho disegnata con le braccia alzate, perché so che sarà molto lieta di vederti. Non è un bel disegno? E hai capito bene, o devo spiegartelo ancora?» Lo Straniero (che era un Tewara) guardò il disegno e annuì gravemente. Egli si disse: “Se non chiamerò in aiuto la Tribù di questo grande Capo, egli sarà ucciso dai suoi nemici, che stanno arrivando da tutte le parti armati di lance. Ora capisco perché il grande Capo fingeva di non vedermi! Temeva

Così egli diede a Taffy il dente di pescecane, ed essa si sdraiò a pancia in giù con le gambe per aria, come certe persone di mia conoscenza sul pavi mento del salotto, quando vogliono disegnare delle figure, e disse: «Ora ti farò dei bei disegni. Puoi guardare da sopra la mia spalla, ma non devi urtarmi. Prima disegnerò il babbo che pesca. Non gli assomiglia molto. Ma la mamma lo riconoscerà, perché ho disegnato la fiocina col manico nero. Sembra con ficcata nella schiena del babbo, ma questo è perché il dente di pescecane mi è scivolato e questo pezzo di corteccia non è grande abbastanza. Questa è la fio cina che voglio che tu porti; così ho disegnato me stessa mentre te lo spiego. I miei capelli non stanno in realtà ritti in testa come nel disegno, ma è più facile disegnarli in questo modo. Ora disegnerò te. Tu sei molto carino, ma non sono capace di farti carino nella figura, e perciò non devi offenderti. Sei offeso?».

Lo Straniero (che era un Tewara) pensò: “Questa bambina è veramente straordinaria. Il dente di pescecane della mia collana è magico, e mi è sempre stato detto che se qualcuno lo avesse toccato senza il mio permesso, egli si sarebbe immediatamente gonfiato e sarebbe scoppiato. Ma questa bambina non si gonfia e non scoppia, e quell’importante Capo, l’Uomo-che-si-Occupasolo-dei-Suoi, e che non si è ancora accorto di me, non sembra temere che essa si gonfi e scoppi. Farò meglio ad essere più gentile”.

RuDyARD KIpl ING 171 che i suoi nemici fossero nascosti nei cespugli e lo vedessero consegnarmi un messaggio. Per questo egli mi ha voltato le spalle, e ha lasciato che que sta saggia e straordinaria bambina tracciasse questo terribile disegno che mi mostrasse in che difficoltà si trovava. Andrò subito a cercare aiuto per lui presso la sua Tribù”. Non domandò nemmeno la strada a Taffy, ma corse via attraverso i cespugli, veloce come il vento, con la corteccia di betulla in mano, e Taffy si sedette tutta compiaciuta. «Che cosa hai fatto Taffy?» chiese Tegumai. Egli aveva accomodato la fioci na, ed ora la faceva dondolare avanti e indietro con molta cura, per provarla. «È una mia piccola faccenda personale» rispose Taffy. «Se non mi farai domande, saprai tutto fra poco. Non immagini nemmeno come sarai sorpre so, babbo! Promettimi che ti mostrerai sorpreso». «Va bene» disse Tegumai, e continuò a pescare. Lo Straniero (sapete, vero, che era un Tewara?) corse via con il disegno per alcune miglia, finché per caso trovò Teshumai Tewindrow sulla porta della Caverna, che chiacchierava con alcune signore Neolitiche che erano state invitate da lei ad una colazione Primitiva. Taffy assomigliava molto a Teshumai, soprattutto nella parte superiore del volto e negli occhi, cosic ché lo Straniero (che era pur sempre un Tewara puro) sorrise cortesemente e porse a Teshumai la corteccia di betulla. Aveva corso moltissimo, per cui era tutto ansimante, e aveva le gambe graffiate dai rovi; e tuttavia cercava di essere educato. Non appena Teshumai vide il disegno, si mise a gridare e si gettò sullo Straniero. Le altre signore Neolitiche lo buttarono a terra tutte assieme, e si sedettero su di lui in una lunga fila di sei, mentre Teshumai gli tirava i capel li. «È chiaro come il naso sulla faccia di questo Straniero»essa disse. «Ha cri vellato il mio Tegumai a colpi di lancia, e ha spaventato la povera Taffy tanto che le si sono drizzati i capelli in testa: e non contento di ciò, mi porta un or rendo disegno per mostrarmi come ha fatto. Guardate!» E mostrò il disegno alle signore Neolitiche che sedevano pazientemente sullo Straniero. «Qui c’è il mio Tegumai con un braccio rotto; qui c’è una lancia conficcata nella sua schiena; qui c’è un uomo con una lancia pronta per essere lanciata; qui c’è un altro uomo che scaglia una lancia dalla Caverna, e qui c’è tutta una schiera di persone (erano in realtà i castori di Taffy, ma sembravano piuttosto persone) che spuntano dietro a Tegumai. Non è orrendo?» «Altro che orrendo!» dissero le signore Neolitiche, e impiastricciarono di fango i capelli dello Straniero (al che egli rimase sorpreso): poi cominciaro no a battere sui Tamburi della Tribù per chiamare a raccolta tutti i capi della Tribù di Tegumai, con i loro Stregoni, i Guerrieri, i Negus, i Bonzi e tutti gli altri, che decisero, prima di tagliare la testa dello Straniero, di farsi immedia tamente condurre da lui fino al fiume, e di farsi mostrare dove aveva nascosto la povera Taffy. Nel frattempo lo Straniero (benché fosse un Tewara) si era veramente sec cato. Gli avevano impiastricciato i capelli di fango; lo avevano fatto rotolare su e giù sui ciottoli; si erano sedute su di lui in una lunga fila di sei; lo avevano

Allora Teshumai Tewindrow corse ad abbracciare e baciare con affetto la sua Taffy ma il Gran Capo della Tribù di Tegumai afferrò Tegumai per il ciuffo di penne che aveva nei capelli, e lo scosse severamente.

«Non so di chi parli» rispose Tegumai. «Il mio solo visitatore questa matti na è stato quel poveretto che state malmenando. Che cosa vi ha preso, o Tribù di Tegumai?»

«Per l’amor del cielo!» esclamò Tegumai. «Lascia andare le mie penne. Possibile che uno non possa rompere la sua fiocina senza che tutto il villag gio si precipiti da lui? Siete proprio dei ficcanaso».

«Spiega! Spiega! Spiega!» gridava tutta la Tribù di Tegumai.

R ACCONTI uMORIs TICI172 preso a pugni e spintoni, tanto che a mala pena gli riusciva ancora di respi rare; e sebbene non capisse la loro lingua, era certo che gli appellativi, con cui lo chiamavano le signore Neolitiche, non erano molto corretti. Tuttavia egli non disse nulla, finché tutta la Tribù di Tegumai non si fu radunata; e poi li condusse indietro fino alle rive del fiume Wagai, dove trovarono Taffy che stava facendo collane di margheritine e Tegumai tutto intento a pescare car pe con la fiocina aggiustata. La spiegazione «Bene, hai fatto in fretta!» fece Taffy. «Ma perché hai portato tante persone? Papà caro, ecco la mia sorpresa. Sei sorpreso, papà?» «Molto» rispose Tegumai «ma mi hai rovinato la pesca per oggi. Tutta la cara Tribù, gentile, simpatica, ordinata, è qui, Taffy». E così era infatti. Dinanzi a tutti camminava Teshumai Tewindrow, e le signore Neolitiche, che non lasciavano un attimo lo Straniero, il quale ave va ancora i capelli tutti infangati (sebbene fosse un Tewara). Dietro a lei ve nivano il Grande Capo, il Vice Capo, il Capo Deputato e il Capo Presidente (tutti armati fino ai denti), gli Ufficiali con i loro Plotoni, con gli Stregoni e i Bonzi alla retroguardia. Dietro ad essi vi era il resto della Tribù in ordine gerarchico, dai possessori di quattro caverne (una per ciascuna stagione), un recinto privato per le renne, e due riserve per la pesca dei salmoni, giù giù fino ai coloni feudali dalle grosse mandibole, che hanno diritto a mez za pelle d’orso nelle notti d’inverno e a stare a sette metri dal fuoco; e agli schiavi che hanno diritto ad un osso buco spolpato. Essi erano tutti là, che saltavano e gridavano, spaventando tutti i pesci per venti miglia all’intorno, e Tegumai li ringraziò con una eloquente orazione Neolitica.

«E oltretutto scommetto che non avete portato la fiocina col manico nero del babbo» disse Taffy. «E cosa state facendo al mio caro Straniero?» Essi stavano infatti pigliandolo a pugni, a due, a tre, a dieci alla volta, tanto che egli cominciava a stralunare gli occhi. Riusciva solo a boccheggiare e ad indicare«DoveTaffy.sono quegli uomini cattivi che ti hanno ferito, mio caro?» chiese Teshumai Tewindrow.

«Non ne avevo affatto l’intenzione, io volevo soltanto la fiocina con il ma nico nero del babbo» rispose Taffy.

«Egli è giunto con un orrendo disegno» spiegò il Gran Capo. «Un disegno che ti mostrava tutto crivellato da colpi di lancia».

«Uh!… Forse è meglio che spieghi che gli ho dato io quel disegno» disse Taffy, ma non si sentiva molto a suo agio. «Tu?» esclamò la Tribù di Tegumai «Personcina-senza-Alcuna-Educazio ne-che-Dovrebbe-Essere-Sculacciata?

Tu?»

«Mia cara Taffy, temo che siamo in un bel pasticcio» disse il babbo, e le mise un braccio attorno alle spalle, cosicché lei non ebbe più nessun timore. «Spiega! Spiega!» disse il Gran Capo della Tribù, saltellando su di un piede.

«Volevo che lo Straniero portasse la fiocina del babbo, così l’ho disegnata» spiegò Taffy. «Non vi erano molte lance nel disegno, ma vi era una sola fio cina. L’ho disegnata tre volte, per maggior sicurezza. Non ho potuto evitare che sembrasse conficcata nella schiena del babbo… non vi era spazio sul la corteccia di betulla; e quelli che la mamma chiama uomini cattivi, sono i miei castori. Li ho disegnati per indicare la strada attraverso la palude; e ho disegnato la mamma all’ingresso della Caverna ad accoglierlo tutta contenta, perché lo Straniero è molto simpatico, e voi invece siete la gente più stupida della terra» disse Taffy. «È un uomo molto per bene. Perché gli avete impia stricciato i capelli di fango? Lavatelo!»

Allora il Gran Capo esclamò e disse e cantò: «Taffy cara, la prossima vol ta che manderai una lettera composta di disegni, sarà meglio che mandi as sieme ad essa un uomo che sappia parlare la nostra lingua, per spiegare che cosa significa. Per me personalmente non importa un gran che, poiché sono

«Non importa. È una grande invenzione; e un giorno gli uomini la chia meranno scrittura. Per ora sono solo disegni, e come abbiamo visto oggi, i disegni non vengono sempre interpretati bene. Ma verrà un giorno, o Bimba di Tegumai, in cui faremo delle lettere, tutte ventisei, e in cui saremo capaci di leggere e di scrivere, e allora saremo in grado di dire sempre esattamente ciò che vogliamo dire, senza sbagli. Le signore Neolitiche lavino via il fango dai capelli dello Straniero!»

RuDyARD KIpl ING 173

Nessuno disse nulla per un po’, finché il Gran Capo si mise a ridere; allo ra lo Straniero (che era pur sempre un Tewara) rise anche lui; ed anche Te gumai rise, tanto e tanto, che cadde lungo e tirato sulla riva; e infine tutta la Tribù si mise a ridere, sempre di più e sempre più forte. Le sole persone che non risero furono Thesumai Tewindrow e tutte le signore Neolitiche. Esse fu rono molto gentili con i loro mariti, e perciò dissero loro solamente: «Idiota!» per molte volte.

Allora il Gran Capo della Tribù di Tegumai gridò e disse e cantò: «O Person cina-senza-Alcuna-Educazione-che-Dovrebbe-Essere-Sculacciata, hai fatto, senza saperlo, una grande scoperta».

«Ne sarò molto lieta» disse Taffy «perché, dopo tutto, sebbene voi abbiate portato tutte le lance della Tribù di Tegumai, avete dimenticato la fiocina dal manico nero del babbo».

R ACCONTI uMORIs TICI174 un Gran Capo, ma per il resto della Tribù di Tegumai è stato un grosso guaio, come puoi vedere, ed ha procurato una bella sorpresa allo Straniero». Allora essi adottarono lo Straniero (un genuino Tewara di Tewar) e lo ac colsero nella Tribù di Tegumai, perché era una persona per bene e non fece chiasso per il fango che le signore Neolitiche gli avevano messo nei capelli. Ma da quel giorno (e suppongo che sia colpa di Taffy) a pochissime bambine è piaciuto imparare a leggere e a scrivere. La maggior parte preferisce dise gnare e giocare col babbo… proprio come Taffy.

2. Rispondi alle domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

3. Costruisci e completa sul tuo quaderno le seguenti tabelle relative al paragrafo “L’incontro con lo Straniero”. Gesti compiuti da Taffy Significato dei gesti compiuti da Taffy Significato che lo attribuisceStranieroai gesti di Taffy

• All’arrivo di uno Straniero cosa decide di fare Taffy? A quale scopo?

• Cosa decide di fare lo Straniero? Perché?

Chi lo accompagna?

• Cosa pensa di fare lo Straniero? Perché?

Gesti compiuti dallo Straniero Significato dei gesti compiuti dallo Straniero Significato che Taffy attribuisce ai gesti dello Straniero

Disegni fatti da sullaTaffycorteccia Significato dei fattidisegnidaTaffy Significato che lo disegniattribuisceStranieroaidiTaffy Significato che disegniattribuisceteshumaiaidiTaffy

è ambientata la storia.

• Cosa succede appena Tegumai arriva a destinazione?

• Di cosa si dispiace Taffy?

• Cosa scoprono Teshumai, il Gran Capo e tutti i membri della tribù?

RuDyARD KIpl ING 175 1. Sottolinea sul testo i personaggi principali, il periodo e i luoghi in cui

• Dove decide di andare e cosa decide di fare un giorno Tegumai?

• Cosa succede all’arrivo dello Straniero da Teshumai? Per quale motivo?

• Cosa vorrebbe fare Taffy? Cosa le dice Tegumai?

6. Formula un messaggio indirizzato a un compagno e trasmettiglielo attraverso disegni; anche in questo caso egli dovrà decifrarlo e riscriverlo a parole.

8. Racconta un episodio (realmente accaduto o di invenzione) in cui il fraintendimento di un messaggio WhatsApp ha causato una situazione Saràcomica.divertente leggere il proprio racconto e ascoltare quelli degli altri insieme in classe.

7. Commentando gli eventuali errori di interpretazione e tenendo presente le osservazioni condivise sul brano letto, insieme ai tuoi compagni esplicita i vantaggi dell’alfabeto fonetico e della scrittura (o del linguaggio verbale) rispetto all’uso di gesti e disegni (o del linguaggio gestuale e iconico) e scrivi le osservazioni sul quaderno.

sul quaderno alle seguenti domande: • Il Gran capo della Tribù dice a Taffy che arriverà un giorno in cui verranno inventati l’alfabeto fonetico e la scrittura: dopo aver riletto il relativo passaggio del testo, spiega le ragioni da cui sorge questa esigenza.

5. Formula un messaggio indirizzato a un compagno e trasmettiglielo a gesti; egli dovrà decifrarlo e riscriverlo a parole.

R ACCONTI uMORIs TICI4.176Rispondi

• Anche noi oggi spesso inviamo messaggi che contengono immagini: sono sempre chiari? Rispondi facendo degli esempi e motivando le tue affermazioni.

Gelsomino era sicuro di vedere una bottiglia d’inchiostro rosso e stava già cercando una scusa qualunque per ritirarsi in buon ordine e andare in cerca di un negoziante meno pazzo. Ma improvvisamente gli venne un’idea.

«Ma«Verde?»certo.

“Non sarà diventato matto?” si domandò Gelsomino. “Farò bene ad asse condarlo”.«Unpane bellissimo, infatti» disse poi, indicando una bottiglia d’inchiostro rosso, più che altro per sentire che cosa gli avrebbe risposto il commerciante.

Gelsomino si diresse verso un negozio la cui insegna prometteva: «Generi alimentari e diversi». Nella vetrina, invece che prosciutti e scatole di marmellata, si ammuc chiavano quaderni, scatole di pastelli, bottiglie d’inchiostro. “Saranno i ‘generi diversi’” disse Gelsomino fra sé ed entrò fiducioso nel negozio.«Buonasera», lo salutò cerimoniosamente il commerciante. “A dir la verità” rifletté Gelsomino “non ho ancora sentito suonare mezzo giorno. Ma non è il caso di fare storie”. E col suo solito fil di voce (anche troppo rimbombante per le orecchie normali) si informò: «Potrei avere del pane?» «Ma certo, caro signore. Quanto ne desidera? Una bottiglia o due? Rosso o nero?»«Nero no di certo», rispose Gelsomino. «E poi, lo vendete davvero in bot tiglie?»Ilnegoziante scoppiò a ridere: «E come vuole che lo vendiamo? Al suo paese forse glielo tagliano a fette? Guardi, guardi che bel pane abbiamo». E così dicendo gli mostrò uno scaffale su cui, allineate meglio d’un bat taglione di soldati, stavano centinaia di bottiglie d’inchiostro dei più diver si colori. In tutto il negozio, del resto, non si vedeva nulla di commestibile: non una crosta di formaggio, non una buccia di mela.

Scusi, forse lei non ci vede bene?»

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«Vero?» disse quello; raggiante di soddisfazione per il complimento. «È il più bel pane verde che sia mai stato messo in commercio».

GIANNI RODARI «Generi alimentari e diversi»

«Certamente», rispose il negoziante, con il suo eterno, cerimonioso sorri so. «Lì di fronte, guardi, c’è la più rinomata cartoleria della città». Nella vetrina di fronte erano esposte bellissime forme di pane, e torte, e paste, e spaghetti, e maccheroni, e montagne di formaggi, foreste di salami e salamini.

«Senta», disse, «il pane tornerò a comprarlo più tardi. Mi saprebbe indi care, intanto, un negozio dove comprare dell’inchiostro di buona qualità?»

“Proprio come pensavo” si disse Gelsomino “quel commerciante è impaz zito e chiama pane l’inchiostro, inchiostro il pane. Qui il paesaggio è un po’ piùEntròconfortante”.nelnegozio e chiese mezzo chilo di pane. «Pane?» si informò premurosamente il commesso. «Guardi che ha sba gliato. Il pane si vende là di fronte. Noi vendiamo solo cancelleria, vede?» E indicò con un largo, orgoglioso gesto della mano tutto quel ben di dio di roba da mangiare. “Ho capito” concluse fra sé Gelsomino “in questo paese bisogna parlare alla rovescia. Se chiami pane il pane non ti capiscono”. «Mi dia mezzo chilo d’inchiostro», disse al commesso. Questi gli pesò mezzo chilo di pane e glielo porse incartato con tutte le regole

R ACCONTI uMORIs TICI178

GIANNI RODARI 179

• Entrato nel negozio cosa pensa Gelsomino del saluto del commerciante?

2. Rispondi sul quaderno alle seguenti domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

• A un certo punto quale stratagemma mette in atto Gelsomino per ottenere ciò che vuole?

• Quando Gelsomino sente il commerciante chiamare «pane» l’inchiostro e viceversa, cosa pensa di lui?

• Quando parla anche con il secondo commerciante, cosa capisce? Perché?

• Quali articoli vede Gelsomino in vetrina? Cosa ne pensa?

4. Inventa una breve storia in cui il protagonista si trovi disorientato come Gelsomino per una diversa attribuzione di significato alle parole utilizzate. Leggi poi ad alta voce la tua storia in classe e ascolta quelle dei tuoi compagni. Qual è la più divertente?

3. Nel racconto lo scrittore gioca anche sulle sfumature di significato della parola diverso. Spiega cosa vuol dire l’aggettivo diverso in ognuna delle seguenti Laespressioni.situazione adesso è diversa: Hanno un carattere diverso: Parlò per diversi minuti: Vendita di diversi generi alimentari: Inchiostri di diversi colori:

1. Sottolinea sul testo i personaggi della storia.

• Cosa cerca Gelsomino nel negozio di «Generi alimentari e diversi»?

AMICO: Scrivile una lettera. RAMESSE: Ahimè, a scuola non studiai abbastanza il disegno. Accidenti al modo di scrivere che hanno nel nostro paese, per mezzo di pupazzi. Tu…

RAMESSE: D’altronde non posso chiedere un simile favore ad altri, per non compromettere la fanciulla. 1 indugiano: si attardano, si soffermano. Dal latino indūtiae, che significa ‘tregua’. 2 mesto: malinconico, triste. 3 palesarle: dichiararle, renderle manifesto.

AMICO: Fui bocciato proprio in disegno. Quella carogna di Ramsete, pro fessore di belle lettere, mi riprovò.

R ACCONTI uMORIs TICI180 ACHILLE CAMPANILE La lettera di Ramesse I Sulle rive del Nilo. Due giovani egizi, Ramesse e un suo amico, passeggiano AMICOconversando.:Dolce la sera sulle rive del sacro Nilo. I colori del tramonto indugia no1 sulle acque, che si vedono scintillare e tremolar fra le palme dietro il tempio di Anubi. Ascolta: si leva un sommesso canto di sacerdoti. (Sommesso canto di sacerdoti ). Poi tutto tace. ( Si volge a Ramesse). Ma tu sei pensieroso. Si direbbe quasi che la solitudine di questo luogo, ove tutto sembra predispo sto per i convegni d’amore, aumenti la tua tristezza. Di’, non saresti per caso RAMESSE:innamorato?(mesto2) L’hai detto, amico. Sono innamorato della più bella crea tura d’Egitto: Farida… AMICO: La figlia di Psammetico? RAMESSE: Lei. Qui l’ho vista la prima volta qualche giorno fa e qui torno ogni sera in amoroso pellegrinaggio con la speranza d’incontrarla di nuovo e di pa lesarle3 l’amor mio. Ma lei non s’è più rivista. L’amo. L’amo appassionatamente. Ma come farglielo sapere?

RAMESSE: E questo, secondo te, è un occhio?

AMICO: Va bene così. Non devi mica mandarlo all’esposizione.

RAMESSE: Vorrei aprire la lettera con un bell’esordio d’effetto. Per esempio: Spettabile Signorina.

AMICO: Ma via, non pretenderà un saggio di disegno, immagino. Quando ci sono i concetti, la calligrafia non conta. Orsù, ti aiuterò io a scriverle un bi gliettino amoroso. Andiamo a casa tua. II VOCE: In casa di Ramesse. I due giovani sono seduti davanti a un papiro e con pennelli, tavolozza e stili, s’accingono a scrivere. Passa il Padre di Ra messe. I due giovani si alzano. PADRE: Comodi, comodi. Vedo con piacere che vi date alla pittura. RAMESSE: No, papà; stiamo scrivendo una lettera. PADRE: Bravi. Arte difficile. Beati voi giovani che sapete farlo. Continuate pure. ( Se ne va). I due giovani dopo essersi inchinati si rimettono al lavoro.

AMICO: Ma che dici? Anzitutto è freddo, burocratico. E poi come fai con un disegno a far capire che è spettabile e, soprattutto, che è signorina? Ci vuole qualcosa di più poetico. Per esempio: soave fanciulla. Disegna alla meno peggio una fanciulla e cerca di darle un’aria quanto più è possibile soave. ( Ramesse disegna. N.B.: i disegni si vedranno ogni volta in primo piano o su uno schermo. L’Amico segue l’opera alle sue spalle, correggendo o suggerendo mo difiche). Non così… Più lungo il piede… bravo… Ahi! Una gamba è più corta dell’altra. ( Ramesse fa per cancellare). Che fai? Lascia stare così. Si capisce lo stesso. L’espressione è soave e lei è fanciulla. Le gambe non contano. Cre derà che hai voluto dire qualcosa di profondo con quella gamba rattrappita. Vai RAMESSE:avanti. È una parola! Ora dovrei dire: «Dal primo istante in cui vi ho vi sto…» Come si fa?

AMICO: Niente di più semplice: si disegna un occhio aperto e appassionato. ( Disegna un occhio che sembra un uovo al padellino).

AChIllE CAMpANIlE 181

RAMESSE: «… lì dove il sacro Nilo fa un gomito…»

RAMESSE: «Se non siete insensibile ai miei dardi d’amore…» Io farei un dar do scagliato. ( Disegna una freccia che somiglia anche a una spina di pesce). «… Trovatevi fra sette mesi…» Questo è difficile: come si disegna un mese?

RAMESSE: «… perché possa esternarvi i sensi d’una rispettosa ammirazio ne…» Fa’ me che mi inginocchio. ( L’Amico disegna. Ramesse protesta alla vista del disegno). E questo sarei io?

AMICO: Ma lei lo sa che sei tu. C’è la firma, no? Aggiungi i saluti: «Mi creda con perfetta osservanza ecc. ecc.». Chiama il domestico!

RAMESSE: Ma sembra un occhio di bue.

AMICO: Questo è molto facile: basta tracciare un fiumicello a zig-zag. ( Esegue).

RAMESSE: «… e precisamente vicino al Tempio di Anubi». Anche questo è piuttosto facile, (mentre l’Amico disegna) perché l’immagine del Dio è nota a tutti. AMICO: Ecco fatto. E poi?

AMICO: Questo è elementare: vola… Un uccello… ( Ramesse disegna). Bravo! So miglia leggermente a un pollo, ma anche il pollo vola. Continua.

AMICO: Vai avanti. «Dal primo istante in cui vi ho visto…»

RAMESSE: «… il mio pensiero vola a voi».

RAMESSE: DOMESTICO:Radames!(entrando) Comandi. RAMESSE: Discolpati! AMICO: (dà il papiro arrotolato al domestico) Ma no, porta questo alla figlia di DOMESTICO:Psammetico. ( prendendo il papiro) Oh, il grazioso cannocchiale!

AMICO: Evvia! Affogheresti in un bicchier d’acqua. Si disegnano sette pic cole lune in fila ed eccoti i sette mesi. ( Esegue).

R ACCONTI uMORIs TICI182

FARIDA: Vuol prendermi in giro. Ma c’è di peggio. Guarda qui. ( Indica il terzo disegno). «… voi siete un’oca perfetta…»

RAMESSE: ( passeggiando nervoso) Chi sa che effetto le farà.

AMICA: (maligna) Perfetta non direi, ma oca non c’è dubbio. FARIDA: ( passando a leggere il successivo disegno) «… ma nel fisico somiglia te piuttosto a una lisca di pesce…» ( Mostra all’Amica la freccia disegnata da Ramesse).

AMICA: ( guarda) Eh, sì, non c’è dubbio, è zoppa…

FARIDA: E detestabile. Ma senti, senti. ( Legge, puntando il dito sul secondo dise gno). «Ho mangiato un uovo al tegamino…»

FARIDA: (che intanto ha dato una scorsa al papiro, aggrotta le ciglia indignata; all’Amica) Questo è un insulto. ( Indica il primo disegno e legge). «Detestabile zoppa».

AMICA: Possibile?

AChIllE CAMpANIlE 183

AMICA: E che importa a te?

AMICO: Calmati. Tutto andrà bene. III VOCE: In casa di Psammetico. Farida con un’amica si accinge a leggere il papiro di Ramesse, appena consegnatole. Tutte eccitate le due ragazze chiudono la porta; Farida svolge il papiro.

FARIDA: Leggi tu stessa.

AMICA: Non pretenderai che tutti siano primo premio di disegno come te. Quel che conta sono i concetti.

FARIDA: (ridendo) Uh, che zampe di gallina!

AMICA: (ridendo) Impertinente, ma spiritoso.

AMICO: È un papiro, asino! C’è risposta. Lo manda il signor Ramesse. Il Domestico s’inchina e via.

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FARIDA: Di’ addirittura insolente. Guarda. ( Decifra il non riuscito disegno del le sette lune). «… Vi piglierò a sassate…»

FARIDA: E non è tutto. ( Decifra il disegno del fiume a zig-zag e quello di Anubi ) «… siete un ignobile vermiciattolo … e avete bisogno della protezione del dio Anubi…»  (Comincia a piangere). Mascalzone, Anubi è il protettore delle mummie! ( Decifra il disegno di Ramesse inginocchiato). «… ora smetto perché debbo pu lirmi le scarpe. Saluti, ecc.». Grandissimo vigliacco, ma ora lo accomodo io. ( Prende lo stilo e sotto la stessa lettera di Ramesse scrive la risposta , che pronun zia con voce vibrata , mentre fa i disegni ). «Se io sono un’oca, ma non mai una mummia (e disegna magistralmente un’oca e un’immagine di Anubi cancellato) … lei è un beccaccione (disegna come  sopra un animale cornuto) ( Disegna come sopra un pugno chiuso; chiama). Radames! … e io la prenderò a pugni».

FARIDA: (consegnandogli il papiro) Ecco la risposta per il tuo padrone.

AMICA: Via, via, non te la prendere. Gli hai mandato la risposta che merita. Ora se la sente.

FARIDA: Se non te ne vai… ( Fa il gesto di prenderlo a pugni . Il domestico scappa. Rimasta sola con l’Amica , Farida piange). Se ne incontrano di mascalzoni a que sto mondo! Chi l’avrebbe detto? Pareva un giovine a modo.

DOMESTICO: (che s’aspetta la mancia) E per me non c’è niente?

DOMESTICO: (entrando) Comandi. FARIDA: RADAMES:Discolpati!Ma…(Apre le braccia come a dire che lui non c’entra).

AMICA: È enorme!

IV

PRESIDENTE: Quattromila anni sono passati da che fu scritto questo prezio so papiro. Esso è stato tratto alla luce dal professor Gratz, il grande egittologo, il quale dopo due lustri di profondissimi studi è riuscito a ridare all’ammi razione degli uomini il brano di sublime poesia contenuto in esso; uditelo nella traduzione integrale che ne ha fatto l’eminente scienziato. ( Indica , tra gli applausi il professor Gratz, che s’inchina).

AChIllE CAMpANIlE 185

RAMESSE: È chiaro: ( puntando l’indice sull’oca disegnata da Farida) «Anche il mio pensiero vola costantemente a voi… (con l’indice su Anubi cancellato) … ma ritengo che non è prudente vedersi presso il tempio di Anubi (indica l’animale cornuto) … piuttosto un buon posticino tranquillo credo che si possa trovare nei pa raggi del tempio del bue Api… (indica il disegno del pugno chiuso) … dove vi concederò la mia mano».

RAMESSE: Doppia ragione per considerarlo un’allusione matrimoniale. Mi concede la sua mano, ma intende essere una moglie… AMICO: … manesca. V VOCE: Salone di un congresso ai giorni nostri, affollato di scienziati, perso nalità e signore. Al tavolo della presidenza il Presidente pronuncia il discorso con cui presenta il professore Gratz.

AMICO: Sarà. Sarà. Vorrei che tu non peccassi di eccessivo ottimismo. Spe riamo. Ma per me quel pugno chiuso non parla di matrimonio. Per me è un’affermazione di autorità.

VOCE: Casa di Ramesse. Ramesse, raggiante, in compagnia dell’Amico deci fra i geroglifici di Farida e, a causa della sua scarsa dimestichezza col dise gno, li interpreta male.

GRATZ: (cessati gli applausi , religiosamente svolge un antico papiro e, indicando a volta a volta un disegno, declama la lirica che i geroglifici , secondo lui, contengono).

R ACCONTI uMORIs TICI186 «O Osiride che danzi stancamente…  sul fiore del loto seguita dall’Ibis, uccello a te sacro, io t’offro la spiga del grano e sette piccoli fagiuoli di fresco sgranati, acciocché tu tenga lontano da me il serpente dell’invidia, al sommo Anubi, anch’esso seguito dall’Ibis sacro, a cui mi prostro sacrificando un grasso vitello che abbatterò di mio pugno».  La fine della lirica è accolta dal pubblico con una trionfale ovazione

• Cosa succede quattromila anni dopo le vicende accadute a Ramesse e Farida?

AChIllE CAMpANIlE 187 1. Sottolinea sul testo i personaggi principali, il periodo e il luogo in cui è ambientata la storia.

2. Rispondi sul quaderno alle seguenti domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

• Cosa cerca di fare Ramesse? Per quale ragione?

• Come reagisce Farida al messaggio di Ramesse? Per quale motivo?

• Cosa pensa Ramesse quando legge la risposta di Farida? Perché?

Lettera deiImmaginiRamessedi geroglifici Significati attribuiti ai geroglifici da Farida e la sua amica Significati attribuiti ai geroglifici da Ramesse e il suo amico Significati attribuiti ai geroglifici dal professor Gratz Risposta di Farida

3. Costruisci e completa la seguente tabella sul tuo quaderno. deiImmagini geroglifici Significati attribuiti ai geroglifici da Ramesse e il suo amico Significati attribuiti ai geroglifici da Farida e la sua amica Significati attribuiti ai geroglifici dal professor Gratz

• Cosa usa Ramesse per comunicare con Farida?

• Il professor Gratz cosa pensa che siano i messaggi di Ramesse e Farida? Perché?

• Cosa si crea quindi fra tutti i personaggi principali di questa storia? Per quali motivi?

R ACCONTI uMORIs TICI4.188Rispondi

sul quaderno alle seguenti domande:

• Durante il dialogo iniziale fra Ramesse e il suo amico, Ramesse esclama: «Ahimè, a scuola non studiai abbastanza il disegno. Accidenti al modo di scrivere che hanno nel nostro paese, per mezzo di pupazzi. Tu…». E l’amico risponde «Fui bocciato proprio in disegno. […] Ma via, [Farida] non pretenderà un saggio di disegno, immagino. Quando ci sono i concetti, la calligrafia non conta». Secondo te perché Ramesse non approva il modo di scrivere dell’antico Egitto tramite «pupazzi» (ovvero immagini)?

• L’amico di Ramesse è convinto che «quando ci sono i concetti, la calligrafia non conta»: a te è mai capitato di avere difficoltà a leggere qualcosa che hai scritto? Per quale ragione? Rispondi dopo aver cercato sul vocabolario il significato della parola “calligrafia”, spesso male interpretato.

5. Scrivi un finale di tua invenzione della storia di Ramesse e Farida, rispettando la tipologia di racconto (umoristico) e la sua struttura (voce narrante + dialoghi). Stai attento ad inventare fatti coerenti con quelli narrati da Achille LeggiCampanile.poiad alta voce la tua storia in classe e ascolta quelle dei tuoi compagni. Qual è la più divertente?

189 ACHILLE CAMPANILE La mestozia

In piedi in mezzo alla stanza, congestionato come stesse per venirgli un colpo apoplettico1, Saverio si volse di scatto all’amico Egidio, che con lui di videva l’affitto dello studio, e annaspò boccheggiando, come chi non riesce ad articolar «Niente»,sillaba.rantolò, quando riuscì a parlare, agitando con rabbia alcuni dat tiloscritti e quasi ringhiando, «niente è meno imputabile2 alla volontà che l’i diozia. Eppure niente è più irritante di essa, quasi che all’idiota possa esser fatta colpa di esserlo».

La cosa straordinaria era che la ragazzetta, un tipo che s’indovinava pre suntuoso, sicuro di sé, lo stava a sentire con perfetta indifferenza, come se non si trattasse di lei. Saverio aveva ripreso a scorrere i dattiloscritti conti nuando a parlare, con la spuma alla bocca. «E compie le sue malefatte» disse «con una tranquillità da fare impazzire. Come se questi disastri fossero la cosa più naturale del mondo, non umana mente evitabili. Eccone uno da mettersi le mani nei capelli. Avevo dettato: “Il bandito tornò inzaccherato!”. Sapete che cosa ha scritto questa disgrazia ta, questa criminale? “Il bandito tornò inzuccherato”. Inzuccherato, signori miei.«ComeInzuccherato!»unatazzadi tè o di caffè» mormorò Egidio, pensoso. «È uno scritto a tinte fosche» proseguì Saverio. «Descrivevo il bandito, un essere abbietto4 e feroce che, compiuto il delitto, torna a casa inzaccherato, 1 congestionato … apoplettico: con il viso rossissimo come se stesse per avere un’emorragia al cervello. 2 Saverio dice che non si può considerare l’idiozia frutto di una volontà. Imputare significa in questo caso attribuire.

3 barocchismi: in questo caso significa eccessi. Deriva da Barocco, uno stile nell’arte caratterizzato dalla ricchezza della decorazione, dalla magnificenza e dalla fantasia.  4 abbietto: spregevole, vile. Dal latino abĭcere ‘buttar via’, composto di ab + iăcere ‘gettare’.

Posò sul tavolo i fogli che aveva già riletti, indicò la dattilografa, una ragaz zetta di bassa statura, scialba e biondiccia, davanti alla macchina da scrivere.  «Io la strozzerei» esplose. «A torto, lo riconosco. Ché non si può preten dere che il talento, o il semplice senso comune, nasca a volontà in chi ne è privo. E io non farei male a una mosca. Eppure, questa ragazza è capace di farmi concepire propositi omicidi. Ne fa di tutti i colori, sbaglia tutto, inventa parole, salta periodi. È inesauribile, nell’idiozia. È sorprendente. È piena di risorse. Potrei dire, se fossero leciti simili barocchismi3, che è un genio, nel suo genere. Un genio dell’idiozia. Una stella di prima grandezza dell’imbecil lità, un mostro del cretinismo».

R ACCONTI uMORIs TICI190 infangato, pesto, coperto di graffi e lividi. E questa cretina, questa perfetta in cosciente, me lo fa tornare inzuccherato. L’ha preso per un candito. Il bandito cosparso di zucchero. Con lo zucchero sul cappelluccio, come neve!»  «E già» mormorò Egidio, sempre pensoso e come parlando a sé stesso. «Bandito, candito; inzaccherato, inzuccherato; cappello a pan di zucchero, con lo zucchero sopra… Zucchero in polvere…» Saverio aveva ripreso a scorrere i dattiloscritti. A un tratto esplose in un urlo che nulla aveva di umano. «Ma guardate», singhiozzò, letteralmente, «guardate! Avevo dettato: “Ab biamo al mare gare automobilistiche e nautiche. Per il pubblico balneare, na turalmente, le nautiche sono molto più interessanti delle automobilistiche. Può dirsi, senza tema1 di sbagliare, che il numeroso pubblico di questa riden te spiaggia sia qui unicamente per vedere le nautiche”. Be’, questa criminale, questa delinquente, quest’essere privo di ogni scrupolo, mi ha scritto tutte le “nautiche” senza la “u”. Tutte le nautiche sono diventate natiche, signori miei!»Torvo, paonazzo, quasi stesse per scoppiargli una vena in petto, Saverio urlava, addirittura, agitando i fogli dattilografati. «Udite», disse «udite!» Si mise a «“Abbiamoleggere:almare le gare automobilistiche e le natiche. Le natiche sono molto più interessanti delle automobilistiche”. Capisci? Le natiche sono più interessanti. Lo credo. Ma aspetta: “Può dirsi, senza tema di sbagliare, che il numeroso pubblico di questa ridente spiaggia sia qui unicamente per vede re le natiche. C’è una lotta accanita per accaparrarsi i posti migliori per ve dere le natiche”. Roba da farsi sequestrare per offesa alla morale. Le è parso una volta di capire natiche, e tira avanti imperterrita, senza domandarsi se per caso non abbia inteso male. O, magari, crede che sia stato io a sbagliare. Perché è anche presuntuosa. Non la sfiora il minimo dubbio se sia o no vero simile che io le detti cose indecenti. Guarda qui. Avevo dettato: “Le gare auto mobilistiche hanno schiacciato le nautiche”, e lei, tranquilla, serena: “hanno schiacciato le natiche”. Ma basta. Questa è l’ultima che mi fa. Questa fa tra boccare il Ansava.vaso».Cercò di dominarsi. Andò a un armadietto, mise poche gocce di calmante in un mezzo bicchier d’acqua, bevve. «Signorina», disse poi, affannoso, «lei da questo momento è licenziata. Avrà quanto le spetta. Ma fili. Fili e non si faccia più vedere». Passò nella stanza accanto, sbattendo l’uscio. Impassibile come sempre, la ragazza si alzò, si tolse il grembiule come avesse terminato l’orario. Ma Egidio, che aveva assistito alla scena con cre scente interesse, la fermò col gesto. «Signorina», disse «quanto le dava al mese il mio amico?» «Centomila» fece la ragazza. 1 tema: timore, paura.

ha portato vita, splendore, smalto, scintillii, sprazzi di genialità nello stile e nell’opera già scialbi dello scrittore, il quale è divenuto brillantissimo, pieno di fantasia e di immaginazione, in una pa rola: sorprendente.

«Le raddoppio lo stipendio», disse l’altro «l’assumo io». Impassibile, la ragazza si rimise il grembiule e sedé di nuovo alla mac china, aspettando ordini. «Scriva» proseguì Egidio: «titolo: “La caduta di un regno”. A capo: “Corre va l’anno milletrecentocinquantuno dell’èra volgare…”». Cominciò a udirsi il caratteristico ticchettio veloce. Egidio dié un’occhiata al foglio, dietro le spalle della ragazza. «Alt» disse. Il ticchettio della macchina tacque. La ragazza sfilò il foglio e lo conse gnò ad Egidio, che lo prese quasi con religione. Vi si vedeva scritto, al posto del titolo: «La caduta di un ragno». Egidio lesse, approvò. «Per oggi basta» disse. «Grazie. Può andare». La ragazza si tolse il grembiule, si ravviò i capelli, si dié una ritoccatina al trucco e, con un piccolo cenno di saluto, uscì a testa alta, impettita, tranquil la, come chi sa di avere compiuto il proprio dovere e bene speso la giornata. Salto di tempo. Salutiamo, signori, in Egidio, scrittore fino ad allora noioso e banale quant’altri mai, l’artista che dalla critica unanime viene additato come un grande umorista, l’autore alla moda, i cui libri gli editori si contendono a col pi di milioni, i cui racconti vengono acquistati a peso d’oro dalle maggiori riviste, le cui opere si stampano a centinaia di migliaia di copie, e che il pub blico

I suoi racconti, le scene e i dialoghi delle sue commedie, che prima aveva no fatto sbadigliare intere platee, folle innumerevoli, sono diventati irresisti bili, da che li batte a macchina la straordinaria dattilografa. Ha aperto la serie il mirabile racconto La caduta d’un ragno, in cui que sto trascurabilissimo caso veniva narrato come un fatto storico, ambientato nel tardo Medioevo. E bisognava vedere di che effetto esilarante era la de scrizione di questa caduta del ragno, in quei tempi cupi. Egidio non dovet te nemmeno scervellarsi a trovare la minima situazione comica. Bastò che lasciasse il testo così come l’aveva scritto parlando della caduta d’un regno e si limitò a sostituire sempre la parola regno con ragno. Ne derivarono si tuazioni di schietta comicità e un testo quanto mai barboso diventò, con questo semplice artifizio, un fuoco, è il caso di dirlo, d’artifizio.

AChIllE CAMpANIlE 191

Si descriveva il ragno che stava solido sulle sue basi; la congiura a cui par tecipavano, per farlo cadere, dignitari, guerrieri, personaggi importanti, fra 1 metamorfosi: cambiamento, trasformazione.

Daacclama.chelametamorfosi1?Ladattilografa.Quellapreziosaragazza

Emozionante, in senso comico, il capitolo intitolato: «Il ragno vacilla». Ve lo immaginate il ragno che vacilla? Chi può emozionarsi per un fatto si mile? Eppure i congiurati alla notizia esultavano. «Il ragno è colpito alla ba se. Il ragno crollerà. S’è circondato di potenti alleanze, ha teso una rete che arriva fino alla Danimarca, ma sapremo farlo cadere». Be’, che ci sarebbe voluto? (pensava il lettore). Una mosca come esca, un passerotto, un inset ticida. I congiurati non ci pensavano nemmeno. Affilavano nell’ombra le spade. Le spade, figurarsi. Per il ragno. A tutto questo dava un sapore particolarmente comico l’ambiente: i Cro ciati, i barbari, gli ordini religiosi. Tutti coalizzati per far cadere il ragno. Ma che, era un ragno gigante? Anzi, un piccolo ragno (era un piccolo regno). E, per far cadere un piccolo ragno, mobilitati i potenti della terra? Che risate. E, finalmente, la caduta. A questo punto sarebbe stato banale che l’autore dicesse: Nota bene, si tratta d’un errore della dattilografa; al posto di ragno bisogna leggere sem preInveceregno.

R ACCONTI uMORIs TICI192 ti incappucciati, dame intriganti. I congiurati si riunivano la notte in luoghi tenebrosi e studiavano i mezzi per far cadere il ragno. Qualcuno, figurarsi, proponeva di rivolgersi al Papa. Poi, giubilo! Riuscivano ad avere dalla loro gli ambasciatori che procurarono l’appoggio di Stati vicini.

Egidio continuò il giuoco, ma a questo punto staccandosi dall’e quivoco e parlando realmente di caduta d’un vero e proprio ragno. Descris se il ragno che, con le sue otto zampe, usciva, per così dire, di casa, cioè dal proprio buco, dalla propria tana, un bucolino nel calcinaccio della città medievale, fra pietra e pietra. Lo mostrò mentre lentamente, con somma prudenza, in mezzo al traffico di palafrenieri1, portantine e popolo minuto di mercatanti, donnette, madonne e cavalieri, traversava la strada bagnata a causa d’una di quelle piogge che nel Medioevo solevano raggiungere una particolare intensità, anche a causa della mancanza di ombrelli.

La critica trovò in tutto questo delle allusioni satiriche, dei significati simbolici, che divertirono un mondo il pubblico e dettero una particolare autorità al bizzarro racconto.

Specialmente allusive furono trovate le pagine in cui, proseguendo il rac conto della caduta, Egidio descriveva il ragno che, nel traversare la strada, avanzava a stento, tra gli edifici gotici e le misteriose cattedrali, e a un cer to punto metteva una delle sue otto zampe in una pozzanghera e là! Pigliava uno scivolone e cadeva. Particolarmente comica era la descrizione del ragno mezzo sciancato, che arrancava a fatica e poi finiva bocconi.

Seguì un romanzo in cui si parlava per pagine e pagine di cozze felici.

Chi avrebbe potuto immaginare quei molluschi felici? Egidio aveva pensa to e dettato «nozze felici», un caso banalissimo da cui si possono trarre, sì, situazioni e spunti molto comici e umoristici, ma lui non aveva saputo trar ne che dei luoghi comuni. I quali, tuttavia, erano diventati di una comicità 1 palafrenieri: scudieri.

3 L’apologo è un breve racconto mentre l’epilogo è la conclusione della storia.

AChIllE CAMpANIlE 193 irresistibile, applicati al mondo delle cozze, del quale la brava incapace dat tilografa gli aveva involontariamente suggerito l’idea. In altra occasione, di una briciola d’amore costei fece una braciola d’amo re. Diventò il piatto di moda. Nelle liste di tutti i ristoranti à la page1, figurava regolarmente la «braciola d’amore», in omaggio allo scrittore che aveva lan ciato questa pietanza.

4 mestizia: malinconia, tristezza.

1 à la page: espressione francese che significa ‘di moda’.

Ella dava ad Egidio anche delle idee commerciali. Un giorno, in un rac conto concernente una soave e timida fanciulla, Egidio dettò: «il suo viso era soffuso d’una dolce mestizia»4. Venne fuori «dolce mestozia». Egidio eb be da questo l’idea di lanciare sul mercato una pretesa «mestozia dolce», crema per la pelle, da soffondere sul viso, prodotto di bellezza, che ave va anche il vantaggio d’essere molto gradevole di sapore, sicché “invitava ai baci”, com’era scritto nell’etichetta; «dopo averla assaggiata una volta», diceva lo slogan pubblicitario «vostro marito vorrà baciarvi sempre… tut ti vorranno baciarvi, se sapranno che usate “mestozia dolce”; usate tutte “mestozia dolce”; ricordate: “mestozia dolce”! In vendita in tutte le profu merie e istituti di bellezza». Figurarsi, le donne andavano matte per com perarla e gli uomini per assaggiarla. Egidio ci fece i milioni. Purtroppo la ragazza, da lui coperta d’oro, sentì rimordersi la coscienza, per i molti errori che commetteva scrivendo a macchina, e dei quali finì per ren dersi conto. E un giorno non resisté più. “Voglio” disse a sé stessa “fortissi mamente voglio meritare questo eccellente trattamento del mio buon princi pale, che non mi fa mai un rimprovero per i miei strafalcioni”. Si mise a studiare bene dattilografia, s’esercitò, pose attenzione nel lavoro, diventò impeccabile. Fu il crollo.

Sotto il ticchettio sbrigliato e spensierato della fanciulla, le forme proca ci diventavano precoci2 e le precoci procaci; gli apologhi epiloghi3, gli epilo ghi apologhi, gl’innamorati passeggiavano sotto le stalle e nei film si vede vano le stalle del cinema.

2 Procaci significa ‘provocanti’, mentre precoci ‘che avvengono prima del tempo’.

3. All’inizio del racconto Saverio definisce la dattilografa «un genio dell’idiozia». Cosa intende dire? Ripensando a questa espressione dopo aver letto l’intera vicenda, essa risulta ancora più significativa: spiegane i motivi.

• Come cambiano i racconti di Egidio? Perché? Rispondi dopo aver individuato nel testo le caratteristiche che li descrivono prima e dopo l’assunzione della dattilografa.

• Esattamente qual è il compito della dattilografa? Per rispondere puoi aiutarti andando a cercare sul dizionario l’etimologia del termine.

• Quale tipo di errori fa la dattilografa? Perché suscitano il riso? Rispondi dopo averli sottolineati sul testo e aver costruito e completato la seguente tabella sul tuo quaderno. Soffermati in particolare sul rapporto fra il ragno e le sue azioni nel racconto originato dall’errore regno/ragno.

• A un certo punto cosa decide di fare la dattilografa? Per quale ragione?

2. Rileggi gli ultimi due enunciati in cui emerge il paradosso su cui si basa l’umorismo del racconto e in particolare del finale: che cosa crolla? Perché? Rispondi dando le ragioni per cui questi due enunciati esprimono un contenuto paradossale.

Termine corretto Termine errato Perché suscita il riso? inzaccherato inzuccherato perché detto di un bandito che dovrebbe apparire abbietto e feroce ne addolcisce l’immagine …

• Spiega quali sono i personaggi del racconto, che lavoro svolgono e in quale rapporto sono tra di loro.

R ACCONTI uMORIs TICI1.194Rispondi

sul quaderno alle domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

• Per quale motivo invece Egidio decide di assumerla addirittura raddoppiandole lo stipendio?

• Perché Saverio decide di licenziare la sua dattilografa?

AChIllE CAMpANIlE 195

4. Immagina di aver trovato un altro racconto trascritto dalla dattilografa: cosa avrà sbagliato questa volta? Inventalo tu. Puoi utilizzare una delle seguenti coppie di parole o inventarne personalmente altre: matto/gatto; parco/porco; sergente/serpente; tavolo/cavolo; pezza/ pizza; tana/lana; castello/cestello; mastello/pastello; callo/collo. Leggi poi ad alta voce il tuo racconto in classe e ascolta quelli dei tuoi compagni. Qual è il più divertente?

5. Racconta quella volta in cui ti è arrivato o hai inviato senza accorgerti un messaggio esilarante creato dal programma T9. Sarà divertente leggere il proprio racconto e ascoltare quelli degli altri in classe.

La quercia del Tasso Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché1 non cada o non possa farsene le gna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, come avverte una lapide, Torquato Tasso2 andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa. Anche a quei tempi la chiamavano così. Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del ge nere dei plantigradi, detti tassi. Un caso. Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” mi nuscola. In verità, c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo ani maletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano il tasso del Tasso e l’albero era detto «la quercia del tasso del Tasso» da alcuni, e «la quercia del Tasso del tasso!» da altri. Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, e poeta anch’e gli) il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: «È il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?».

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’e ra dedicata al poeta e perciò era detta la guercia del Tasso della quercia, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (per ché c’era un grande antagonismo fra i due). Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta la quercia della guercia del Tasso; mentre quella del Tasso era detta la quercia del Tasso della guercia: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. Qualcuno più brevemente diceva: la quercia della guer cia o la guercia della quercia. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. 1 acciocché: affinché. 2 Torquato Tasso: famoso scrittore italiano del 1500, la cui opera principale è il poema epico-cavalleresco La Gerusalemme liberata.

Così, poi, quando si sentiva dire «il Tasso della quercia» qualcuno doman dava: «Di quale quercia?». «Della quercia del Tasso». E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: «il tasso del Tasso della quercia del Tasso».

R ACCONTI uMORIs TICI196 ACHILLE CAMPANILE

1. Durante una rilettura silenziosa del racconto, sottolinea con diversi colori i differenti significati che via via assume la parola «tasso», poi fanne una legenda sul tuo quaderno.

2. Dopo averle numerate sul testo, rappresenta le situazioni narrate dall’autore con delle vignette che le illustrino.

AChIllE CAMpANIlE 197

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva. E lo chiamavano il tasso della quercia della guercia del Tasso, mentre l’albero era detto la quercia del tasso della quercia del Tasso e lei la guercia del Tasso della quercia del tasso.

4. Rispondi sul quaderno alla seguente domanda: cosa rende umoristico il racconto?

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto il tasso del Tasso. Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmen te e, durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come il tasso del tasso del Tasso.

3. Ricerca e riporta sul quaderno il significato dei termini sinonimia e omonimia: su quale di questi due fenomeni linguistici gioca l’autore?

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pian ta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora il tasso barbasso del Tasso; e Bernardo fu chiamato il Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora l’animaletto fu indicato da alcuni come il tasso del Tasso del tasso bar basso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; e da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. Il Comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso

5. Inventa una storiella, da leggere ad alta voce ai compagni, basata sullo stesso fenomeno linguistico su cui gioca l’autore… e vinca il migliore!

R ACCONTI uMORIs TICI198 ACHILLE CAMPANILE Il telegramma

Demagisti posò la penna, guardò la fidanzata freddamente. «Lola», disse, «tu sei una brava ragazza, piena d’iniziativa, piena di buo ne intenzioni, ma non rifletti mai, prima di parlare». «Perché?» «Ma scusa, allora, tanto vale telegrafare: “Piero morto”». «È per non allarmarli». «Benedetta figliola, si sa che, quando si telegrafa ‘gravissimo’, vuol dire morto. Tu stessa hai detto: come s’usa in questi casi. Tutti sanno che, in oc casione di morte, si telegrafa così». «Già, è vero. Allora, telegrafiamo: “Piero grave”. È meno allarmante». «Non mi sembra. Capiranno che non vogliamo allarmarli con ‘gravissi mo’ e che Piero è proprio gravissimo, cioè morto».

«Ma ti pare possibile? Se uno non sta bene in modo tale da richiedere l’immediata partenza dei suoi cari, vuol dire che è gravissimo, e siamo da capo. C’è da accoppare quei poverini. Oppure da farsi prendere per pazzi». «È giusto. Allora, telegrafiamo: “Piero non benissimo, venite subito”; op pure: “Leggera indisposizione Piero richiede vostra immediata partenza”, o…»Demagisti continuava a scuotere il capo, desolatamente.

«Non vorrai telegrafare», scattò Lola: «“Piero ottimamente, venite subi to”». «D’altronde, dobbiamo chiamarli qui per i funerali. Non possiamo tele grafare: “Piero non bene, restate dove siete”». «No, certamente». 1 decesso: morte. 2 debite forme: modi dovuti, adeguati alla situazione.

«Naturalmente», disse Demagisti, «non bisogna telegrafare con brutale franchezza la notizia del decesso1. Povera gente, devono affrontare il viag gio, e non sarebbe umano che li esponessimo allo strazio di farlo con l’an gosciosa certezza. Telegraferemo con le debite forme2». Aveva estratto la penna stilografica e s’accinse a scrivere. «Io», fece Lola, «direi di telegrafare, come s’usa in questi casi: “Piero gra vissimo, venite subito”».

«Allora, telegrafiamo: “Piero non bene, venite subito”».

«Figurarsi che colpo, per essi», disse Lola, prendendo posto col fidanzato al lungo tavolo che occupava il centro dell’ufficio telegrafico. «C’è da fargli venire un accidente a telegrafar di venire perché Piero è morto».

Seguì una pausa di silenzio. I due, la fronte aggrinzita1 nello sforzo, si scervellavano per trovare una formula che conciliasse le esigenze della pie tà con quelle dell’informazione. «E se», saltò su Lola, «invece di: “Piero gravissimo”, telegrafassimo: “Filip po gravissimo, venite subito”?» Il fidanzato la guardò sbalordito. «Che c’entra Filippo, se è morto Piero?» «Così non si allarmerebbero».

2 né punto né poco: per nulla. 3 cinici: distaccati, freddi, indifferenti alle sofferenze e ai valori umani. Aggettivo derivato dal greco kunós ‘cane’.

«Bella soluzione del cavolo! Non s’allarmerebbero, ma non capirebbero nemmeno. Chi è questo Filippo?» «Faccio per dire, un nome qualunque. Del resto c’è il portiere, lì, che mi pare si chiami Filippo». «Lola, tu certe volte mi fai cadere le braccia. Ma ti pare una soluzione? Direbbero che siamo impazziti, se li chiamassimo d’urgenza perché il por tiere è «Eppure»,malato».disse, «non mi pare un suggerimento da buttar via. Tu capisci che un simile espediente ci permetterebbe di telegrafare senza tante reticen ze, con brutale franchezza, anche: “Filippo morto, Filippo crepato, Filippo seppellito, venite subito”». «Ma con quale risultato, benedetta donna? Riconosco che il ripiego risol verebbe dei problemi, perché la notizia della morte del portiere, o d’un altro qualsiasi ignoto Filippo, non li emozionerebbe né punto né poco2. Ma non risolverebbe niente. Al massimo direbbero: “Filippo è morto, salute a noi”».

«Per quanto», disse, «non esista nel loro parentado o tra le loro amicizie e conoscenze nessun Filippo, pure sono convinta che essi non possano non provare per la morte d’un loro simile quel minimo d’umana pietà che non si nega nemmeno a un cane». «Ma non al punto di muoversi e venire qui». «E va bene», fece lei, arrendendosi con qualche amarezza. «Hai sempre ragione tu, secondo te. Ma allora come si fa?» «Come si fa, come si fa? Non è facile. Lasciami pensare». «Posso fare una proposta?» «Dì pure». «Telegrafiamo: “Voi gravissimi, Piero viene subito”». «Non capisco. Come, “voi gravissimi”?»

1 aggrinzita: aggrottata, con le rughe. Aggettivo derivato da ‘grinza’ [dal longobardo grimmizōn ‘corrugare la fronte’].

AChIllE CAMpANIlE 199

«Non li credo così cinici3. E insisto nella mia idea». «Ma che c’entra il cinismo? A che serve telegrafare che è morto uno scono sciuto? Ti vuole entrare in testa?» La ragazza resisteva.

5 lasci adito a: susciti, faccia sorgere. ‘Adito’ viene dal latino aditum, da adire ‘andare verso’.

«Insomma, non capirebbero». «E pare che non debbano capire, infatti». «Debbono capire e non capire. Scusa, perché si telegrafa?»

«Oh, povera ingenua! Oh, povera ingenua! Ma davvero tu credi che una persona s’allarmerebbe di meno sentendo che è gravissima lei stessa, piut tosto che un terzo1, sia pure molto caro? Ma dove stai con la testa? La salute è il numero uno. ‘Io’ viene prima di chiunque. No, no. Ma poi, a parte il fatto che, ripeto, uno s’allarmerebbe anche di più se si sentisse comunicare per te legrafo che gravissimo è lui e non un altro, credo che non servirebbe a niente far «Comecosì».

«Perché debbono venire ai funerali». «E dunque? Però, debbono venire ai funerali, senza sapere con certezza che lui è morto». «E allora, perché non telegrafare così, per esempio: “Vinto lotteria, venite subito per incassare”? Sai come si precipiterebbero? E non avrebbero il mi nimo sospetto che si tratti, invece, d’una luttuosa circostanza. Farebbero un bellissimo viaggio, tranquilli, sereni. Un viaggio felice, come rare volte capita di farne».«El’arrivo? Non pensi all’arrivo? Ti pare possibile, Lola, che si debba far venir qui della gente col miraggio3 d’incassare una cospicua somma, per farla poi trovare in presenza di un caro estinto? Il contraccolpo sarebbe an che peggiore. Attirarli con una buona notizia sarebbe come tender loro un tranello che renderebbe più grave il salto nella realtà».

R ACCONTI uMORIs TICI200

«Per non allarmarli. Invertiamo le parti. Invece di dire che è gravissimo Piero e che loro debbono venire subito, diciamo che Piero va subito e che loro sono gravissimi».

sei prolisso2, Paolo! Non so se resisterò, quando saremo sposati, e certe volte sarei tentata di iniziare fin da ora le pratiche per la separazione».

1 un terzo: un’altra persona rispetto a chi parla e a chi ascolta.

2 prolisso: che usa troppe parole, verboso. Dal latino prolĭxum, composto di pro‘davanti’ e liquēre ‘essere liquido’.

«Figlio mio», ripeté la ragazza sgomenta, «come sei prolisso! Non so da chi tu abbia preso. E penso con terrore…» «Abbrevio, concludo, arrivo, sintetizzo, compendio, riassumo succinta mente. Noi, dunque dobbiamo non creare delle perniciose4 illusioni, ma suscitare, anzi, uno stato di preallarme generico che, senza far esplodere la certezza, serva ad attutire il colpo finale, accorciando le distanze, e che, nel contempo, lasci adito a5 qualche speranza».

3 miraggio: falsa speranza, illusione.

«Eh, ma ci vuole un trattato, per tutto questo», esclamò Lola terrorizzata. «Insisto per il mio testo: “Vinto lotteria, venite subito per incassare”».

4 perniciose: dannose, che provocano effetti o danni gravi.

AChIllE CAMpANIlE 201 «Senti, Lola», disse Demagisti, «non voglio stare a far questioni con te per una faccenda che, in fondo, ci riguarda fino a un certo punto». «E allora?» «Allora», disse Demagisti, «facciamo così. Telegrafiamo: “Piero ottima mente, non muovetevi”. Se vogliono capire, capiranno». «È l’unica». * * * «E adesso bisogna andare a far l’annunzio per i giornali», disse Demagisti dopo aver fatto il telegramma. «Anche questo!», mormorò Lola. «Non si finisce mai. Com’è complicato vivere!»«Anzi, morire». «Cioè S’avviaronosopravvivere»..

• A chi lo devono inviare?

4. Completa la seguente affermazione andando a rileggere il racconto per verificare la correttezza della tua interpretazione: I testi escogitati via via dai due protagonisti… ȗ sono tutti perfettamente adeguati allo scopo comunicativo che si prefiggono. ȗ si allontanano sempre di più dallo scopo comunicativo che si prefiggono. ȗ sono sempre più adeguati allo scopo comunicativo che si prefiggono.

3. Qual è il testo finale proposto da Demagisti? Come lo giudichi? ȗ Intelligente, perché è adeguato allo scopo. ȗ Paradossale, perché dice la verità in modo sorprendente. ȗ Assurdo, perché afferma il contrario di quello che intende dire.

R ACCONTI uMORIs TICI1.202Rispondi

1. Filippo gravissimo, venite subito. 2. Piero grave. 3. Piero non bene, venite subito. 4. Filippo gravissimo, venite subito. 5. Voi gravissimi, Piero viene subito. 6. Vinto lotteria, venite subito per incassare.

• Quale messaggio vogliono trasmettere Lola e il fidanzato Demagisti con un telegramma?

Direbbero che siamo impazziti se li chiamassimo perché il portiere è malato. Se uno non sta bene in modo tale da richiedere l’immediata partenza dei suoi cari, vuol dire che è gravissimo. Capiranno che non vogliamo allarmarli con ‘gravissimo’, e che Piero è morto. ll contraccolpo sarebbe anche peggiore. Ma davvero credi che una persona si allarmerebbe meno sentendo che gravissima è lei stessa? Si sa che, quando si telegrafa ‘gravissimo’, vuol dire ‘morto’.

sul quaderno alle seguenti domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

Testi dei telegrammi proposti da Lola Critiche Demagistidi

2. Ricostruisci sul tuo quaderno la seguente tabella, mettendo in corrispondenza ciascuno dei testi dei telegrammi proposti da Lola (scritti in ordine di successione nella colonna di sinistra) con le rispettive critiche oppostegli da Demagisti (scritte alla rinfusa nella colonna di destra).

• A quali due diversi scopi mirano Lola e Demagisti nell’ipotizzare differenti testi possibili?

7. ll brano che hai letto non intende ridere della morte di un uomo, ma far riflettere sulle difficoltà che si possono incontrare nel comunicare verità dolorose. Spiega quali sono gli aspetti fondamentali da tener presente in una situazione del genere.

8. Prova a continuare tu il racconto, sviluppando la situazione proposta dal brano, sempre in tono umoristico. Immagina i familiari di Piero che ricevono il telegramma di Demagisti: che cosa si chiederanno? Quali interpretazioni daranno del messaggio che hanno ricevuto? Che cosa penseranno di quelli che hanno scritto il telegramma?

6. Anche le battute conclusive sono ironiche: cosa le rende tali? Rispondi spiegando le motivazioni sottointese di tali affermazioni.

AChIllE CAMpANIlE 203

5. Inizialmente il brano procede in tono serio, poi da un certo punto genera crescente ilarità. Quando ti pare che la situazione prenda una piega umoristica? Su cosa si fonda l’umorismo? Rispondi motivando le tue affermazioni.

«Cercavo di lei, signor Bartolo, per associarla a una mia impresa. Ho sco perto una polvere prodigiosa. Non so ancora a che cosa serva, ma so che es sa sta esattamente sul limite tra la vita fisica e la vita metafisica. Ella intende l’importanza enorme della cosa. Mi occorre che ella mi somministri venticin quemila lire per le esperienze conclusive. Ci conto». (In cuor mio contavo pure di prelevar subito cinque lire di quelle venti cinquemila, per pranzare). Bartolo s’affrettò a trangugiare precipitosamente, quasi da ingozzarsi, la pesca che stava sbucciando.

Circa dodici anni fa avevo messo su per mio divertimento una specie di gabi netto di chimica, ove mi appassionavo a tentare esperienze col secreto propo sito di trovare la sostanza di contatto tra il mondo fisico e il mondo spirituale. Un giorno, d’improvviso, me la trovai tra mano, quella sostanza: fu, ognuno lo capisce, l’invenzione più miracolosa che possa immaginarsi. Era una pol verina, che raccolta nel cavo della mano non seppi giudicare se fosse calda o fredda: era impalpabile e imponderabile, pure anche a occhi chiusi la mia mano la percepiva: era incolore e visibilissima. Mi dava, il tenerla a quel mo do, una specie di ebbrezza: è da notare che l’ebbrezza è appunto la condizione intermedia, e come di contatto, tra la sensazione di una realtà fisica e lo sta to d’animo puramente immaginativo. Tale era quella sostanza, come subito intuii, e come potei riconoscere in breve, quel giorno stesso, per caso, lungo una serie di fenomeni oltremodo curiosi che intorno a me si produssero, e che voglio raccontare per vedere chi ci crede. Era d’estate, in un piccolo paese pieno di sole, che sta in mezzo a una pianuraChiusid’Italia.lapolvere in una cartina, la misi nel portafogli. In questo atto m’ac corsi che non avevo più danaro; ne cercai invano in tutte le mie tasche. Io non avevo ancora capito quali potessero essere gli effetti della virtù di quella polvere, e immaginai rapidamente una serie d’esperienze costose per ricono scerli. Era mezzogiorno. Mi si imponevano dunque due problemi di natura fi nanziaria: trovare il danaro per andare a pranzo, e quello per fare le esperien ze. Il secondo assorbiva il primo. Uscii di casa, nel sole, con la mia polvere in tasca. Le strade erano vuote. I miei passi risonavano sui lastrici battuti dalla fiamma del cielo. Pensavo. In paese conoscevo due uomini ricchi: Bartolo e Baldo. Sape vo che Bartolo andava qualche volta alla trattoria dello «Sperone ardente», di cui Baldo era proprietario. Vi andai. Il padrone non c’era, era andato al la sua vigna: ma, o fortuna, c’era Bartolo, con la moglie (una grassona) e la figlia (una magretta). Stavano terminando di pranzare. Lo affrontai subito.

Il buon vento

R ACCONTI uMORIs TICI204 MASSIMO BONTEMPELLI

«Alzatevi, donne» ordinò alla moglie grassa e alla figlia magra. Esse s’al

MA ssIMO BONTEMpEll I 205 zarono, e lui pure. E s’avanzò verso di me. Aveva un vestito di tela bianca e in capo un panama. Aveva gli occhiali d’oro e la barba bionda. Pareva una vespa nel«Signorlatte. Massimo», mi rispose «lei non sa che io sono povero. Io non posso somministrarle nemmeno venticinque centesimi. Le giuro che nel farle que sto rifiuto il cuore mi sanguina». Sostò. Lo guardai. Mi guardava, onde una grande timidezza mi prese, e abbassai lo sguardo. E scorsi che sul suo petto, dalla sua parte sinistra, sotto la tasca del faz zoletto, sulla tela bianca del vestito c’era una piccola macchia rossa. Pen savo d’insistere. Ma mi avvidi che la macchiolina era fresca, e s’allargava. Stavo allora per avvertirlo, quando egli riprese a parlare: «Il cuore mi sanguina», ripeté «e io mi compiaccio di spiegarle…». Ma non sento più niente. Mi balena un sospetto, una speranza, una spiega zione, un’illuminazione, forse, certo, anzi certissimo, capivo ora gli effetti del la mia scoperta. L’uomo parlava entro il raggio d’azione della mia polvere, la sostanza che segna il punto di contatto e passaggio tra il mondo reale e il mon do delle immagini: ed ecco lui parlava, la mia polvere operava: la mia polvere serve a realizzare le immagini: le immagini di cui fanno uso gli uomini parlando. Il cuore mi sanguina, egli aveva detto, e ripetuto. E il disgraziato… Io ero senza fiato. La macchia aveva cessato d’allargarsi. Lo guardai. Era pallido. Colsi ora le sue parole. «… non ho più quattrini», stava ridicendo, in atto d’andarsene, con voce fioca «e sa dove li ho buttati tutti? In un anno di cure, di cure per mia moglie e miaFe’figlia».uncenno dietro le spalle. Perché le due donne, moglie grassa e figlia magra, s’erano ritirate in un angolo, un angolo quasi buio della sala, e là stavano, zitte. «Ho fatto fare una gran cura dimagrante a mia moglie, e una gran cura in grassante a mia figlia; e con questo bel risultato: mia moglie è una botte e mia figlia un’acciuga. Arrivederla, signor Massimo. Andiamo, donne». Si voltò a loro, ma non c’erano più. Non si maravigliò. Brontolava: «Saran no andate a casa a prepararmi il caffè». Uscì barcollando, senza più voltarsi scomparve. Io allibito ficcai lo sguar do in quell’angolo buio della sala. C’era una botte. Un brivido rapido mi sci volò dai piedi alla fronte. Osai fare due passi verso quella cosa, mi fermai, così da lontano mi chinai un poco guardando laggiù. E ai piedi della botte c’era una piccola acciuga miserevole, salata. Sua moglie, e sua figlia. Arretrai. Caddi a sedere sulla sedia davanti al tavolino. Il cameriere sta va rientrando dalla cucina e si piantò ritto in faccia a me. Ebbi la forza di mormorare: «Un pezzo di formaggio, un bicchiere di vino». Me li portò. Tacevo. E in breve ogni sgomento sgombrava dall’animo mio. Alla fine del formaggio, un immenso orgoglio m’invase. Lo scienziato aveva

R ACCONTI uMORIs TICI206 vinto in me l’uomo. Guardai con gioia l’opera mia nell’angolo buio. Anche il bicchiere di vino finì. M’accorsi che un gatto stava annusando l’acciuga, distolsi lo sguardo. «Quando torna il vostro padrone? Debbo parlargli». «È andato alla vigna: tornerà verso vespero». Dopo una sosta, con un sorriso ossequioso: «Il signore deve perdonarmi se senza volerlo ho sentito qualche parola della sua conversazione col signor Bartolo. Se al signore occorre danaro, mi permetta di dirle che fa male a rivolgersi a quei tipi lì. Le consiglierei piutto sto il «Quellocommendatore».chestainfondo alla piazza? Come si chiama?» «Appunto. Si chiama… oh non ricordo. Aspetti. Il nome ce l’ho sulla punta della«Bravo.lingua».Mostratemi la lingua». «Che Ero«Mostrate,dice?»subito».cosìimperioso, che lui ubbidì. Cacciò fuori la lingua. M’accostai, les si forte:«Com-men-da-tor Bar-ba». «Appunto! Come lo sa?» «L’avevate sulla punta della lingua». «Il signore ha voglia di scherzare. Il commendatore ha fatto due o tre affari grossi, e ha la cassa ben fornita». «Grazie del consiglio. Arrivederci». Facevo l’atto d’alzarmi. Il cameriere mi interruppe: «Se il signore volesse regolare il conticino…». Io ebbi un’idea grandiosa. Estraggo il portafogli, e impugnandolo, fisso con energia il cameriere. Egli aspettava. Io gli gridai: «Siete un asino». Sostò un istante immobile, contemplandomi con gli occhi che gli diventa vano immensi e tondi: e tosto intorno a essi sorse un pelame e avanti si spin se un muso carnoso e in alto scaturirono due vaste orecchie e tutto il corpo si inalzò, ingrossò setoloso, ricadde con gli zoccoli avanti battendo il pavimento, che risonò. Tutto scrollandosi frustò l’aria della sala con una coda superba, e il muso proteso a me di sopra al tavolino uscì in un raglio che mi parve un trombone. Poi di slancio mi voltò quella coda e ragliando trottò verso l’uscio e fu nella strada. Corsi all’uscio. Fuori non c’era anima viva; l’asino solo tra la gran luce era già lontano e trottava orgogliosamente nel mezzo della strada a coda alta sul selciato sonoro, di tratto in tratto lanciando un fulgido raglio fino al sole che saettava dal centro del cielo sulle case e sui sassi. Rientrai per prendere il cappello. In terra, presso il piede del tavolino, bian cheggiava il tovagliolo caduto dalla zampa anteriore sinistra dell’ex cameriere.

Compiutamente sicuro ormai della mia invenzione, uscii tranquillo, e per le deserte vie meridiane raggiunsi la piazza. Un momento ancora sentii da una via laterale echeggiare passando un trotto e un raglio, mentre bussavo

alla porta della casa del commendator Barba. Mi presentai. Mi accolse, nel suo studio, con circospezione e cortesia. «Commendatore,«S’accomodi». io sono un chimico…» Cercando le parole per continuare, guardavo intorno. D’un tratto gli do mandai:«Anche lei si occupa di chimica?» «Io? Nemmeno per sogno. Perché?»

«Perché vedo scritto, là sui cartoni di quello scaffale in fondo Carburi». Si mise a ridere: «Lei s’inganna. Io non mi occupo che di affari. In quei cartoni tengo le mie azioni della Società dei Carburi relativi a questo affare». «Sta bene. Le dirò subito che per un’impresa, che in breve mi arricchirà, ho bisogno di una somma, piuttosto forte, per…» «Basta!» m’interruppe. «Lei è giovane: faccia da sé. I giovani debbono fa re da sé. Aiutarli è un delitto. Io oggi dirigo cento affari grossissimi: ebbene, ho fatto tutto da me, dal nulla. Nessuno mi ha mai aiutato. Io sono figlio delle mieS’interruppeazioni…» e con aria svagata d’un tratto s’alzò, andò verso lo scaffale, e guardando ai cartoni mormorava affettuosamente: «Mamma, mamma…». Io repressi il riso, e con aria innocente, domandai: «Perché dice mamma, mamma a quei cartoni?». «Io dico mamma, mamma a quei cartoni?… Chi sa, qualche volta sono distrat to. Lei non ha idea: troppi affari, ho troppi affari. La mia testa è un vulcano». M’alzai e detti un balzo indietro spaventatissimo. Infatti un torbido pen nacchio di fumo gli sgorgò dalla testa. Avevo raggiunto l’uscio. Mi voltai un momento a tempo per vedere un nugolo di faville e sputi di lava al soffitto con un rumore di pesce a friggere. Fuggii a precipizio, sbattei la porta, mi ri trovai sulla piazza deserta. Raggiunsi il limite del paese, andai a sedermi sul margine d’un prato ove sbocca un viottolo. Alla esaltazione si mescolava ora in me più d’una vena d’inquietudine. La mia invenzione è enorme. Ma occor re essere prudenti. Per essa in meno d’un’ora avevo già innocentemente sa crificato una due tre quattro cinque, sì cinque persone: Bartolo dissanguato, sua moglie e sua figlia rese inservibili, il cameriere inciuchito, il commenda tore vulcanizzato. Meditai lungamente. (Ogni grande impresa ha avuto i suoi martiri!). Elucubravo le possibili applicazioni industriali della mia scoperta. Il sole declinava. Ma non mi mossi; non a caso, pur nella mia agitazione, ero venuto proprio a quel viottolo. Di là doveva arrivare Baldo, il ricco padrone dello «Sperone ardente», tornando a vespero dalla sua vigna. Come gli espor rò la cosa? Verso occidente il cielo era tutto addobbato di nuvolette a festo ni, di fiocchi rosei a ghirlande tra il raso azzurro dell’aria. E da lontano vidi spuntare sul viottolo Baldo. Veniva a passi tranquilli, paffuto e raso, con una curva pancia soave. Fumava un avana e s’avvicinava. Io trepidavo, e tentai di vincermi. Cercavo un bel saluto che lo disponesse a benignità. S’avvicinava. I bocciuoli di rosa dall’alto azzurro piovevano riflessi amorosi sul carneo

MA ssIMO BONTEMpEll I 207

4. Pensa ad almeno cinque modi di dire analoghi a quelli citati dall’autore nel racconto e scrivili sul quaderno spiegandone il significato. Poi confrontali con quelli scritti dai tuoi compagni e riflettete insieme: su cosa si fonda la possibilità di utilizzare nella comunicazione i modi di dire? Perché capiamo il loro significato anche se non vanno presi alla lettera? Quale vantaggio hanno ai fini della comunicazione? Quando la rendono più efficace e quando più oscura? Scrivi sul quaderno una sintesi delle osservazioni a cui siete arrivati.

3. Nel corso del racconto il protagonista muta più volte stato d’animo: sottolinea sul testo i passaggi che descrivono la sua evoluzione, poi elencali spiegando il motivo del cambiamento.

• Come decide di risolverli?

• Cosa gli suggerisce il cameriere?

• Quando si trova in mano la polverina esito dei suoi esperimenti quali due problemi gli si pongono?

• Arrivato alla trattoria dello «Sperone ardente» a chi si rivolge inizialmente? Come scopre di essere riuscito nel suo intento?

R ACCONTI uMORIs TICI208 fiore sbocciato del suo volto. Era a tre passi da me; come mi vide la sua bocca si schiuse in un sorriso sereno. Io mostrai di scorgerlo soltanto in quel momento. «Oh» dissi, «oh, signor Baldo, qual buon vento vi porta?»

• Cosa succede dal commendator Barba?

• Cosa vuole fare il protagonista dopo essere scappato dalla casa del commendatore? Ci riesce? Sì o no, e perché?

• Chi è il protagonista del racconto? Qual è il suo proposito?

• Cosa fa il protagonista al cameriere? A quale scopo?

2. Su cosa gioca l’autore in questo racconto per far ridere noi lettori? Prova a spiegarlo dopo aver sottolineato i modi di dire presenti nel testo e aver riflettuto su cosa rende possibile la miracolosa polverina inventata dal protagonista.

1. Rispondi sul quaderno alle seguenti domande dopo aver sottolineato sul testo le informazioni utili:

E un caro vento spirò dalla terra, un dolce zèfiro su mollemente sollevato portava lui, sopra ai prati, sopra alle siepi, sopra alle cime degli alberi. Io al zando a mano a mano la faccia guardavo: Baldo elevavasi morbido, sempre più in alto verso il placido etere; sopra le ali dello zèfiro, tepido lepido in pan ciolle se n’andava; fin che il fumo del suo avana si confuse tra le nuvolette, e il fiore sbocciato dal suo volto sfumò tra le rose del cielo.

Alla fine della sezione dedicata ai racconti umoristici, ti proponiamo alcune domande al fine di aiutarti a sistematizzare quanto hai scoperto su questo genere. Rispondi sul quaderno.

1. Qual è la caratteristica principale di un racconto umoristico?

3. Tra i racconti letti, a tuo parere qual è quello meglio riuscito nel suo intento? Motiva la tua risposta.

209RACCONTI uMORIs TICI

2. Su cosa fanno leva soprattutto gli autori di racconti umoristici per far sorridere o addirittura ridere il lettore?

RE E CAvAl IERI210

Il valore del mito è che esso prende tutte le cose che conosciamo e restituisce loro il ricco significato che è stato nascosto dal “velo della familiarità”. Facendo partecipi di un mito il pane, l’oro, il cavallo, la mela o le strade vere e proprie, non fuggiamo dalla realtà: la riscopriamo.

Re4 cavalierie

Clive Staples Lewis a cura di Gabriele Grava

RE E CAvAl IERI212

Le storie degli eroi e delle loro imprese sono da sempre state cantate per celebrare la grandezza della vita e per ricordare a ogni uomo ciò per cui val la pena vivere. Così, nelle loro innumerevoli e differenti forme, i racconti di re e cavalieri che ci arrivano dalla tradizione medievale vogliono innanzitutto rendere partecipe il lettore di una storia universale, perché capace di parlare all’uomo di ogni tempo. In essi si ritrovano infatti, espressi con vigore e mirabile immaginazione, le movenze proprie di ogni uomo: il desiderio e la fedeltà, il coraggio e la paura, l’errore e il tradimento… In essi, in fondo, si parla del bene e del male, della felicità e del dolore dell’uomo. Poemi epici, saghe, racconti popolari, romanzi cortesi: nel corso dei secoli queste storie hanno assunto forme e caratteri differenti, ma non hanno mai perso la loro capacità di raccontare avvenimenti straordinari, spesso capaci di rileggere in chiave mitica fatti realmente accaduti, per rappresentare in una forma chiara e avvincente la società e i suoi ideali. Sono quindi storie in cui ritroviamo l’unione di ciò che è meraviglioso e di ciò che è reale, e che ci accompagnano nella riscoperta della vita come avventura: l’idealizzazione del mondo cavalleresco da una parte ci fa riscoprire la bellezza e la varietà del mondo, dall’altra ci insegna che ogni uomo deve vivere sempre avendo consapevolezza del proprio compito.

Di questi racconti non è sempre facile individuare un singolo autore: se La fanciullezza di Fionn è la riscrittura di una antica leggenda popolare celtica da parte di un importante scrittore irlandese del XX secolo, James Stephens, le storie di Artù e della Tavola Rotonda sono state narrate innumerevoli volte dal medioevo a oggi.

213RE E CAvAl IERI Non solo, la tradizione letteraria si è sempre dovuta confrontare con la let teratura cavalleresca: basti pensare all’Inferno di Dante, dove troviamo Paolo e Francesca, appassionati lettori delle storie di Lancillotto e dei suoi amori; o al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, eroe nostalgico dei giorni gloriosi dei cavalieri. La tradizione dei romanzi cavallereschi giunge oggi fino a noi: anche i grandi autori di romanzi fantasy, primo fra tutti J.R.R. Tolkien, l’autore de Lo Hobbit e de Il signore degli anelli, si sono confrontati con le storie e il mondo dei cavalieri, attingendo da essi gli ideali e l’immaginario. In questa sezione, quindi, potrai avvicinarti a una tradizione ampia, com plessa e profonda, gustando alcune delle sue storie e seguendo la crescita di alcuni suoi eroi. Ti saranno proposti esercizi di lettura e rilettura dedicati a ritrovare innanzitutto gli elementi principali della narrazione e le caratteri stiche dei personaggi; sarà inoltre proposto un percorso di scrittura attraver so il quale ti allenerai principalmente a produrre testi narrativi, sia di riscrit tura sia di invenzione; testi informativi, come il riassunto; testi espositivi, a partire dalla riflessione su tematiche incontrate nella lettura.

2 clan: famiglia, tribù. 3 Fianna: tribù seminomadi irlandesi.

RE E CAvAl IERI214 La fanciullezza di Fionn 1. Fionn impara a dialogare con la natura Fionn ricevette tra donne la sua prima educazione. Non ci sarebbe da meravi gliarsene, perché è la madre che insegna a lottare al suo cucciolo, e le donne sanno che la lotta è un’arte necessaria, anche se gli uomini sostengono che ce ne sono altre migliori. Ma qui le donne erano le druidesse1 Bovmall e Lia.

Ci si potrà domandare perché mai non fu sua madre a educarlo alle prime durezze. Non le fu possibile. Non poteva tenerlo con sé per paura del clan2 Morna. A lungo i figli di Morna avevano combattuto e tramato per privare Uail, suo marito, del comando sulle Fianna3 d’Irlanda, e c’erano finalmente riusciti uccidendolo. Era l’unico mezzo per potersi liberare di un uomo simi le; ma non era un mezzo facile, perché ciò che il padre di Fionn ignorava in fatto di armi non avrebbe potuto essergli insegnato nemmeno da Morna stes so. Tuttavia il segugio, che sa attendere, alla fine prenderà la lepre. Madre di Fionn era la bella Muirne dai Lunghi Capelli (così la si è sempre chiamata).

Quando Uail morì, Muirne si risposò con il re del Kerry. Diede il bimbo da allevare a Bovmall e Lia e possiamo esser certi che insieme al bimbo die de loro delle disposizioni, e molte. Il piccolo fu condotto nei boschi e lì fu segretamente allevato. È da pensare che quelle donne lo amassero, perché al di fuori di Fionn non c’era attorno altra vita. Fionn era vita per le druidesse, e i loro occhi po tevan sembrare una coppia di benedizioni che indugiavano su quella testo lina bionda. Era biondo, e fu per il colore dei capelli che venne poi chiamato Fionn; ma in quel tempo il suo nome era Deimne. Videro che il nutrimento dato a quel corpicino si trasformava, verso l’alto e verso il largo, in robusti centimetri e in vigore ed energie, che prima andavano carponi, poi trotte rellavano e poi correvano. Ebbe gli uccelli come compagni di gioco, ma fu rono certo sue compagne tutte le creature che vivono nei boschi. Dovettero esserci per Fionn lunghe solitarie ore nella luce del sole, ore in cui il mondo pareva soltanto luce e cielo; e ore altrettanto lunghe in cui l’esistenza tra scorreva come un’ombra fra le ombre, fra la miriade delle ticchettanti goc ce di pioggia che scendevano nel bosco di foglia in foglia e scivolavano al suolo. Dovette conoscere piccoli sentieri tortuosi, così stretti che bastava a occuparli la grandezza del suo piedino o di quello di una capra; e chiedersi dove conducessero; e ancora meravigliarsi scoprendo che, dovunque an 1 druidesse: druidi e druidesse erano indovini e sacerdoti delle popolazioni barbariche, particolarmente esperte nella magia e profondi conoscitori della natura; il loro nome deriva probabilmente dal termine celtico dar, ‘quercia’.

Forse per molto tempo non scorse l’allodola, ma certo l’ascoltò cantare e ancora cantare, lontano dal suo sguardo, nel cielo infinito, finché il mon do sembrò non aver altro suono che quella limpida dolcezza. E quale mon do creava, quel suono! Trilli e cinguettii, ma anche il tubare, gracchiare e gracidare dovettero diventargli familiari. E presto seppe dire quale fratello della gran confraternita producesse questo o quel suono udito a ogni pos sibile istante. E certo ascoltò le mille voci del vento quando soffiava in ogni stagione e secondo ogni umore.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 215 dassero, ritornavano infine, attraverso gli intrecci e i grovigli del fitto bosco, alla sua porta. Dovette pensare che la sua porta era l’inizio e la fine del mondo, da dove tutte le cose si allontanavano e dove tutte arrivavano.

“Un bambino” pensò forse Fionn osservando il cavallo che lo osserva va, “un bambino non può scuotere la coda per tenere lontane le mosche”: e quella mancanza può averlo rattristato. Forse pensò che una mucca può sbuffare e allo stesso tempo essere dignitosa, e che la timidezza è propria della pecora. E dovette rimbrottare la cornacchia, tentar di superare il tor do nel canto, chiedersi perché la sua voce si stancava e quella del merlo no.

Molto ci dovette essere da guardare, ricordare e confrontare: e sempre c’erano le sue due custodi. Le mosche cambian posto da un momento all’altro, non si può dire se un uccello è stanziale o migratore, una pecora è sorella di ogni altra pecora: invece le donne avevano radici quanto la casa stessa.

Vi furono certo insetti da osservare, esili cosette che volavano in un alone dorato, piccoli esseri svolazzanti, forti bestiacce dalle ali possenti che si av ventavano come gatti e mordevano come cani e fuggivano veloci come ful mini. Forse Fionn pianse perché il ragno, sventurato, aveva catturato quella mosca.

1 ambiando: procedendo a passo d’ambio, cioè con un’andatura caratterizzata dal moto simultaneo degli arti dello stesso lato.

Forse un cavallo attraversò il fitto fogliame presso quella casa e posò so lenne gli occhi su Fionn, come Fionn su di lui; o incontrando d’improvviso il bambino, lo fissò, con occhi, orecchi e narici all’erta e muso tutto allungato, prima di voltarsi e trottare via, con la criniera in alto, gli zoccoli scalpitanti in basso e la coda sbattuta tutt’attorno. Una mucca dal muso maestoso e lo sguardo austero dovette procedere ambiando1 e lasciare le sue impronte nel bosco di Fionn cercando un posto ombreggiato senza mosche; o una pecora smarrita dovette ficcare il dolce musetto tra le foglie.

2. Lo scrittore pone in evidenza la varietà e la ricchezza della natura che Fionn incontra facendoci sentire i suoi suoni e vedere le sue forme. Ritrova nel testo le parole e le espressioni capaci di farci entrare nel mondo della narrazione.

RE E CAvAl IERI1.216Quali

sono gli elementi della natura che Fionn incontra e da cui impara? Sottolinea sul testo e riporta sul quaderno un elenco di ciò che egli trova «da guardare, ricordare e confrontare».

3. Ritrova nel testo la seguente espressione: «Tuttavia il segugio, che sa attendere, alla fine prenderà la lepre». A che avvenimento si riferisce questo proverbio?

4. Fionn «dovette pensare che la sua porta era l’inizio e la fine del mondo, da dove tutte le cose si allontanavano e dove tutte arrivavano». Racconta e descrivi un tuo luogo che è divenuto, col passare degli anni, un tuo mondo. Anche tu, come Fionn, soffermati nell’osservare suoni, colori, forme…

Quali storie devono aver raccontato al bambino sui figli di Morna! Su Mor na stesso, il violento uomo del Connacht dalle spalle possenti e lo sguardo duro; e sui suoi figli: in particolare sul giovane Goll dalle spalle possenti co me il padre, altrettanto feroce nell’assalto, ma con lo sguardo gioioso mentre quello del padre era torvo, e con scoppi di risa che facevano perdonare anche le sueFionnatrocità.dovette sentir molto parlare dei Morna, e si allenava sulle ortiche a staccare la testa a Goll. Ma fu di Uail che sentì certo parlare di più.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 217 2.

Con quanta emozione le donne dovettero raccontare storie su di lui, il padre di Fionn. Le loro voci diventavano un inno quando ne narravano ge sta su gesta, glorie su glorie: il più famoso tra gli uomini, il più bello, il più forte combattente, il più generoso, il campione del re, il capo delle Fianna d’Irlanda.Storiedi come era caduto negli agguati ed era riuscito a sfuggirne; di come era sempre stato generoso e fiero; di come si era infuriato ed aveva marcia to con la velocità di un’aquila, la subitanea precipitazione di una tempesta, mentre di fronte e di fianco, cedendo al prorompere della sua terribile avan zata, scappavano moltitudini che non osavano fronteggiarlo e trovavano ap pena il tempo di correr via. E di come infine, quando il tempo venne a domar lo, furono necessarie non meno di tutte le forze d’Irlanda per quella grande sconfitta.Inqueste avventure Fionn si sentì certo a fianco di suo padre, camminan do passo passo con l’eroe dalla grande falcata e incitandolo con forza.

1. «In queste avventure Fionn si sentì certo a fianco di suo padre». Cosa significa questa espressione? Cosa rende possibile questa esperienza per Fionn?

2. Inventa e racconta una delle storie che le due druidesse devono aver raccontato a Fionn per spiegargli chi era Morna, chi i suoi figli, e, soprattutto, chi era Uail.

Fionn ascolta i racconti delle sue custodi Le druidesse, sue custodi, appartenevano alla gente di suo padre. Bovmall era sorella di Uail e quindi era zia di Fionn.

Le druidesse gli insegnarono a nuotare e si sentiva il cuore mancare quando affrontava la lezione. L’acqua era profonda, era fredda. Si poteva scorgerne il fondo leghe, milioni di miglia sotto. Un bambino non poteva fare a meno di rabbrividire quando fissava quel balenio, luccichio, tremolio di ciottoli scuri e di morte!

Bisognava correre in fretta per tenersi lontano da una verga che incalza va, e un bambino patisce molto una verga. Fionn doveva correre a più non posso per sfuggire a quelle spine pungenti: e come correva quando aveva lui l’occasione di colpire!

Fionn viene messo alla prova

E quelle donne spietate lo gettavano lì dentro!

Fionn imparò a nuotare fino a sapersi tuffare in acqua come una lontra e a guizzarci in mezzo come un’anguilla.

Nella corsa, nel salto e nel nuoto ricevette dalle donne un buon addestramento. Una di loro prendeva in mano una verga spinosa, Fionn ne prendeva un’altra ed entrambi cercavano di colpirsi correndo intorno a un albero.

RE E CAvAl IERI218 3.

Dava la caccia a un pesce come inseguiva le lepri nel campo pieno di bu che: ma un pesce fa dei terribili scatti. Forse un pesce non salta, ma un at timo è qui e quello dopo non c’è più. Sopra e sotto, per lungo e per largo, un pesce è tutto una cosa sola. Va e sparisce. Si gira di qua e scompare dall’al tra parte. È sopra di te quando dovrebbe esserti sotto, e ti sta mordendo il piede quando pensavi di potergli mordere la coda. Non si riesce ad afferrare un pesce nuotando, ma ci si può provare, e Fionn provava.

Fionn imparò a correre. Dopo un po’ sapeva ronzare intorno a un albero come una mosca impazzita: e che gioia quando sentiva di allontanarsi dal la verga e guadagnar terreno su chi la teneva in mano! Come si impegnava e ansimava per cercar di raggiungere chi lo inseguiva, essere lui l’insegui tore e mettere in azione la sua verga. Imparò a saltare andando in cerca di lepri in un campo tutto a buche. La lepre saltava, e saltava Fionn, e via tutt’e due per il campo tra salti e rimbalzi. Se la lepre deviava mentre Fionn le era dietro, Fionn cambiava di scatto direzione: in poco tempo non lo preoccu pava più in che direzione saltasse la lepre, perché anche lui sapeva fare allo stesso modo. In lungo, in largo e per traverso Fionn saltava dove saltava la lepre, e alla fine era capace di tali salti che qualsiasi lepre avrebbe dato un orecchio pur di saperli fare.

Forse all’inizio non ci voleva andare: cercava di sorridere alle due don ne, di blandirle e tirarsi indietro. Fionn sentiva di essere null’altro che una gamba o un braccio afferrato come in un’altalena: dentro, fuori, un tuffo, un tonfo; giù, nella gelida profondità mortale; poi su, tossendo, singhiozzando, cercando di aggrapparsi a qualcosa senza riuscire ad afferrare niente, con una furiosa agitazione, una disperazione selvaggia; e un ansimare e gorgo gliare quand’era di nuovo calato giù, ancora più giù, sempre più giù, per poi rendersi conto di colpo che era stato tirato fuori.

3. Quali sono le caratteristiche delle due druidesse che permettono a Fionn di Dopocrescere?averriletto i primi tre capitoli, presenta i personaggi di Bovmall e Lia, mettendo in luce in particolare il loro rapporto con Fionn. Il testo, lungo una pagina, dovrà avere la seguente struttura: • una breve presentazione dei due personaggi e del loro ruolo nella storia

1. Quali sentimenti provano le druidesse vedendo Fionn crescere? Perché? Ritrova e sottolinea nel testo i passaggi che ti aiutano a rispondere a questa domanda.

Ricevette tiepide lodi da parte delle due terribili donne quando fu capa ce di scivolare silenziosamente nel fiume, nuotare sott’acqua fin dove gal leggiava un’anitra selvatica e afferrarla per le zampe. «Qu» diceva l’anitra, e lui spariva prima che quella avesse il tempo di dire «ac». Passò il tempo, e Fionn crebbe diritto e forte come un giovane albero, fles sibile come un salice, scattante e veloce come un uccellino. Forse una delle donne disse: «Sta crescendo bene il ragazzo mia cara», e l’altra, con il solito tono burbero delle zie, rispose: «Non sarà mai come suo padre». Ma certo di notte, nel silenzio e nell’oscurità, devono essersi sentite tra boccare il cuore pensando a quella agilità vivente che avevano forgiato, a quella cara testolina bionda.

• la narrazione di alcuni episodi che evidenzino una o più delle caratteristiche • un sintetico giudizio conclusivo a proposito del rapporto che intercorre tra le druidesse e il ragazzo.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 219

2. Individua le parti in cui è possibile dividere il capitolo e riassumi ciascuna di esse in una frase.

Un giorno le sue custodi si fecero inquiete: confabulavano segretamente e non lasciavano che Fionn stesse a sentire. Al mattino era passato di lì un uomo e aveva parlato con loro. Gli avevano dato da mangiare e intanto Fionn era stato cacciato fuori dalla porta come una gallina. Quando lo straniero aveva ripreso il cammino, le donne erano misteriose e tutto un bisbiglio. Dissero a Fionn che quella notte avrebbe dovuto dormire su un albero e gli proibirono di cantare o fischiare o tossire o starnutire fino al mattino. Fionn starnutì. Non aveva mai starnutito così in vita sua. Si era siste mato sul suo albero e starnutì tanto che quasi rotolò giù. Gli entrarono nel naso due mosche, due contemporaneamente, una per narice, e per poco la testa non gli si staccò a forza di starnuti. «Lo fai apposta» diceva un sussurro furibondo che veniva dai piedi dell’al bero.Fionn non lo faceva apposta. Si era sistemato alla biforcazione di un ramo, come gli era stato insegnato, e trascorse la notte più raccapricciante e piena di pruriti che mai avesse trascorso. Dopo un po’ aveva voglia non più di star nutire ma di gridare: e soprattutto voleva scendere da quell’albero. Ma non gridò né scese. Mantenne la promessa e rimase sull’albero, zitto e vigile come un topo, finché non fu l’ora di venir giù.

Le sue custodi erano consapevoli che il loro nascondiglio sarebbe stato infine scoperto e che allora i figli di Morna sarebbero arrivati. Di ciò non dubitavano, e ogni atto della loro vita era basato su quella certezza. Perché nessun segreto può rimanere segreto. Si può tener nascosto un bimbo, non un ragazzo. Se ne andrà in giro, a meno che lo si leghi a un palo, ma in questo caso si metterà a fischiare.

Al mattino passò una compagnia di poeti ambulanti ed a questi le don ne consegnarono Fionn. Questa volta non poterono impedirgli di origliare.

RE E CAvAl IERI220 4. Fionn al seguito dei poeti

«I figli di Morna» dissero le donne.

Il cuore di Fionn si sarebbe gonfiato di rabbia se non fosse già stato avi do di avventura. Ciò che era atteso stava accadendo. Dietro ad ogni ora del le loro giornate e ad ogni momento della loro vita c’erano i figli di Morna. Fionn li aveva inseguiti nei cervi, aveva saltato loro dietro nelle lepri, si era tuffato rincorrendoli nei pesci. Vivevano in casa con lui, sedevano alla sua tavola, mangiavano il suo cibo. Di notte li sognava, al mattino ci si aspettava di vederli come si aspetta il sole. Sapevano troppo bene che il figlio di Uail era vivo e che i loro figli non avrebbero conosciuto pace finché quel ragazzo fosse rimasto in vita: perché in quei tempi erano convinti che “Tale il pa dre, tale il figlio”, e che il figlio di Uail sarebbe stato Uail con qualcosa in più.

Probabilmente erano giovani poeti che al termine di un anno di addestra mento ritornavano nella loro provincia per rivedere la gente di casa e farsi

Poi arrivarono i figli di Morna, ma a riceverli c’erano solo due donne ar cigne che vivevano in una casupola solitaria. Ma Fionn se n’era andato. Era lontano, insieme alla compagnia di poeti diretti verso i Monti Galtees.

2. Fionn, con il passare del tempo, sembra sempre più assomigliare al padre: sottolinea le espressioni che indicano questo aspetto della sua crescita.

4. Elenca in un sommario i fatti essenziali di questo capitolo. Attento: non tutti sono raccontati in maniera esplicita!

lA FANCIullE zz A DI F IONN 221 acclamare e ammirare dando saggio delle conoscenze acquisite nelle famo se scuole. Dovevano conoscere citazioni in rima e giochi di parole eruditi, e Fionn li stava ad ascoltare; a volte, fermandosi in una radura o presso la riva di un fiume, ripassavano le loro lezioni.

3. Quale nuovo mondo incontra Fionn attraverso i poeti?

Quella compagnia di giovani bardi doveva interessare moltissimo Fionn, non per ciò che avevano studiato, ma per ciò di cui avevano esperienza. Tutto quanto avrebbe dovuto naturalmente conoscere, l’aspetto, il movi mento, la sensazione delle folle, i rapporti e i contrasti tra gli uomini, i rag gruppamenti di case, come la gente ne entra e ne esce, le mosse degli uo mini in armi, l’aspetto delle loro ferite al ritorno a casa, le storie di nascite, matrimoni e morti, la caccia con le sue moltitudini di uomini e di cani, tutto il fragore, la confusione, l’eccitazione del vivere, tutte queste cose dovevano sembrare meraviglie a Fionn, appena giunto da foglie, ombre e chiaroscuri di bosco; e meravigliose dovevan essere per lui anche le storie che essi raccon tavano sui maestri, con i loro sguardi, le manie, la severità, le piccole stranez ze. Quella compagnia chiacchierava proprio come uno stormo di cornacchie.

1. «Ciò che era atteso stava accadendo»: cosa sta accadendo che Fionn attende con tanto desiderio? Che sentimenti accompagnano l’attesa di Fionn?

RE E CAvAl IERI222 5. Fionn in compagnia di un brigantaccio

«Il figlio di Uail» dichiarò intrepido Fionn. E a queste parole il brigante cessò di essere brigante, scomparve l’assassino, ed eccolo lì, sorridente e piangente, servitore affezionato, che si sarebbe annodato il corpo intero per far piacere al figlio del suo grande capitano. Fionn andò a casa del ladrone, portato sulle sue spalle, e per via il ladrone sbuffava e saltava comportandosi come un cavallo di razza.

E c’era la palude: tutta una nuova vita da conoscere; una vita in mezzo al le canne, intricata, misteriosa, madida, viscida, traditrice, ma con una sua bellezza e un fascino che ti prendevano e ti facevano dimenticare il mondo della terraferma, e amare soltanto quello malfermo e gorgogliante.

Visse in quel luogo finché le sue custodi scoprirono dov’era e lo raggiun sero. Fiacuil lo riconsegnò e Fionn fu portato ancora nella casa tra i boschi, ma aveva intanto acquisito una grande conoscenza e una nuova agilità.

Doveva essere un luogo infido con imprevedibili uscite e ancor più im provvisi ingressi, con anfratti umidi, tortuosi come ragnatele, in cui am mucchiare tesori o rimanere nascosti.

Dovevano essere ben giovani quei poeti, perché un giorno un brigantaccio di nome Fiacuil li assalì e li uccise tutti. Fionn vide ciò che succedeva e il san gue gli si dovette gelare mentre osservava quel brigante dar la caccia ai poeti come un cane selvatico infierisce in un gregge. E quando venne il suo turno, quando tutti erano morti e l’uomo feroce con mani rosse di sangue gli si fece incontro, Fionn certo rabbrividì: ma gli mostrò i denti e si gettò con le mani sul mostro. Forse fece così, e forse per questo fu risparmiato.

«Chi sei tu?» ruggì quella bocca nera spalancata con la lingua infuocata che si contorceva come un pesce guizzante.

Questo Fiacuil era il marito di Bovmall, zia di Fionn; quando il clan era stato sconfitto, si era dato ad un’esistenza selvaggia e si sentiva in guerra contro un mondo che aveva osato uccidere il suo Capo.

Fu una nuova vita per Fionn quella nel covo del ladrone, nascosto in una vasta e fredda palude.

Se il brigante viveva solitario, dovette, in mancanza d’altri, fare lunghe conversazioni con Fionn. Gli mostrò certo le sue armi facendogli vedere co me le usava, con quali colpi riduceva a pezzi la sua vittima e con quali lame la affettava: dovette spiegargli perché per un uomo bastava un colpo mentre un altro doveva proprio essere affettato. Tutti sono maestri agli occhi di un giovane, e Fionn anche qui trovò da imparare. Poté vedere la grande lancia di Fiacuil, che aveva trenta borchie d’oro d’Arabia sulla cima e che bisognava te ner avvolta e legata perché non uccidesse qualcuno per puro dispetto. Quella lancia arrivava dal regno sotterraneo, dal Shì, e vi sarebbe stata in futuro ri portata tra le scapole di quello stesso signore.

Quali storie poté raccontare a un ragazzo, quali domande un ragazzo gli poté fare! Conosceva mille astuzie, e poiché il nostro istinto è di insegnare e nessuno riesce a nascondere un’astuzia a un ragazzo, Fiacuil gliele svelò.

4. Anche a te è mai capitato di imparare da una situazione o da una persona da cui non ti aspettavi niente di buono? Paragonandoti con il rapporto tra Fionn e Fiacuil, racconta la tua esperienza. Il testo, lungo circa una pagina, dovrà avere la seguente struttura:

3. «Tutti sono maestri agli occhi di un giovane, e Fionn anche qui trovò da Cosaimparare»imparaFionn dal brigante e dalla palude? Scrivi un testo che racconti ciò che accade a Fionn in questo capitolo e ciò che egli guadagna dall’incontro che fa. Per organizzare la struttura del testo, prima di iniziare a scrivere, costruisci un sommario degli avvenimenti principali del capitolo.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 223

• una conclusione che esprima ciò che hai scoperto, anche in rapporto a ciò che accade a Fionn in questo episodio.

• una breve introduzione che spieghi la situazione in cui ti sei trovato

1. Quali caratteristiche possiede Fiacuil? Ritrovale e sottolineale nel testo.

2. Quali caratteristiche del luogo in cui vive rispecchiano la personalità del brigante? Ritrovale e sottolineale nel testo.

• una parte narrativa che racconti ciò che ti è capitato e quello che ti ha sorpreso

I figli di Morna lo lasciarono in pace per un bel po’. Se ne disinteressaro no perché avevano già fatto il loro tentativo. «Verrà lui da noi quando sarà tempo» dicevano. Ma è anche probabile che avessero i loro modi di ricevere informazioni su di lui: come crescesse, che muscoli avesse, se si facesse già avanti da solo o avesse bisogno di essere spinto.Fionn restò con le sue custodi andando a caccia per loro. Il clan Morna però incominciava a diventare inquieto perché si stavano diffondendo notizie sul valore di Fionn; così un giorno le sue custodi lo fe ceroFionnpartire.se ne andò via in cerca di fortuna, a misurarsi con tutto ciò che gli sarebbe accaduto, e a scolpire per sé un nome che vivrà finché il Tempo avrà orecchio e saprà di un irlandese.

Tutti i desideri sono passeggeri, tranne uno, ma questo dura tutta la vita. Fionn tra tanti altri desideri ne aveva uno persistente: per la conoscenza sarebbe andato ovunque, avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa. E proprio alla ricerca della conoscenza arrivò nel luogo dove viveva Finegas, sulla riva del fiume Boyne. Ma per paura del clan Morna non ci andò con il nome di Fionn: in quel viaggio si faceva chiamare Deimne.

RE E CAvAl IERI224 6. Il dono della perfetta conoscenza

Diventiamo saggi facendo domande, lo diventiamo anche se non hanno risposta, perché una domanda ben costruita porta la sua risposta con sé, sulla schiena, come una chiocciola porta il suo guscio. Fionn poneva tutte le domande a cui poteva pensare, e il suo maestro, un poeta, dunque un uomo stimabile, a tutte ri spondeva: non fino al limite della sua pazienza, che era illimitata, ma fino al limite delle sue capacità. «Perché vivi sulla riva di un fiume?» fu una delle domande. «Perché una poesia è una rivelazione, ed è sulle rive dell’acqua corrente che la poesia viene rivelata alla mente». «Ma perché, tra tutti i fiumi, hai scelto questo?» Finegas sorrise radioso al suo discepolo. «Ti direi qualsiasi cosa» rispose. «Quindi ti dirò anche questo». Fionn si sedette ai piedi di quell’uomo gentile, le mani abbandonate tra l’erba alta, tutt’orecchi per ascoltarlo. «Mi è stata fatta una profezia» iniziò Finegas. «Un sapiente mi predis se che avrei catturato il Salmone della Conoscenza nella Pozza del fiume Boyne».«Eallora?» chiese Fionn ansioso. «Allora avrei posseduto la completa conoscenza» rispose Finegas. Un giorno Finegas andò dov’era Fionn. Il poeta aveva al braccio un cesto di vimini poco profondo, e sul suo volto c’era uno sguardo ad un tempo me sto e trionfante. Era certamente eccitato, ma anche triste, e, mentre restava a fissare Fionn, i suoi occhi erano così dolci che il ragazzo ne fu toccato, ma erano anche così malinconici che per poco non lo fecero piangere. «Che cos’è, maestro?» domandò il ragazzo turbato. Il poeta posò il cesto di vimini sull’erba. «Guarda nel cesto, figliolo» disse. Fionn guardò. «C’è un salmone nel cesto». «È il Salmone» disse Finegas con un profondo sospiro. Fionn saltò di gioia. «Sono felice per te, maestro» esclamò. «Sono davvero felice per te». «Anch’io sono felice, anima mia» replicò il maestro. Ma dopo averlo detto chinò la fronte sulla mano e rimase a lungo in silenzio, raccolto in sé. «Che cosa bisogna fare, ora?» domandò Fionn guardando il meraviglioso pesce.Finegas si alzò dal posto dov’era seduto vicino al cesto di vimini.

Allora Fionn mangiò il Salmone della Conoscenza e quando ebbe finito al poeta ritornò una grande letizia, serenità ed esuberanza.

«Non assaggerai per caso un po’ del mio salmone mentre sono via?» domandò.«Nonne mangerò neppure un pezzettino» disse Fionn.

«Tornerò tra poco» disse con voce grave. «Mentre sono lontano puoi far arrostire il salmone, così sarà pronto al mio ritorno». «Lo farò arrostire di sicuro!» disse Fionn. Il poeta fissò Fionn a lungo, seriamente.

«A chi dunque era destinato il pesce?» chiese il suo compagno. «Era destinato a te» rispose Finegas. «Doveva essere destinato a Fionn fi glio di Uail: e a lui sarà dato». «Ti darò metà del pesce!» esclamò Fionn. «Non ne mangerò neppure un pezzettino piccolo come la punta della sua più piccola lisca» disse risoluto e fremente il bardo. «Ora mangiati tutto il pe sce; io ti starò a guardare e loderò gli dei».

lA FANCIullE zz A DI F IONN 225

«Così» disse Finegas «non me ne hai davvero mangiato?» «Non ho forse promesso?» replicò Fionn. «Ma io me ne sono andato» continuò il maestro «proprio perché tu potessi mangiare il pesce, se sentivi di volerlo fare».

«Perché dovrei volere il pesce di un altro?» disse Fionn con orgoglio. «Perché i giovani hanno forti desideri. Pensavo che forse l’avresti assag giato e poi me l’avresti mangiato». «Per puro caso l’ho proprio assaggiato» rise Fionn. «Mentre il pesce cuo ceva si è formata sulla pelle una grossa vescica. Non mi piaceva l’aspetto di quella bolla e l’ho schiacciata con il pollice. Mi sono bruciato il dito, così l’ho succhiato per dar sollievo al bruciore. Se il tuo salmone è buono come lo era il mio pollice» rise ancora «sarà proprio ottimo». «Che nome hai detto di avere, cuor mio?» domandò il poeta. «Ho detto che il mio nome era Deimne». «Il tuo nome non è Deimne» disse quell’uomo mite. «Il tuo nome è Fionn» «È vero» rispose il ragazzo. «Che altro sai di me, maestro caro?» «So che non ti ho detto la verità» disse quell’uomo con il cuore gonfio. «Ti avevo detto che secondo la profezia avrei dovuto catturare il Salmone della Conoscenza, ma non ti ho detto, sebbene fosse nella profezia, che non da me il salmone doveva essere mangiato: la mia bugia era in quella omissione».

«Sono sicuro che non lo farai» mormorò l’altro voltandosi e camminando lento tra l’erba e oltre i fitti cespugli lungo la sponda. Fionn cucinò il salmone. Era bello, appetitoso, stuzzicante mentre fumava su un piatto di legno tra le fresche foglie verdi; e così apparve a Finegas quan do uscì dal filare di cespugli e si sedette sull’erba, fuori dalla sua porta. Fissò il pesce molto più che con i soli occhi: lo guardò con il cuore, con l’anima negli occhi, e quando volse lo sguardo verso Fionn, il ragazzo non seppe se l’amo re che era in quegli occhi fosse per il pesce o per lui. Sapeva, però, che per il poeta era arrivato un grande momento.

RE E CAvAl IERI1.226Quali

caratteristiche di Fionn e Finegas vengono messe in evidenza in questo episodio?

2. Individua i fatti essenziali e scrivi un breve riassunto del capitolo per mettere in luce le caratteristiche di Fionn e di Finegas. Per aiutarti a strutturare adeguatamente il testo, prima di scrivere costruisci un sommario che raccolga i fatti essenziali dell’episodio.

Rispondi facendo precisi riferimenti al testo, come nell’esempio: • Fionn afferma che… da ciò posso capire che… • Finegas si comporta così… da ciò posso capire che…

Nella grande sala del banchetto tutto era pronto per la festa. I nobili d’Ir landa con le loro avvenenti consorti, i più eccellenti rappresentanti dei me stieri e delle arti di quel tempo erano ai loro posti. L’Ard-Rì, il re supremo d’Irlanda, aveva preso posto sul palco che dominava tutta la vasta sala. Alla sua destra c’era il figlio Art, destinato a diventare in seguito famoso come il suo illustre padre; alla sua sinistra aveva il seggio d’onore Goll, capo delle Fianna d’Irlanda. Quando il re supremo prendeva posto, poteva vedere tutti quelli che nel paese fossero per qualche ragione insigni.

Diede l’addio al dolce poeta e partì per Tara dei Re, dove si radunavano quanti in Irlanda erano saggi, capaci o nobili.

Fionn fa il suo ingresso nella città dei re Da Finegas aveva ricevuto tutto ciò che era possibile ricevere. La sua edu cazione era terminata, ed era venuto il tempo di metterla alla prova e speri mentare tutte le altre capacità della mente e del corpo.

Fionn aveva disposto il suo arrivo per la grande festa di Samhain, a fine ottobre, e rimase certamente stupito vedendo quella splendida città, con le sue colonne di bronzo lucente e i tetti dipinti in mille colori per cui ogni ca sa pareva coperta dalle ali spiegate di un gigantesco e sgargiante uccello. Le stesse dimore nel caldo colore della quercia rossa, diventata lucida all’in terno e all’esterno per l’uso e le cure millenarie, scolpita dalla paziente pe rizia di innumerevoli generazioni dei più rinomati artisti nel più artistico paese d’occidente, furono certo per lui occasione di gran meraviglia. Dovet te sembrargli una città di sogno, una città da rubare il cuore quando, arri vando dalla grande piana, Fionn vide Tara dei Re tenuta sulla collina come in una mano che raccoglie tutto l’oro del sole al tramonto e restituisce uno splendore tenero e caldo come quell’universale prodigalità.

Guardando dall’alto i suoi ospiti, L’Ard-Rì notò che un giovane era anco ra in«Dimmipiedi. il tuo nome» gli intimò con dolcezza. «Sono Fionn figlio di Uail» disse il giovane. A quelle parole una fulminea emozione serpeggiò tra i presenti e tut ti rabbrividirono. Il figlio del grande capitano ucciso guardò accanto alla spalla del re, nell’occhio scintillante di Goll. Ma non ci fu una parola, non un gesto, oltre il gesto e la parola dell’Ard-Rì. «Sei il figlio di un amico» disse il sovrano dal cuore nobile. «Avrai il posto di un amico». E fece sedere Fionn alla destra del suo stesso figlio Art.

L’Ard-Rì fece un cenno e i suoi ospiti si sedettero. Era tempo che gli scudieri andassero a mettersi dietro ai loro signori e alle signore, ma per il momento nella grande sala tutti erano seduti, e le porte rimasero ancora chiuse per permettere una pausa di rispetto prima che entrassero servitori e scudieri.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 227 7.

2. Con quali parole Fionn si presenta alla corte dell’Ard-Rì?

Che qualità e quali intenzioni mostra Fionn pronunciando queste parole? Quali sono le reazioni di chi lo ascolta? Perché?

3. Immagina e scrivi il discorso che Fionn avrebbe potuto pronunciare per presentare sé stesso. Scrivendo in prima persona, racconta dunque chi è Fionn, quali sono stati gli episodi che fino a questo momento hanno formato la sua personalità, quali sono le sue principali qualità e quali sono i suoi desideri e i suoi obiettivi.

Quali caratteristiche possiede la città di Tara tanto da essere definita «una città da rubare il cuore»?

RE E CAvAl IERI1.228

Parlò nel silenzio, e alla fine udì quello stesso silenzio diventato più pro fondo, angosciante, sinistro. Ciascuno lanciava occhiate vergognose al vicino e poi fissava la propria coppa di vino o le proprie dita. I cuori dei giovani per un nobile istante si erano infiammati ma un attimo dopo si erano raggelati, perché tutti avevano sentito parlare di Aillen, là nel nord. I signori di grado inferiore guardavano di sottecchi i campioni di grado superiore, e questi lan ciavano occhiate furtive a quelli del grado ancora più elevato. Un tremendo imbarazzo pervase la grande sala, e mentre il re rimaneva in piedi in quel palpitante silenzio, Fionn si alzò. «Che cosa verrà dato all’uomo che si assumerà il compito di questa dife sa?»«Tuttodisse.ciò che a buon diritto può essere richiesto sarà regalmente conces so» fu la risposta del re. «Chi sono i garanti?» disse Fionn. «I re d’Irlanda e Cith il Rosso con i suoi maghi». «Assumerò io il compito della difesa» disse Fionn. A quelle parole i re e i maghi presenti si impegnarono perché il patto ve nisseFionnrispettato.uscìcon passo deciso dalla sala del banchetto e, mentre l’attraver sava, tutti i presenti, nobili, persone del seguito e servitori, lo acclamarono e gli augurarono buona sorte. Ma nei loro cuori gli stavano dando l’addio, perché tutti erano sicuri che il giovane andava incontro a una morte così inevitabile che lo si poteva già considerare un uomo morto.

Bisogna sapere che durante la notte della festa di Samhain le porte che se parano questo mondo dall’altro si aprono, e tutti gli abitanti possono lascia re le rispettive sfere e comparire nel mondo degli altri esseri.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 229 8. Fionn si offre per una pericolosa impresa

Ebbene, c’era Aillen, un nipote del signore del Shì, il Regno Sotterraneo, che nutriva un odio implacabile verso Tara e l’Ard-Rì. Terminata la festa e iniziato il banchetto, L’Ard-Rì si levò dal seggio e guar dò la sua gente radunata. «Amici ed eroi» disse «Aillen verrà questa notte con tro la nostra città con il suo fuoco occulto e distruttore. C’è tra voi qualcuno che ami Tara e il suo re e che voglia assumersi la nostra difesa contro quel l’essere?»

2. Come reagisce invece Fionn? Cosa capiamo di lui dalle sue parole e dalle sue azioni? Sottolinea le parole del testo che ti permettono di rispondere alla domanda.

RE E CAvAl IERI1.230Qual

4. Racconta gli episodi dei capitoli 7 e 8 assumendo il punto di vista di uno dei nobili della corte dell’Ard-Rì. Metti quindi in evidenza i tuoi sentimenti e le tue reazioni nell’osservare il comportamento di Fionn.

3. Rileggi i capitoli 7 e 8, che raccontano dell’arrivo e della permanenza di Fionn presso la città di Tara. Dopo aver costruito un sommario che elenchi gli avvenimenti più importanti, scrivi un riassunto per mettere in luce le caratteristiche di Fionn che si mostrano in questi episodi.

è la reazione degli ospiti alle parole dell’Ard-Rì? Cosa mette in luce della loro personalità? Sottolinea le parole del testo che ti permettono di rispondere alla domanda.

Non c’era in giro anima viva, tranne lui, ma le tenebre non eran cosa da spaventare Fionn, cresciuto tra la nera oscurità dei boschi, vero figlio adot tivo del buio; né il vento poteva turbare il suo orecchio o il suo cuore. In tale orchestra non c’era una nota su cui non si fosse soffermato e che non si ac cordasse (e questo accordarsi è magico) con lui. Ascoltando nel buio il gro viglio di rumori che costituiscono un rumore, sapeva districarli e assegnare posto e ragione a ciascuna gradazione dei suoni che formavano il coro: c’era lo scalpiccio di un coniglio e la rapida corsa di una lepre; laggiù frusciava un cespuglio, ma quel fruscio breve era un uccello; quel procedere era di un lu po, quell’esitare di una volpe; a grattare laggiù era solo una foglia ruvida con tro una corteccia, a raspare era l’unghia di un furetto.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 231 9. Fionn non è da solo Fionn oltrepassò il seguito delle fortificazioni, raggiunse le grandi mura ester ne, confine della città e, al di là di quelle, si trovò nella vasta piana di Tara.

Non può esserci paura dove c’è conoscenza, e Fionn non aveva paura.

La sua mente, calma e attenta in ogni direzione, colse un suono e vi si soffermò. “Un uomo” disse tra sé Fionn, e tese l’orecchio da quella parte, indietro, verso la città. Era un uomo, e conosceva le tenebre quasi quanto Fionn. “Non è un nemico” pensò Fionn. “Cammina allo scoperto”. «Chi viene?» chiese. «Un amico» disse il nuovo venuto. «A questo amico dai un nome» disse Fionn. «Fiacuil» fu la risposta. «Ah, battito del mio cuore!» esclamò Fionn, facendosi incontro al gran la drone che gli era stato padre adottivo tra le paludi. «Dunque non hai paura» disse Fionn con gioia. «A dire la verità, ho paura sì» mormorò Fiacuil. «E appena questa faccen da con te sarà finita, me ne tornerò indietro al galoppo, veloce quanto mi por teranno le gambe. Che gli dèi proteggano il mio ritorno come hanno protetto la mia venuta» disse con tono devoto il ladrone. «Amen» disse Fionn. «Ma ora dimmi perché sei venuto». «Hai qualche piano contro quel signore dei Shì?» sussurrò Fiacuil. «Lo attaccherò» disse Fionn. «Questo non è un piano» sbottò l’altro. «Non si fa il piano di andare all’at tacco, ma di conquistare la vittoria». «È proprio un essere così terribile?» domandò Fionn. «Assolutamente terribile. Nessuno può avvicinarsi a lui e neanche allon tanarsene. Viene fuori suonando una musica dolce e sommessa con un flau tino, e tutti quanti, sentendo questa musica, cadono addormentati». «Io non mi addormenterò» disse Fionn. «Ti addormenterai di sicuro, perché capita a tutti». «E poi che succede?» domandò Fionn. «Quando tutti sono addormentati, Aillen sprigiona dalla bocca una freccia

«Quella che aveva la punta avvolta nella tela ed era immersa in un secchio d’acqua e incatenata a un muro? La mortale Birgha?» domandò Fionn. «Quella» rispose Fiacuil. «È proprio la lancia di Aillen» continuò. «Fu tuo padre a sottrarla». «E allora?» disse Fionn che intanto si chiedeva dove Fiacuil stesse tenen do la lancia, ma era troppo magnanimo per domandarglielo. «Quando senti arrivare Aillen, srotola la punta della lancia e chinaci sopra la faccia: il suo calore, l’odore e tutte le sue qualità acri e perniciose ti impe diranno di addormentarti». «Ne sei sicuro?» disse Fionn. «Non potresti addormentarti vicino a quel fetore, nessuno ci riuscirebbe» rispose deciso Fiacuil. Poi continuò: «Nel momento in cui finirà di suonare e comincerà a soffiare il suo fuoco, Aillen smetterà di stare in guardia; crederà che tutti dormano e allora potrai sferrare l’attacco di cui parlavi: e che la buo na sorte ti accompagni». «Gli rispedirò la sua lancia» disse Fionn. «Eccola» disse Fiacuil estraendo la Birgha dal mantello. «Ma non fidarti, battito del mio cuore, abbine paura». «Non avrò paura di niente» disse Fionn. «L’unica persona per cui mi di spiacerà sarà quell’Aillen che sta per riceversi la sua lancia». «Adesso me ne vado, perché sta crescendo il buio dove non pensavo ci fosse ancora posto per altra oscurità» disse a bassa voce il suo compagno. «E c’è nell’aria qualcosa di strano che non mi piace per niente. Quell’uomo può arrivare da un momento all’altro, e se sento anche solo una nota della sua musica sono finito». Il ladrone si allontanò e Fionn fu di nuovo solo.

«Posso essere di aiuto» replicò Fiacuil «ma devo essere ricompensato».

RE E CAvAl IERI232 infuocata e tutto ciò che è raggiunto da quel fuoco viene distrutto; può man dare il suo fuoco a distanza incredibile, in qualsiasi direzione».

«Quale ricompensa?»

«Un terzo di ciò che otterrai e un seggio nel tuo consiglio». «Te lo concedo» disse Fionn. «E ora dimmi il tuo piano».

«Ricordi la mia lancia con trenta borchie d’oro d’Arabia sulla cima?»

«Hai un bel coraggio a venire in mio aiuto» mormorò Fionn «specialmente quando non puoi aiutarmi in alcun modo».

lA FANCIullE zz A DI F IONN 233 1. «Non può esserci paura dove c’è conoscenza». Di cosa Fionn dovrebbe avere paura? Cosa invece permette a Fionn di non avere paura?

2. Riscrivi il dialogo tra Fionn e Fiacuil volgendolo al discorso indiretto. Per fare questa operazione ti può essere utile rileggere il testo e individuare i suggerimenti che il brigante consegna al ragazzo.

Parrebbe che Fionn, in quest’occasione, abbia usato la magia, infatti di stendendo il suo mantello frangiato catturò la fiamma, o meglio la fermò, perché questa scivolò giù dal mantello e andò direttamente nel terreno fino alla profondità di ventisei spanne; così ancor oggi quel pendio è chiamato

RE E CAvAl IERI234 10. Fionn mette alla prova ciò che ha imparato

Eppure Fionn non si sentiva solo e non aveva paura dell’arrivo di Aillen. Era già trascorsa gran parte della notte silenziosa in un lento avvicendarsi di minuti, in cui non c’era mutamento, né quindi tempo, né passato, né futu ro, ma soltanto un attonito, eterno presente, quasi un annullamento della co scienza. Ma poi qualcosa mutò, perché le nuvole avevano continuato a muo versi e dietro di loro apparve infine la luna: non come uno splendore ma come una luminosità diafana, un fioco bagliore che filtrava attraverso gli elementi fino ad apparire meno del fantasma o del ricordo di sé stesso; una cosa perce pita in modo tanto sottile e rarefatto che l’occhio poteva domandarsi se la vede va o no, pensare se fosse la memoria a creare qualcosa che era ancora assente. Ma l’occhio di Fionn era l’occhio di una creatura della foresta che scruta nelle tenebre e vi si muove coscientemente. Vide quindi non un oggetto, ma un movimento: qualcosa che era più scuro dell’oscurità su cui si profilava; non un’entità ma una presenza, un procedere incombente, come infatti era. E dopo un attimo udì il lento avanzare di quell’essere enorme.

Fionn si chinò sulla lancia liberandola da ciò che la copriva.

Poi, dalle tenebre, venne un altro suono: un suono sommesso e dolce, così gioioso e sommesso da entusiasmare; così sommesso che l’orecchio poteva appena coglierlo, così dolce che l’orecchio non voleva percepire al tro e avrebbe fatto ogni sforzo per ascoltare quel suono piuttosto che qual siasi altro possibile: era musica di un altro mondo.

Tanto dolce che i sensi si protendevano per raggiungerla e poi dovevano, nel sonno, seguire la sua scia e in essa sprofondare senza poter tornare in dietro, finché quella strana armonia non fosse cessata e l’orecchio riportato alla sua libertà.

Rimase ad ascoltare i passi che si allontanavano, finché non riuscì più a sen tirli e il battito del cuore fu l’unico suono che giungesse alle sue orecchie pro tese.Era cessato anche il vento e non sembrava esserci al mondo altro che lui e le tenebre. In quel buio abissale in quell’invisibile silenzio e vuoto, la men te poteva cessare di essere presente a sé stessa. Poteva essere sopraffatta e inghiottita nello spazio, sicché la coscienza deviasse o si dissolvesse, e ci si potesse addormentare pur stando in piedi: perché la mente teme la solitudine più di ogni altra cosa e fuggirebbe sulla luna piuttosto di essere tratta a ripiegarsi su sé stessa.

Ma Fionn, tolta la copertura della lancia, vi premeva contro la fronte, e co sì teneva la mente e i sensi legati a quella punta incandescente e micidiale.

La musica cessò, e Aillen lanciò sibilando dalla bocca una terribile fiam ma blu, e fu come se avesse lanciato un fulmine.

3. Facendoti guidare dal tuo professore di Arte e Immagine, racconta il duello tra Fionn e Aillen attraverso un fumetto. Prima di disegnare, individua le scene che costruiscono l’episodio e scrivi le didascalie delle vignette che disegnerai successivamente.

“la Valle del Manto”, e il colle su cui stava Aillen è conosciuto come “l’Altura delSiFuoco”.puòimmaginare

Il panico afferrò l’uomo del Shì. Volse le spalle a quel luogo spaventoso e fuggì, senza sapere cosa ci potesse essere dietro, ma temendola come non aveva mai temuto nulla; e lo sconosciuto lo inseguì: chi si era difeso in mo do così formidabile si trasformò in attaccante, e gli si mise dietro come un lupo che incalza un toro al fianco.

2. In che senso Fionn «non si sentiva solo» nel Regno Sotterraneo?

1. Quali conoscenze permettono a Fionn di sconfiggere Aillen? Quali sue abilità vengono messe alla prova?

lA FANCIullE zz A DI F IONN 235

Aveva fatto ogni cosa come doveva. Aveva suonato il flautino; tutti coloro che avevano ascoltato quella musica dovevano quindi essere addormenta ti: eppure il suo fuoco era stato catturato in piena corsa e spento.

la sorpresa di Aillen vedendo il suo fuoco catturato e spento da una mano invisibile. E si può anche comprendere come a questa prova si sia spaventato: chi può essere più terrorizzato di un mago che vede fallire le proprie arti magiche e, conoscendo i poteri occulti, immagina po teri di cui non ha conoscenza e che quindi può ben temere?

Aillen, poi, non era nel suo mondo: era nel mondo degli uomini, dove muoversi non è facile e l’aria stessa è un peso. Nella sua sfera, nel suo ele mento, avrebbe potuto distanziare Fionn; ma questo era il mondo di Fionn, il suo elemento, e quel dio veloce non era abbastanza forte per vincerlo. La sua fu comunque una corsa eccezionale, perché l’inseguitore gli arrivò abbastan za vicino soltanto all’ingresso del Shì. Fionn mise un dito nella cinghia della grande lancia e a quel gesto la notte scese su Aillen: i suoi occhi si ottenebra rono, la sua mente turbinò e si arrestò, e dov’era il suo essere prese soprav vento il nulla; quando la Birgha gli sibilò tra le scapole, egli avvizzì, cadde a terra svuotato e morì. Fionn gli spiccò dalle spalle la bellissima testa e nella notte tornò verso Tara.

Aillen, con tutta la terrificante forza di cui era campione, soffiò nuova mente, e la grande lingua di fuoco blu che gli uscì con un sibilo e un ruggito venne ancora catturata e sparì.

2. Immagina di svegliarti anche tu quel mattino presto nella città di Tara: riporta i dialoghi tra gli abitanti della città dell’Ard-Rì che precedono il ritorno di Fionn, che commentano il suo arrivo, che giudicano la conclusione del racconto e l’azione di Goll.

1. «Goll riuscì a fare una cosa che per altri sarebbe stata difficile»: cosa riuscì a fare Goll di tanto difficile? Perché per altri «sarebbe stata difficile»?

RE E CAvAl IERI236 11. Fionn viene riconosciuto re delle Fianna d’Irlanda Fionn raggiunse il palazzo all’alba. Quel mattino tutti si erano alzati presto. Volevano vedere quali distruzio ni avesse recato l’essere portentoso; ma ciò che videro fu il giovane Fionn, e quella formidabile testa che penzolava per i capelli. «Qual è la tua richiesta?» disse l’Ard-Rì. «Ciò che a buon diritto dovrei domandare» disse Fionn: «il comando delle Fianna d’Irlanda». «Fai la tua scelta» disse l’Ard-Rì rivolto a Goll. «Abbandona l’Irlanda o met ti la tua mano nella mano del campione e diventa uno dei suoi uomini». Goll riuscì a fare una cosa che per altri sarebbe stata difficile, e la fece così bene da non venirne affatto sminuito. «Ecco la mia mano» disse Goll. E mentre compiva l’atto di sottomissione, di fronte ai giovani occhi che lo guardavano severi, ammiccò.

lA FANCIullE zz A DI F IONN 237

2. Nella lettura del racconto, hai certamente incontrato alcune frasi significative, in cui si condensa ciò che Fionn scopre negli incontri che fa. Raccoglile, scegline una e spiega come questa si rende vera nella narrazione. Il testo, lungo circa due pagine, dovrà essere così strutturato: • una breve introduzione che riporti e spieghi la citazione • la narrazione di alcuni episodi del racconto che certifichino la sua verità • una conclusione che sintetizzi il significato della citazione.

Al termine della lettura dell’intero racconto, rispondi alle seguenti domande per ripercorrere la storia di Fionn.

1. Chi è Fionn, figlio di Uail? Scrivi un testo che presenti il personaggio e le sue principali caratteristiche. Il testo, lungo circa due pagine, dovrà essere così strutturato: • una breve parte iniziale che introduca rapidamente il personaggio • la narrazione di alcuni episodi che mettano in luce le sue principali caratteristiche • una conclusione che espliciti il giudizio sul personaggio.

3. Racconta un’esperienza vissuta con la tua classe in cui hai scoperto qualcosa di nuovo e importante. Sul modello del racconto di Fionn, racconta sempre quello che hai visto, come hai agito, ciò che hai imparato.

4. Inventa un nuovo possibile capitolo della storia di Fionn che metta in luce le caratteristiche sue e di altri personaggi.

Re Artù e la Tavola Rotonda

Uther Pendragon, re di Bretagna, avuto un figlio con la regina Igerne, lo consegnò al saggio mago Merlino perché lo crescesse; egli lo affidò a uno dei cavalieri più one sti del regno, di nome Antor. Costui fece battezzare il fanciullo con il nome di Artù e lo crebbe con ogni onore e bene, in compagnia del proprio figlio Keu.

La spada nell’incudine

Uther Pendragon morì […] due anni dopo la regina Igerne. Poiché non lascia va figli riconosciuti, i baroni1 pregarono Merlino di designare colui ch’essi avrebbero dovuto eleggere al fine che il regno fosse governato per il bene della Santa Chiesa e per la sicurezza del popolo. Ma egli disse soltanto di at tendere il giorno della nascita di Nostro Signore, e fino ad allora di pregare Dio che li illuminasse. La vigilia di Natale, tutti i baroni del regno di Logres andarono a Londra, e tra essi Antor, con Keu e Artù, i suoi due figli, di cui non sapeva quale pre ferire. Tutti assistettero alla messa di mezzanotte con grande pietà, poi alla messa del giorno. E mentre la folla usciva dalla chiesa, risuonarono grida di stupore: una grande pietra tagliata si trovava nel centro della piazza e sor reggeva un’incudine di ferro in cui era infissa una spada fino alla guardia2 Subito fu avvertito l’arcivescovo che arrivò con l’acqua benedetta. E mentre si chinava per aspergere la pietra, lesse ad alta voce queste parole che vi erano scritte in lettere d’oro: Colui che estrarrà questa spada sarà eletto da Gesù Cristo. Già gli uomini più nobili e più ricchi gareggiavano per chi sarebbe stato il primo a provare. Ma l’arcivescovo disse loro: «Signori, non siete affatto saggi quanto sarebbe necessario. Non sapete dunque che Nostro Signore non si cura né di ricchezza, né di nobiltà, né di 1 baroni: termine derivante dal germanico baro, ‘uomo libero’; i baroni erano, nell’epoca medievale, uomini che avevano il massimo grado nobiliare, avendo ricevuto il feudo direttamente dal re. 2 guardia: parte dell’elsa, impugnatura della spada, che ha lo scopo di proteggere la mano.

RE E CAvAl IERI238 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA

5 gladio: spada.

Artù era un adolescente di sedici anni grande e bello, molto amabile e servizievole: dette di sprone4 verso l’alloggio, ma non riuscì a trovare la spada del fratello né alcun’altra, ché la padrona della casa le aveva sistema te tutte in una camera ed era andata ad assistere alla mischia. Stava tornan do, quando passando davanti alla chiesa pensò che non aveva ancora fatta la prova: subito s’avvicina alla pietra e, senza nemmeno smontare da caval lo, impugna il gladio5 meraviglioso, lo estrae senza alcuna fatica, e lo porta al fratello sotto un lembo del mantello, e gli dice: «Non sono riuscito a trovare la tua spada, ma ti ho portato quella dell’in cudine».Keula prese senza pronunziar parola, e si mise alla ricerca del padre. «Signore» gli disse «sarò re: ecco la spada della pietra». Ma Antor, ch’era vecchio e saggio, non gli credette e gli fece confessare la verità. Poi chiamo Artù e gli ordinò d’andare a rimettere il gladio dove l’aveva preso: il fanciullo riconficcò la lama nell’incudine con la stessa facilità con cui l’avrebbe immersa nell’argilla. Il che vedendo, il valent’uomo l’abbracciò: «Bel figliolo, s’io vi facessi re, che bene me ne deriverebbe?»

2 valent’uomini: uomini valenti, ovvero che valgono, abili, capaci.

1 fierezza: audacia, coraggio. Dal latino ferox ‘feroce, indomito’; dalla stessa radice deriva il termine ‘fiera’ inteso come ‘belva’.

RE ART ù E l A TAvOl A ROTONDA 239 fierezza1? Riuscirà solo colui ch’Egli ha disegnato e, se non fosse ancora nato, la spada non potrebbe mai essere estratta prima ch’egli giunga». Allora scelse personalmente duecentocinquanta valent’uomini2 che tentassero l’avventura per primi. Ma nessuno riuscì a muovere la spada. Dopo di essi, vi si provarono tutti quelli che vollero, ma invano, e venne il giorno di Capodanno. Quel giorno, era usanza che si desse un grande torneo alle porte della cit tà. Quando i cavalieri ebbero giostrato3 a sufficienza, fecero una mischia tale che tutta la cittadinanza accorse per vederli. Keu, il figlio di Antor, ch’era sta to fatto novello cavaliere a Ognissanti, chiamò il giovane fratello e gli disse: «Va’ al nostro alloggio a prendermi la spada».

«Vi supplico» disse Artù «di non rinnegarmi come vostro figlio, ché non saprei dove andare. E se Dio vuole ch’io abbia l’onore d’essere re, voi non po trete chiedermi cosa che non l’otteniate».

3 giostrare: esibirsi in tornei e prove di abilità e destrezza con le armi.

4 dette di sprone: spronò il cavallo. Il termine deriva da ‘sperone’, punta di metallo applicata al tallone del cavaliere, utile a sollecitare la cavalcatura.

«Signore» rispose Artù «non vi sarebbe nulla ch’io possedessi di cui voi non sareste padrone, essendo mio padre». «Bel signore, io sono il vostro padre adottivo, ma non colui che v’ha gene rato. Ho affidato mio figlio a una nutrice perché sua madre vi nutrisse col suo latte. E vi ho allevato con tutta la dolcezza che mi è stata possibile».

E Artù sfilò senza fatica la spada e la porse all’arcivescovo che intonò a piena voce il Te Deum laudamus2. Intanto i baroni mormoravano, dicendo che non si poteva ammettere che un ragazzo di sì basso lignaggio3 divenisse loro signore. Del che l’ar civescovo molto s’adirò, dicendo che Dio conosceva meglio di loro stessi il valore di ciascuno; tuttavia ordinò a Artù di rinfilare la spada nell’incudine, poi disse a coloro che si mostravano scontenti di ricominciare la prova. E tutti tentarono una volta ancora, ma alcuno vi riuscì. «Sono ben folli coloro che vanno contro la volontà di Nostro Signore!» esclamò il servitore di Dio. «Signore» dissero i baroni «noi non contrastiamo la Sua volontà, ma è per noi meraviglia troppo grande che un uomo di sì basso lignaggio divenga così il nostro signore. Vi chiediamo di lasciare la spada nella pietra fino a Cande lora4».

E Artù giurò sui santi che avrebbe tenuto Keu con sé per sempre. Antor aspettò i vespri, e quando tutti i baroni furono riuniti in chiesa, mandò a trovare l’arcivescovo e gli chiese di permettere che il figlio più gio vane, che non era ancora cavaliere, facesse la prova.

Subito Artù [si mise] a tirar la spada senza maggior sforzo che se fosse sta ta conficcata in un pane di burro. […] La portò dritto all’altare e ve la posò so pra. Poi fu unto e consacrato. E quando la messa fu cantata, si vide, uscendo dalla chiesa, che la pietra meravigliosa era scomparsa.

«Bel signore, vi chiedo che, in ricompensa di quel che ho fatto per voi, Keu sia vostro siniscalco1 finché avrete vita, e che, qualunque cosa egli faccia, non possa perdere la sua carica. S’è folle, s’è fellone, vi direte che forse non lo sa rebbe stato se fosse stato allattato dalla propria madre e non da un’estranea, e che forse egli è così a causa vostra».

2 Te Deum laudamus: inno cristiano cantato dai fedeli la notte di Capodanno come ringraziamento per l’anno trascorso.

4 Candelora: festa cristiana che cade a febbraio e ricorda la Presentazione al Tempio di Gesù.

3 lignaggio: stirpe, discendenza.

RE E CAvAl IERI240

1 siniscalco: consigliere, alto funzionario.

L’arcivescovo lo concesse; ma, venuta Candelora, nessuno di essi poté svellere la spada. Il che vedendo, l’arcivescovo disse a Artù: «Andate, bel figliolo, e se Nostro Signore vuole che voi governiate questo popolo, porgetemi quel gladio».

La lotta contro i ribelli Artù divenne così re di Bretagna e, con l’aiuto dei suoi più fedeli uomini, piegò i baro ni ribelli. Ogni giorno che passava, sempre più cavalieri giungevano alla corte per es ser suoi vassalli, e in breve tempo furono molti ad accompagnarlo nelle sue imprese. Numerose genti d’armi forestiere vennero alle pianure di Salisbery per di fendere la Santa Chiesa: quelli di re Clamadieu, di re Elano, del duce delle Rocche, di re Marco di Cornovaglia, ch’ebbe per moglie Isotta la Bionda, quel li di Galeotto, il figlio della gigantessa, signore delle Isole Lontane, e molti altri. Vi si trovarono le genti dei re Ban, Bohor, Leodagan e dei principi della Piccola Bretagna, e persino quelli di re Lot d’Arcanie e dei baroni ribelli del regno di Logres. Tutti avevano come insegna la bandiera bianca a croce ros sa; ma su quella d’Artù, portata da Keu il siniscalco, al di sotto della croce si vedeva un drago. Fu così che una grande armata cristiana si mise in marcia verso la città di Clarence assediata dai Sassoni miscredenti, più numerosi dei flutti del mare. Irta di lance, era simile a un bosco dove i frassini avessero per fiori punte d’acciaio. L’armata tanto cavalcò tutta la notte che arrivò presso il campo dei Sas soni poco prima di giorno. C’era una bruma fitta e presto cominciò a cadere un pioggia minuta e copiosa, per cui i pagani dormivano ancor più profonda mente. Furono risvegliati dai clamori dei cavalieri che caricavano attraverso il campo, rompendo le corde delle tende, abbattendone i pali, rovesciando i padiglioni e facendo un tal massacro che in poco tempo i cavalli si bagnaro no di sangue fino ai pastorali. Le insegne erano sì inzuppate che le due parti non si riconoscevano che per le grida. Ma i Sassoni si radunarono al suono dei loro corni e delle loro buccine1. Fu allora che Galvano uccise re Isoré e gli prese il cavallo, Gringalet, di grande bontà: ché poteva percorrere dieci leghe senza essere stremato, senza che un sol pelo della groppa o delle spalle gli si inzuppasse. Ma re Ban, re Bohor, re Nantre, il re dei Cento Cavalieri, il duca Escan di Cambenic, e re Artù […] e tutti i principi fecero meraviglie. L’armata cristiana vittoriosa si occupò di raccogliere i morti e i feriti che giacevano sul campo come pecore sgozzate; poi, la notte, ben rinfrancata, si rimise in marcia. Quando fu molto vicina a Clarence, Merlino riunì a par lamentare i principi ribelli. «Bei signori» disse loro «è venuto il giorno di perder tutto o vincer tutto. È necessario che voi preghiate Dio perché difenda il regno di Logres da onta e malvagità, ché, se Nostro Signore non ci consiglia, la terra di Bretagna sarà oggi distrutta. E vi dico che la sconfitta non potrà essere evitata se non fate pace con re Artù». 1 buccine: strumenti a fiato. Composto di bos ‘bue’ e canere ‘cantare’ perché usati per richiamare gli animali.

RE ART ù E l A TAvOl A ROTONDA 241

Furono molti i baroni cui tali parole non piacquero né tanto né poco, e non poteva essere altrimenti; eppure tutti andarono a rendere omaggio al re, l’u no dopo l’altro, e da lui ricevettero i loro feudi.

Tutti i loro re erano stati uccisi, salvo Rion, Oriens, Sorbare, Cornican, Murga lan di Trebeham e l’ammiraglio Napin. Incalzati da presso, fuggirono a tutta velocità dei loro cavalli verso il mare vicino; e, non senza che più della metà fosse annegata o uccisa, si imbarcarono sulle navi, tagliarono i cavi delle an core, alzarono in fretta le vele, e andarono ove il vento li portò. L’istituzione della Tavola Rotonda Finita dunque la battaglia, Artù fece bandire che avrebbe tenuto corte a Carduel, e lì si riunirono i cavalieri e le dame, abbigliati con le vesti più ricche, e con loro c’era anche la regina Ginevra, divenuta moglie del re. Dopo la messa cantata dall’arcive scovo, la corte si riunì nella sala del palazzo dove, imbandite le tavole, tutti presero posto secondo il loro rango per banchettare e udire i canti del menestrello. 1 allentarono il freno: lasciarono libere le redini dei cavalli.

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Il giorno si levava, radioso. Nell’erba non falciata i cavalli entravano fino al ventre; gli uccelli cantavano il mattutino tra gli arbusti e riempivano di letizia il cuore degli innamorati. Le insegne d’oro, d’argento e di seta sven tolavano alla brezza leggera e il sole faceva fiammeggiare l’acciaio degli el mi e delle lance, e luccicare le immagini sugli scudi. Merlino marciava in testa all’esercito su un grande cavallo da caccia. Quando scorse i Sassoni avanzare incontro ai cristiani, gridò con tutta la propria forza: «Ora si vedrà chi sarà prode! Signori cavalieri, è venuta l’ora di mostrare le vostreSubitoprodezze!»ibaroniallentarono il freno1 e dettero di sprone; e cominciò così la fiera e meravigliosa battaglia. Il cozzo delle lance, il fragore degli scudi, il martellare delle mazze e del le spade si udì fino al mare. Presto l’aria fu rossa e offuscata dalla polvere, al punto che i cieli si oscurarono e il sole perse di splendore. Quando i cavalieri e i borghesi che difendevano la città di Clarence scorsero le insegne bianche dalla croce vermiglia pensarono che fossero soccorsi inviati loro da Nostro Signore: subito uscirono e anch’essi cominciarono a far meraviglie d’armi. Intanto, a misura che s’avvicinava l’ora del mezzogiorno, la forza di Gal vano s’accresceva. Fendeva i ranghi nemici, impetuoso e fragoroso come il tuono e, quando la sua spada calava per colpire, sembrava fosse il fulmine. I fratelli lo imitavano; ma soprattutto Galessin faceva meraviglie: intorno a lui i miscredenti cadevano come grano maturo sotto la falce; verso sera egli era insanguinato come fosse uscito da un fiume di sangue. I Sassoni erano più alti e meglio armati, ma i cristiani più agili, sì ch’alla fine i pagani cedettero.

Allora il re e i cavalieri designati dalla sorte andarono a prender posto, badando a lasciar libero il seggio periglioso. […] Appena si furono seduti, si sentirono pieni di dolcezza e d’amicizia. «Bei signori» riprese Merlino «quando sentirete parlare d’un buon cava liere, tanto farete finché lo condurrete a questa corte, dove, se dimostrerà di essere prode e fedele, lo riceverete tra voi: ché è detto che il numero dei com pagni della Tavola Rotonda salirà a centocinquanta prima che sia intrapresa la ricerca del Santo Graal. Ma bisognerà sceglierli bene: un solo uomo malva gio disonorerebbe tutta la compagnia. E badate che alcuno di voi si segga sul seggio periglioso, ché ne avrebbe gran male».

Quando furono levate le tavole, Merlino si alzò e, dopo aver chiesto licenza al re, disse a voce sì alta che tutti l’intesero nella sala: «Signori. Sappiate che il Santissimo Graal, il vaso in cui Nostro Signore offrì per la prima volta il proprio corpo santo e dove Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue prezioso che sgorgò dalle piaghe di Gesù Cristo, è stato tra sportato nella Bretagna Azzurra1. Ma non verrà trovato, e le sue meraviglie non saranno svelate che dal miglior cavaliere del mondo. Ed è detto nel nome della Santissima Trinità che re Artù debba istituire la tavola che sarà la terza dopo quella della Cena e quella del Graal, e che a lui verrà gran bene e grandi meraviglie al regno. Questa tavola sarà rotonda per significare che tutti colo ro che dovranno sedervisi non avranno alcuna preminenza, e alla destra di monsignore il re rimarrà sempre un seggio vuoto in memoria di Nostro Si gnore Gesù Cristo: nessuno vi si potrà sedere senza rischiare la sorte di Mosé che fu inghiottito dalla terra, salvo il miglior cavaliere del mondo che conqui sterà il Santo Graal e ne conoscerà il significato e la verità».

[…] Non aveva ancora terminato queste parole che d’improvviso apparve in mezzo alla sala una tavola rotonda intorno alla quale stavano centocin quanta seggi di legno. E sulla maggior parte di essi si leggeva, in lettere d’oro: «Qui deve sedere il Tale»; ma, su quello che si trovava di fronte allo scranno2 del re, non era scritto alcun nome. «Signori» disse Merlino «potete vedere i nomi di coloro che Dio ha scelto perché sedessero alla Tavola Rotonda e perché si ponessero alla ricerca del Graal quando sarà venuto il tempo».

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Messer Galvano, dopo aver consultato i compagni, così parlò: «In nome dei cavalieri della Tavola Rotonda» disse «faccio voto che mai pulzella3 o dama verrà a questa corte per cercar soccorso che possa esser dato da un sol cavaliere, senza trovarlo. E mai uomo verrà a chiederci aiuto contro un cavaliere senza ottenerlo. E se avvenisse che uno di noi dovesse scomparire, volta a volta i compagni si metteranno alla sua ricerca; e tale ri cerca durerà un anno e un giorno». 1 Bretagna Azzurra: parte meridionale della Gran Bretagna, coincidente pressappoco con la Cornovaglia. 2 scranno: sedile. 3 pulzella: fanciulla non maritata.

3. Rileggi la descrizione della battaglia: scopri e sottolinea le immagini, i paragoni, i particolari che rendono viva la scena.

6. L’arcivescovo, di fronte ai baroni che tentano di estrarre la spada, risponde che «riuscirà solo colui ch’Egli ha designato». In che senso questa frase riassume la vicenda di Artù? In un testo di una pagina di quaderno, racconta l’episodio della spada nell’incudine per mettere in evidenza la verità di quanto affermato dall’arcivescovo. Puoi aiutarti a narrare la vicenda aiutandoti con la risposta che hai dato alla domanda 2. 1 chierici: persone dotte, letterati.

1. Le scene che costruiscono il racconto sono tre: riassumi ognuna di esse in una frase che ne sintetizzi l’avvenimento più significativo.

RE E CAvAl IERI244

[…] E la regina disse a costui: «Bel nipote, col permesso del mio signore il re, voglio che quattro chierici1 restino qui, e non abbiano altra cosa da fare che mettere per iscritto tutte le vostre avventure e quelle dei vostri compagni, affinché dopo la nostra morte rimanga memoria delle vostre prodezze». «Ve lo concedo» disse il re. «E io faccio voto che, tutte le volte che porterò la corona, non mi siederò a desinare prima che nella mia corte sia accaduta un’avventura».

2. Elenca i fatti essenziali che portano Artù a essere incoronato re di Bretagna.

4. Rileggi l’ultima parte del racconto: qual è lo scopo della creazione della Tavola Rotonda? Cosa giurano i suoi cavalieri?

5. Scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche di Artù e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio: Artù è …, infatti…

Leggi la seguente poesia, scritta da un famoso poeta medievale, e confrontala con la parte centrale del testo appena letto. Perché un cavaliere attende con trepidazione la battaglia?

RE ART ù E l A TAvOl A ROTONDA 245 7.

[…] Infatti grande guerra rende generoso un avaro signore. Bertrand de Born 8. Scrivi il riassunto dell’intero racconto di Artù in circa trenta righe, mettendo in luce la divisione in tre parti della storia.

Trombe, tamburi, bandiere e pennoni, E insegne, e cavalli bianchi e neri Vedremo presto: il mondo sarà bello! […] E ho grande gioia Quando vedo nei campi schierati Cavalieri e cavalli armati. […] Io vi dico che niente ha per me tanto sapore Mangiare, bere o dormire, Quanto il momento in cui odo gridare “A loro!”

L’infanzia di Lancillotto

Re Ban di Benoic morì per il tradimento di re Claudas; il figlio Lancillotto, appena nato, venne rapito dalle mani della madre, la regina Elena, da una misteriosa da migella, che lo trascinò con sé sotto le acque di un lago. La damigella che aveva rapito [Lancillotto] era una fata. A quei tempi veniva no chiamate fate tutte le donne che sapevano di incantamenti, e in Bretagna ve n’erano più che in ogni altra terra. Esse conoscevano le virtù delle parole, delle pietre e delle erbe, e grazie ad esse si mantenevano giovani, belle e ric che a loro piacere.

Era di carnagione bruno chiaro: sul suo viso, il colore vermiglio si spo sava piacevolmente con il bianco e il bruno, e tutti e tre si temperavano l’un l’altro. Aveva la bocca piccola, le labbra rosse e ben disegnate, i denti bian chi, minuti e fitti. Il mento era ben fatto e con una piccola fossetta; il naso leggermente aquilino; gli occhi azzurri, ma mutevoli: ridenti e pieni di gioia quando era contento, simili a carboni ardenti, quand’era adirato: allora gli zigomi si macchiavano di gocce di sangue, egli increspava il naso, serrava i denti fino a farli digrignare e il suo fiato si sarebbe detto vermiglio, poi la voce risuonava come il richiamo di una tromba, infine faceva a pezzi con le

RE E CAvAl IERI246 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA

[…] Se la Dama del Lago fu tenera con Lancillotto, non è nemmeno da chiedere: se l’avesse portato nel ventre non avrebbe potuto allevarlo con più dolcezza. E il lago in cui era sembrato si fosse gettata con lui non era che un incantesimo che Merlino un tempo aveva fatto per lei: nel luogo in cui l’acqua sembrava proprio esser più profonda, v’erano belle e ricche dimore, a fianco delle quali scorreva un fiume molto pescoso; ma l’apparenza d’un lago copriva tutte queste cose.

A quell’età, ebbe un maestro che gli insegnò e gli mostrò come compor tarsi da gentiluomo. Appena fu possibile, gli furono donati un piccolo arco e delle frecce ch’egli scoccava sugli uccelletti; poi, quando fu più grande, gli furono date armi più forti ed egli mirò a lepri e pernici. Ebbe un cavallo ap pena poté cavalcare, e con esso passeggiava nei dintorni del lago, sempre ben accompagnato da valletti e da gentiluomini, e sembrava il più nobile di tutti loro: infatti lo era. Infine apprese a giocare a scacchi, a tavole e a tutti i giochi con una notevole facilità, tanto era dotato di ingegno: adolescente, nessuno era in grado di vincerlo […].

La Dama non era sola in quei luoghi: aveva con sé cavalieri, dame e da migelle; ed ella diede a Lancillotto una buona nutrice. Ma nessuno conosce va il nome del bambino: gli uni lo chiamavano Bel Trovato, gli altri Figlio di Re; lui credeva che la Dama del Lago fosse sua madre. E crebbe e divenne un fanciullo tanto bello che a tre anni pareva ne avesse cinque.

Quando voleva, cantava meravigliosamente, ma non avveniva sovente, ché nessuno mostrava meno spesso di lui gioia senza motivo. Del resto, se aveva qualche cagione di giubilo, alcuno poteva esser più grazioso e giocon do; ed egli a volte diceva che, quando era nella più gaia condizione di spirito, nulla di quel che il suo cuore osava sognare il suo corpo non avrebbe potuto portare a buon fine, tanto aveva fiducia che la gioia gli facesse superare an che i compiti più ardui. Sentendolo parlare con tanta fierezza, molti lo avreb bero accusato di tracotanza2 e di vanteria; ma no: quel ch’egli diceva, lo di ceva per la grande sicurezza che gli derivava da colei che, per l’appunto, gli donava ogni felicità. Tale fu Lancillotto, e se il suo corpo era ben fatto, il suo cuore non lo era meno. Ché era il ragazzo più dolce e più mite; ma, all’occasione, era capace di superare un fellone in fellonia. Era d’ineguagliabile generosità: dava tan to volentieri quanto riceveva. Onorava i gentiluomini, pure non fece mai del male a nessuno senza un buon motivo. Del resto, quando si corrucciava, non era cosa facile calmarlo. Ed era di sentimenti sì limpidi e retti che, passata l’età di dieci anni, il suo maestro non sarebbe stato capace di dissuaderlo dal fare cosa ch’egli giudicasse buona e ragionevole. Un giorno, cacciando un capriolo, Lancillotto e il maestro distanziarono i compagni montati meno bene. Poi il cavallo del maestro inciampò e cadde con il cavaliere senza che il fanciullo, trascinato nell’inseguimento della pre da, se ne accorgesse nemmeno. Alla fine, Lancillotto, uccise la bestia con una freccia. Scende, appende il capriolo in groppa e prende il cane di traverso sulla sella. Ora, mentre se ne tornava verso i compagni preoccupati per lui, incontrò un uomo a piedi che portava per la briglia il cavallo stanco e sfini to, un bel valletto di primo pelo coperto con una modesta cotta, gli speroni 1 reni: schiena, fianchi. 2 tracotanza: superbia, presunzione.

l’INFANz IA DI lANCIllOTTO 247 mani e con i denti tutto ciò che aveva intorno; altrettanto in fretta dimenti cava tutto, salvo il motivo della propria collera, e ne diede prova in più d’una occasione.Avevala fronte alta, le sopracciglia sottili e folte, e i morbidi capelli rima sero biondi e splendenti finché fu ragazzo: più tardi, si scurirono e divennero color cenere, ma restarono ondulati e lucenti. Il suo collo, non troppo gracile né troppo lungo né troppo corto, non avrebbe deturpato la dama più bella. Le spalle erano larghe ed alte come si conviene, e le braccia lunghe, diritte, ben fornite di ossa, di nervi e di muscoli. Se le dita fossero state un po’ più minute, le sue mani sarebbero state bene a una donna. Quanto alle reni1 e alle anche, quale cavaliere le ebbe meglio formate? Le cosce e le gambe erano diritte, e i piedi ben arcuati, tali che nessuno ebbe mai migliore equilibrio. Solo il petto era forse un po’ troppo ampio e profondo […]; ma la regina Ginevra, più tardi, usava dire che Nostro Signore glielo aveva formato a quel modo perché fosse della misura del suo cuore che in un altro petto sarebbe rimasto soffocato […].

«Che Iddio vi sia misericordioso, figlio mio! Di dove siete?» chiese il val vassore.«Signore, dell’altro paese».

«Signore, dalla caccia, come vedete. Se vi degnaste di prendere una parte della mia cacciagione, essa sarebbe ben riposta».

Così dicendo, Lancillotto smonta, consegna la cavalcatura al valletto, mette il cane al laccio e, sistemata la preda sul ronzino ferito, si allontana spingendolo davanti a sé. Non aveva camminato molto quando s’imbatté in un valvassore montato su un palafreno2 che, un bastone in mano, teneva al laccio un bracco e due le vrieri3. L’uomo era attempato: appena il fanciullo lo vide, lo salutò.

«Chiunque voi siate, siete bello e ben educato. E donde venite?»

«Sì, signore, certo, anche se dovessi fare a piedi un terzo della strada».

RE E CAvAl IERI248 arrossati dal sangue del ronzino1 spossato. Vedendo il fanciullo, il valletto abbassò il capo, come per vergogna; ma Lancillotto gli chiese chi fosse e dove andasse.«Belsignore» disse il valletto «che Dio vi dia onore! Sono piuttosto povero, e lo sarò ancora di più se Nostro Signore non mi protegge altrimenti di come ha fatto finora. Sono gentiluomo di padre e di madre, e ne soffro di più, ché, se fossi villano, sarei abituato ai tormenti e il mio cuore sopporterebbe più facilmente le sue pene». «Come» disse Lancillotto «siete gentiluomo e piangete per una cattiva sor te! Salvo che per la perdita d’un amico e per un’onta incancellabile, alcun no bile cuore si deve commuovere, ché a tutto vi può essere riparo». Meravigliato di sentire un fanciullo sì giovane pronunciare parole tanto nobili, il valletto rispose: «Io non piango, bel signore, per la perdita d’un amico o di una terra. Ma devo recarmi alla corte di re Claudas a causa di un traditore che ha ucciso nel letto un mio parente per averne la moglie. Ieri sera, mi ha fatto assalire nella foresta: il mio cavallo ne rimase ferito sotto di me; eppure è riuscito a portarmi quanto è bastato perché potessi scappare. Ma come potrei non es sere addolorato, dal momento che mi sarà impossibile presentarmi il giorno stabilito nella casa di re Claudas per sostenere il mio diritto, e dovrò quindi tornarmene disonorato?»

«Mille grazie, dolce e bell’amico, non rifiuto certo, ché avete fatto la vostra offerta di buon cuore e io ho molto bisogno di cacciagione. Oggi ho maritato 1 ronzino: cavallo di scarso valore. 2 palafreno: cavallo da parata, non da guerra. 3 un bracco e due levrieri: cani da caccia.

«In nome di Dio, voi non sarete disonorato perché non avete un cavallo finché io ne avrò uno, né voi né alcun altro gentiluomo!»

«Ditemi: se aveste un buon cavallo, arrivereste ancora in tempo?»

«E chi era questo valent’uomo cui somiglio?»

l’INFANz IA DI lANCIllOTTO 249

mia figlia ed ero andato a caccia per procurarmi di che rallegrare quelli che son venuti alle nozze. Ma non ho ucciso nulla». Il valvassore smontò e chiese a Lancillotto quale parte del capriolo potes se prendere.«Signore» rispose il fanciullo «siete cavaliere?» «Allora,«Sì». prendete tutto. La mia cacciagione non potrebbe essere meglio usata che alle nozze della figlia d’un cavaliere». Il valvassore mise il capriolo in groppa e invitò il fanciullo a desinare e a essere suo ospite. Ma Lancillotto rispose che i suoi compagni non erano lontani. E il valvassore lo lasciò dopo averlo raccomandato a Dio. Allontanandosi, non poté impedirsi di domandarsi chi fosse quel bel donzello la cui somiglianza con il re di Benoic l’aveva colpito. Non resisten do più, tornò al galoppo sui propri passi e non fece alcuna fatica a raggiun gere Lancillotto che andava a piedi. «Bello e dolce fanciullo, non potete dirmi chi siete? Somigliate molto a un mio signore, il più gran valent’uomo che mai vi sia stato».

«Re Ban di Benoic. Tutto questo paese era suo, e ne fu spogliato a torto da re Claudas della Terra Deserta. Suo figlio è scomparso. Se siete voi, per l’amor di Dio fatemelo sapere! Veglierò su di voi e vi difenderò più che me stesso». «Figlio di re, non credo di esserlo» rispose Lancillotto «anche se a volte mi chiamano«Amico,così».chiunque siate, discendete da un buon lignaggio1. Ecco qui due dei migliori levrieri che ci siano: prendetene uno, e che Dio vi dia benessere e giudizio!»Ilfanciullo, felice, accettò di buon grado l’offerta. «Datemi il migliore!» chiese. E tirando il cane per la catena, si allontanò. Poco dopo, trovò il maestro e tre compagni che lo cercavano e che si stupiro no molto di vederlo tornare a piedi, spingendo davanti a sé un magro ronzi no, con due cani al laccio, l’arco al collo, la faretra alla cintura. «Cosa ne avete fatto del cavallo?» chiese il maestro. «L’ho perduto». «E questo, dove l’avete preso?» «Mi è stato regalato». «Per la fede che dovete alla vostra signora, dite la verità!» Il fanciullo, che non avrebbe mai mentito alla leggera, raccontò quanto gli era «Come?»accadutoesclamò il maestro «avete dato il vostro cavallo senza il mio per messo, e anche la cacciagione della vostra signora?» 1 lignaggio: stirpe, discendenza.

«Signora, finché sarò ai vostri ordini e governato da simile maestro, sarò costretto a tener per me un bel po’ di cose. Quando non vorrò più restare, me ne andrò! Ma, prima che me ne vada, voglio dirvi che il cuore d’un uomo non può conseguire l’onore se resta troppo tempo sotto tutela, ché troppo spes so è costretto a tremare. Non voglio più maestro; dico maestro, non signore o dama. Infelice il figlio di re che non può donare liberamente i propri beni!»

Furibondo, Lancillotto, molla i due lacci e, strappatosi l’arco dal collo, si getta sul maestro. Questi, che lo vede venire, tenta di afferrarlo. Ma il fanciul lo, agile e leggero com’è, evita la presa e colpisce il maestro con il filo dell’ar co sulla testa con tanta violenza da spaccargli la pelle e farlo cadere stordito. Poi, pazzo di collera alla vista dell’arco rotto, si getta su di lui e lo colpisce di nuovo, finché dell’arco non resta più di assestare un sol colpo. Nel frattempo i tre compagni si sforzavano di trattenerlo, ma egli prese le frecce dalla fare tra e si mise a scagliarle cercando di ucciderli, tanto che quelli fuggirono per il bosco.

La Dama fu ben contenta di sentirlo parlare con tanta fierezza; ma, con tinuando a fingere d’essere irata, riprese: «Come avete osato donare ciò che mi appartiene?»

buon maestro quando mi ha battuto perché avevo agito bene. I suoi colpi mi importavano poco. Ma egli ha colpito il mio levriero, ch’è tra i migliori del mondo, e con tanta violenza che per poco non l’uccideva da vanti ai miei occhi, solo perché sapeva che lo amo. E inoltre m’ha causato al tra noia, ché m’ha impedito di uccidere una bella cerva. E sappiate che ovun que io lo incontri cercherò di togliergli la vita, salvo che qui».

Allora il fanciullo montò su uno dei loro cavalli e, portando con sé i due ca ni, uno sull’arcione, l’altro sulla groppa, se ne andò per la foresta. E d’improv viso, mentre traversava una valle, vide passare un branco di cerve. D’istinto, cercò l’arco al collo e, ricordandosi come l’avesse rotto e perduto, montò in collera: “Colui che m’ha impedito di prendere una di quelle cerve me la pa gherà cara” pensava. “Con il miglior levriero e il segugio migliore, non avrei certo potuto sbagliare il colpo.” Tornò al lago, entrò nel cortile e si recò dalla Dama per mostrarle il suo bel levriero. Ma il maestro, tutto sanguinante, ave va già sporto le proprie lagnanze. «Figlio di re» disse la Dama fingendo di essere molto adirata «come mai mi avete fatto un simile oltraggio, colpendo e ferendo colui che vi avevo dato perché vi «Signora,istruisse?»nonera

«Pensate forse di essere figlio di re, perché io a volte vi chiamo così? Non lo siete».

RE E CAvAl IERI250 «Maestro» disse Lancillotto «non vi adirate. Questo levriero vale due ron zini come quello che avevo». «Per la Santa Croce, ve lo ricorderete!» E, così dicendo, il maestro assesta al fanciullo uno schiaffo tale da get tarlo a terra. Lancillotto non piange né grida, ma ripete che per lui il levrie ro vale più di due ronzini. Il maestro incollerito batte duramente il cane con il bastone e l’animale, ch’è giovane, si mette a guaire.

Detto ciò, esce, prende l’arco, se lo appende al collo, cinge la faretra, sella il cavallo, e già lo portava nel cortile, quando colei che l’amava più di ogni cosa accorse, asciugandosi il viso e gli occhi rossi e gonfi, e afferrò il cavallo per la «Vassallo»briglia: ella gridò «dove volete andare?» «Signora, in un luogo in cui possa trovare consolazione».

«Signora» fece il fanciullo sospirando «questo mi spiace, ché il mio cuore ardirebbe esserlo». Allora la Dama lo prese per mano e, portatolo un po’ in disparte, lo baciò sulla bocca e sugli occhi con tanta tenerezza che a vederla nessuno avrebbe potuto credere ch’egli non fosse suo figlio. «Figlio caro, non siate triste» gli disse «voglio che in futuro siate libero di donare tutto quello che vorrete. E da oggi in poi sarete signore e maestro di voi stesso. Chiunque sia vostro padre, avete mostrato d’avere il cuore d’un re».«Non so se sono gentiluomo di nascita. Se da un uomo e da una donna è nata tutta la razza umana, non vedo che una sola nobiltà: quella che si con quista con la prodezza. E se il cuore fa il gentiluomo, crederei d’essere della più nobile nascita». «Bel figliolo, si vedrà. Ma, siate certo, solo la mancanza di coraggio potreb be farvi perdere la nobiltà». «Siate benedetta da Dio, signora, per avermelo detto, ché non mi auguravo null’altro che d’esser gentiluomo». Fino a diciotto anni, Lancillotto rimase sotto la protezione della Dama del Lago. Ed ella ben avrebbe voluto trattenerlo ancora, tanto l’amava. Un giorno egli uccise a caccia il cervo più grande che avesse mai visto: su bito lo inviò alla Dama per mezzo di due valletti; verso sera, inforcò il cavallo da caccia per avviarsi a tornare. Aveva l’aspetto d’un vero uomo dei boschi, vestito com’era d’una corta cotta verde, coronato di foglie e con la faretra al la cintura, ché mai se ne separava. Al vederlo sì bello, la Dama sentì l’acqua del cuore salirle agli occhi. E quand’egli entrò nella sala, nascose il viso tra le mani e, invece di abbracciarlo e di baciarlo come sempre faceva, fuggì nella camera grande. Lancillotto la seguì: la trovò stesa su un letto, a piangere. «Ah! signora, che avete?» le chiese. «Se vi è stato fatto torto, raccontateme lo, ché non sopporterò che alcuno vi dispiaccia, finché sarò in vita».

Ma la Dama singhiozzava sì forte da non poter parlare. «Figlio di re, allontanatevi» riuscì a dire «oppure vedrete che il mio cuore mi «Alloralascerà».parto, se la mia presenza vi addolora tanto».

l’INFANz IA DI lANCIllOTTO 251

«Dove? Ditelo, per la fede che mi dovete!» «Alla corte di re Artù, a servire un valent’uomo finch’egli mi faccia cavaliere». «Ah! bel figlio di re, tanto desiderate essere cavaliere?» «Certo, signora! È la cosa cui aspiro di più al mondo».

Ché le armi non sono state date loro senza motivo. Lo scudo significa ch’e gli deve interporsi tra la Santa Chiesa e chi l’assale, e ricevere per essa i col pi come un figlio per la madre. Allo stesso modo in cui il giaco1 lo veste e lo protegge da ogni parte, così egli deve coprire e circondare la Santa Chiesa di modo che i malvagi non la possano raggiungere. L’elmo è come la garitta2 da cui si sorvegliano i malfattori e i ladri della Santa Chiesa. La lancia, lunga in modo da ferire prima che colui che la porta possa essere raggiunto, significa ch’egli deve impedire ai malintenzionati di avvicinare la Santa Chiesa. E se la spada, la più nobile delle armi, è a doppio taglio, è perché essa con un ta glio colpisce i nemici della fede, e con l’altro i ladri e gli assassini; ma la punta significa obbedienza, ché tutte le genti devono obbedire al cavaliere; e nulla trafigge il cuore come obbedire a dispetto del proprio cuore. Infine, il cavallo è il popolo, che deve sostenere il cavaliere e sopperire ai suoi bisogni, ed es sere sotto di lui, e ch’egli deve menare bene secondo il proprio intendimento. Egli deve avere due cuori: uno duro come un magnete per gli sleali e i fel loni, l’altro morbido e plasmabile come cera calda per i buoni e gli indulgenti. 1 giaco: maglia d’acciaio. 2 garitta: piccola costruzione o torre che, in un castello, ospita le sentinelle.

«Signora, sarebbe ben timido colui che non osasse ricevere la cavalleria. Ché tutti, se non possono avere le virtù del corpo, possono almeno possede re quelle del cuore. Le prime, come la statura, la forza, la beltà, l’uomo le ri ceve nascendo. Ma la cortesia, la saggezza, l’indulgenza, la lealtà, la prodez za, la generosità, l’arditezza, solo la pigrizia può impedire di possederle, ché esse dipendono dalla volontà. E spesso ho sentito dire ch’è il cuore che fa il valent’uomo».AlloralaDama del Lago prese Lancillotto per la mano e lo condusse nella propria camera; e là, dopo averlo fatto sedere, gli disse: «I primi cavalieri non lo furono a causa della loro nascita, ché tutti discen diamo dallo stesso padre e dalla stessa madre. Ma quando Invidia e Cupidigia cominciarono a crescere nel mondo, allora i deboli istituirono al di sopra di sé dei difensori che mantenessero il diritto e li proteggessero.

Per questo ufficio vennero scelti i grandi, i forti, i belli, i leali, gli arditi, i prodi. E alcuno, a quei tempi, avrebbe osato montare a cavallo prima d’aver ricevuto la cavalleria. Ma essa non era conferita per il piacere. Si chiedeva ai cavalieri d’esser indulgenti salvo che coi felloni, pietosi coi bisognosi, pron ti a soccorrere i sofferenti e a confondere i ladri e gli assassini, buoni giudici senza amore e senza odio. E dovevano proteggere la Santa Chiesa e colui che porge la guancia sinistra a chi l’ha colpito alla destra.

RE E CAvAl IERI252

«Se sapeste quali gravosi doveri impone la cavalleria, non ardireste augu rarvelo». «E perché, signora? Sono dunque superiori al coraggio e alla forza d’un uomo?»«Sì,qualche volta: Nostro Signore Iddio ha fatto gli uni più valenti degli al tri, più prodi e più cortesi».

l’INFANz IA DI lANCIllOTTO 253

Tali sono i doveri cui ci si impegna verso Nostro Signore ricevendo la cavalle ria, e per un valletto sarebbe meglio restare scudiero per la vita, che vedersi disonorato sulla terra e perduto di fronte a Dio». «Signora» disse Lancillotto «se trovo qualcuno che acconsenta a farmi ca valiere, non avrò timore d’esserlo, ché forse Dio vorrà farmi dono delle quali tà necessarie, ed io vi metterò tutto il mio cuore, e il mio corpo, e la mia pena, e la mia fatica». «In nome di Dio» disse la Dama sospirando «il vostro desiderio sarà dun que presto esaudito. Ed è perché lo sapevo che piansi quando vi vidi. Sarete armato dal miglior valent’uomo che vi sia». Da tempo ella aveva preparato tutte le armi necessarie al fanciullo: un gia co bianco, leggero e forte, un elmo argentato e uno scudo color della neve, a borchie d’argento. La spada, messa alla prova in molte occasioni, era grande, tagliente e leggera a meraviglia. E la lancia corta, grossa, robusta, dal ferro ben appuntito, il destriero alto, forte e vivace, l’abito di Lancillotto, il mantello foderato d’ermellino, tutto era bianco, e anche la scorta, abbigliata di bianco, montata su cavalli bianchi. E in tale equipaggio, accompagnati da Lionello, Bohor e Lambegue, Lancillotto e la Dama del Lago si misero in cammino, il martedì precedente la festa di San Giovanni. Ma il racconto narrerà più avan ti quel che avvenne alla corte di re Artù, e come Lancillotto vi fu fatto cavalie re dalla regina Ginevra, e com’egli si comportò

3. Ora concentra la tua attenzione sulla parte centrale della storia. Che incontri fa Lancillotto? Quali azioni compie?

2. Rileggi la prima parte del racconto e sottolinea le caratteristiche fisiche e morali attribuite al personaggio di Lancillotto. Ritrova poi nella narrazione successiva gli episodi in cui queste si manifestano.

6. Ora ritrova questo passaggio del testo: «Figlio di re» disse la Dama fingendo di essere molto adirata «Come mai mi avete fatto un simile oltraggio, colpendo e ferendo colui che vi avevo dato perché vi istruisse?» La Dama, al ritorno di Lancillotto, finge di essere adirata con lui. Perché dovrebbe essere arrabbiata con lui? Perché invece non lo è affatto? Perché, dunque, finge?

7. Quando la Dama vede Lancillotto pronto per partire, rimane turbata. Sottolinea la bella espressione che lo scrittore usa per descrivere il suo stato d’animo e rifletti: perché la vista di Lancillotto commuove la Dama? Cosa la spinge a piangere?

5. Adesso rileggi la parte conclusiva del racconto, e poni particolare attenzione al rapporto tra Lancillotto e la Dama del Lago. Sottolinea innanzitutto le parole che ti fanno capire i sentimenti che prova la Dama per il ragazzo.

4. Ritrova nel testo la frase: «Amico, chiunque siate, discendete da un buon Perchélignaggio».leazioni di Lancillotto inizialmente vengono giudicate positivamente, tanto che il valvassore riconosce la sua nobiltà? Perché invece le stesse azioni vengono giudicate in maniera differente dal maestro?

8. Elenca le armi che vengono consegnate a Lancillotto, specificando la loro funzione, secondo quanto affermato dalla Dama del Lago.

il numero delle scene che costruiscono la narrazione e scegli per ognuna di esse un titolo che ne sintetizzi il contenuto.

RE E CAvAl IERI1.254Individua

l’INFANz IA DI lANCIllOTTO 255 9.

• una conclusione in cui si affermi cosa si intende per nobiltà in questo racconto.

Il testo, la cui lunghezza dovrà essere di circa una facciata, dovrà essere così strutturato:

• un’introduzione in cui si definisca il concetto usuale di nobiltà (trova sul vocabolario il primo significato assegnato a tale parola)

• la narrazione di episodi del testo che mostrino la nobiltà dei suoi personaggi

11. Dopo aver letto e lavorato sul testo, assegna un titolo a questo racconto per esprimerne il significato essenziale; scrivi quindi un riassunto di circa una pagina di quaderno che metta in luce quanto espresso nel titolo da te scelto. Prima di scrivere il testo, individua i fatti essenziali, costruisci un sommario e per ogni scena scrivi una frase: ogni frase costituirà il contenuto sintetico di un paragrafo del tuo riassunto.

La Dama del Lago afferma che «nulla trafigge il cuore come obbedire a dispetto del proprio cuore»: facendo precisi riferimenti al racconto, spiega in un testo di almeno 20 righe quali azioni e quali scelte dei personaggi rispecchiano la verità di questa affermazione.

Il testo dovrà essere così strutturato: • una breve introduzione che spieghi il contenuto della citazione riportata

10. I personaggi del testo, in diverse occasioni, dialogano sul concetto di nobiltà: dopo aver sottolineato i passaggi in cui si fa riferimento a ciò, spiega cosa, nel mondo della cavalleria, rende nobile un uomo.

• la narrazione di uno o più episodi che esprimano quanto affermato dalla citazione • una conclusione che sintetizzi quanto hai scritto.

3 siniscalco: consigliere. 4 balia: sotto la sua giurisdizione e autorità, probabilmente derivante dal provenzale bailar ‘portare’.

RE E CAvAl IERI256 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA

Perceval il gallese Sappiate che, nella terra di Galles, c’era una volta un re di grande merito, valent’uomo a meraviglia e di nobilissima schiatta1, figlio di Pellehan, il Re Pescatore, e fratello cadetto di re Pelles, in breve sì ricco d’amici, di castelli, di fortezze, di prati, di boschi e di fiumi, che quasi non aveva eguali in tutta la Grande Bretagna. Ora, i suoi undici figli maggiori furono uccisi nelle giostre2 e la moglie lo supplicò di rinunciare per sempre ai tornei. Ma egli le rispose, alzando le «Maledettospalle:ilcavaliere che domanda consiglio alle dame quando si tratta di torneare! Andate a riposarvi all’ombra delle vostre stanze dipinte e dorate; pensate a bere e a mangiare, a tinger la seta, a far tappezzerie: è il vostro me stiere. Il mio è di colpire con la spada di acciaio».

A quest’età, egli sapeva montare a cavallo molto bene e scagliare giavel lotti. Aveva i capelli neri come la mora di rovo, ma il collo bianco come rosa di macchia; gli occhi glauchi, la bocca ridente, le gambe forti e lunghe atte a ben sedere su un destriero; largo di spalle, stretto di vita, era, benché bruno,

2 giostre: esercizi e prove di abilità cavallereschi.

1 schiatta: stirpe, discendenza

Annunciò ai propri vassalli che voleva condurre il fanciullo in pellegri naggio a San Brandiano di Scozia e fece loro giurare obbedienza al siniscal co3, al quale affidò la terra in balia4. Poi prese il proprio tesoro e quanto poté dei suoi averi; fece caricare dieci carrette di grano, frumento, avena e dena ri, e s’allontanò col figlio, portando via buoi, cavalli, vacche, montoni, agnel li, accompagnata da una dozzina di servizievoli villani che le erano devoti.

Tanto andò con questo equipaggio che arrivò nella Guasta Foresta, la più deserta del mondo, dove camminò per ben due settimane senza vedere né uomo né casa. Un giorno, infine, sbucò con le sue genti in una valle bella e piacevole, bagnata da un corso d’acqua abbastanza rapido da far andare un mulino, e decise di fermarsi. I dodici villani lavorarono sì bene che in quindi ci giorni costruirono una casa chiusa da una buona palizzata; poi lavorarono la terra, e Perceval fu allevato in questa valle finché ebbe quindici anni.

E se ne andò a nuove giostre, dove non mancò di farsi ammazzare come i suoi undici figli. Della sua morte, la moglie ebbe tale dolore che nessun uo mo, per quanto duro fosse il suo cuore, avrebbe potuto vederla senza pian gere. Ah! che pena! Ella fece dire più di cento messe in chiesa e promise a sé stessa che l’ultimo suo nato, che aveva nome Perceval non sarebbe mai an dato a un torneo, e persino che mai avrebbe inteso parlare della cavalleria.

Subito si prosterna e comincia a recitare le preghiere e le orazioni che la madre gli aveva insegnato, sì che il capo dei cavalieri, vedendolo, dice ai com pagni di fermarsi, per non spaventarlo a morte, e viene avanti e gli si accosta da solo.«Non aver paura, valletto». «Non ho paura, in nome del Salvatore! Ma non siete Dio?» 1 valletto: in questo caso significa cavaliere. La parola valletto che per lo più significa ‘paggio, scudiero’, deriva dal provenzale vallet, derivato dal latino vassallus. 2 giachi: maglie d’acciaio.

«Signora, così farò» rispose Perceval. Era la dolce stagione in cui gli alberi fioriscono e i prati si coprono di ver de, gli uccelli cantano dolcemente nella loro lingua e ogni cosa s’infiamma di gioia. Un mattino, mentre Perceval entrava nella foresta, sentì che il suo cuo re tanto si rallegrava per il sole e il canto degli uccellini, che non sapeva più che fare: tolse la briglia al cavallo e lo lasciò a pascolare a volontà, poi, per di vertirsi, si mise a lanciare i giavellotti, ora in alto, ora in basso, uno in avanti e l’altro indietro.

pERCE vAl Il GAllEsE 257 uno dei valletti1 più belli che si siano mai visti. Ogni mattina, vestito alla mo da gallese con camicia e brache di canapa fatte d’un sol pezzo, coperto dalla cotta di pelle di cervo, inforcava il cavallino da caccia e se ne andava nella fo resta con i suoi tre giavellotti in mano.

«Bel figliolo» gli disse un giorno la madre «cacciate quanto vi piacerà ca prioli e cervi; ma c’è una cosa che vi proibisco: se nella foresta incontrerete delle persone che cavalcano con fracasso, e sembrano tutte coperte di ferro, non restate accanto ad esse, ché sono diavoli che vi divorerebbero presto. Al lontanatevi più in fretta che potrete, fatevi il segno della croce e dite il vostro Credo: in tal modo, non rischierete nulla».

Ora, mentre così si dilettava, ecco giungere cinque uomini vestiti di ferro che cavalcavano con gran rumore, ché le loro armi urtavano i rami, i giachi2 fremevano, le lance colpivano gli scudi. Il valletto, che sentiva quel fracasso senza veder nulla, pensò dapprima a quello che la madre gli aveva detto dei diavoli che percorrono questo mondo, usi a fare un rumore furioso e movi menti tempestosi. “Ella m’ha insegnato che in un simile caso bisogna munir si del segno della croce” si disse. “Così farò, e reciterò il mio Credo; ma poi lan cerò un giavellotto contro il più forte di quei demoni e lo ferirò sì rudemente che gli altri non oseranno avvicinarsi”.

Pure, quando i cinque cavalieri furono allo scoperto e gli apparvero, lo scudo al collo e la lancia in mano, i giachi bianchi, verdi o vermigli lucenti al sole, tutti risplendenti d’oro, d’azzurro e d’argento, egli esclamò meravigliato: «In verità, non sono diavoli, ma angeli! E mia madre non ha mentito quan do mi ha detto che gli angeli sono le creature più belle dopo Dio. Il più rilu cente e splendente tra loro deve essere il Nostro Salvatore in persona. E io l’adorerò, e onorerò i suoi servitori».

«Cavaliere? Non ho mai inteso parlare di cavalieri. Ma voi siete più bello di Dio, luminoso in tal guisa che… Cosa tenete in mano?» «È una lancia, valletto».

Intanto i quattro cavalieri, vedendo che il loro signore parlava tanto a lungo, s’erano avvicinati al passo. «Signore» dissero «i Gallesi sono per natura più sciocchi delle bestie. È perder tempo in fole e baloccarsi inutilmente, interrogare costui». Ma Perceval tirava il cavaliere per il lembo del giaco. «Cos’è questo, bel signore?» riprese. «Valletto, è il mio giaco d’acciaio che è pesante come il ferro. Grazie ad es so, se tu mi gettassi uno dei tuoi giavellotti, non potrebbe farmi alcun male».

«Non sono passati quindici giorni da che ricevetti questo equipaggiamen to da re Artù, quando mi rivestì dell’ordine della cavalleria, che è il più nobi le e trionfante che Dio abbia creato. Ma rivelami, se lo sai, cos’è accaduto ai cinque uomini e alle tre pulzelle che inseguo. Procedono al passo, o stanno fuggendo?»«Signore, al di là dei grandi boschi che circondano questa collina c’è una valle dove i mezzadri e i villani di mia madre seminano e erpicano. Essi vi di ranno se coloro che inseguite sono passati di là».

«In questo caso, che Dio preservi i cervi e le cerve dall’aver dei giachi! Ma siete nato così?» «No davvero, valletto. Sei troppo sciocco». «E chi vi donò dunque questi begli abiti?»

A tali parole, i cavalieri diedero di sprone e se ne andarono al galoppo, lasciando Perceval tutto sognante. Perceval se ne ritornò lentamente al maniero dove la madre, che aveva il cuore cupo e dolente a causa del suo ritardo, lo strinse a sé chiamandolo «bel figliolo, bel figliolo» più di cento volte. «Signora» egli disse «oggi ho provato una grande gioia. Non m’avete spes so detto che gli angeli di Nostro Signore Iddio sono sì belli che mai la natura fece creature più attraenti? Io ne ho incontrati nella Guasta Foresta. M’han detto che il loro nome è cavalieri e che l’ordine della cavalleria è il più nobile che Dio abbia istituito in questo mondo».

«No davvero! Colpisce da vicino coloro contro cui si combatte». «I miei giavellotti valgon dunque di più, che raggiungono bestie e uccelli da tanto lontano quanto un tiro di freccia». «Non so che farmene di tutto ciò. Rispondi alla mia domanda». Ma il giovanetto toccava il bordo dello scudo. «A cosa vi serve questo?» «Ecco meraviglia! Bello e dolce amico, pensavo di imparare qualcosa da te, ma sono io che t’insegno. Ciò che porto si chiama scudo: quando mi vogliono ferire, è lo scudo che mi protegge».

«Volete dire che lanciate quella cosa come io faccio con i miei giavellotti?»

RE E CAvAl IERI258

«No, in fede mia! Non sono che un cavaliere. Ma dimmi, hai visto passare di qui cinque uomini e tre pulzelle?»

«Ahimè» disse la madre piangendo «sono maledetta! Ecco dunque ch’è avvenuto quanto temevo di più! Bello, dolce figliolo, quegli angeli cattivi che avete incontrato uccidono tutto quanto possono toccare. Dio vi guardi dalla loroEdcavalleria!»ellaglinarrò

pERCE vAl Il GAllEsE 259

cos’era accaduto ai fratelli e al padre, come ha già detto il racconto. Ma Perceval le rispose solo: «Madre, vi prego di darmi da mangiare, ché ho gran fame. Capisco ben po co di quanto mi spiegate. Ma volentieri andrò da colui che fa cavaliere». Allora la dama comprese che non avrebbe potuto trattenerlo: se ne fu dolente, è inutile dirlo! Perceval, infatti, pensava notte e giorno agli ange li ch’aveva incontrato, e intanto deperiva in tal guisa che, poco prima della Pentecoste, la madre gli disse, sospirando: «Bel figliolo, poiché lo desiderate tanto, devo dunque lasciarvi partire! An date alla corte di re Artù e domandategli di farvi cavaliere: non ve lo rifiuterà certo quando conoscerà il vostro lignaggio1. Ahimè! Come vi aiuterete con le armi che vi donerà, senza aver mai appreso a servirvene? Ricordate almeno gli insegnamenti che vi darò. Innanzi tutto, quando troverete dama o pulzel la che abbia bisogno d’aiuto e che vi richieda d’accordarle il vostro, fatelo: ché colui che non porta onore alle dame, perde il proprio. Ma, soprattutto, rimanete casto e guardatevi dalla lussuria: se una pulzella vi dona l’anello che porta al dito o la scarsella della sua cintura, accettateli in ringraziamen to; e, se ella non vi rifiuta un bacio, potrete prenderlo; ma quanto al resto, ve lo proibisco. Bel figliolo, frequentate i valent’uomini e ricercateli ovunque si trovino; ma prima di tutto pensate a Colui che morì in croce, e non mancate d’entrare per pregare in tutte le chiese o abbazie che incontrerete, ché sono le case di Nostro Signore». Perceval promise; poi sellò il cavallino da caccia e prese i tre giavellotti; ma la madre gliene fece lasciare due, perché non avesse troppo l’aria d’un Gallese, e gli disse di portare nella mano destra una frusta. Fatto questo, egli prese congedo dalla madre e montò in sella. Ahimè! quando si fu allontanato il tiro d’una pietra, si voltò e vide ch’ella giaceva a terra, svenuta dal dolore. Pure, sferzò la cavalcatura e se ne andò a grande velocità per l’alta foresta. 1 lignaggio: stirpe, discendenza.

• La madre parte per…

3. Scegli almeno tre aggettivi per descrivere le caratteristiche del luogo in cui la madre decide di fermarsi. Per quale motivo sceglie un luogo simile?

5. Perché Perceval, dopo aver incontrato i cavalieri, è tutto sognante? Cosa è cambiato dall’inizio? Perché?

6. Infine, rileggi la parte conclusiva. Con quale sentimenti la madre accoglie e poi saluta il figlio? In particolare fai attenzione ad alcune espressioni:

• «Ecco dunque ch’è avvenuto quanto temevo di più!» Cosa è avvenuto? Perché la madre temeva tanto che accadesse?

racconto può essere diviso in tre parti: individuale e inventa un titolo per ognuna di esse che ne esprima il significato essenziale.

7. Sottolinea i consigli che la madre dà a Perceval prima della sua partenza.

• La madre avverte Perceval di…

• La madre supplica il marito di…

4. Ora concentra la tua attenzione sulla parte centrale del racconto. Con quali sentimenti Perceval osserva i cavalieri? Sottolinea nel testo le espressioni che te lo fanno comprendere.

• La madre promette a sé stessa di…

RE E CAvAl IERI1.260Il

• «Bel figliolo, poiché lo desiderate tanto, devo dunque lasciarvi partire!» Da quali segni la madre capisce che il destino di Perceval è di partire?

8. Conclusa la lettura del racconto, scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche di Perceval e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio: Perceval è …, infatti…

2. Dopo aver riletto la prima parte del racconto, ripercorri le principali azioni che la madre compie, completando le seguenti frasi:

9. Conclusa la lettura del racconto, scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche della madre e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio: La madre è …, infatti…

11. Leggi la poesia riportata di seguito e spiega in che modo essa ci fa capire ancora meglio la vicenda di Perceval. Per la dolcezza della nuova stagione i boschi mettono le foglie e gli uccelli cantano, ciascuno nella sua lingua, secondo la melodia del nuovo canto: dunque è bene che ognuno si volga a ciò che più desidera. Guglielmo IX

10. Dopo aver letto e lavorato sul testo, assegna un titolo a questo racconto per esprimerne il significato essenziale; scrivi quindi un riassunto di circa 30 righe che metta in luce quanto espresso nel titolo da te scelto.

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La vita non è poesia? Strano, perché la poesia è vita. Giovanni Casoli a cura di Adele Mirabelli, Elena Quadrio, Anna Zucchetti

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Poesie5

Le domande relative a ogni testo poetico desiderano accompagnarti in que sta ricerca del senso; e scoprire, attraverso la comprensione del significante, che questo porta in sé il significato: guardare le parole, individuare le rime e le figure retoriche sono la strada per conoscere il segreto di ogni poesia.

La provocazione del poeta Casoli suggerisce che la poesia è una delle più potenti espressioni creative dell’uomo1. La poesia lirica ha radici lontane, presso i Greci veniva recitata o cantata con accompagnamento musicale di strumenti come la lira, la cetra, il flauto. Musica e parola erano tutt’uno e l’una valorizzava l’altra. Presso i Romani la poesia si separò dalla musica e iniziò vita autonoma, per poi ritrovare, gra zie all’opera dei trovatori nel Medioevo, il sodalizio in forme poetiche come la ballata, la canzone, il sonetto che già nella loro denominazione dicono dell’associazione tra parola e musica.

1 G. Casoli, Sul fondamento poetico del mondo, L’ora d’oro, Poschiavo 2010, p. 43.

2 P. Cappello, Ogni goccia balla il tango, Rizzoli, Milano 2014, pp. 75-76.

Per arrivare a questo livello di esperienza, occorre soffermarsi sulle pa role nella loro singolarità e nel loro insieme e domandarsi: cosa mi vuole dire l’autore? cosa desidera comunicare? io cosa c’entro con l’esperienza attestata nei versi di Pascoli, Carducci, Cardarelli…?

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La poesia è vita!

Questa eredità si percepisce, nella poesia moderna e contemporanea, nell’attenzione al ritmo e alla metrica del linguaggio poetico, che rendono unica e universale questa espressione creativa: unica perché ogni testo è ir ripetibile, universale perché è espresso in un linguaggio che non ha confini e comunica pensieri, emozioni, esperienze in cui ogni uomo può riconoscersi.

Molte parole si assomigliano per come suonano e ogni suono dà una forma alla parola.Laforma delle parole, quando stanno insieme, disegna cose che sapevamo già. Pe rò ci appaiono come una scoperta, una porta che si apre, una corsa giù per lo scivolo che un po’ ci dà gioia e un po’ ci fa paura2 . Le poesie che ti proponiamo in questa sezione offrono la possibilità di ri scoprire gli elementi a te familiari della natura. Guardare, ascoltare le parole che l’autore sceglie e pone una dopo l’altra, con maestria e oculatezza, fanno sì che, passo dopo passo, si entri in quel quadro, in quella situazione, in quel panorama in cui il lettore non è più solo spettatore, ma si ritrova protagonista tanto quanto il poeta.

265p OEsIE Ti sarà proposto infine di avventurarti nell’invenzione: un disegno, una musica associabile e paragonabile alla poesia, un commento, il racconto di un’esperienza a partire dal paragone con il testo. In questa fase di lavoro, attraverso altre e diverse forme espressive, potrai dare spazio alla tua crea tività scrittoria od oratoria. La scrittura succede alla comprensione e la favo risce, permette di “prendere con te” i contenuti e le forme dei testi, ti aiuta a riflettere e a ritornare su ciò che hai imparato, fa scoprire parole ed espres sioni per meglio dire ciò che pensi e vivi.

pOEsIE266 PIERLUIGI CAPPELLO Rondine La rondine è una virgola una virgola nel cielo, una stellina singola che fa fuggire il gelo. Lei porta il buonumore delle stagioni nuove lei porta lo splendore del mondo che si muove. La vedi da quaggiù la segui con il dito ma lei non c’è già più, l’incanto è già sparito. Ogni goccia balla il tango, 2014

4. La poesia ha un ritmo simile a quello delle filastrocche, grazie allo schema delle rime. Riconoscilo nominando con una lettera uguale ogni coppia di parole in rima. Consulta poi il prontuario Strumenti del poeta per imparare il nome delle rime.

3. Una rondine è la protagonista di questo testo: rileggendo una strofa alla volta, scrivi, nella tabella sottostante, quale aspetto il poeta voglia, di volta in volta, mettere in evidenza di questo uccello. Strofa Caratteristiche della rondine terzasecondaprima

5. Dopo aver analizzato la poesia, scrivi sul quaderno un testo che ne esponga il contenuto e le modalità scelte dall’autore per metterne in evidenza gli aspetti più importanti. Per aiutarti a impostare il testo utilizza soprattutto la tabella relativa al punto 3.

2. Parlando della rondine, il poeta descrive allo stesso tempo una stagione: quale? Che caratteristiche di questo periodo vuole mettere in evidenza? Motiva la tua risposta.

pIERluIGI C AppEllO 267

1. Nella prima strofa la rondine è presentata attraverso una immagine. Quale? Che rapporto di somiglianza ha la rondine con tale immagine? Si tratta di una metafora.

tuttomavistaquasièmossad’argentodalvento;purebellaunastelladafuorisondolori,siinfosca2perunamoscasecadedentroproprionelcentrodiquellatelacomeunavela.

pOEsIE268 PIERLUIGI CAPPELLO La ragnatela Tra un ramo e l’altro il ragno scaltro1 tesse la tela: ed è una vela tutta

Ogni goccia balla il tango, 2014 1 scaltro: astuto, sveglio. 2 si infosca: diventa scuro, è causa di preoccupazione.

5. Scrivi lo schema delle rime della poesia. Che tipo di rime ha usato l’autore del testo? Osserva ora l’accento delle parole finali di ogni verso, su quale sillaba cade? Che tipo di ritmo rime e accenti danno alla poesia?

4. Come cambia la descrizione della tela del ragno da questa nuova prospettiva? Perché?

pIERluIGI C AppEllO 269

1. A cosa viene paragonata la ragnatela tessuta dal ragno?

3. L’autore descrive la ragnatela anche «da dentro»: quale punto di vista assume?

6. Sarà capitato anche a te di accorgerti di qualcosa di nuovo riguardo a una situazione o a una persona che hai cominciato a guardare da “un nuovo punto di vista”. Racconta.

2. La ragnatela, vista «da fuori», è bella. Sottolinea i passaggi del testo che mettono in evidenza questa sua qualità.

pOEsIE270 PIERLUIGI CAPPELLO

La pioggia Questa pioggia è da ascoltare, è il concerto delle gocce: fatto in battere o in levare1 suona note dolci o chiocce.2 Fruscian gocce sopra il prato, tamburellano le foglie ridon tutte sul selciato3 piange il vetro che le accoglie. Sembra quasi dire il cielo sono triste e allora piango, ma in compenso, in parallelo, ogni goccia balla il tango,4 molte scendon le grondaie tristi alcune, alcune gaie. Ogni goccia balla il tango, 2014 1 in battere o in levare: sull’accento forte (battere) o sull’accento debole (levare). Il riferimento al linguaggio musicale suggerisce la musicalità della pioggia. 2 chiocce: rauche, stridule, sgradevoli (aggettivo derivato dal verbo latino glocīre, di origine onomatopeica). 3 selciato: pavimentazione di pietra che ricopre strade e cortili. 4 tango: danza popolare di origine argentina, basata solitamente su un ritmo binario, particolarmente ritmata ed espressiva.

7. Descrivi un altro fenomeno naturale dotato di particolare sonorità, mantenendo la struttura della poesia di Cappello e modificando solo alcune parole. Ad esempio, se volessi descrivere il vento potresti iniziare così: Questo vento è da ascoltare, è il concerto delle foglie…

4. Segna lo schema delle rime della poesia e sottolinea la sillaba accentata in ogni parola a fine verso: cosa puoi notare?

3. La pioggia viene descritta, negli ultimi versi, da due differenti punti di vista, quello del cielo e quello delle gocce. Che caratteristiche hanno questi due sguardi?

6. Dopo aver analizzato la poesia, scrivi sul quaderno un testo che ne esponga il contenuto e le modalità scelte dall’autore per metterne in evidenza gli aspetti più importanti. Per aiutarti a impostare il testo utilizza soprattutto la tua riposta alla domanda 1.

1. Il poeta dice che la pioggia è «da ascoltare»: sottolinea nel testo le parole che descrivono il suono della pioggia e quelle che appartengono al linguaggio musicale. Riportale sul quaderno e spiegale: che caratteristiche ha il suono della pioggia?

2. Il poeta accosta ai suoni descritti un’immagine visiva: «piange il vetro che le accoglie». Cosa significa questa personificazione? Quale paragone contiene?

5. Il ritmo della poesia ricorda quello del tango, cui il poeta fa riferimento anche nel titolo della raccolta da cui è tratta. Con la collaborazione del docente di musica ascolta un tango e prova a confrontare il ritmo della poesia con quello della musica.

pIERluIGI C AppEllO 271

pOEsIE272 MARINO MORETTI

Un fungo Il cielo ride un suo riso turchino1, benché senta l’inverno ormai vicino; il bosco scherza con le foglie gialle, benché l’inverno senta già alle spalle; ciancia2 il ruscel col rispecchiato cielo benché senta nell’onda il primo gelo e sorto è appiè3 d’un pioppo ossuto e lungo un fiore strano, un fiore a ombrello: un fungo 1 riso turchino: l’aggettivo turchino, che indica il colore azzurro, è associato all’azione del ridere. Si tratta di una sinestesia (per la sua definizione vedi il prontuario Strumenti del poeta). 2 ciancia: chiacchiera, scherza su cose futili, di poca importanza. 3 appiè: grafia unità di ‘a piè’ (ai piedi di).

2. Riconosci e spiega le figure retoriche (metafora, sinestesia, personificazione) contenute nei versi: «il cielo ride un suo riso turchino» e «ciancia il ruscello col rispecchiato cielo».

4. Descrivi il ritmo della poesia (lento, solenne, rapido, vivace, dolce, concitato, cadenzato…). Per rispondere osserva: • le rime • il rapporto tra versi e frasi: a ogni verso corrisponde una frase o sono presenti enjambement? Per la definizione vedi il prontuario Strumenti del poeta.

6. Dopo aver analizzato la poesia, scrivi sul quaderno un testo che ne esponga il contenuto e le modalità scelte dall’autore per metterne in evidenza gli aspetti più importanti. Per aiutarti a impostare il testo utilizza soprattutto le tue riposte alle domande 1, 3 e 5.

3. Spiega il valore della congiunzione benché nei diversi enunciati seguendo lo schema dell’esempio: Il cielo ride un suo riso turchino benché senta l’inverno ormai vicino. È usata la congiunzione benché perché solitamente in inverno il cielo è cupo e grigio.

7. Descrivi un’altra stagione e un elemento che la contraddistingue, mantenendo la struttura della poesia di Moretti e modificando solo alcune parole. Ad esempio, se volessi descrivere la primavera: Il cielo sorride un sorriso balzano, perché sente l’inverno ormai lontano…

MARINO MORETTI 273

1. Di quale stagione parla la poesia? Quali passaggi del testo te lo fanno capire? Sottolineali.

5. Come entra in scena il fungo? A cosa viene paragonato?

pOEsIE274 MARINO MORETTI

La prima pioggia Scendon le gocce della prima pioggia che sui selciati1 ancor timida batte, mentre settembre lietamente sfoggia2 l’ardire3 delle sue bacche scarlatte4. È dolce il chiacchierìo di tante foglie in capannelli5 sugli alberi spessi come quello che fan sopra le soglie le comari che parlan d’interessi6 E invece tante foglie chiacchierine parlano dell’autunno che ritorna e che, sotto la pioggia fine fine, di pampini7 e di bacche agile s’orna. 1 selciati: pavimentazioni di pietra che ricoprono strade e cortili. 2 sfoggia: mette in mostra. 3 ardire: verbo sostantivato che significa l’osare, il coraggio. 4 scarlatte: di colore rosso acceso. 5 capannelli: gruppetti di persone. 6 le comari che parlan d’interessi: le vicine di casa, riunite a piccoli gruppi, chiacchierano di ciò che a loro più interessa. 7 pampini: foglie della vite. Si legge pàmpini.

4. Come spieghi che l’autore abbia scelto come titolo della poesia La prima pioggia? Quale titolo avresti dato tu?

2. Quali elementi hanno in comune le foglie e le comari?

MARINO MORETTI 275 1. Quali colori e rumori vengono esplicitamente citati nella poesia per descrivere l’autunno?

3. Individua le personificazioni presenti nel testo completando la tabella: Elemento naturale Quale comportamento umano ha? la l’autunnolelesettembrepioggiabacchefoglie

5. Descrivi un paesaggio autunnale (rumori, colori, odori…) facendo uso della personificazione, sul modello della poesia di Moretti.

pOEsIE276 ALDO PALAZZESCHI

1 esiguo: scarso, esile. Dal verbo latino exigĕre ‘pesare’, quindi ‘che pesa poco’. 2 a un dipresso: pressappoco. 3 occhieggia: rivolge occhiate di tanto in tanto.

Rio Bo Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo1 ruscello: Rio Bo, un vigile Microscopicocipresso.paese, è vero, paese da nulla, ma però… c’è sempre disopra una stella, una grande, magnifica stella, che a un occhieggiadipresso…23conlapunta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chi sa se nemmeno ce l’ha una grande città. Poemi, 1909

2. Sottolinea nel testo le parole che mettono in risalto che Rio Bo è «un paese da nulla».

5. Al verso 7 il significato di ma è rafforzato da un’altra congiunzione avversativa: però. Perché il poeta ha fatto questa particolare scelta linguistica?

6. Abiti in una grande città o in un piccolo paese? Descrivi il luogo in cui vivi mettendo in risalto ciò che lo rende unico ai tuoi occhi, come ha fatto Palazzeschi con Rio Bo.

4. Di chi è innamorata la stella? Cosa si intende con questa personificazione?

AlDO pAl A zzEsChI 277

3. Cosa vuole comunicare il poeta quando scrive che la stella «occhieggia» con il cipresso di Rio Bo?

1. Come è fatto il paese di Rio Bo? Descrivilo e rappresentalo in un disegno.

7. Ti piace la città o il paese in cui vivi? Descrivilo, mettendo in evidenza qualcosa che lo renda un luogo interessante da visitare.

Di nubi grigie a un tratto il ciel fu sporco; e il tuono brontolò con voce d’orco. Si cacciò avanti, lungo lo stradone, carta foglie ed uccelli il polverone. Si udirono richiami disperati, tonfi d’imposte e d’usci sbatacchiati. Si vider donne lottare in un prato con gli angeli impauriti del bucato. Poi seminò1 la pioggia a piene mani tetti e vie di danzanti tulipani; tagliò il paesaggio, illividì2 ogni cosa in un polverìo d’acqua luminosa. Quando si stava inebetiti3 e fissi come sull’orlo d’infuocati abissi dove il mondo pareva andar sommerso; il cielo sulle case era già terso4, e nei vetri appannati del tinello5 risorrise il paese ad acquarello: sulla campagna dolcemente crespa6 ronzò7 la chiesa d’oro come vespa. Non rimaneva dell’orrendo schianto che il gocciare di musicale pianto della gronda, già buono già tranquillo: lo raccolse morente8 il bruno grillo. Coi tamburini gracili di pelle le rane lo portarono alle stelle. Il flauto magico, 1932 1 seminò: cosparse. 2 illividì: diventò di colore grigio-verdastro. 3 inebetiti: stupiti e storditi al tempo stesso. 4 terso: perfettamente limpido. 5 tinello: stanza da pranzo. 6 crespa: ondulata. 7 ronzò: emise un suono sordo e vibrante (il suono delle campane). 8 morente: che sta per finire. Si riferisce al gocciare della gronda.

pOEsIE278 CORRADO GOVONI Acquazzone

• nei vetri appannati risorrise il paese ad acquarello • ronzò la chiesa d’oro come vespa • non rimaneva che il gocciare di musicale pianto della gronda

• (la pioggia) tagliò il paesaggio

CORRADO GOvONI 279

3. L’acquazzone è una pioggia impetuosa, ma breve. Rintraccia nel testo le parole che sottolineano la brevità di questo fenomeno.

5. La poesia è ricca di metafore e personificazioni particolarmente efficaci. Spiega il significato di quelle di seguito riportate, seguendo l’esempio: Di nube grigie a un tratto il ciel fu sporco Le nuvole grigie sembrano una macchia che sporca il cielo, inizialmente •azzurro.iltuono brontolò con voce d’orco

• si vider donne lottare con gli angeli impauriti del bucato

• seminò la pioggia a piene mani tetti e vie di danzanti tulipani

4. Come cambia il paesaggio al termine dell’acquazzone? Riproduci sul tuo quaderno una tabella simile a quella dell’esercizio 1 e completala, facendo riferimento al contenuto delle ultime sei strofe.

1. Quali segnali preannunciano l’arrivo di un acquazzone? Completa la tabella: Che cosa vede il poeta? Che cosa sente il poeta?

2. Improvvisamente comincia a piovere. Quali verbi e quali immagini usa il poeta per descrivere il cadere fitto della pioggia? Elencali e spiegane il significato.

6. Descrivi un fenomeno naturale che ti ha colpito per la sua forza e imponenza. Sul modello di Govoni usa metafore e personificazioni che facciano capire in modo più efficace ciò che vuoi dire.

7. Attivando il senso della vista, dell’udito e dell’olfatto descrivi immagini, suoni, profumi di un temporale in arrivo. Inserisci nel testo alcune metafore sul modello di Govoni.

pOEsIE280 VINCENZO CARDARELLI Autunno Autunno. Già lo sentimmo venire nel vento d’agosto, nelle pioggie di settembre torrenziali e piangenti, e un brivido percorse la terra che ora, nuda e triste, accoglie un sole smarrito. Ora passa e declina, in quest’autunno che incede1 con lentezza indicibile, il miglior tempo della nostra vita e lungamente ci dice addio. Giorni in piena, 1934 1 incede: avanza, si avvicina.

3. Individua e trascrivi il soggetto del periodo che inizia con «Ora passa e declina»: di cosa sta parlando il poeta?

vINCENzO C ARDAREll I 281 1. Da quali segni il poeta coglie, già in estate, l’avvicinarsi dell’autunno?

2. Nei primi versi il poeta attribuisce caratteristiche e azioni umane ad alcuni elementi della natura (personificazione). Completa la tabella sottostante inserendo quali caratteristiche vengono attribuite a ciascun elemento e il loro significato. Elemento naturale Caratteristiche Significato piogge di settembre piangenti scroscianti

5. Ascolta la prima parte (I movimento) dell’Autunno tratto da Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi. In che modo il musicista descrive questa stagione? Quali differenze cogli tra queste due modalità di “racconto” dell’autunno? Motiva le tue osservazioni.

4. Rileggi tutto il testo: spiega, alla luce del lavoro appena svolto, di quali significati si arricchisce via via il titolo Autunno.

pOEsIE282 VINCENZO CARDARELLI Febbraio Febbraio è sbarazzino. Non ha i riposi del grande inverno, ha le punzecchiature1, i didispettiprimavera che nasce. Dalla bora di febbraio requie2 non aspettare. Questo mese è un ragazzo fastidioso, irritante che mette a soqquadro la casa, rimuove il sangue, annuncia il folle marzo periglioso3 e mutante. Giorni in piena, 1934 1 punzecchiature: stimoli, richiami. 2 requie: riposo. 3 periglioso: pericoloso, pieno di imprevisti.

5. Ti riconosci nelle caratteristiche che il poeta ha scelto per descrivere un ragazzo? Altrimenti, quali utilizzeresti? Racconta un episodio per avvalorare la tua risposta.

4. Torna al primo verso: ora che hai ripreso tutta la poesia, puoi capire meglio il significato dell’aggettivo sbarazzino attribuito a febbraio? Spiega questa espressione alla luce degli elementi raccolti nell’analisi.

1. Cerca sul vocabolario il significato dell’aggettivo sbarazzino e trascrivilo sul quaderno.

vINCENzO C ARDAREll I 283

3. L’ultimo enunciato è costruito su una metafora: a cosa è paragonato febbraio? Riporta le parole che descrivono questo elemento.

7. C’è un oggetto tra quelli da te individuati che potrebbe rappresentarti? Descrivilo e spiega la tua scelta.

2. Rileggi i versi 2-7: quali sono le caratteristiche che il poeta attribuisce al mese di febbraio?

6. Il mese di febbraio viene descritto attribuendogli caratteristiche umane. Nel film d’animazione di Walt Disney La bella e la bestia accade il contrario: i personaggi del castello della Bestia sono trasformati in oggetti che ne rispecchiano le caratteristiche principali. Riguarda il film e scegli poi tre personaggi, descrivendone le caratteristiche, facendo emergere il legame con l’oggetto in cui sono stati trasformati.

1 irti: aspri, appuntiti. Probabilmente il poeta usa questo aggettivo riferendosi agli alberi acuminati che ricoprono queste colline. 2 maestrale: vento freddo di nord-ovest.

5 ceppi: grossi pezzi di tronco che si bruciano nel camino. 6 esuli: ‘in esilio’, quindi che vanno lontano. 7 vespero: ora in cui scende la sera, il tramonto.

San Martino La nebbia a gl’irti1 colli piovigginando sale, e sotto il maestrale2 urla e biancheggia3 il mar. Ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini4 va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar. Gira su’ ceppi5 accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar tra le rossastre nubi stormi di uccelli neri, com’esuli6 pensieri, nel vespero7 migrar. Rime nuove, 1887

3 biancheggia: appare, diventa bianco. Il suffisso -eggiare, che rende l’aggettivo bianco un verbo, dà un’idea movimentata, cangiante, non uniforme della bianchezza. 4 dal ribollir de’ tini: a causa della fermentazione dell’uva pigiata nei tini (grandi recipienti di legno).

pOEsIE284 GIOSUÈ CARDUCCI

6. Seguendo l’esempio di Carducci descrivi un paesaggio: scegli un particolare punto di osservazione, annota su un foglio gli elementi più significativi e le sensazioni che provi durante l’osservazione. Componi un testo inserendo anche una o più similitudini.

1. Sottolinea i verbi della prima strofa e collegali ai rispettivi soggetti. Descrivi e rappresenta con un disegno poi, sul quaderno, il paesaggio descritto dal poeta.

4. Nella terza strofa viene inserita la figura di un cacciatore: che azioni sta compiendo? Di che stato d’animo esse possono essere segno?

GIOsuè C ARDuCCI 285

5. Perché, nell’ultima strofa, «stormi di uccelli neri» sono paragonati con una similitudine, a «esuli pensieri»?

2. Dalla seconda strofa la descrizione si sposta in un borgo e il poeta sottolinea questo passaggio mettendo la congiunzione ma proprio in posizione iniziale (della strofa, del verso e dell’enunciato). Quale contrapposizione viene messa in evidenza?

3. Nella sua descrizione il poeta ha coinvolto diverse sfere sensoriali: riporta nella tabella le parole o le espressioni relative a ciascun senso. Sfera sensoriale Testo Vista La nebbia sale, il mare biancheggia… TattoGustoOlfattoUdito

Lungo la strada vedi su la siepe ridere a mazzi le vermiglie bacche1: nei campi arati tornano al presepe2 tarde3 le vacche. Vien per la strada un povero che il lento passo tra foglie stridule4 trascina5: nei campi intuona una fanciulla al vento: fiore di spina!… Myricae, 1891-1903 1 vermiglie bacche: bacche di ginepro. 2 presepe: stalla. 3 tarde: lente. 4 stridule: aggettivo derivato dal verbo ‘stridere’, significa che il rumore delle foglie calpestate è ‘aspro, acuto, penetrante’. 5 stridule trascina: da notare la ripetizione di tr (allitterazione) che fa percepire l’asprezza del suono delle foglie calpestate.

pOEsIE286 GIOVANNI PASCOLI Sera d’ottobre

2. Nella prima strofa si descrive un paesaggio, nella seconda si introducono dei personaggi: chi sono? Cosa fanno e quali differenze noti tra i due?

GIOvANNI pA sCOl I 287 1. In questa poesia è come se l’autore, attraverso le parole, scattasse una fotografia e ti chiamasse a osservare insieme a lui (vedi). Sottolinea le parole che ti permettono con rapidi tratti di riconoscere la stagione, il momento della giornata, il luogo.

4. Scatta una fotografia in cui si possa cogliere di un luogo la stagione, il momento della giornata, alcuni elementi naturali e personaggi. Sul modello della poesia di Pascoli, descrivi a parole ciò che vedi.

3. Negli ultimi due versi della prima strofa l’autore fa uso dell’enjambement: secondo te attraverso questa figura retorica, che troverai in tante altre poesie, il poeta cosa vuole comunicare al lettore? C’è un altro enjambement nella poesia? Che finalità ha?

pOEsIE288 GIOVANNI PASCOLI Il lampo E cielo e terra si mostrò qual era: la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera. Myricae, 1891-1903

GIOvANNI pA sCOl I 289

5. Scegli un altro elemento naturale che porta scompiglio (raffica di vento, scossa di terremoto, cavallone marino…) e descrivilo, inserendo nel testo climax e similitudini.

1. Quali parole descrivono la terra? Quali il cielo? Trascrivile sul quaderno e spiegane il significato, usando il dizionario. Che effetto produce la sequenza di aggettivi accumulati relativi prima alla terra e poi al cielo? Per rispondere consulta il prontuario Strumenti del poeta alla voce climax

4. Scrivi un breve testo in cui presenti te stesso ai tuoi compagni. Usa la similitudine per descrivere alcune tue caratteristiche fisiche o particolari aspetti del tuo carattere.

3. Che legame c’è tra questa similitudine e il titolo della poesia? Noti degli elementi che fanno percepire la rapidità del lampo?

2. Il poeta rappresenta l’apparire della casa attraverso una similitudine. Riporta sul quaderno i due termini messi a confronto e spiega cosa hanno in comune.

pOEsIE290 GIOVANNI PASCOLI Il tuono E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo1 dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò2 rinfranto, e poi vanì3. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto di una culla. Myricae, 1891-1903 1 arduo: ripido. 2 rimareggiò: tornò indietro, come un’onda del mare. 3 vanì: scomparve.

2. Scegli la parola che, nel testo, ti sembra rappresentare meglio il tuono e motiva la tua risposta.

3. Quali consonanti vengono ripetute nei versi che descrivono il rombo del tuono (allitterazione)? Perché proprio quelle?

6. Scegli un fenomeno naturale il cui suono sia ben riconoscibile. Annota le consonanti che useresti per riprodurne il suono e poi scrivi, seguendo il modello di Il tuono un breve testo che lo descriva con parole contenenti i suoni che hai individuato.

GIOvANNI pA sCOl I 291

4. Nei versi finali della poesia il ritmo diventa più lento e i suoni più dolci. Che cosa succede?

1. Sottolinea tutti i verbi presenti nella poesia. A quale dei cinque sensi si riferiscono, prevalentemente?

5. La pubblicità ricorre spesso alle figure retoriche per rendere più incisivo e più comprensibile un messaggio, oppure, semplicemente, per far sì che questo sia facilmente ricordato. Cerca uno o più spot pubblicitari che facciano uso, a questo scopo, dell’allitterazione. Riconosci le allitterazioni presenti nel messaggio e prova a descrivere quale effetto hanno sul destinatario della pubblicità.

pOEsIE292 GIOVANNI PASCOLI Temporale Un bubbolìo lontano… Rosseggia l’orizzonte, come affocato, a mare: nero di pece, a monte, stracci di nubi chiare: tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano. Myricae, 1891-1903

1. Con quale evento si apre la poesia? Cosa ti permette di capirlo?

GIOvANNI pA sCOl I 293

6. Inventa un breve racconto che contenga almeno cinque onomatopee tra quelle di seguito proposte. Suoni Versi di animali Verbi Nomi din don patapum- - toc toc - drineccì - splashtic tac - cracbang - bla bla miagolare - ulularegracidare - belarecinguettare - grugniremuggire frusciare - gorgogliaresussurrare - balbettareborbottare - sfrigolarebisbigliare ticchettìo - tonfoboato - clangoretintinnìo - ronzio

7. Cerca un’immagine che rappresenti un altro fenomeno naturale (una nevicata, un fiume in piena, il vento tra i salici…). Individua alcune parole onomatopeiche che ne ricordino i suoni e scrivi un componimento sul modello di Temporale, ponendo particolare attenzione a suoni e colori.

4. Nel testo è presente una onomatopea: consulta il prontuario Strumenti del poeta per ritrovarne la definizione, sottolinea la parola onomatopeica nel testo, cercane il significato sul vocabolario, quindi trascrivilo sul quaderno.

2. Su cosa si posa, successivamente, lo sguardo del poeta?

3. Quali sono i colori dominanti nel paesaggio? Il poeta rappresenta questi colori attraverso dei paragoni: trascrivili.

5. Rileggi la poesia e poni attenzione ai verbi: quanti sono? Di che tipo? Che cosa ti suggerisce tale scelta del poeta?

pOEsIE294 GIOVANNI PASCOLI Orfano

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. Senti: una zana1 dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. La vecchia canta: intorno al tuo lettino c’è rose e gigli, tutto un bel giardino. Nel bel giardino il bimbo s’addormenta. La neve fiocca lenta, lenta, lenta. Myricae, 1891-1903 1 zana: culla

7. Immagina di essere tu a dover cantare una ninna nanna a un bimbo più piccolo: inventane il testo, utilizzando le figure metriche e retoriche incontrate nella poesia Orfano

8. Orfano, vecchia, neve… Immagina una scena in cui siano presenti questi tre elementi: descrivila, aggiungendo altri elementi ad essa pertinenti.

3. Individua lo schema delle rime della poesia, aiutandoti con il prontuario Strumenti del poeta

4. La poesia sembra una ninna nanna. Quali elementi le donano questo carattere?

1. Rileggi il primo e l’ultimo verso: cosa puoi notare della disposizione degli elementi delle frasi? Per rispondere, leggi nel prontuario Strumenti del poeta ciò che viene spiegato della figura del chiasmo e rintraccia i chiasmi presenti nella poesia. Cosa mettono in evidenza queste figure retoriche nella poesia?

GIOvANNI pA sCOl I 295

6. Descrivi la scena raffigurata dalla poesia: per aiutarti, puoi riprodurla attraverso un disegno.

5. Il poeta, al secondo verso, chiama direttamente in causa il lettore chiedendogli di prestare attenzione a ciò che sente («Senti:»). Segui la sua indicazione e ritrova nel testo tutte le parole che fanno riferimento a suoni e rumori della scena descritta.

2. L’epanalèssi è una figura retorica che consiste nella ripetizione della stessa parola in una frase. La puoi trovare in questa poesia? Dove? Che cosa ci fa percepire della neve?

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero1 resta un aratro senza buoi, che pare dimenticato, tra il vapor leggiero. E cadenzato dalla gora2 viene lo sciabordare3 delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene4 Il vento soffia e nevica la frasca5, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese6. Myricae, 1891-1903 1 mezzo grigio e mezzo nero: grigia è la parte di campo non arato, nera quella arata, scura per la terra smossa. 2 gora: canale. 3 sciabordare: il rumore dei panni tuffati nell’acqua. 4 lunghe cantilene: le donne, mentre lavano i panni, intonano un canto. La strofa che segue è il testo di un canto popolare. 5 nevica la frasca: dal ramo (frasca) cadono le foglie, come cade la neve. 6 maggese: campo non ancora seminato.

pOEsIE296 GIOVANNI PASCOLI Lavandare

GIOvANNI pA sCOl I 297

6. Nel descrivere la scena, quali sentimenti vengono comunicati dal poeta? Quali elementi te li fanno percepire?

1. Il quadro di Renoir si intitola Le lavandare e raffigura quello che Pascoli descrive con le parole. Paragonando le due opere, trova elementi di somiglianza e di differenza. Renoir Le lavandare, 1888 ca.

8. Descrivi anche tu una scena tipica della vita contadina, lontana dalle comodità della moderna vita di città, mettendo in particolare risalto i suoi colori e suoni.

4. Nella terza strofa l’autore riporta il testo di un canto popolare: chi sono i protagonisti di questo canto?

5. Leggi a voce alta la composizione e poni attenzione alle differenze che intercorrono tra la sintassi (il ritmo delle frasi) e la metrica (il ritmo dei versi): che differenze noti? Dopo aver consultato il prontuario, ritrova gli enjambement presenti nella poesia e scopri quali parole essi mettono in risalto.

7. La poesia parla di donne che cantano mentre svolgono il loro faticoso lavoro. Racconta un episodio in cui hai affrontato con soddisfazione una attività particolarmente impegnativa (studio, sport…).

2. Nella prima strofa sottolinea i verbi: che immagine ci comunica il poeta?

3. La seconda strofa interpella la sfera sensoriale dell’udito: sottolinea le parole che ci fanno sentire i suoni della scena descritta.

pOEsIE298 GIOVANNI PASCOLI

1 roggio: di color rosso. 2 pàmpano: foglia di vite. 3 fratte: cespugli, siepi. 4 porche: le strisce di terra tra i due solchi. 5 marra: piccola zappa. 6 pazïente: aggettivo attribuito alla marra, ma che idealmente si riferisce al contadino (ipallage). 7 ché: così che. 8 saputo: esperto, con l’aria di chi la sa lunga. 9 moro: gelso.

Arano

Al campo, dove roggio1 nel filare qualche pampano2 brilla, e dalle fratte,3 sembra la nebbia mattinal fumare, arano: a lente grida, uno le lente vacche spinge; altri semina; un ribatte le porche4 con sua marra5 pazïente6; ché7 il passero saputo8 in cor già gode, e il tutto spia dai rami irti del moro9; e il pettirosso: nelle siepi s’ode il suo sottil tintinno come d’oro. Myricae, 1891-1903

GIOvANNI pA sCOl I 299 1. Partiamo dal titolo: Arano è un nome, un verbo o un aggettivo?

6. Riproduci per ogni singola strofa un disegno che la rappresenti e riporta per ogni quadro i versi che meglio lo descrivono.

2. La poesia si divide in tre strofe, e ogni strofa introduce nella descrizione elementi differenti: riconosci quali sono i soggetti del “quadro” descritto dal poeta.

4. Nel verso 10 le espressioni sottil tintinno e come d’oro costituiscono rispettivamente una sinestesia e una similitudine. A cosa si riferiscono? Quali caratteristiche esaltano di ciò che «s’ode»?

7. Riscrivi la poesia in un testo in prosa; poni particolare attenzione ai soggetti dei tre “quadri”.

3. L’operazione dell’aratura viene scomposta nelle sue singole azioni: elencale.

5. Torniamo al titolo: a seguito del lavoro appena svolto, cosa ti suggerisce il titolo della poesia? Che significato contiene?

pOEsIE300 GIOVANNI PASCOLI Novembre

Gemmea1 l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo2 l’odorino amaro senti nel cuore… Ma secco è il pruno3, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno, e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante sembra il terreno. Silenzio, intorno: solo, alle ventate, odi lontano, da giardini ed orti, di foglie un cader fragile. È l’estate, fredda, dei morti.4 Myricae, 1891-1903 1 gemmea: aggettivo che significa ‘limpida come una gemma’. 2 prunalbo: arbusto chiamato anche biancospino. 3 pruno: pianta dalle foglie rossicce. 4 l’estate, fredda, dei morti: si riferisce alla cosiddetta estate di San Martino che segue la solennità cristiana dei defunti. Puoi notare l’accostamento di due termini estate e fredda, tra loro solitamente contrastanti (ossimoro).

3. La poesia suscita immagini visive, olfattive, acustiche che si intrecciano tra loro. Annota le parole e le espressioni che si riferiscono: • alle sensazioni visive • alle sensazioni olfattive • alle sensazioni acustiche.

2. Nella terza strofa l’autore, attraverso suoni (allitterazione del suono f) e parole («silenzio, solo, lontano, fragile, fredda, morti»), non solo descrive un momento dell’anno ma ne comunica anche un significato: trova una parola o un’espressione che lo esprima sinteticamente.

4. Quale stagione dell’anno prediligi? Descrivila nei suoi elementi naturali più caratteristici e rendi ragione della tua preferenza.

GIOvANNI pA sCOl I 301

1. Ritrova e trascrivi gli elementi naturali descritti nella prima strofa e quelli descritti nella seconda strofa: quali sono le differenze? C’è una parola che rivela sinteticamente la distanza tra i due “quadri” descritti?

5. Osserva un albero nella stagione in cui ti trovi in questo momento e rappresentalo, prima attraverso una descrizione in prosa, poi attraverso un testo poetico, infine attraverso un disegno. Quali differenze noti tra le tre forme espressive da te usate? Quale è più affine a te e quale ritieni più adeguata alla rappresentazione di un albero? Perché?

Fatalità, 1892

pOEsIE302 ADA NEGRI Nevicata Sui campi e su le strade silenzïosa e

2 immote: immobili, dal latino in-motus ‘senza movimento’.

4 oblìo: dimenticanza, perdita di memoria.

3 cippi: pilastri o pietre usate per indicare il confine di un campo.

5 sopito: addormentato, che ha perso intensità.

1 falda: lembo di stoffa; in questo caso indica i fiocchi di neve.

suisuiInstanca.poineDanzacade.volteggiando,lieve,lanevelafalda1biancal’ampiocielscherzosa,sulterrensiposamilleimmote2formetettiesuicamini,cippi3eneigiardinidorme.Tuttodintornoèpace:chiusoinoblìo4profondo,indifferenteilmondotace…Manelacalmaimmensatornaairicordiilcore,eadunsopito5amorepensa.

3. L’ultima strofa inizia con la congiunzione ma, che sottolinea un cambiamento rispetto al contenuto delle strofe precedenti. In cosa consiste questa differenza?

ADA NEGRI 303

6. Racconta di una giornata in cui hai potuto vivere in prima persona una bella nevicata.

1. Sottolinea gli aggettivi e i verbi usati per descrivere la neve: quali caratteristiche mettono in evidenza?

5. Osserva questa fotografia: anche in questo caso la neve è protagonista. Quali somiglianze o differenze puoi trovare confrontando la poesia e la fotografia? Quale rappresentazione della neve ti è più familiare? Motiva la tua risposta.

2. L’autrice afferma che, quando nevica, il mondo è «indifferente». Cerca l’etimologia di questo aggettivo e spiega il significato che esso assume nel contesto in cui è inserito.

4. Osserva come sono costruite le strofe: fai attenzione, in particolare, al numero e alla lunghezza dei versi, contando da quante sillabe sono composti. Che effetto produce, dal punto di vista del ritmo e del significato, questa struttura della poesia?

Stanotte udii, fra veglia e sonno, un canto lieve, sommesso, e pur vasto siccome il vasto mondo; e mi pareva nel sogno di navigare in barca senza remi su grigio mare, dentro un vel di pioggia. Era la pioggia, sì; ma sovra un mare di fronde1 mormoranti di felice ristoro2 nelle tenebre: la prima pioggia d’autunno, dopo un’arsa estate tutta febbre di sole; ed or s’ostina nell’alba smorta, ed ogni albero piange che la riceve. Ma quel pianto è riso, profondo, inestinguibile: di donna che troppo attese, ed or non sa se gioia o dolore è l’amplesso3 che l’avvolge.

pOEsIE304 ADA NEGRI Pioggia d’autunno

Vorrei, pioggia d’autunno, esser foglia, abbandonarmi al tuo scrosciare, certa che non morrò, che non morrò, che solo muterò volto sin che avrà la terra le sue stagioni, e un albero avrà fronde. Il dono, 1936 1 fronde: ramoscelli con foglie. 2 ristoro: dal verbo ristorare, indica l’azione di prendere cibo o riposo per riacquistare le forze. 3 amplesso: abbraccio. 4 s’imbeve: si impregna. 5 sì: così. 6 andrà commista: si mescolerà insieme.

Vorrei, pioggia d’autunno, essere foglia che s’imbeve4 di te sin nelle fibre che l’uniscono al ramo, e il ramo al tronco, e il tronco al suolo; e tu dentro le vene passi, e ti spandi, e sì5 gran sete plachi. So che annunci l’inverno: che fra breve quella foglia cadrà, fatta colore della ruggine, e al fango andrà commista6, ma le radici nutrirà del tronco per rispuntar dai rami a primavera.

4. L’autrice più volte afferma che vorrebbe «esser foglia»: sottolinea i passaggi nei quali si riferisce a questo suo desiderio e spiega cosa vuole comunicare con tale espressione.

ADA NEGRI 305

5. Scrivi un testo che presenti la poesia: ripercorri il testo ed esponi il suo contenuto, quindi soffermati in particolare sugli aspetti che più ti hanno colpito e spiega le modalità scelte dall’autrice per metterli in evidenza.

2. La poetessa sogna di trovarsi su una barca in mezzo al mare: che cosa, nella realtà, le ha suggerito quella sensazione?

1. La poesia si apre con una metafora: che cos’è il «canto lieve, sommesso» che l’autrice sente nel dormiveglia?

3. La pioggia che bagna gli alberi viene definita un «felice ristoro», un pianto che «è riso». Perché?

6. Anche tu, come Ada Negri in questa poesia, scegli un elemento naturale per esprimere il contenuto dei tuoi desideri e un elemento naturale a cui rivolgerti per poterli esaudire (ad esempio: vorrei, vento di mare, essere onda); scrivi quindi un testo sul modello di Pioggia d’autunno attraverso il quale comunicare ciò che desideri e attendi.

pOEsIE306 ADA NEGRI Herba tenax1 Umile agli occhi e pur sì2 cara al suolo, erba tenace: che, calpesta3, tenti di raddrizzarti: tolta di fra i sassi nelle piazze vetuste4, ad essi torni più fitta: rasa dalla falce ai prati, rinasci, sempre verde e sempre nova. Chiuso nell’ombra e pur fisso5 alle stelle, cuore tenace: che, percosso, tenti nel tuo segreto d’ammortire6 il colpo: respinto, la tua via ricalchi7: ucciso, risorgi; e sì profonde hai le radici, che più ricco ti fanno in vita nova. Fons amoris, 1939-1943 1 herba tenax: in latino significa ‘erba tenace’, cioè che resiste con forza. 2 sì: così. 3 calpesta: calpestata. 4 vetuste: antiche. 5 fisso: rivolto. 6 ammortire: rendere meno forte. 7 ricalchi: ri-calchi, percorri di nuovo.

1. Nel primo verso l’autrice mette in contrapposizione due caratteristiche dell’«erba tenace»: questa, infatti, appare «umile» agli occhi, eppure è «sì cara» al suolo. Spiega il significato dei due aggettivi usati.

2. Quali esempi vengono fatti nel testo per dimostrare la capacità di resistere dell’erba?

3. Nella seconda strofa cambia l’oggetto di attenzione, infatti si parla del cuore. Quali caratteristiche del cuore vengono avvicinate alle caratteristiche dell’herba tenax? Quali somiglianze trovi nella struttura delle due strofe?

4. Racconta un episodio in cui anche tu ti sei accorto di essere stato «herba tenax».

ADA NEGRI 307

I viali nell’argentoirrigiditidelle brine, s’allungavan senza fine come zuccheri canditi1. Giù dai rami scheletriti era un vol di farfalline, eran petali e perline bianche, fiori seleniti2. Come dolce era l’andare sotto il bianco incantamento3 presso presso, e stretti al braccio… Le parole usate4 e care s’involavan5 pure al vento, … ma non erano di ghiaccio.

Poesie, 1956 1 zuccheri canditi: grossi cristalli di zucchero, che si ottengono scaldando sciroppi di zucchero cristallino. 2 seleniti: lunari, del colore del gesso. 3 incantamento: incanto, incantesimo. 4 usate: consuete, segno di familiarità 5 s’involavan: volavano via.

pOEsIE308 ERNESTO RAGAZZONI

I viali irrigiditi

6. Nella poesia emerge il contrasto tra un ambiente freddo e il calore di due persone che si vogliono bene: racconta un episodio in cui hai affrontato un contesto avverso grazie alla presenza di persone care.

3. Nella seconda strofa il poeta sta descrivendo il cadere dei fiocchi di neve attraverso delle similitudini: riportale sul quaderno e spiegale, mettendo in evidenza cosa hanno in comune i due termini di paragone.

1. Riporta nella tabella gli elementi del paesaggio descritto dall’autore e le caratteristiche messe in evidenza: Elemento Caratteristiche viali ricoperti e resi bianco argentato dalla brina

4. Nell’ultima strofa le parole che due persone si scambiano vengono paragonate ai fiocchi di neve: quali somiglianze e quali differenze hanno questi due elementi?

ERNEs TO R AGA zzONI 309

2. Qual è il colore dominante del paesaggio? In che stagione è ambientata la poesia?

5. Rileggi nuovamente il testo: che esperienza ci vuole raccontare l’autore? Motiva la tua risposta.

pOEsIE310 GIORGIO CAPRONI Marzo Dopo la pioggia la terra è un frutto appena sbucciato. Il fiato del fieno bagnato è più acre1 – ma ride il sole bianco sui prati di marzo a una fanciulla che apre la finestra. Come un’allegoria, 1936 1 acre: pungente, penetrante.

6. Quali sfere sensoriali sono coinvolte nella poesia? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le parole che ad esse si riferiscono.

1. La poesia si apre con una metafora: quale? Su quali elementi di similitudine si basa?

2. Nella seconda strofa, invece, sono presenti due personificazioni: quali? Che effetto ottiene il poeta umanizzando i due elementi naturali?

3. Perché il sole è detto essere «bianco»?

4. La poesia si chiude con una fanciulla che apre la finestra: da cosa ti immagini sia provocato questo gesto? Che cosa te lo suggerisce?

7. Guardati intorno e annota gli elementi della natura che più ti colpiscono. Descrivi, in una lettera, quello che hai osservato, provando a inserire nel testo alcune metafore e personificazioni che aiutino a rappresentare meglio ciò che vuoi dire.

5. La congiunzione avversativa ma nella seconda strofa introduce una novità rispetto a quanto detto prima, quale?

8. Dopo la pioggia: descrivi quello che vedi, senti, percepisci intorno a te. Sul modello della poesia Marzo inserisci metafore che aiutino a capire ciò che vuoi descrivere.

GIORGIO C ApRONI 311

Vento di prima estate A quest’ora il sangue del giorno1 infiamma ancora la gota2 del prato, e se si sono spente le risse e le sassaiole chiassose, nel vento è vivo un fiato di bocche accaldate di bimbi, dopo sfrenate rincorse. Come un’allegoria, 1936 1 il sangue del giorno: il colore rosso del sole. 2 gota: guancia.

pOEsIE312 GIORGIO CAPRONI

Parole della poesia in cui si trova B Bocche accaldate di bimbi Dopo aver compilato la tabella prova a dire, di volta in volta, su quale elemento il poeta vuole attirare la nostra attenzione.

4. Qual è il colore dominante della poesia? Quali parole lo richiamano? A cosa viene riferito?

2. Rileggi con attenzione i primi tre versi: che cosa vuole sottolineare l’autore con l’avverbio ancora?

6. Il testo racconta di una giornata estiva: cosa ti piace fare nei tuoi pomeriggi d’inizio estate? Ritrovi qualche aspetto di quelli descritti dal poeta? Racconta.

1. Quale paesaggio sta osservando il poeta? E in che momento del giorno? Da cosa lo capisci?

7. Fai un calco della poesia, contestualizzando però la vita estiva dei ragazzi al mattino, appena svegli.

5. Individua nel testo le numerose allitterazioni e completa poi la tabella sottostante:Suonoripetuto

3. Verso la fine della poesia il poeta parla di «bocche accaldate di bimbi»: cosa hanno fatto questi bambini durante le ore appena passate? E cosa stanno facendo nel presente della poesia?

GIORGIO C ApRONI 313

pOEsIE314 SALVATORE QUASIMODO Specchio

Ed ecco sul tronco si rompono1 gemme: un verde più nuovo dell’erba che il cuore riposa: il tronco pareva già morto, piegato sul botro2. E tutto mi sa di miracolo3; e sono quell’acqua di nube4 che oggi rispecchia nei fossi più azzurro il suo pezzo di cielo, quel verde che spacca la scorza che pure5 stanotte non c’era. Ed è subito sera, 1942 1 si rompono: germogliano, rompendo la scorza. 2 botro: fosso. 3 mi sa di miracolo: mi fa pensare al miracolo. 4 quell’acqua di nube: la pioggia (perifrasi). 5 pure: eppure fino a.

6. Il poeta racconta la sua sorpresa e meraviglia davanti ai cambiamenti della natura in primavera. Racconta un episodio in cui anche tu ti sei stupito per qualcosa che non immaginavi potesse accadere. Nel tuo racconto utilizza metafore e similitudini per rendere più efficace la descrizione della situazione e della tua reazione.

3. Perché il poeta utilizza la parola “miracolo” per esprimere quanto accade? Prima di rispondere cerca il significato e l’etimologia di tale termine sul dizionario.

1. La poesia inizia con l’esclamazione «ecco», che si usa per indicare qualcosa che appare all’improvviso. Di cosa si è accorto il poeta, che cosa desta il suo stupore?

4. Il poeta nei versi finali si paragona a «quell’acqua di nube» e a «quel verde che spacca la scorza». Rileggi la seconda strofa e completa la tabella: II termine di paragone perifrasiindicatoElementodalla dell’elementoCaratteristiche Motivo della similitudine tra il poeta e il II termine di paragone quell’acqua di nube la pioggia quel verde che spacca la scorza stanotte non c’era

7. Descrivi e narra lo sbocciare della primavera nel contesto in cui vivi andando a caccia degli indizi che l’annunciano.

5. Perché il titolo della poesia è Specchio? Per rispondere rifletti sugli elementi che hai raccolto nella tabella al punto 4.

sAlvATORE QuA sIMODO 315

2. Il verde delle gemme riposa il cuore: perché ha questo potere?

Ma quali sono gli strumenti del poeta, cioè le caratteristiche del linguag gio poetico per utilizzare la parola al vertice delle sue possibilità?

Inoltre va detto che le parole in una poesia acquistano ciascuna un’im portanza particolare: non si accontentano di dire bene una certa realtà, ma evocano altri significati, istituiscono richiami ad altre parole, ad altri aspetti della realtà, valorizzando sia la componente sonora della parola (significan te), sia il suo significato.

delstrumentiGlipoeta

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA316

a cura di Raffaela Paggi Una poesia è un tentativo molto curato di comunicare ad altri uomini un si gnificato che si ritiene degno di nota, una scoperta avvenuta circa la realtà che si intende condividere con altri uomini. E per trasmettere tale scoperta il poeta utilizza la parola al vertice delle sue possibilità, fondendo insieme alla ricerca della perfezione parola e ritmo, forma e contenuto.

Ecco un elenco delle figure retoriche presenti nelle poesie proposte in que sto volume:

Innanzitutto non si deve pensare che i poeti utilizzino parole sconosciu te o in disuso. Anzi: il poeta è colui che ben conosce le parole della sua tra dizione linguistica e sa scegliere quelle più adeguate per mettere a fuoco una certa realtà o un certo sentimento.

La ripetizione di suoni nella parola poetica per richiamare i suoni della realtà e il trasferimento di significato da una parola all’altra per indica re con più verità aspetti della realtà sono i procedimenti essenziali del lin guaggio poetico, sui quali si basano molte altre figure retoriche di suono e di senso, cioè quei procedimenti per cui parole e costrutti sono adopera ti per rendere ancora più efficace il discorso, anche allontanandosi dal loro normale uso linguistico e grammaticale.

317

Figure di suono =Allitterazione ripetizione di suoni identici in parole diverse. E nella notte nera come il nulla Pascoli La ripetizione della consonante n contribuisce a creare un’atmosfera cupa. =Anafora ripresa in forma di ripetizione di una o più parole, soprattutto all’inizio del Dalverso.greco anaphorá ‘ripetizione’, è detta anche iterazione. bianca bianca nel tacito tumulto Pascoli Onomatopea = parola che nella sua componente sonora riproduce un suono della realtà. Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando Carducci Scoppiettare è una parola onomatopeica, perché riproduce il suono dei piccoli scoppi secchi che produce il fuoco.

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA318

Figure di senso Le principali figure retoriche di senso sono la similitudine e la metafora, dalle quali derivano molte altre. =Similitudine paragone tra due elementi, accomunati da una o più caratteristiche comuni. una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera Pascoli La similitudine è fatta di tre elementi: 1. primo termine di paragone: una casa 2. secondo termine di paragone: un occhio 3. motivo della somiglianza: la casa appare e scompare alla vista, con la stessa velocità di un occhio che si apre e si chiude. =Metaforatrasferimento del significato di una parola dal senso proprio a un senso figurato che abbia con il primo un rapporto di somiglianza. Dal verbo greco metaphérein ‘portare oltre’. La rondine è una virgola una virgola nel cielo Cappello La rondine nel cielo appare con un colore e una forma simile a quella di una virgola sulla pagina.

Nelle poesie lette hai incontrato inoltre le seguenti figure retoriche: Chiasmo = disposizione incrociata degli elementi costitutivi di due sintagmi o di due Dallafrasi.

F IGuRE DI sENsO 319

lettera greca chi (c), a forma di croce. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. Pascoli bimbo piange canta vecchia persona azione azione persona Climax = intensificazione graduale di un concetto per accumulazione. il cielo ingombro, tragico, disfatto Pascoli Per descrivere la potenza del temporale, il poeta affianca tre aggettivi in ordi ne crescente di intensità, fino al disfacimento totale del cielo. Epanalessi = ripetizione di una o più parole nella stessa frase per dare risalto al concetto espresso. Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca Pascoli La ripetizione del verbo rende bene l’idea della lentezza e della durata della nevicata. =Ipallagescambio di relazioni tra parole nella stessa frase. Dal greco hupallagé ‘scambio’. un ribatte / le porche con sua marra pazïente Pascoli L’aggettivo paziente è attribuito alla marra , ma si riferisce al contadino (un) che ribatte le zolle di terra ( porche) con la sua zappa (marra).

Sinestesia = associazione di termini che indicano realtà pertinenti a sfere sensoriali diverse.Ilcielo ride un suo riso turchino Moretti turchino: aggettivo che pertiene alla vista; riso: nome che pertiene all’udito. va l’aspro odor dei vini le anime a rallegrar Carducci aspro: aggettivo che pertiene al gusto; odore: nome che pertiene all’olfatto.

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA320

L’estate solitamente non è fredda, un tumulto non è silenzioso… Perifrasi = sequenza di parole che indica una realtà cui ci si potrebbe riferire diretta mente con un unico termine. E tutto mi sa di miracolo; e sono quell’acqua di nube Quasimodo Quell’acqua di nube è una perifrasi che sostituisce la parola ‘pioggia’.

=Ossimoro unione di due termini contraddittori per riferirsi a una medesima entità. Dal greco oksúmōros ‘acuto e stupido’, con allusione al contrasto tra i due con cetti.Èl’estate, fredda, dei morti. Carducci Tacito tumulto. Pascoli

Personificazione = raffigurazione di esseri inanimati o entità astratte come persone. È dolce il chiacchierio di tante foglie Moretti Le foglie chiacchierano come se fossero delle persone. Si esprime così la si militudine tra lo scricchiolio delle foglie e il chiacchiericcio delle persone.

Elementi di metrica

321

Negri Prima strofa Seconda strofa VersiVersoendecasillabiquinario

La metrica è l’insieme delle leggi che regolano la composizione delle poe sie. Ecco alcuni termini da conoscere per leggere consapevolmente e ana lizzare le poesie. Verso = unità fondamentale della composizione poetica, corrisponde a ogni riga della poesia finita la quale si va a capo. Dal verbo latino vertĕre ‘girare, volgere’. I versi prendono il nome dal numero di sillabe che li compongono. Ad esem pio il verso quinario è composto da 5 sillabe, il settenario da 7 sillabe, l’ende casillabo da 11 sillabe. Lungo la strada vedi su la siepe ridere a mazzi le vermiglie bacche: nei campi arati tornano al presepe tarde le vacche. Pascoli Strofa = insieme di più versi, delimitato da spazi bianchi. Dal greco strophé ‘rivolgimento’. Le strofe possono essere ripetute più volte nello stesso componimento e in molti casi prendono il nome dal numero di versi che le compongono: ad esem pio la terzina è la strofa composta da 3 versi, la quartina da 4 versi, l’ottava da 8 versi.Suicampi e su le strade silenzïosa e stanca.poinell’ampioDanzacade.volteggiando,lievelanevelafaldabiancacielscherzosa,sulterrensiposa

Rima = identità di suono di due parole a partire dalla vocale dell’ultima sillaba accentata.Traunramo e l’áltro il ragno scáltro tesse la téla: ed è una véla Cappello

La rima viene detta baciata (AABB…) quando le parole che rimano tra loro si trovano alla fine di due versi consecutivi, alternata (ABAB…), quando le parole rimano a versi alterni. Rima baciata: tutto si infósca A per una mósca A se cade déntro B proprio nel céntro B Cappello Rima Rosseggiaalternata:l’orizzónte, A come affocato, a máre: B nero di pece, a mónte, A stracci di nubi chiáre: B Pascoli

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA322

ElEMENTI DI METRICA 323 Enjambement = separazione tra la fine di un verso e l’inizio del successivo di due parole che dovrebbero stare insieme nella frase. Parola francese coniata sul verbo enjamber, che significa ‘scavalcare’. Attraverso l’enjambement si opera una precisa distinzione tra pausa metrica (che avviene alla fine di un verso) e pausa sintattica. Danza la falda bianca nell’ampio ciel scherzosa, poi sul terren si posa stanca. Negri L’aggettivo stanca viene separato dal verbo posa a cui è legato sintatticamen te. In questo modo il lettore è portato a fare una piccola pausa dopo il verbo, dando rilevo sia al posarsi sia alla sensazione di stanchezza della neve che arriva a terra dopo aver danzato.

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA324 Indice A/R: andata e ritorno 4 Favole 6 IlESOPOcorvo e la volpe 10 La tartaruga e la lepre 12 La volpe e l’uva 14 IlFEDROcane e la carne 16 La volpe e la cicogna 18 Il lupo e il cane 20 Il cervo alla fonte 22 Il lupo e l’agnello 24 ARTURO LORIA Il lupo e l’agnello 25 LEV TOLSTÒJ Il leone e il topolino 26 Il vitello sul ghiaccio 28 RAFFAELE LA CAPRIA La volpe e il riccio 30 LEO FedericoLIONNI 33 LaESOPOcicala e le formiche 35 Fiabe 38 JACOB & WILHELM GRIMM I doni del popolo piccino 42 I quattro fratelli ingegnosi 45 I sei servi 50 CARLO COLLODI Le fate 56 ITALO BellindaCALVINOeilMostro 60 Il principe canarino 68

325 GUIDO GOZZANO Piumadoro e Piombofino 75 Il Reuccio Gamberino 83 Nonsò 90 OSCAR WILDE Il Principe Felice 95 ALEKSANDR NIKOLAEVIČ AFANASJEV La principessa Senza Sorriso 104 Il gelo 108 La favola del principe Ivan, dell’uccello di fuoco e del lupo grigio 113 HANS CHRISTIAN ANDERSEN I cigni selvatici 123 Il brutto anatroccolo 136 La sirenetta 145 Racconti umoristici 164 RUDYARD KIPLING Come fu scritta la prima lettera 168 GIANNI RODARI «Generi alimentari e diversi» 177 ACHILLE CAMPANILE La lettera di Ramesse 180 La mestozia 189 La quercia del Tasso 196 Il telegramma 198 MASSIMO BONTEMPELLI Il buon vento 204 Re e cavalieri 210 La fanciullezza di Fionn 214 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA Re Artù e la Tavola Rotonda 238 L’infanzia di Lancillotto 246 Perceval il gallese 256

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA326 Poesie 262 PIERLUIGI CAPPELLO Rondine 266 La ragnatela 268 La pioggia 270 MARINO MORETTI Un fungo 272 La prima pioggia 274 ALDO PALAZZESCHI Rio Bo 276 CORRADO AcquazzoneGOVONI 278 VINCENZO CARDARELLI Autunno 280 Febbraio 282 GIOSUÈ CARDUCCI San Martino 284 GIOVANNI PASCOLI Sera d’ottobre 286 Il lampo 288 Il tuono 290 Temporale 292 Orfano 294 Lavandare 296 Arano 298 Novembre 300

sAlvATORE QuA sIMODO 327 ADA NevicataNEGRI 302 Pioggia d’autunno 304 Herba tenax 306 ERNESTO RAGAZZONI I viali irrigiditi 308 GIORGIO CAPRONI Marzo 310 Vento di prima estate 312 SALVATORE QUASIMODO Specchio 314 Gli strumenti del poeta 316 Figure di suono 317 Figure di senso 318 Elementi di metrica 321

ANDERSEN • I cigni selvatici • Il brutto anatroccolo

REFERENzE BIBl IOGRAFIChE328 Referenze bibliografiche

• La sirenetta da H.C. Andersen, Fiabe, Mondadori, Milano 1986 traduzione di A. Cambieri BONTEMPELLI • Il buon vento da M. Bontempelli, Racconti e romanzi , vol. 1, Mondadori, Milano 1961 a cura di P. Masino CALVINO • Bellinda e il Mostro • Il principe canarino da I. Calvino, Le più belle fiabe italiane, Einaudi, Milano 1992 CAMPANILE

• La favola del principe Ivan, dell’uccello di fuoco e del lupo grigio da A.N. Afanasjev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1998 traduzione di G. Venturi

CAPPELLO • Rondine • La ragnatela • La pioggia da P. Cappello, Ogni goccia balla il tango, Rizzoli, Milano 2014

FEDRO • Il cane e la carne • La volpe e la cicogna • Il lupo e il cane • Il cervo alla fonte • Il lupo e l’agnello da Fedro, Favole, Opportunity Book, Milano traduzione1996di B. Pinchetti

AFANASJEV • La principessa Senza Sorriso da A.N. Afanasjev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1955 traduzione di G. Venturi • Il gelo

CAPRONI • Marzo • Vento di prima estate da G. Caproni, L’opera in versi , Mondadori, Milano 1998 a cura di L. Zuliani CARDARELLI • Autunno • Febbraio da V. Cardarelli, Opere, Mondadori, Milano 1993 a cura di C. Martignoni CARDUCCI • San Martino da G. Carducci, Poesie 1850-1900, Zanichelli, Bologna 1973 COLLODI • Le fate da C. Collodi, I racconti delle fate, Bompiani, Milano 1983 ESOPO • Il corvo e la volpe • La tartaruga e la lepre • La volpe e l’uva • La cicala e le formiche da Esopo, Favole, Bur, Milano 2001 traduzione di E. Ceva Valla

• La lettera di Ramesse da A. Campanile, In campagna è un’altra cosa , Bur, Milano 1999 • La mestozia • La quercia del tasso da A. Campanile, Manuale di conversazione, Bur, Milano 2001 • Il telegramma da A. Campanile, Il povero Piero, Rizzoli, Milano 1977

• I sei servi da J. e W. Grimm, Fiabe, Einaudi, Torino 1992 traduzione di C. Bovero KIPLING • Come fu scritta la prima lettera da R. Kipling , Storie proprio così , Mursia, Milano 1993 traduzione di A.M. Clerici Bagozzi LA CAPRIA • La volpe e il riccio da R. La Capria, Guappo e altri animali , Mondadori, Milano 2007 LIONNI • Federico da L. Lionni, Le favole di Federico, Einaudi, Torino 1995 LORIA • Il lupo e l’agnello da A. Loria, Settanta favole, Sansoni, Firenze 1957 MORETTI • Un fungo da U. Panozzo, Elementi di lingua italiana. Fonologia, morfologia, sintassi, stilistica, composizione, F. Le Monnier, Firenze 1969 • La prima pioggia da M. Moretti, Sentimento. Pensieri, poesie, poemetti, novelline per la giovinezza , Remo Sandron, Palermo 1907 NEGRI • Nevicata da A. Negri, Fatalità , Fratelli Treves Editori, Milano 1922 www.liberliber.it

REFERENzE BIBl IOGRAFIChE 329

GOVONI • Acquazzone da C. Govoni, Poesie 1903-1958, Mondadori, Milano 2000 a cura di G. Tellini GOZZANO • Piumadoro e Piombofino • Il Reuccio Gamberino • Nonsò da G. Gozzano, La danza degli gnomi e altre fiabe, Opportunity Book, Milano 1995 GRIMM • I doni del popolo piccino • I quattro fratelli ingegnosi

• Pioggia d’autunno da A. Negri, Poesie, Mondadori, Milano 2002 a cura di S. Raffo • Herba tenax da A. Negri, Mia giovinezza. Poesie, Bur, Milano 1995 a cura di D. Rondoni PALAZZESCHI • Rio Bo da A. Palazzeschi, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002 a cura di A. Dei PASCOLI • Sera d’ottobre • Il lampo • Il tuono • Temporale • Orfano • Lavandare • Arano • Novembre da G. Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 2000 QUASIMODO • Specchio da S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia , Mondadori, Milano 1994 a cura di G. Finzi

REFERENzE BIBl IOGRAFIChE330 RAGAZZONI • I viali irrigiditi da E. Ragazzoni, Buchi nella sabbia e pagine invisibili , Einaudi, Torino 2000 a cura di R. Martinoni RODARI • «Generi alimentari e diversi» da G. Rodari, Gelsomino nel paese dei bugiardi , Editori Riuniti, Roma 2000 ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA • Re Artù e la Tavola Rotonda • L’infanzia di Lancillotto • Perceval il gallese adattamenti da I romanzi della Tavola Rotonda , Mondadori, Milano 1981 (3 volumi) a cura di J. Boulenger [1922] edizione italiana a cura di G. Agrati e M.L. traduzioneMaginidi G. Agrati e M.L. Magini

STEPHENS • La fanciullezza di Fionn adattamento da J. Stephens, Fiabe irlandesi , Bur, Milano 1987 traduzione di M. Cataldi TOLSTOJ • Il leone e il topolino • Il vitello sul ghiaccio da L. Tolstoj, I quattro libri di lettura , Fabbri, Milano 2001 traduzione di A. Villa WILDE • Il Principe Felice da O. Wilde, Romanzi e racconti , Luigi Reverdito Editore, Trento 1995 traduzione di A. Nobile

sAlvATORE QuA sIMODO 331 I miei appunti

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA332

sAlvATORE QuA sIMODO 333

Gl I s TRuMENTI DEl p OETA334

sAlvATORE QuA sIMODO 335

Contenuti digitali integrativi su www.itacascuola.it/a-r-1 ƒ vita e opere degli autori ƒ il circolo letterario ƒ cineforum E per i docenti: ƒ verifiche di fine sezione ƒ suggerimenti didattici ƒ pagine teoriche ¤ 22,50 A/R1FavoleFiabeRacconti umoristici ReecavalieriPoesie · lanaturainversiAldilàdelpiacere,dellacuriosità,ditutteleemozionichesuscitanoiracconti,lestorieeleleggende,aldilàdelbisognodidistrarsi,didimenticare,diprocurarsisensazionipiacevolieterrificanti,loscoporealedelviaggiomeravigliosoèl’esplorazionepiùcompletadellarealtàuniversale.PaulMabille,Lemiroirdumerveilleux Collana scolastica diretta da Raffaela Paggi la cetra Sul sito www.seleggo.org la versione digitale ottimizzata del libro per studenti dislessici itacalibri.it

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