Il maestro vetraio

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La vita ha in ogni battito la tremenda misura dell’eterno. Ada Negri


I personaggi e le vicende di questo romanzo sono immaginari. Ogni riferimento a persone o fatti reali è da ritenersi casuale.

Alberto Raffaelli Il maestro vetraio Itaca, Castel Bolognese www.itacaedizioni.it/il-maestro-vetraio Prima edizione: aprile 2016 © 2016 Itaca, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-526-0470-6 Le edizioni Itaca sono distribuite da: Itaca srl via dell’Industria, 249 48014 Castel Bolognese (RA) - Italy tel. +39 0546 656188 fax +39 0546 652098 e-mail: itaca@itacalibri.it on line: www.itacalibri.it in libreria: www.itacaedizioni.it/librerie Cura editoriale: Cristina Zoli Grafica di copertina: Andrea Cimatti Stampato nel mese di aprile 2016 da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC) In copertina Venezia. Sole e nebbia © Foto Renato Corbetti


Alberto Raffaelli

Il maestro vetraio romanzo



«Non ho mai capito se Venezia sia più bella o più triste»

Venezia era apparsa all’improvviso. Una striscia scura, frastagliata di campanili e di case, sospesa sull’acqua, affondata nel cielo grigio. Il treno aveva sfondato, senza scosse, il confine tra la terra e il mare scivolando sulle arcate del ponte della Libertà. Le braccia della laguna si erano aperte ai lati della ferrovia e lo sguardo all’improvviso poteva distendersi dai lembi di fango delle barene fino all’orizzonte. Giovanni Zanca era giunto a Venezia allo stesso modo chissà quante volte, eppure anche quella mattina era rimasto con la faccia appiccicata al finestrino per non perdersi lo spettacolo. Poi lo sguardo si era staccato dall’orizzonte ed era stato catturato da un motoscafo che solcava l’acqua lungo la traccia dei pali piantati qua e là, a tre a tre, a disegnare le rotte dei canali. Sul treno la gente cominciava ad alzarsi e a raccogliere i bagagli, accalcandosi verso le porte d’uscita. Il viceispettore di polizia non aveva fretta. Lo sguardo gli era scappato oltre i finestrini, dall’altro lato del treno. Le fabbriche e le gru di Porto Marghera disegnavano ricami neri sullo sfondo del cielo, come enormi alberi rinsecchiti d’inverno. Per l’ennesima volta si apriva un nuovo capitolo della sua vita. Era stato convocato per quel giorno al Commissariato di Polizia di San Marco. L’inchiesta sull’Osteria senza oste che aveva condotto nei mesi precedenti a Valdobbiadene era finita su tutti i giornali e gli era costata il trasferimento di sede. Forse era destino: in ogni nuovo ambiente, il suo arrivo crea­ va sempre una certa agitazione e l’ordine che sembrava aver regnato fino ad allora si scompaginava. Se n’era accorto già da tempo: le persone che lo incontravano fiutavano in lui, fin dai primi gesti, qualcosa di strano che non li lasciava tranquilli.


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Una notte, nel dormiveglia, mentre attendeva il chiarore dell’alba, ci aveva riflettuto a lungo. «Ogni gesto, anche il più banale, svela le nostre intenzioni. Aprire una porta, entrare in una stanza, incrociare lo sguardo di qualcuno, spostare una sedia: tutto proviene da una radice e svela un senso. Quanti secondi impiega un uomo a scoprire la radice di un’altra persona?» si era chiesto. «Perfino i cani fanno così con gli estranei: li fiutano da lontano… li riconoscono dal rumore dei passi oltre il cancello…». Faceva così anche Med, il suo vecchio pastore belga, che era morto da poco. Uno scossone del treno interruppe il filo dei suoi pensieri. Una signora lì a fianco, in piedi nel corridoio, per un attimo perse l’equilibrio e una delle borse le scappò dalle mani finendo sulle gambe dell’uomo. «Mi scusi…». La divisa da poliziotto l’aveva spaventata. «Fa niente, signora». Tutta imbarazzata, la donna raccolse le sue robe e si allontanò, barcollando sotto il peso del suo grosso fardello. Giovanni Zanca si passò la mano sulle ginocchia per risistemarsi i pantaloni. Il treno si era fermato. Attese che la fila dei passeggeri si fosse sgranata lungo il corridoio. Quando la carrozza fu vuota del tutto, si alzò, prese la borsa, scese dal treno e s’incamminò lungo la pensilina verso l’uscita della stazione di Santa Lucia. L’appuntamento in commissariato era per le dieci. Aveva ancora un’ora di tempo. Giunto sul piazzale della stazione, si fermò a osservare il via vai delle barche e dei vaporetti che si incrociavano sul Canal Grande. Diede un profondo respiro per sentire più forte l’odore del salso. Decise di non prendere il vaporetto e di andare a piedi. Conosceva Venezia dai tempi in cui aveva frequentato per un paio d’anni l’accademia navale, prima di cambiare strada ed entrare in polizia. Vi era tornato poi diverse volte con Elena, al tempo in cui erano fidanzati o sposati da poco. Si avviò verso il ponte degli Scalzi e, dopo averlo attraversato, si fermò al primo bar a prendere un caffè.


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La settimana prima era stato convocato alla direzione interregionale della Polizia di Stato di Padova. Un addetto dell’ufficio personale, senza spendere tante parole, gli aveva consegnato una lettera con l’indicazione della sua nuova sede di servizio. «A Venezia!» aveva esclamato Elena quando le aveva telefonato. «Che meraviglia!». «Sì, a Venezia» aveva detto lui. «Ma non è che mi mandano a fare il doge… mi faranno dirigere il traffico dei pedoni sulle passerelle dell’acqua alta, vedrai». «Venezia…» aveva insistito Elena quando era tornato a casa quella sera. «Ti dovrai cercare una stanza e nei fine settimana potrò venire a trovarti. Andremo in giro per le calli, a visitare i palazzi e le chiese, andremo a mangiare il pesce in qualche trattoria e magari anche a qualche concerto alla Fenice…». Lui l’aveva fermata piantandole un’occhiata in faccia. Poi si era messo in poltrona a leggere il giornale senza più una parola. S’innervosiva quando sua moglie si ostinava a prendere le cose dal lato positivo e a non vedere nient’altro. Ci metteva del tempo poi a ritrovare la calma, a riconsiderare i termini della questione, ad ammettere che sì, forse le cose potevano anche stare come aveva detto Elena e rappacificarsi con lei e con sé stesso. «A Venezia» ripeté sottovoce quella mattina Giovanni Zanca guardandosi intorno sulla riva del Canal Grande, dopo aver preso il caffè. Lui ed Elena si erano sposati giovani, ma i figli non erano arrivati. Quel dolore se lo portavano dentro. Giovanni nella sua carriera non aveva avuto una vita facile. Gli era pesata come un macigno la vicenda di riciclaggio di denaro sporco e contrabbando di armi denunciata nei primi anni di servizio. Vi erano implicati anche il suo comandante e alcuni superiori. Era stato lui a scoprirlo. Da allora molti colleghi lo avevano guardato con sospetto, come uno disposto a tradire la ‘causa’. Quella mattina aveva una buona mezz’ora di strada da fare


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a piedi. S’incamminò ripassando a memoria il percorso: campo San Barnaba, ponte dell’Accademia, campo Santo Stefano e poi diritto verso San Marco. Giunto in commissariato, gli addetti alla portineria registrarono il suo arrivo, ma poi non poterono fare altro: il sottotenente Fantomo, capo della Polizia Giudiziaria, con il quale aveva l’appuntamento, era fuori sede. «Si presenti domattina alle otto, a quell’ora è qui di sicuro». Il viceispettore stette un poco a pensarci, ma alla fine riprese la sua borsa e uscì. Aveva tutto il tempo per trovare l’alloggio che aveva prenotato qualche giorno prima e cominciare a sistemarsi. Verso campo di Santa Maria Formosa si fermò in una trattoria dove ordinò una frittura di pesce e del prosecco. Mangiare da solo non gli era mai piaciuto, ma quel giorno era diverso: voleva avere il tempo di tornare con la mente agli anni trascorsi a Venezia e alle vicende dell’ultimo periodo che l’avevano riportato in laguna. Alla fine del pranzo si rimise in strada. Dopo un po’ si accorse però di essersi perso. Si fermò a un’edicola per comprare una cartina, ma nemmeno con quella riuscì a districarsi nel groviglio di calli e di campielli. Ad ogni svolta, ad ogni ponte, riapriva la mappa sempre più spiegazzata, se la rigirava tra le mani e scrollava la testa. Si decise allora a chiedere aiuto a qualcuno del posto. «Scusi, sa dirmi per caso…?». Quelli lo guardavano come fosse un turista, con l’ironia che i veneziani hanno nel sangue, il sangue di un popolo che per secoli ha comprato e venduto mezzo mondo. «Sempre drito, e poi zo dal ponte…». Il viceispettore ringraziava e riprendeva a camminare, affidandosi più alla buona sorte che a quelle indicazioni. Finalmente, a pomeriggio inoltrato, arrivò alla chiesa di San Francesco della Vigna e ci girò tutto attorno. Si trovò davanti a un portoncino di ferro dipinto di verde addossato a un muretto di mattoni rossi, in faccia alla laguna. La targa di metallo recitava che quello era l’ingresso del suo residence. Attese un attimo


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prima di suonare il campanello, prese fiato e diede un’occhiata in giro. Sulla fondamenta, a qualche decina di metri più in là, c’era la piccola chiatta dell’imbarcadero della Celestia, forse la più sperduta delle fermate del vaporetto, uno dei rari angoli di Venezia dove non arriva un turista neanche per sbaglio. Sotto di lui lo sciacquio dell’acqua si infrangeva sulla riva. In mezzo alla laguna si ergeva l’isola di San Michele con il cimitero monumentale di Venezia. Più in là, sulla sinistra, oltre la cinta delle mura costellate di cipressi, si intravedeva l’isola di Murano con il suo campanile sbilenco. Su tutto un grande silenzio, rotto soltanto da un rumore di passi che giungeva alle sue spalle. Qualcuno, in una calle lì vicino, stava rientrando a casa prima del buio. «È meglio che Elena non mi veda. La malinconia si sopporta meglio da soli…» gli venne da pensare. «Forse per questo le bestie si nascondono per andare a morire». A un tratto la laguna fu invasa dal suono del motore di un vaporetto sbucato dal canale dell’Arsenale e diretto alla fermata della Celestia. Giovanni Zanca staccò lo sguardo dall’orizzonte, suonò il campanello del residence. Subito il cancello di ferro si aprì. Alla reception uno straniero dalla pelle olivastra e dall’aspetto trasandato gli consegnò le chiavi della camera e del cancello d’ingresso. In un italiano stentato lo informò che il residence occupava un’ala del vecchio convento dei frati che era stata adattata ad alloggi per studenti e lavoratori ‘fuori sede’, per lo più da giovani arabi. Aveva deciso di risparmiare almeno per i primi mesi di soggiorno a Venezia e lì i prezzi erano buoni. Entrato nella sua stanza, notò che non era poi tanto piccola: oltre al letto ci stavano un divano, un angolo cottura e un piccolo tavolo con due sedie. «Quando Elena verrà a trovarmi, potremo farci da mangiare». Quella sera si preparò un tè caldo, poi si mise subito a letto. Provò a leggere qualcosa, ma dopo poche righe spense la luce. ***


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La stessa mattina in cui Giovanni Zanca era arrivato a Venezia, in un vecchio capannone, proprio a fianco della ferrovia, sull’ultimo bordo di terraferma a cui s’appoggia il ponte della Libertà, un uomo era al lavoro. Si faticava a vederla quella costruzione in mattoni rossi, nascosta com’era da un groviglio di rovi e di alberi proprio all’altezza di una casetta di legno fatiscente che, a detta delle insegne ancora penzolanti, un tempo doveva aver ospitato un ufficio informazioni per turisti. Quel capannone sorgeva proprio sul limitare della laguna, a ridosso delle fabbriche di Marghera. Un camino alto e tondo spuntava fuori dal tetto: si trattava infatti di una fornace dove per decenni si era lavorato il vetro; poi, con la crisi degli anni settanta, era stata abbandonata del tutto. Ci si arrivava per una stradina sterrata che partiva da una rotonda sullo stradone che collega Venezia alla terraferma. La strada correva a fianco di grandi fabbriche per lo più in disuso e sembrava perdersi in mezzo alle erbacce e all’acqua bassa della laguna, ma se la si percorreva fino in fondo, si arrivava a un vecchio cancello di ferro mezzo arrugginito rimasto chiuso per molto tempo con una catena e un grosso lucchetto. Al di là del cancello si apriva uno spiazzo che terminava con delle zolle slabbrate e lambite dall’acqua, dirimpetto a Venezia. Al centro di quel lembo di terra, le erbacce ricoprivano dei brandelli di muro diroccato: erano i resti di una vecchia chiesetta un tempo dedicata alla Madonna del mare. Quel posto negli ultimi decenni era stato frequentato solo da balordi e da donne di strada con i loro clienti, per lo più di notte, e ci voleva del coraggio ad entrarci perfino di giorno, tanto era sporco e desolato. Ma da qualche mese un giovane veneziano, Benedetto Zaccaria, aveva riaperto quel cancello, si era fatto strada in mezzo ai rovi e aveva riattivato la vecchia fornace. Alla mattina arrivava molto presto, con i primi autobus che partivano da piazzale Roma, e iniziava a lavorare quando il cielo cominciava appena a schiarirsi. Dopo un paio di mesi di lavoro era riuscito a riavviare il


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grande forno al centro della fornace e aveva cominciato a fondere il vetro in varie forme e colori. Mano a mano che le tessere erano pronte, Benedetto le fissava all’interno di una sorta di ragnatela di metallo, affiancate le une alle altre, in parte sovrapposte, a formare strane iridi di colori. Alla fine della mattinata Benedetto si sedeva a un piccolo tavolo in un angolo del capannone, mangiava un panino portato da casa, beveva una lattina di birra, poi riprendeva a lavorare per tutto il pomeriggio, fino a sera; allora riprendeva l’autobus per piazzale Roma e se ne tornava a casa. Benedetto Zaccaria era un giovane di trent’anni, aveva trascorso gran parte della giovinezza nella fornace di suo padre, a Venezia. Lì aveva imparato il mestiere di maestro vetraio, sgambettando fin da piccolo tra i banchi di lavoro con in mano attrezzi che a stento riusciva a reggere. Sua madre era morta quando aveva appena dieci anni. Il padre, Luigi Zaccaria, non aveva avuto scelta: non avendo nessuno a cui lasciare il bambino, se l’era portato dietro al lavoro. La fornace Zaccaria, che sorgeva nel quartiere di Dorsoduro, era diventata la vera casa di Benedetto. Appena usciva da scuola, tornava lì e se ne andava via all’ora di cena. Mano a mano che gli anni passavano, Benedetto aveva cominciato a seguire suo padre anche nei cantieri delle chiese e dei palazzi e così aveva assimilato l’arte degli antichi mosaici tramandata a Venezia da secoli. A saper fare quel mestiere in tutta la città era rimasto solo suo padre e gli operai che lavoravano nella sua fornace. Benedetto aveva sempre considerato una fortuna essere l’erede designato di quella nobile arte. Aveva visto mescolare nella pasta del vetro preziose polveri colorate, aveva imparato a fondere le foglie d’oro zecchino tra due veli di vetro e produrre così le tessere di mosaico che riempivano i cieli infiniti delle antiche basiliche. Ma i momenti più felici della sua infanzia erano state le giornate passate nella basilica di San Marco. Quella non era una chiesa, era un mondo. Andando dietro a suo padre lungo le impalcature montate a


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ridosso delle pareti e delle volte, Benedetto rimaneva incantato dalle storie che vi erano rappresentate: uomini e donne incorniciati con aureole, corone e mantelli, fra animali mansueti e bestie feroci, in mezzo a battaglie di navi a vele spiegate sulle onde del mare. «Ci sono più storie narrate in questi mosaici che in tutta la Bibbia» commentava con orgoglio suo padre. «E c’è più oro zecchino qui che in ogni altro posto del mondo». A volte il vecchio Zaccaria si fermava a raccontare di ospiti illustri che avevano strabuzzato gli occhi davanti a quello spettacolo. «Perfino Kohl, il cancelliere tedesco, quello della riunificazione delle due Germanie, che di soldi se ne doveva intendere, quando ha visitato San Marco non ci voleva credeva che questo fosse tutto oro vero…». Poi si fermava e si guardava intorno con un misto di fierezza e di nostalgia. «Allora avevano i schei» diceva riferendosi ai veneziani dei secoli passati. «L’oro e le pietre preziose li hanno rubati a mezzo mondo…» obiettava qualche ‘foresto’. «Se non avessero fatto così, sarebbe andato tutto perduto» chiudeva il discorso suo padre. Quando era stato il momento di scegliere la scuola superiore, Benedetto si era iscritto al liceo artistico. Alla mattina andava a scuola e al pomeriggio seguiva suo padre al lavoro. Così la storia e gli antichi filosofi, Dante e Shakespeare, Leopardi, la matematica, la geografia e l’astronomia assumevano i colori e le forme dell’enciclopedia di San Marco. Dopo il liceo, Benedetto era entrato all’Accademia delle Belle Arti, aveva studiato la storia dell’arte, la grande tradizione della ‘Scuola veneziana’: dagli antichi maestri bizantini a Giorgione, Tiziano, Bellini, Tiepolo fino agli artisti della Peggy Guggenheim, Pollock e gli altri. Al termine degli studi si era diplomato con una tesi sulle vetrate di Chagall. Per qualche anno aveva lavorato nella fornace di suo pa-


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dre a Venezia, dalle parti di Santa Fosca, fino a quell’occasione imprevista che l’aveva portato a riaprire la vecchia fornace di Marghera. Là aveva cominciato a realizzare una vetrata che gli era stata commissionata dal Comune di Venezia. Mano a mano che terminava i quadri che avrebbero composto la vetrata, li addossava alla parete in fondo al capannone su appositi carrelli, coperti da teli di stoffa. Confusi nella penombra, appoggiati contro il muro, quei quadri sembravano pezzi di ragnatela di vetro opaco, ma appena venivano posti in controluce, improvvisamente si riempivano di vita. Quel giorno il sole stava ormai calando all’orizzonte. Benedetto aveva spento il forno e rimesso a posto gli attrezzi. Prima di tornarsene a casa, aveva però deciso di ridare un’occhiata al primo quadro della vetrata che aveva completato. Si diresse verso il fondo del capannone, scostò dal muro il carrello e lo rivolse verso gli ultimi raggi di sole che scendevano dai finestroni lungo il tetto. All’improvviso le tessere di vetro opaco si illuminarono e ripresero vita. Si scorgeva una scena con delle figure, gesti accennati, la lieve espressione di un viso, uno sguardo. Niente di magico. Come accade di fronte a certe opere, l’istante rappresentato lasciava trapelare una storia. Benedetto fece qualche passo indietro per poter abbracciare con lo sguardo il quadro della vetrata. Seduti al tavolino di un caffè di piazza San Marco, un uomo e una giovane donna, lui vestito da turista, lei con una gonna estiva… «“Quando un giorno, in una sala da concerti, mi suoneranno Brahms, languirò di nostalgia…”: è un verso di Pasternak» mi disse Arianne. «Stasera c’è un concerto alla Fenice, ho due biglietti, credo che in programma ci sia anche Stravinskij». Mi aveva accolto così la prima volta che c’eravamo incontrati sulla terrazza del Des Bains al Lido di Venezia.


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Arianne parlava senza nessi apparenti, gettava le parole oltre le formalità, senza calcoli. Aveva prenotato un palco insieme ad una coppia di amici per quella sera, non ho idea di chi avesse avuto in mente di portare prima di incontrarmi. Accettai, disarmato dalla sua bellezza. Arrivai per tempo alla Fenice. Lei mi aspettava all’ingresso del teatro in un abito estivo che lasciava immaginare il profilo del suo corpo. Era bellissima. Il collo affusolato era cinto da un filo d’oro bianco abbinato a fini orecchini di perla. Sorrideva dei miei sguardi stupiti. Alla fine dello spettacolo si fermò a salutare degli amici nel foyer del teatro. «Chissà se guarda così tutti gli uomini» mi ero chiesto, già geloso di lei. «Facciamo due passi?» mi propose quando restammo soli. «È la prima volta che mi capita di avere il tempo di visitare Venezia» le dissi. «Ci sono venuto di fretta solo un paio di volte». Ci incamminammo nel labirinto di calli che finiscono su un canale e ti costringono a tornare indietro, oppure si aprono all’improvviso su dei campielli con la vera da pozzo nel mezzo. «Shakespeare ha ragione» mi disse, «il mondo è il palcoscenico su cui ognuno recita la propria parte, e Venezia è il teatro più straordinario che si possa immaginare». «Ma tu non sei nata a Venezia…». Lei lasciò cadere il discorso. Camminammo un poco in silenzio. «Venezia non è una città dove si nasce» buttò lì dopo un po’. «Tutti qui sono di passaggio, in procinto di partire o appena arrivati da qualche parte del mondo». Ogni tanto le nostre braccia si sfioravano, ma non trovavo il coraggio di toccarla. Ero a Venezia solo per alcuni giorni, mandato dal mio giornale per seguire la mostra del cinema. D’acchito volevo rinunciare all’incarico. «Io e tua madre siamo stati in viaggio di nozze a Venezia» mi aveva detto mio padre. «Vai, Mark, vai a Venezia…». Il giornale mi aveva prenotato una camera all’Hotel Bauer.


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Arianne aveva il compito di farmi da guida nei tre giorni che sarei rimasto. Quella notte camminammo quasi due ore. Il buio ci aveva dato fiato. Oltrepassammo San Marco, Riva degli Schiavoni, arrivammo fino all’isola di Sant’Elena, all’estremità di Venezia. Ogni tanto Arianne mi accennava qualcosa; davanti alla chiesa della Pietà, mi raccontò di Vivaldi, il ‘prete rosso’, e quando arrivammo all’Arsenale altre storie che non ricordo, poi l’isola di sant’Elena con la Biennale… Tornammo in hotel che era tardi. Arianne mi lasciò alla reception. «Domattina se vuoi ti accompagno a vedere qualcos’altro». Accennai di sì con la testa, ammutolito dal pensiero di rimanere solo. «Alle nove va bene?». «Ti aspetto». Mi voltai e me ne andai, soffocato dalla malinconia di non poter restare quella notte con lei. La mattina dopo Arianne aveva un’aria fresca e riposata. Indossava una camicetta e una gonna sportive, sembrava ancora più bella. Andammo a fare colazione al caffè Florian, in piazza San Marco. L’orchestrina si stava preparando a suonare. Arianne mi parlava della storia di Venezia, mentre io ero incantato a guardarla. Ogni tanto mi chiedeva qualcosa e le brillavano gli occhi perché s’accorgeva che mi ero distratto. Le scappava un sorriso quando scopriva il mio sguardo perso su di lei. «Quella è la facciata della basilica». Mi girai a fatica. «Di san Marco, l’evangelista, immagino che tu non sappia nulla» mi chiese, già sicura della risposta. Io feci una smorfia, come un ragazzo che non ha studiato. «Eppure ha il tuo nome, Mark. Ha scritto un Vangelo» s’interruppe. «Sei cristiano?». Da anni non me l’aveva mai chiesto nessuno. Scossi la testa. «Musulmano?». «No, non mi ha mai interessato la religione. Mia madre è ebrea, mio padre viene da una famiglia cristiana, ma non mi ha mai parlato di queste cose».


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«Venezia non la capisci se non provi a immedesimarti negli uomini che l’hanno fatta. Senza le loro speranze, le loro devozioni, non si capiscono gli ori, i palazzi, le chiese». Appena finita la colazione, si alzò dal tavolino. «Andiamo, ti porto a vedere qualcosa». Le passerelle per l’acqua alta erano accatastate ai lati della piazza. «I cavalli in bronzo, lassù, sopra il portale, li hanno portati da Costantinopoli. Con la quarta crociata, nel 1200. I veneziani avevano promesso al papa che avrebbero liberato la Terra Santa e invece han fatto razzia di quello che restava dell’Impero romano d’Oriente. Gli ortodossi hanno impiegato secoli a perdonarci l’oltraggio». «Quello è Rustico da Torcello» mi disse indicando una lunetta di uno dei portali. «È lui che ha portato qui il corpo di san Marco. Lo ha trafugato da Alessandria d’Egitto. Per sfuggire al controllo delle guardie musulmane, lo ha nascosto sotto della carne di maiale». Non ricordo tutte le scene che lei indicava e di cui mi svelava la storia. «Qui c’è un pezzo di storia del mondo» mi spiegò entrando sotto il cielo d’oro delle volte della basilica. «I mosaici bizantini, l’oro portato dai mercanti veneziani da ogni parte del globo. Per più di mille anni Venezia è stata la signora incontrastata dei mari allora conosciuti». «E Marco Polo è sepolto qui…?» le avevo chiesto. Lei si mise a ridere. «No, non so dove sia la sua tomba». Sorrise ancora per un po’. L’unica cosa che sapevo della storia di Venezia me l’ero giocata così. Ci inoltrammo nella penombra soffusa della basilica. «Quell’icona antica è la Nikopeia, la Madonna delle Vittorie, che i veneziani hanno portato sulla prua della nave ammiraglia nella battaglia di Lepanto». Abbozzai anch’io un gesto della mano sulla fronte come vedevo fare alla gente che entrava. Poi passammo a Palazzo Ducale e Arianne mi parlò della Repubblica Serenissima, della successione secolare dei dogi fino alla conquista di Napoleone. «Andiamo a mangiare» dissi alla fine. «È mezzogiorno passato». Scegliemmo un ristorante con i tavolini all’aperto affacciati sulla


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laguna. Il vento le muoveva leggermente i capelli e la gonna. Ordinammo del pesce e del vino bianco frizzante. Restammo un poco in silenzio a guardare il tremolare dell’acqua e l’isola di San Giorgio. «Non ho mai capito se Venezia sia più bella o più triste» mi confidò. «Ti lascia sempre incredulo. Dietro la sua facciata si nasconde qualcosa che sfugge e che non riesci mai ad afferrare». Mangiammo in silenzio. Avevo troppe cose da dirle, ma non avevo il coraggio. «Oggi devo fare l'ultima intervista, il mio soggiorno è finito» le dissi. «Tornerò ancora a Venezia se ci sarai tu ad accompagnarmi». Lei mi guardò. Era felice di quelle parole e triste di non poter accettare. «Non credo» mi disse. Cercai di balbettare qualcosa, non ricordo, ma le parole stonavano, suonavano ridicole. «Sei bellissima» le sussurrai. Lei sorrise. Se l’aspettava. «Venezia è come una vera da pozzo, una di quelle che sorgono in mezzo ai campielli, su cui possiamo sporgerci per ficcare lo sguardo nel buio e cercare là in fondo… Perché non si può amare davvero senza cercare di capire». Forse rimasi a osservarla un istante di più, facendo attenzione al suo volto più che alle sue parole. «Intendo Venezia. Se rimani alla facciata non serve a nulla…» ribadì con un sorriso. Poi era rimasta anche lei sopra pensiero. Alla fine mi guardò. «Però si può amare senza possedere» aggiunse. «Di cosa parli, di Venezia?». «No» e sorrise di nuovo. «Non so, non immagino nemmeno come sia possibile». Lei si alzò, mise la mano sulla mia spalla, avvicinò le labbra alla mia guancia e la sfiorò con un bacio. «Mark…» disse quasi in un soffio. Non intesi mai cosa volesse esprimere pronunciando il mio nome. La vidi allontanarsi con la gonna che tremolava alla brezza della laguna.


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