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Risvegli
Quel giorno si era alzato presto, prima dell’alba. Mentre preparava il caffè, aveva dato un’occhiata fuori dalla finestra e si era fermato a osservare i crinali smussati delle colline che si intravedevano da casa sua e si sovrapponevano fra loro, fino all’orizzonte, ricoperti di boschi e di filari di vigne. Come accade spesso in quella stagione, l’alba stava tingendo il cielo di un rosso intenso e i primi raggi del sole indoravano le rive delle colline.
Dopo un po’ sua moglie si era alzata e l’aveva raggiunto in cucina. Si erano scambiati il buongiorno e qualche isolata battuta. Prima di uscire, già con il giaccone della divisa addosso, Giovanni le aveva comunicato la sua decisione: «Oggi consegno la richiesta di pensionamento».
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In quei giorni scadevano i termini per fare quella richiesta che, in un certo senso, era un atto dovuto, eppure quel gesto gli costava molta fatica. L’aveva soppesato a lungo nei suoi pensieri, senza dire niente a nessuno, e ora che si apprestava a farlo ne provava timore perché si rendeva conto che rappresentava un passo di non ritorno.
Elena, sua moglie, al sentire quella notizia era rimasta interdetta. Era l’unica al mondo che in mezzo a tutte le vicende della loro vita non si era mai arresa né rassegnata, non aveva mai rinunciato a credere in lui. Giovanni le era grato di quella sua fiducia, ma ormai la riteneva anche lui un po’ esagerata e dinanzi alle sue attenzioni provava un misto di consolazione e di vergogna.
«Di già?» aveva reagito Elena. «Manca ancora parecchio.»
«Bisogna consegnarla un anno prima della scadenza» aveva ribattuto lui.
Elena aveva lasciato la tazza del caffè sulla tavola e lo aveva seguito mentre lui si avviava verso la porta d’uscita.
«Fermati, sistemati il colletto della giacca.» Voleva avere il tempo di dirgli qualcos’altro. «Mettiti bene, sennò sembri più vecchio.»
«Sono vecchio…»
Giovanni si era tolto per un istante il berretto della divisa e aveva dato un’occhiata allo specchio cercandovi qualcosa che lo contraddicesse, ma gli sembrò di trovare solo conferme.
«Beh, un anno è tanto, ne succedono di cose…» insistette lei.
«Ci vediamo stasera. Ciao.»
«Non mi dai un bacio?»
Giovanni le aveva sfiorato appena la guancia con le labbra e si era avviato. Sulla soglia si era girato e aveva dato un ultimo sguardo al vecchio cane disteso sul tappeto della sala da pranzo che lo aveva ricambiato socchiudendo un occhio.
Elena era tornata alla finestra e lo aveva seguito con lo sguardo fin quando era salito in auto.
In quegli ultimi mesi, per il viceispettore avviarsi al lavoro era come rivestirsi con dei vestiti fradici, con gli stessi calzini di lana inzuppati, gli stessi pantaloni e la stessa camicia gelida e bagnata, in una giornata di pioggia e di vento. Ogni volta provava una violenta sensazione di freddo che lo faceva rabbrividire.
Eppure, nella cruda, ostinata fatica di ripetere ogni mattina quel gesto, senza mai tirarsi indietro, né trovare una scusa o un motivo per darsi assente, vi era dell’altro. In un angolo dell’anima conservava l’eco di un presentimento, flebile ma irrevocabile, una sorta di strano presagio che custodiva come un segreto. L’insensata speranza che forse, prima o dopo, ripetendo ogni mattina quel gesto, all’improvviso, sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe riportato luce e chiarezza nella sua vita e nel mondo attorno a lui.
Quindi, come faceva ormai da anni ogni mattina, aveva imboccato la strada tortuosa che conduceva da casa sua al centro del paese.
Giunto alla sede della polizia di Valdobbiadene, salì al primo piano. Varcata la porta del suo ufficio, lo sguardo gli cadde verso l’angolo della parete dove erano incorniciati gli attestati di benemerenza, che aveva ricevuto nei primi anni di servizio, accanto ai quali erano appese anche delle vecchie foto che lo ritraevano insieme a importanti autorità politiche di quegli anni.
Staccò lo sguardo e sulla scrivania notò una lettera già aperta, senza intestazione e senza firma. Si trattava di una denuncia anonima, cose che capitavano in quella terra di contadini in cui, assieme a nobili tradizioni, sacrifici e fatiche, crescevano qua e là invidie e rancori.
Inforcò gli occhiali e lesse alcune righe. Era un esposto contro una certa «Osteria senza oste» accusata di evadere il fisco, di non rispettare alcuna norma igienico-sanitaria e di costituire una forma di concorrenza camuffata e sleale nei confronti degli altri esercizi della zona; pertanto si chiedeva il sequestro immediato e un procedimento nei confronti del titolare. La lettera finiva con una minaccia: se non si fosse dato corso alla denuncia, l’anonimo o gli anonimi estensori sarebbero passati a livelli più alti della giustizia coinvolgendo per omissione di atti d’ufficio anche i responsabili della locale stazione di polizia.
Era una lettera rognosa, carica di rancore. Doveva essere stata scritta da qualcuno che ce l’aveva a morte con il gestore di quel fantomatico locale.
Giovanni Zanca ci pensò un attimo.
«Osteria senza oste?» sussurrò piano tra sé. Il nome non gli diceva niente.
Prese la lettera anonima insieme alla domanda di pensionamento e uscì dalla stanza.
«Il comandante è in sede?» chiese all’appuntato di servizio alla portineria.
Quello, alzando gli occhi dal giornale, lo ricambiò con uno sguardo annoiato, non privo di un certo fastidio.
Giovanni Zanca passò oltre e andò verso l’ufficio del comandante. Vedendo la porta socchiusa, fece un passo oltre la soglia.
Il comandante, intento a scrutare lo schermo del computer, fece in tempo a chiudere la pagina per nascondere ciò che stava guardando.
«Mi scusi comandante, volevo consegnarle questa…» Giovanni Zanca allungò la lettera con la richiesta di pensionamento.
«Ah!» Il comandante l’aprì e, dopo averci dato un’occhiata, la lasciò cadere sulla scrivania, come qualcosa di scontato, che attendeva da tempo.
Quindi il comandante alzò gli occhi sul viceispettore.
«C’è altro?»
«No.» Giovanni Zanca che era rimasto immobile, come sopra pensiero, fece per girarsi e andarsene.
Giunto sulla porta dell’ufficio si accorse di avere tra le mani qualcos’altro.
«Ah, sì… mi scusi. È arrivato un esposto nei confronti di una certa Osteria senza oste.»
Il comandante prese in mano la lettera anonima con la denuncia.
«Cos’è questa roba?»
Scorse velocemente il foglio ostentando un’aria sorpresa, quindi tornò a fissare il viceispettore.
«Antonio!» urlò.
L’attendente si affacciò alla porta.
«Antonio, vieni qui!»
Il giovane poliziotto fece qualche passo e si fermò di fronte alla scrivania del superiore.
«Tu che conosci tutte le bettole della zona, che cos’è questa Osteria senza oste?»
«Signor comandante, è un vecchio casolare riadattato a osteria dove non c’è nessuno che ci fa servizio e nessuno che controlla.»
«E dove si trova questo posto assurdo?»
«Io non ci sono mai stato, ma mi pare stia sopra la collina del Cartizze, tra San Pietro in Barbozza e Santo Stefano.»
Il comandante tornò a guardare il viceispettore che era rimasto in attesa sulla porta dell’ufficio.
«Va beh, andate a dare un’occhiata e vedete cosa dobbiamo fare di questa denuncia.»
Mentre Giovanni Zanca se ne stava andando, il comandante non si trattenne dal lanciargli una battuta.
«Ehi, Maigret, vedi di non farti prendere la mano e trovare troppi assassini.»
Poi, mentre anche l’attendente stava lasciando l’ufficio, a voce alta in modo da farsi sentire fin oltre la porta:
«Antonio, devi farti un po’ le ossa, prima che il vecchio ci lasci…»
L’attendente affrettò il passo e raggiunse il viceispettore a metà corridoio:
«Cosa c’entra Maigret?» gli chiese sottovoce.
«È una lunga storia. Sei nuovo dell’ambiente, sei uno dei pochi a non conoscerla. Prima o poi te la racconto. Intanto andiamo a vedere cos’è questa osteria. Prepara la macchina. Arrivo subito.»
Giovanni andò nello spogliatoio e si vestì con degli abiti borghesi che teneva per quel tipo di sopralluoghi.
Piegò la lettera della denuncia e se la mise nella tasca della giacca, uscì dall’ufficio e raggiunse Antonio che lo attendeva con il motore acceso.