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Marco Benazzi

9+ Storie vissute da uomini incapaci di superare l’implacabile prova del 9

racconti

Marco Benazzi - 9 +

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9+ Storie vissute da uomini incapaci di superare l’implacabile prova del 9

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Introduzione

Fin dalla nascita, il numero nove segue il mio cammino come un ombra, scandendo le date più importanti della mia vita. Qualche esempio? Sono nato il 9 settembre 1962 (9+9+1+9+6+2 = 9); sono partito per il servizio militare il 25 ottobre 1981 (2+5+10+1+9++8+1 = 9); il mio primo incontro con mia moglie Marzia è avvenuto il 18 aprile 1985 (1+8+4+1+9+8+5 = 9); il mio primo giorno di lavoro in teatro è stato il 1° ottobre 1996 (1+10+1+9+9+6 = 9); il giorno della mie nozze era il 10 settembre 1997 (10+9+1+9+9+7 = 9); in teatro ho traslocato il 12 ottobre 2003 (12+10+2+3 = 9) e via così fino ad arrivare all’uscita di questa raccolta datata 7 settembre 2009 (7+9+2+9 = 9). Questo mi porta a riflettere sul significato dei numeri, sullo studio della numerologia cioè l'interpretazione dei numeri per fini simbolici e magici. La numerologia risale ai cabalisti. La cabala, il ramo mistico del giudaismo, comprendeva anche elementi del pensiero cristiano e islamico. I cabalisti esercitarono grande influenza nella Francia meridionale (XII sec.), in Spagna e i Portogallo, fino alla loro espulsione (1492). Studiarono il significato mistico dei numeri anche alcuni filosofi del XVI e XVII sec. come Cornelius Agrippa, Dee, Fludd e Ashmole. Recentemente la New Age ha riportato la numerologia alle sue fonti simboliche e mistiche. L'interpretazione più semplice della numerologia considera il nome e la data di nascita e li riduce a un'unica cifra che dovrebbe rivelare la personalità del soggetto. Con molta probabilità, la cifra che identifica la mia personalità è il numero 9.

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L’autore Prefazione

La Romagna è terra strana, di contrasti e sentimenti, di tenerezza e miseria. Le “piccole” storie di Marco Benazzi la celebrano e la riflettono, filtrata dall’attualità iconografica del mondo del cinema, della televisione e del web. Una piccola patria attraversata dalla Storia, talvolta dalla microstoria, cui si intrecciano immagini già familiari a prima vista, che ne richiamano di analoghe con cui il cinema e la letteratura ci hanno raccontato questa terra. Il mondo di Benazzi affonda quindi profondamente in terra romagnola e tutti i racconti sembrano dipanarsi in qualche modo da Cesena, città di origine dello scrittore nei cui confini egli sembra talvolta sperdersi e ritrovarsi. Il suo narrare infatti oscilla tra città e campagna, tra presente e futuro, tra il dialogo interiore e la visione di una società informatizzata e disumanizzata, da cui non c’è scampo se non attraverso il sogno o il sesso, alla ricerca del Tarzen, il centro dell’energia vitale femminile, incerti se leggervi l’essenza della vita vissuta o l’esercizio di scrittura creativa comunicate attraverso l’esperienza di sesso sapienziale del protagonista ottantenne. Ancora il sesso irrompe in modo salvifico – e alquanto misterioso – nella vita di Olmo, il protagonista di Lapis, che vive della vita degli altri, scrivendone il necrologio in anticipo. Il sesso terapeutico traghetta con successo il protagonista nel mondo reale su uno sfondo di necrofilia grottesca ove la solennità dei gesti di Olmo ne accentua l’effetto comico, con un finale esilarante, soprattutto in questi tempi di riuso di ogni tipo di materiale a fini ambientali. Allo stesso tempo a Benazzi piace giocare con il mescolamento di generi e il suo background culturale coniuga la commedia all’italiana con il noir, le trovate postmoderne e i riferimenti alla storia recente, personale e/o collettiva, spesso spiazzando il lettore, intenzionalmente lasciato in bilico tra realtà e illusione. Il ricorso alla memoria però segue spesso sentieri contorti con esiti sorprendenti, come è il caso del racconto Il Paguro, numero 3 della peculiare numerologia di Benazzi, ove il ricordo dell’infanzia, costellato di interventi radiofonici e di suggestioni oniriche, scivola nell’immaginario cinematografico e sfocia nell’agonia dell’io narrante, vista in terza persona. Oppure si pensi al sommesso omaggio a Gigi Meroni, ala destra icona del Torino Calcio e dell’Italia non ancora protestataria degli anni Sessanta. Il tema della solitudine è trasversale a quasi tutti i racconti e l’esclusione del mondo umano è compensata – in parte - dall’ ”amore diverso” come quello per Bronson, con cui il rapporto è esclusivo e salvifico, accompagnato dalla protesta per la sorprendente discriminazione che a Cesena è fatta a spese dei gatti con l’assistenza veterinaria gratuita a favore dei soli cani. Ma c’è spazio anche per la tipizzazione fiabesca come in Capelli d’angelo - forse alludendo al film di ambientazione medievale “Le lunghe navi” (1963), che racconta appunto la ricerca di una campana d’oro - il cui finale, con un’epifania da X agosto e il 5


ritrovamento di una stella cadente caduta, riecheggia certe atmosfere padane, malinconiche e sognanti, del primo Pupi Avati. L’estro di Benazzi è poi magistrale nel creare giochi di rimandi e gialli nel giallo, nell’autoironico Extra Ghost Story, che chiude la raccolta, e nell’esplorazione degli universi virtuali di SL. La più felice combinazione di ambientazione, ritmo e comicità trascinante è tuttavia Il pedale d’oro, azzeccata trasposizione della commedia all’italiana ai tempi della Resistenza, con i consueti richiami cinematografici, percorsa da un’azione corale in un crescendo irresistibile. Si ricompongono qui i temi classici di Romagna, l’asprezza dello scontro politico, la lotta di fascisti contro mazziniani e rivoluzionari, la passione popolare per le corse in bicicletta, il sapore forte della beffa perpetrata in pieno 25 luglio e non sarebbe difficile immaginarvi, a maledire gli autori dell’inganno, un federale con il volto aspro e malinconico di Ugo Tognazzi come simbolo del potere gabbato. La sintesi finale è affidata naturalmente al racconto numero 9, cui si deve il titolo della raccolta, e che esplicitamente l’Autore identifica con la propria personalità. Si tratta di uno sfogo o meglio di un’invettiva di quelle da recitare a ritmo di rap come una canzone di Caparezza, dove ritorna definitiva la rinuncia al mondo reale e il rifugio nella dimensione onirica del cinema, tanto “siamo tutti condannati!” Ma con una simile forza narrativa e la capacità fantastica di costruire situazioni e personaggi c’è da sperare che Marco Benazzi non abbandoni del tutto il nostro mondo, con le sue miserie e le sue ingiustizie, e rompa nuovamente il suo volontario esilio con altre storie come queste. Sara Alzetta

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1 IN VINO VERITAS Ai lavoratori intellettuali “improduttivi”, cioè quelli che, come Milton scrisse “Il Paradiso perduto” per cinque sterline, producono opere d'arte “per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta” . (K. Marx) Teorie del plusvalore, libro I°

Siamo in una non ben definita città della Romagna. Sono le due del pomeriggio del 1° novembre 1966. In un bar del centro, quattro uomini giocano a carte a un tavolino quando, inspiegabilmente, tre agenti di pubblica sicurezza fanno irruzione nel locale e prelevano uno dei quattro senza metterlo al corrente del motivo. Il suo nome 1

Attrice triestina, si è formata a Roma e a Milano. ha lavorato al Piccolo Teatro di Milano, in diversi spettacoli di Giorgio Strehler, proseguendo, poi, il suo percorso professionale sotto la direzione di Giancarlo Cobelli, Walter Manfrè, Marco Mattolini, Nanni Garella, Gianfranco De Bosio, Armando Pugliese, Giuseppe Dipasquale, Massimo Castri, Toni Servillo, Alessandro Marinuzzi. Da un paio d'anni si è avvicinata alla sperimentazione video e alle arti visive in generale, lavorando come performer per diversi artisti. E’ autrice e presentatrice della rubrica di critica cinematografica nei programmi italiani di Tele Capodistria, conduttrice, doppiatrice.

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è Dante Comandini, ha trentanove anni moglie, due figli e da oltre cinque anni lavora presso la locale Cantina Sociale con mansioni di trasportatore - cantiniere. L’accusa è pesantissima: omicidio premeditato.

IL FATTO

Una signora sui cinquanta, Dolores Lucchi, domestica nell’abitazione del rag. Carlo Tumedei, da cinque anni direttore del succitato stabilimento vinicolo, scende in cantina per approvvigionarsi di legna, e scorge, bocconi su di una pozza di sangue raggrumato, il cadavere freddo e stecchito del Tumedei. In preda al panico, la donna di servizio avverte subito il commissariato di zona. Al comando delle operazioni, vista l’eccezionalità del fatto, vengono chiamati il commissario capo di P.S. dott. Vittorio Ferrari, il capitano dei Carabinieri, Giampietro Cangini e successivamente da Forlì, il Sostituto Procuratore della Repubblica e il dirigente della Squadra Mobile. Le prime indagini sul luogo del delitto accertano che la morte del direttore è avvenuta circa dodici ore prima del ritrovamento, intorno alla mezzanotte del 31 ottobre, allorché egli era rincasato a bordo della sua vettura, una Lancia Flavia, verde bottiglia. Il possibile movente del furto, è stato escluso immediatamente, in quanto nelle tasche dell’ucciso è stato rinvenuto il portafogli contenente una somma di oltre trecento mila lire né risulta essere stato asportato alcun altro oggetto. L’omicida, di cui non è stato ancora rinvenuta l’arma, deve aver agito con la massima circospezione in quanto nessuno nella zona, nemmeno la madre ottantenne e la domestica che le presta assistenza hanno avvertito alcunché di anormale, o percepito rumori di sorta anche perché la via dove il delitto si è consumato è assai poco frequentata nelle ore notturne dal momento che vi si affacciano esclusivamente magazzini ortofrutticoli. Al commissariato, intanto, da oltre sette ore si trova l’operaio Comandini, primo nella lista dei sospettati per il suo carattere schivo e, soprattutto, per il credo politico inviso ai superiori, per esempio al geom. Sauro Senni, amministratore nonché Deus ex machina dell’azienda vinicola, forte consumatore di cioccolatini ripieni. L’accusato, in stato di choc, dopo quasi otto ore di interrogatorio, nel costante tentativo di discolparsi, alla precisa domanda dello spietato questurino su chi, secondo lui, poteva aver commesso un delitto così orrendo, tale da non avere eguali nella storia della città negli ultimi decenni per la freddezza e la decisione con cui è stato portato a termine, senza dubitare minimamente di sbagliare, fa il nome di Atos Zappi detto “l’oriundo”, operaio quarantasettenne rude e attaccabrighe, di origini marchigiane il quale, inspiegabilmente, non risultava neppure far parte dell’organico aziendale. I vertici del commissariato di P.S., in azione congiunta con i carabinieri della Compagnia del luogo, nonostante i lunghi interrogatori condotti sul personale dipendente della Cantina Sociale allargati poi alla cerchia delle persone che in un modo o nell’altro potevano aver rapporti con la vittima – è stato interrogato anche il marito di una donna con cui il Tumedei intratteneva rapporti affettivi – avrebbero brancolato nel buio se non fosse stato per la segnalazione dell’operaio Comandini, il principale sospettato, che porta gli inquirenti a giungere allo Zappi il quale, ad un certo momento, resosi conto di non avere reali possibilità di sfuggire alla trama che gli si stringe attorno, sempre più fitta, finisce per confessare la sua piena 7


responsabilità. L’omicida, accusato dal direttore di essere “uno” dei responsabili di un grosso ammanco di vino, non si presenta al lavoro nella mattinata del 31 ottobre per evitare di rivelare al rag. Tumedei i nomi dei complici del furto. Decide, però, di parlare al direttore in privato, per cui, dopo aver detto alla moglie che si sarebbe recato a Savignano per la lavorazione delle carni di un suino macellato, raggiunge a tarda sera il luogo del delitto, scavalca un cancelletto situato sul perimetro recintato e successivamente, riesce a penetrare nel salone dei torchi e delle presse, dopo aver con facilità sollevato la serranda che ne chiude gli accessi nelle ore notturne. Qui, al buio, attende il ritorno dell’ignaro direttore che rincasa a mezzanotte inoltrata a bordo della sua automobile. Il Tumedei, chiusa la portiera della vettura ed aperto l’ingresso dello stabile che è comune all’abitazione, si chiude alle spalle i battenti e si affaccia nel salone dei torchi, uno dei quali, contrariamente al solito, rimasto in funzione tutta la notte, è ancora in movimento quando gli inquirenti arrivano sul posto. Lo ha azionato Zappi per attutire i rumori dello scontro verbale piuttosto vivace e risentito per via delle voci corse in precedenza circa supposte colpevolezze a carico dell’omicida e dei suoi “complici”. Venuti a vie di fatto, l’operaio riesce ad afferrare una sbarra di ferro lunga sessanta centimetri e con questa colpisce ben nove volte la vittima, sul corpo della quale vengono poi riscontrate numerose contusioni: al volto, al cranio, alla nuca. In un estremo tentativo di difendersi o comunque di sfuggire ai colpi mortali del suo aggressore, il Tumedei, come confermano le larghe chiazze di sangue lasciate sul pavimento, cerca di fuggire, finendo poi riverso sul proprio sangue a pochi centimetri dalla soglia di casa e a ridosso della sua automobile. A sua volta, Atos Zappi, si libera dell’arma del delitto gettandola in un tombino da fogna situato nei pressi. Qui, infatti, viene ritrovata dagli agenti della P.S. dopo che i vigili del fuoco hanno rimosso la pesante lastra di cemento che ricopre la cloaca. Da un successivo sopralluogo effettuato nell’abitazione dell’omicida, emergono poi altri elementi a carico dell’assassino, uno su tutti il rinvenimento di un paio di pantaloni intrisi di sangue. Dopo la piena e aperta confessione, Atos Zappi viene tradotto in stato d’arresto al carcere giudiziario provinciale e posto a disposizione del Magistrato. Una settimana dopo, il giorno antecedente il processo che lo avrebbe visto imputato per omicidio volontario, Atos Zappi detto “l’oriundo”, muore accidentalmente in cella, soffocato da un cioccolatino allo sherry. Il fatto strano è che la carta che avvolge solitamente i cioccolatini, non è mai stata ritrovata. L’operaio Dante Comandini, dopo la traumatica esperienza di quelle interminabili otto ore di interrogatorio all’americana, lasciando gli uffici del commissariato locale, augura stessa sorte ai suoi accusatori i quali, sapendolo di idee politiche anarcoidi, lo spingono a reagire per poi rinchiuderlo in uno stanzino tre metri per due costringendolo a mangiare un chilo di cioccolatini purgativi2 assortiti. Un ora dopo, terminato l’umiliante supplizio, l’operaio ribelle viene rilasciato fra le risa sguaiate dei biechi questurini. Con grande dignità, Dante guadagna l’uscita del commissariato scansato da tutti per l’odore nauseabondo e, tenendo per mano la fedele compagna, insegue l’orizzonte con l’andatura fiera di chi non mangia 2 Cioccolatini purgativi "RICCI”, celebre marca riminese che ebbe vasta notorietà durante il ventennio.

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cioccolatini ripieni.

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