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Arianna De Corti
Il mondo del libro
Edizioni "Il Grappolo"
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La storia del libro è la storia dello sviluppo della cultura dei popoli
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La storia del libro si riallaccia strettamente alla storia della civiltà di cui è parte integrante, fissando un repertorio di fatti e notizie che mostrano la continuità su ciò che può venir chiamato la "civiltà scritta": lo scopo è di conservare la memoria di opere d'ingegno o di episodi e di darne comunicazione ad altri. Varie furono le fasi, gli aspetti e i caratteri attraverso i quali passò il libro a seconda dei materiali usati nella sua composizione. La sua origine si perde nei tempi lontani, legata alla scrittura che fu lo strumento indispensabile della sua esistenza, e che perciò ne ha preceduto il sorgere e il propagarsi. Il periodo più antico è quello nel quale si nota il tentativo e il bisogno di assicurare una lunga durata alle espressioni della vita sociale, ai testi della religione e delle leggi civili, agli atti concernenti i rapporti tra gli stati e i cittadini, alle memorie pubbliche e private, e così via. La forma del libro è ancora rudimentale e viene ricavata dalla parte interna della corteccia dell'albero, materia questa che si trova facilmente in natura, anche se ve ne sono altre sia di natura vegetale che minerale e animale. Una delle più antiche forme di libro fu quella rappresentata da cilindri di terracotta e da tavolette di argilla, in uso presso gli Assiri e i Babilonesi: la struttura cuneiforme usata presso questi popoli veniva incisa sopra tavolette allo stato molle e dalle due parti. I Sumeri, arrivati dall'est intorno al IV millennio a.C. e insediatisi nella Mesopotamia tra l'Eufrate e il Tigri, furono artefici di una progredita civiltà da noi conosciuta attraverso gli scavi. Avevano adottato il sistema di scrittura cuneiforme che favorì la diffusione di un'erudita e cospicua letteratura. Sotto questa denominazione vengono riunite tre letterature che abbracciano tre millenni di storia, tra culture diverse ma interdipendenti, che per molta parte precedono le letterature classiche e le Orientali più antiche, con temi e forme letterarie che spaziano dagli aspetti più umili e comuni della vita ai problemi dell'etica e del costume sociale, dalle istanze profonde dello spirito alle concezioni sul mondo e le sue origini, dalle manifestazioni religiose, della magia, della storia, della vita civile, giuridica, amministrativa familiare alla pace e alla guerra, dalle conquiste scientifiche a quelle astronomiche. Ai 7
Sumeri, inventori della scrittura cuneiforme, seguiranno Babilonesi e Assiri, gli Hittiti dell'Asia Minore la cui letteratura ci tramanderà i primi testi di una popolazione arioeuropea. Nella città di Nippur, una delle più note dell'epoca, sono state scoperte tracce di una grande biblioteca contenente più di 500.000 pezzi e di un archivio di documenti, entrambi situati nel tempio. Si tratta di frammenti di tavolette d'argilla con segni di scrittura, probabilmente incisi per mezzo d'uno strumento metallico o d'avorio o di legno, che ne tracciava la forma a cuneo. Quindicimila tavolette di grandi dimensioni con scrittura cuneiforme furono rinvenute durante gli scavi anche a Bogazköy a est di Ankara, capitale degli Hittiti, che raggiunse l'apogeo della sua prosperità tra il I900 e il I200 a.C., ed altre ancora a RasShamra nella Siria settentrionale, che all'epoca degli Hittiti era un importante centro commerciale. La forma iniziale della scrittura fu pittografica, sia presso gli egizi fin dal IV millennio a.C. che nelle scritture hittita, cretese, indiana e cinese. Andò man mano modificandosi presso i popoli delle coste mediterranee, anche per la scoperta di strumenti più idonei alle esigenze evolutive della civiltà, trasformandosi in ideografica, rappresentata cioè da simboli, in sillabe, e verso il XV secolo a.C. si giunse a scritture alfabetiche per merito dei Fenici: dalla loro derivarono la greca, l'etrusca e la latina, e i Romani apprenderanno l'arte dello scrivere dagli Etruschi in epoca regia. Il vocabolo "libro" deriva dalla voce latina "liber", cioè corteccia secondaria dell'albero, materia che per prima venne utilizzata come supporto della scrittura. Ma fu l'Oriente a tramandare la più grande varietà di supporti per scrivere: in India e in Indocina i libri venivano scritti su foglie di palma secche e imbevute d'olio , sulla corteccia secondaria degli alberi, specie del tiglio, su membrane dette "tilia" o "filirae", nome che servì ad indicare anche il foglio di papiro; nel Kashmir e nell'Asia centrale sulla scorza di betulla; in Cina sulla seta. Si usava anche il lino, e a Roma, per lungo tempo, vennero redatti su tela di lino gli annali dei pontefici: libri lintei. Si scrisse anche su metallo, argento, oro e piombo, in lamine sottilissime da arrotolare come la carta. Si è a conoscenza, soprattutto per la Cina, di una ricca produzione letteraria ad alto livello, accompagnata da un'arte del libro molto sviluppata e che si fa risalire a 3000 anni prima di Cristo.
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Nel secondo millennio a.C., gli scribi che di solito appartenevano a collegi sacerdotali, disponevano i volumi e ne facevano commercio a profitto del culto. Scrivevano sul legno partendo dall'angolo inferiore destro e continuando poi in senso verticale. In seguito alla distruzione delle tavole, ordinata dal primo imperatore cinese, Qin Shi Huangdi, nel 213 a.C. per eliminare le opere che criticavano la sua attività politica, si passò alla seta sulla quale venivano vergati i segni per mezzo di una canna di bambù o di un pennello di peli di cammello, e per inchiostro un composto di nerofumo e gomma, detto in seguito "inchiostro di china". Le tavolette di legno che sostituirono quelle di argilla perché meno ingombranti e più facili da portare, si trovano già presso i Fenici e gli Ebrei, ma furono i Greci a divulgarne la pratica. Erano soliti ricoprirle di una materia molle, generalmente di cera, sulla quale riusciva facile incidervi la scrittura. Queste tavolette venivano legate a due a due o in maggior numero in modo da formare dei "dittici" o dei "polittici" che si avvicinavano molto alla forma del libro futuro. Ma il materiale che meglio servì a tramandare testi e opere letterarie di qualche mole, e a dare l'immagine del vero libro, fu il papiro che gli Egiziani cominciarono ad usare duemila e più anni prima dell'era volgare, sotto la forma di rotolo. Fu grazie all'intervento dei Faraoni che l'Egitto vanta una fioritura letteraria di considerevole valore, sviluppatasi sia nel campo religioso che in quello scientifico e letterario. La pianta del papiro divenne ben presto la materia principale e indispensabile come supporto della scrittura, determinando anche la forma esteriore del libro egiziano. Il "Cyperus papyrus " della famiglia delle Ciperaceae, noto in almeno 700 specie, è considerato come una delle piante più anticamente conosciute dall'uomo, divenendo veicolo del suo pensiero e giocando un ruolo importante nella storia del libro e della civiltà in genere. Pianta acquatica tipica delle zone paludose, fu assai diffusa oltre che sulle rive del Nilo anche su quelle dell'Eufrate, in Etiopia, Siria, Palestina e Africa Tropicale. La sua denominazione deriva dal nome greco della pianta, ταπυροσ d'ignota etimologia, ma che Plinio il Vec chio faceva provenire dal l'isola di Cipro, sacra a Venere. Gli antichi 9
egiziani avevano scoperto molto presto i molti meriti di tale arbusto e lo avev ano utilizzato per le loro neces si tà quotidiane per ben 4000 anni. La parte molle contenuta alla base del fusto serviva loro di nutrimento o come essenza corroborante in medicina; con la chioma s'intrecciavano corone da offrire agli dei; con lo stelo e le radici ricavavano legno per oggetti casalinghi, come tavole, cassoni, vasi e panieri; dalla corteccia ricavavano fibre per abiti e vele; con il fusto tessevano filamenti per corde, calzari, cinture, lucignoli per torce e ceri funerari; con i rami secchi, legati strettamente insieme, costruivano barche che utilizzavano per la caccia della selvaggina d'acqua e per la pesca, o anche culle per neonati. Alcune specie sono ancora oggi usate per la lavorazione dei profumi: dalle radici di alcune Cyperus Rotundus si distillano essenze profumate che i Romani chiamavano radix junci; dalle specie Cyperus Esculentus gli spagnoli ricavavano uno dei loro rinfreschi più noti, l'horchata de chufa, sostanza che i francesi chiamano "souchet" commestibile e gli inglesi "zulu nut", Chufa. Ma certamente l'impiego più importante del papiro, in Egitto, fu quello di supporto della scrittura, per ottenere il quale era necessario un procedimento tecnico lungo e minuzioso: si recideva soltanto lo stelo, che poteva raggiungere anche i cinque metri d'altezza, e che si presentava in sezione triangolare. Veniva immerso in acqua e poi privato della corteccia verde, indi tagliato nel senso della lunghezza in strisce sottili larghe un pollice con un attrezzo detto "acu". Le strisce ricavate, dette schede "philirae", venivano stese su di un piano una accanto all'altra e bagnate con l'acqua del Nilo. Su questo strato se ne poneva un altro in senso trasversale, "texendi labor" e, fatto aderire al precedente mediante pressione, lo si lasciava al sole ad essiccare per un paio di giorni. Si otteneva così un foglio compatto "plagula" che, ancora umido, era reso piano martellandolo, levigandolo e lisciandolo con uno strumento in avorio. La "plagula" veniva poi tagliata e rifilata in fogli di uguale formato, di una lunghezza tra i dodici e i trentadue centimetri e di un'altezza tra i ventidue e i trentatre. L'attaccatura tra strisce e strati si otteneva mediante un adesivo o anche per mezzo della semplice pressione, κολλησισ, incollatura, dato che la pianta secerne una resistente sostanza adesiva, il "turbidum liquoris glutinum". I fogli venivano poi avvolti a rotolo, "scapus" o "volumen", e messi in commercio. Il papiro migliore era a sfumatura chiara, giallastra o quasi bianca, la ieratica, la più antica e raffinata , più sottile e destinata alla scrittura dei libri sacri, e la 10
leucasica di tipo ordinario e di colore bruno. La ieratica di prima scelta era detta "augusta" o "reale, e quella di seconda scelta "liviana" da Livia, moglie dell'imperatore Augusto. Gli Egiziani conservarono il monopolio del papiro per più di tremila anni, esportandolo in tutte le parti del mondo. Era monopolio di Stato, e pertanto i perfezionamenti relativi alla sua fabbricazione erano segreti; soltanto da alcune pitture rinvenute in Tebe e alle informazioni tramandate da Plinio il Vecchio tra il 23 e il 79 d.C. nella sua "Naturalis Historia", venne desunta l'odierna descrizione. Il "libro" egiziano ebbe quindi la forma di "rotolo", costituito normalmente di venti fogli arrotolati a una asticella in legno, osso od avorio chiamata dai Romani "umbilicus". Il termine "plicare" ed "explicare" per indicare rispettivamente l'atto di arrotolare e srotolare, diede origine alla locuzione "explicit", per indicare la fine di un manoscritto. La scrittura sul papiro correva parallela alle fibre orizzontali sul recto del foglio, formando strette colonne che venivano progressivamente numerate: i papiri "opistografi" erano invece scritti sui due versi. Le colonne erano dette "pagine" e anche "schedae"; il primo foglio si chiamava "protocollo" l'ultimo "excatocollo". La colonna era formata da un numero indeterminato di righe, versus "γραµµη delle quali alla fine del foglio si faceva la somma, "sticometria", e la lunghezza del rotolo variava a seconda delle necessità: se ne conosce ad esempio uno, lungo venti metri con centodieci pagine. La scrittura, che si era già sviluppata a metà del terzo millennio a.C. e veniva chiamata ieratica, sacerdotale , come la qualità migliore del papiro, non era uguale a quella dei geroglifici delle iscrizioni, ma più rapida e più facile da comprendere. In un secondo momento si passò ad una scrittura detta "demotica", cioè popolare, ancora più corsiva. Gli scribi egiziani adoperavano un'asticciola di bambù tagliata trasversalmente, che poteva fare tratti grossi o sottili, e il "calamus", una canna tagliata in punta che permetteva una scrittura più fine, comparve nel III secolo a.C.. L'inchiostro era formato da nero di fuliggine o da carbone di legno, trattati con soluzione di colla: era indelebile e di un bel nero brillante; l'inchiostro rosso usato per i titoli e gli inizi dei capitoli, era costituito da ocra rossa triturata finemente e allungata con acqua e colla. 11
Lo scriba conservava i suoi attrezzi in una tavolozza detta "palette" in legno o avorio, di forma allungata con degli incavi per riporvi il calamo, l'inchiostro seccato e solidificato in forma di tavolette e un piccolo contenitore d'acqua per sciogliere l'inchiostro stesso: scriveva in piedi o accoccolato tenendo il foglio di papiro nella mano sinistra, sostenuto con il palmo e l'avambraccio, mentre con l'altro avambraccio sosteneva la tavolozza e un pezzo di stoffa per cancellare in caso di errore. Il rotolo di papiro veniva immerso nell'olio di cedro per tenere lontani i molti insetti che potevano intaccarlo; ma il più grande nemico era l'umidità. La maggior parte dei papiri giunti a noi devono la loro conservazione alla consuetudine religiosa che voleva la loro deposizione nella tomba del morto racchiusi in appositi recipienti per proteggerli durante il viaggio verso il regno dei morti: si tratta per lo più di testi sacri o di preghiera. I cosiddetti "libri dei morti", noti fin dal 1800 a.C., erano rotoli in papiro eseguiti dai sacerdoti del culto, predisposti lasciando in bianco il nome del morto e più o meno preziosamente adornati a seconda della posizione del destinatario. Quella dei "libri dei morti" è la sola forma di commercio librario conosciuta nell'antico Egitto. Poco si sa delle biblioteche egiziane, collegate di solito con i templi, attivi centri religiosi: a Edfou, nell'Egitto meridionale, nel tempio di Horus il dio del sole , è stata scoperta una sala i cui muri erano stati ornati di titoli di libri conservati nella biblioteca, e nei pressi di Tebe sono state trovate due tombe le cui iscrizioni menzionavano la qualifica di "bibliotecario", appartenenti alla classe sacerdotale. Erano infatti i sacerdoti a insegnare le scienze e l'arte della scrittura nell'Egitto classico. Nel VII secolo a.C. nasceva in Grecia la poesia lirica, e anche il papiro faceva allora la sua apparizione importato dall'Egitto, il cui foglio da scrivere venne chiamato dai Greci χαρτησ, tradotto in latino "charta" e presso di noi "carta"; al rotolo venne dato il nome di χιλινδροσ e in latino "volumen", "liber" e anche "rotolus", rotolo che era composto da una serie di documenti incollati insieme e chiamato τοµοσ , "tomus" in latino e che in seguito indicherà una parte di rotolo tagliato, donde l'attuale "tomo". 12
Il più antico papiro greco pervenutoci è del IV secolo a.C., e il numero maggiore di essi fu rinvenuto negli scavi fatti nell'ottocento in Egitto e nell'Asia Minore,del III secolo a.C., tempo nel quale la vita intellettuale greca giunse in Egitto al seguito del conquistatore Alessandro il Grande, e il papiro ne divenne il segno rappresentativo inconfondibile. I rapporti tra i due paesi si strinsero ancor più con Tolomeo I che consolidò il suo potere nella valle del Nilo e fece di Alessandria una delle città più civili e più preparate culturalmente, dove avrebbero approdato molti studiosi greci. È merito di Tolomeo II l'organizzazione della rinomata biblioteca di Alessandria, la più celebre e più famosa del mondo, sorta con l'intento di raccogliervi le opere di tutta la letteratura greca, commentate e ordinate da celebri letterati greci come Callimaco, che ne fu anche il bibliotecario. Pare che fossero custoditi ben 700.000 rotoli di papiro. Ma i rotoli più lunghi, come quelli probabilmente che contenevano le opere di Tucidide o di Omero, erano scomodi da conservare, tanto che il poeta Callimaco, intorno al 260 a.C. aveva chiamato il µεγα βιβλιον "grande libro", un µεγα κακον , un grande inconveniente. I Romani scrivevano le poesie su piccoli papiri e le opere di storia in quelli di grande formato, ciò che spiega le divisioni in libri degli scrittori latini Orazio, Virgilio, Ovidio, Marziale, Tibullo, Properzio eccetera, e la lunghezza poco estesa dei libri. L"umbilicus" aveva due estremità sporgenti rotondeggianti a pomello, dette "cornua", in avorio, oro, argento o in pietre preziose, a seconda della preziosità del manoscritto. All'esterno del rotolo veniva incollata una striscia con l'indicazione dell'opera, detta "index" o "titulus". Data la fragilità dei rotoli, essi venivano talvolta riuniti in fasci avvolti in membrane o scorze d'albero, e poi custoditi in astucci di legno o di pietra, detto dai greci , βιβλιοτηχη, parola che in seguito passerà ad indicare tutta una serie di libri; in latino si chiamò "cista" o "capsa" o "scrinium", oppure anche "pandette" o "bibliotheca". La scrittura, stesa sul papiro con un'asticciola cava di canna tagliata a pennino, si presentava ingrandita, senza intervalli tra una parola e l'altra; si segnava la fine di un capoverso sottolineando l'ultima riga con u n tratto detto ταραγραϕοσ . Il titolo dell'opera verrà apposto molto tardi: veniva citato 13
normalmente al termine del testo, e sono giunte a noi soltanto un piccolo numero di illustrazioni. La scrittura romana dell'epoca classica ci è nota attraverso iscrizioni e papiri. I primi caratteri sono tracciati su pietre, su metalli e terracotte, su tavolette di cera eseguiti con uno scalpello o per mezzo del pennello o dello stilo. Un centinaio di papiri ci offrono una documentazione scritta a inchiostro che risale alla fine del I secolo a.C.: sono stati rinvenuti soprattutto nel Fayum a Tebtunis e a Oxyrynchos in Egitto, e a Dura Europo sull'Eufrate. La scrittura delle iscrizioni è del tipo maiuscolo, composto di lettere alte uguali, comprese in un sistema di linee parallele, di forma "capitale", denominazione desunta dalle maiuscole dell'intestazione dei libri e dei capitoli, dei "capita". Tale antichissima capitale detta "arcaica", era adoperata indifferentemente per scopi librari e documentari, e con la comparsa dei primi esempi di scrittura ad inchiostro nel I secolo d.C., erano già suddivisi in due tipi: in uno le forme si erano ulteriormente ingrandite e ingrossate fino ad assumere proporzioni monumentali eccezionali per libri di lusso e per affissioni; nell'altro, si erano mantenute di piccole dimensioni, con la leggerezza della scrittura corsiva e con differenze grafiche soggettive. Costanti erano rimasti l'"angolo" " acuto della scrittura e il "ductus", l'ordine cioè con il quale lo scriba aveva tracciato le lettere. Esempi del primo tipo sono un affisso edittorale dell'anno 79 d.C. e il frammento papiraceo della " gramatica" di Palaemon dell'anno I48; il "Vergilius Palatinus" attribuito al IV-V secolo, il "Vergilius Romanus " del V e il "Vergilius Vaticanus". La "capitale" romana è regolare, classica, con grosse aste orizzontali o che scendono obliquamente da sinistra a destra, e più sottili quelle che salgono. Un esempio di scrittura corsiva si ha nel "Papyrus Claudius" della metà del I secolo d.C. che si presenta con tratti piccoli e leggeri eseguiti con uno strumento molto duro e in forma rapida. Questo tipo di scrittura, usato per manoscritti e documenti, venne chiamato "scrittura comune classica" o "capitale corsiva". Tra il II e il III secolo sorgeva, nella scrittura romana, un cambiamento che dava luogo a due grafie: la "nuova crittura comune" o "minuscola corsiva", e l'"onciale", come risulta da un piccolo frammento del libro in pergamena "De bellis macedonicis" e da un rotolo di papiro con una "Epitome" delle storie di Tito Livio, l'uno con caratteri grafici del sistema classico del I secolo e l'altro con un nuovo tipo di scrittura collocabile al 14
III secolo. Il cambiamento consisteva nel capovolgimento dell'ordine dei tratti grossi e sottili, dovuto al cambiamento dell'angolo di scrittura, a una diversa inclinazione del foglio e a un diverso taglio del talamo, in seguito al passaggio dal papiro alla pergamena. Nel III e IV secolo venne usata una scrittura minuscola disposta su quattro linee parallele, detta "minuscola corsiva", con frequenti legature. Questo nuovo sistema era sorto nel II secolo nella parte orientale dell'Africa del Nord, contemporaneamente alla scrittura onciale, grafia di lusso, come si può riscontrare nella citata " Epitome" , con elementi ispirati al "De bellis". Per un secolo circa, la scrittura aulica e quella nuova coesistettero, e nel IV-V secolo, quella nuova sostituirà l'antica, meno che nella cancelleria imperiale. Il tipo latino onciale era una scrittura ben decisa, ingrandita; l'onciale, scrittura per lo più di lusso, compare in grande numero di manoscritti, pare 390, dal IV all'VIII secolo. Il termine tradizionale di "litterae unciales" che si riscontra in un passo di san Girolamo e negli autori medievali vuol indicare lettere di grande formato: "uncia", oncia. In Grecia fiorì una fiorente arte libraria: il copista e il venditore di libri furono agl'inizi un'unica persona, e soltanto a partire dal V secolo a.C. i commercianti, detti "bibliopoli", formarono una classe indipendente esercitando il loro mestiere in negozi aperti al pubblico. La bottega divenne, oltre che punto di vendita, anche luogo di ritrovo di persone erudite che si riunivano per ascoltare la lettura ad alta voce, secondo l'usanza del tempo, di libri appena usciti. Era anche un modo di verificare il gusto del pubblico nel lancio di un nuovo lavoro. Nei tempi più antichi la diffusione di un testo era opera di persone erudite, e quando il mestiere prese piede, l'emissione di un libro avveniva, in base alle testimonianze di Luciano e di Strabone, anche da parte di librai incompetenti e ignoranti, che adoperavano copisti di scarsa abilità e che alteravano i testi originali. I greci chiamavano µελανιον l'inchiostro nero, e i latini "atramentum": Plinio fa una differenza tra "atramentum librarium" per la scrittura, "tectorium" per la pittura e "sutorium" per la tintura delle pelli. Lo strumento per scrivere variava con le forme di scrittura: per le tavolette in legno si adoperavano tanto lo stilo quanto il pennello, e quelle cerate venivano scritte con lo "stilus" o "graphium", un'asta d'osso, di ferro, d'argento o d'avorio, puntata da una parte per incidere i caratteri e terminante dall'altra in una specie di spatola che 15
serviva, spianando la cera, per cancellare o correggere. L'espressione "vertere stylum" diventò proverbiale presso i romani per significare "correggere un'opera". L'uso dello stilo era molto antico, dato che se ne parla anche nella Bibbia: "Delebo Jerusalem sicut deleri solent tabulae: et delens vertam, et ducam crebrius stylum super faciem eius" Distruggerò Gerusalemme come si sogliono cancellare le tavolette e distruggendo volgerò e condurrò più volte lo stilo sulla sua superficie"- (Regum IV, 21,13). Lo stilo verrà usato per lungo tempo, a partire dai romani per le tavolette cerate al medioevo, e sino al XV secolo. Per la scrittura a inchiostro veniva adoperato il calamo o canna a giunco, e secondo Ausonio, gli antichi, dopo averlo temperato, tagliavano la punta in due parti uguali e li conservavano nella "theca" calamaria, spesso in bronzo, che conteneva anche il coltello, "cultrum", per temperare il calamo, la "regula", riga; il "rasorium", il rasoio per raschiare o tagliare la pergamena; il "punctorium", punteruolo o il "plumbum", piombo, per tracciare righe e margini. L'uso del calamo durerà fino al VIVII secolo, quando verrà sostituito dalla penna di volatile, specie d'oca. Per temperare calami e penne si usava un coltello detto "scalprum librarium" o "moderatorium ad temperandum pennas" e più brevemente "temperatorium" da cui temperino. Ma il "pennicillus", temperino, fu di raro uso, venendo adoperato soprattutto per la scrittura in oro e per l'inizio elaborato dei codici. "Circinus" o "punctorium" era il compasso che segnava l'uguale distanza delle righe, con forellini ai lati della pagina. Secondo la consuetudine greco-romana, di scrivere sulle ginocchia, la pergamena sarà sorretta da un'assicella. Ancor prima di Cristo, sorgevano in Grecia e nei paesi di cultura ellenica celebri biblioteche pubbliche e private: il tiranno Pisistrato nel 550 a.C. aveva istituito in Atene una biblioteca pubblica, ed è nota anche la libreria privata di Aristotele che, alla sua morte, passò alla celebre biblioteca di Alessandria d'Egitto. Estendendo il loro impero, i Romani assimilarono anche i frutti della civiltà greca, e i generali vincitori portarono a Roma come bottino di guerra intere collezioni di libri greci. Ma fu l'introduzione dell'uso del papiro come supporto della scrittura in Roma, che diede un notevole impulso alla nascente letteratura nazionale: era certamente più maneggevole della corteccia d'albero, i rotoli di piombo o la tela, materiale che i Romani 16
avevano in uso da tempo. Furono i Greci immigrati ad organizzare un redditizio commercio del libro in Roma: i volumi destinati al commercio venivano scritti da schiavi "literati" detti "scriptores, amanuenses, librarii o antiquari". "Librarius", all'inizio, significava "scrittore di opere letterarie", e in seguito anche la persona che teneva nella sua officina scrittori schiavi che copiavano i testi per compenso. Ma secondo Seneca (De beneficiis, VII,6) la parola avrebbe anche espresso il concetto moderno di venditore di libri. Il termine "antiquarius", poi, dato in origine agli scrittori di cose antiche, già al tempo dell'impero aveva assunto il senso di librario in genere. A partire dal I secolo a.C., comparirà in Roma la figura dell' editore, necessaria per i contatti col pubblico. Il primo e più famoso fu Pomponio Attico, amico di Cicerone, agricoltore e commerciante di libri, che raccolse presso di sè un notevole numero di copisti che lavoravano per la sua biblioteca e che adibiva anche alla copiatura di opere che poi vendeva a caro prezzo. Fu Pomponio Attico ad addossarsi le spese per la pubblicazione delle opere di Cicerone. Oltre Attico, furono librai molto noti e ricordati da Orazio, Marziale, Quintilliano, Plinio, Seneca e altri, Socia che aveva la bottega al foro di Cesare e il liberto Secondo Quinto Valerio Pollione. La via dei librai era detta l'Argileto e si trovava presso il teatro Marcello; i negozi, "tabernae librariae" presentavano all'entrata gli sportelli coperti da iscrizioni che indicavano le opere in vendita con i nomi degli autori. Pregio maggiore era attribuito ai volumi rivenduti e corretti dagli autori stessi, come si legge in un epigramma di Marziale, l'autore che ha tramandato il maggior numero di notizie intorno al mondo dei libri presso i Romani. A Roma erano migliaia gli schiavi che si dedicavano a trascrivere codici, e perfino le matrone romane avevano le loro copiste. Incominciarono a sorgere biblioteche private, oltre a quelle pubbliche istituite da Cesare e da Augusto, e furono costituite delle "stationes", ossia delle officine scrittorie dove veniva dettato il testo contemporaneamente a più copisti, divenuti veloci con l'adozione di abbreviazioni. Tre furono i segni di abbreviazione: il "punto", la "lineetta" e la letterina soprascritta.I segni potevano avere un significato "generale" o "indeterminato", e "relativo" o "determinato", i quali secondo il posto o la forma indicavano quale elemento era mancante: "p" equivaleva a "per"; "p" a "pre". Il "punto" è il segno abbreviativo più antico, e per lungo tempo fu anche il solo nei manoscritti: "B." per "bus"; "Q." per 17
"que". La lineetta venne dapprima usata come segno di differenziazione per i numeri, e veniva posta sopra i numerali per indicare mille e multipli di mille; come segno abbreviativo compare nel I secolo e si diffonde poi nelle iscrizioni tra il II e il III. Nei documenti, i più antichi esempi sono del III e IV secolo; ebbe vari significati: posta sopra la vocale suppliva una "m" o una "n", ondulata era usata con valore di "r", con o senza vocale; sopra la "t" significava "ter" o "tur"e quando tagliava la seconda asta della "r" indicava "rum". La letterina soprascritta di una lettera o di più lettere era una vocale o una consonante che ne indicava la soppressione: qa stava per "qua"; ra per "ratio". Tra i più noti segni speciali, usati per maggiore velocità nello scrivere abbiamo gli "f f" in luogo di "digestum", comune nelle raccolte giuridiche, probabile alterazione di "digestum"; 9 equivalente a "con"; "," a "u s"; 7 a "et", tutti segni derivati da "note tachigrafiche". I segni d' interpunzione, comunque, mancavano nei manoscritti dell'età romana, comparendo soltanto nelle scritture corsive posteriori, con il diffondersi delle maiuscole. Nell'evoluzione della scrittura, le abbreviazioni hanno avuto grande importanza: nessuna scrittura latina del medioevo, ad esempio, ne è priva. Le "abbreviature" furono usate sia per alleggerire l'opera di stesura, sia per ridurre il consumo del supporto scrittorio, e come sistema venne usato o quello di rappresentare la parola con un segno convenzionale, oppure di scrivere il vocabolo ridotto di una o più lettere. Il primo metodo fu usato per raccogliere discorsi politici e del foro, come una specie di moderna stenografia, noto col nome di "notae tironianae", in quanto sarebbe stato inventato o applicato nella pratica oratoria da Tirone, liberto di Cicerone, morto a Pozzuoli nel 4 a.C., esperto stenografo, suo segretario, e che per lui raccolse, secondo la testimonianza di Plutarco, il discorso pronunciato da Catone contro Catilina. L'opera di Tirone, basata su circa duecento segni, venne ripresa, estesa e perfezionata sia presso privati che presso gli uffici dell'amministrazione dell' impero e presso gli studenti, per stendere appunti. Il sistema, in seguito, venne modificato ispirandosi al principio della divisione delle parole in sillabe e dell'espressione di ogni sillaba mediante segni: si tratta della "tachigrafia sillabica". Per scrivere il vocabolo ridotto di una o più lettere, si usavano vari tipi di abbreviazioni, indicando ad esempio una o più lettere iniziali della parola, tralasciando la parte finale: 18
"inc." per "incipit"; "a" per anno con la "sospensione"; oppure omettendo lettere intermedie con la "contrazione": "oia" per omnia; "tpre" per tempore; o scrivendo qualche lettera mediana, tralasciando il principio e la fine della parola con l ' "aferesi" : g o per "ergo"; g i per "igitur". Se la sospensione dava la prima o le prime lettere di una parola, si avevano le "sigle", le più antiche usate dai Romani: "notae iuris", abbreviazioni che si trovano nei libri di diritto a partire dal II secolo, e "nomina sacra", nomi relativi al culto, abbreviati per contrazione. Di rendimento sicuro, anche se di prezzo basso, furono i testi scolastici, e molto vendute furono le opere di Nerone, che, nella sua pazzia, ritenendo d'essere un grande artista e poeta, ordinò che i suoi versi fossero oggetto di studio nelle scuole. Notevole smercio ebbe la "Farsalia" di Luciano come testo scolastico. Sia in Grecia che presso i Romani venne immesso sul mercato il papiro in grande quantità, con nomi più o meno altisonanti: "charta Augustea", "Claudia" eccetera. I Tolomei , per salvaguardare il loro prodotto, imposero una tassa sull'esportazione, monopolizzando il commercio in un secondo tempo e applicando sul primo foglio di ogni balla un marchio ufficiale detto "protocollo". Tale esclusività esisteva ancora al tempo della conquista dell'Egitto da parte degli Arabi nel 641 d.C., che ne avrebbe comunque rallentato l'esportazione, specie nei paesi che non facevano parte dell'impero islamico, fino a farne scomparire l'uso intorno alla metà dell'XI secolo: causa ne fu l'alto costo del trasporto per nave, dato che l'acqua marina poteva danneggiare le balle, la siccità del Nilo e i lavori d'irrigazione intrapresi dagli arabi che trasformarono le paludi in terreni agricoli e infine, secondo quanto dice Plinio, il rifiuto del re d'Egitto Tolomeo Filadelfo all'inizio del II secolo d'inviare papiro al re di Pergamo, Eumene II, nel timore che egli potesse organizzare una biblioteca capace di oscurare quella di Alessandria. Saranno gli Arabi a introdurre la coltivazione del papiro in Sicilia, specie nel siracusano, dove cresce ancora oggigiorno. Fin dal VII secolo cresceva spontaneamente lungo i fiumi Anapo e Alcantara, e anticamente era coltivato presso la Fonte Aretusa e lungo il fiume Ciane, secondo quanto ci tramandano Ibn Hawqal vissuto nel X secolo e Ugo Foscaldo nel 1145. Recentemente una varietà di papiro della famiglia delle Ciperaceae, il "Papyrus 19
syriaca vel sicula", è stata battezzata dai botanici "Papyrus siracusanus", mentre nel medioevo il papiro siciliano era noto col nome di "paperio" o "pampero", come dimostrano i documenti di quel periodo. Sarà il naturalista Saverio Landolina nel 1780 a riscoprire la pianta del papiro presso il fiume Anapo e a riprenderne l'industria, raccogliendo i fusti alla fine della primavera e pressando poi con il torchio i fogli sovrapposti: "Formato in tal guisa il foglio, ossia la pagina, gli ho dato leggermente la colla di midolla di pane disciolto nell'acqua bollente, aspersa d'aceto. Asciutto con somma diligenza il foglio, al fresco per non accocciarsi nè distaccarsi al sole le liste, l'ho nuovamente stretto nel torchio dove si è fatto sottile. Finalmente, perché meglio restassero unite le parti, le ho col martello battute e infine lisciate con avorio per renderle pulite". Alla fine del X secolo, si sa di un'industria del papiro anche a Palermo, secondo la testimonianza di un viaggiatore arabo che vi si recò tra il 972 e il 973. I papiri pervenuti fino a noi sono quasi tutti greci e latini, e si possono distinguere in tre categorie: 1. papiri egiziani, cioè rinvenuti in Egitto: parecchie migliaia di documenti sono stati scoperti in località El Fayyum a cominciare dal 1877, conservati oggi nella collezione dell'arciduca Ranieri di Vienna e parte a Londra nel British Museum. Si tratta di documenti dei secoli IV-XI quasi tutti greci e orientali. 2. papiri ercolanesi scoperti tra il 1752 e il 1754 in una villa di Ercolano chiamata perciò "villa dei papiri", e ora alla Biblioteca Nazionale di Napoli: sono 1806 e furono trovati parte nel portico e parte in uno stanzino su scaffali in legno con la disposizione dei "volumina", caratteri propri di biblioteca appartenuta a tale Filodemo di Gadara, seguace e divulgatore della dottrina epicurea, maestro di Lucio Calpurnio Pisone, proprietario della villa. Alcuni sono in latino e la maggior parte in lingua greca del III secolo a.C. 3. papiri medievali costituiti da manoscritti letterari e documenti. I manoscritti sono soltanto cinque, tra cui il più importante è del VI secolo, il "De Trinitate" di sant'Ilario vescovo di Poitiers, conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna, di cui un foglio è alla Vaticana. Del secolo VIII sono le "Antichità Giudaiche" di Giuseppe Flavio, tradotte da Rufino d'Aquileia e conservate nell'Ambrosiana di Milano. 20
Sarà nel III secolo che l'uso, fino allora universale del papiro, incomincerà ad essere sostituito dalla pergamena, soprattutto per gli scritti letterari, mentre continuerà ad essere adoperato nelle cancellerie imperiale e pontificia, in quelle longobarda e visigotica, alla corte carolingia sino all'VIII secolo, a Ravenna fino al IX e X, a Roma fino all'XI com'è dimostrato dai documenti originali conservatisi, dei quali il più antico di Clotario II, è del 625. Nel mondo greco-romano, oltre il papiro e il lino dei libri lintei dei pontefici romani, s'impiegarono come supporto scrittorio anche le "tavolette cerate". Fin dai tempi di Omero venivano infatti adoperate le tavolette di legno "dealbatae", cioè ricoperte d'una vernice bianca o "ceratae". Erano le greche πινακεσ o i latini "codices", "codicilli", "cerae", "tabellae", "pugillares", poiché si tenevano nel pugno sinistro per scrivervi sopra con la destra. Erano costituite da assicelle rettangolari in legno o in avorio, con un breve margine rialzato lungo i quattro lati, come in una cornice. Nella parte centrale si spargeva la cera mista con pece colorata, e su questa si scriveva con uno strumento a punta piena, lo "stilus", che poteva essere di legno duro, di metallo, d'avorio o di osso. Dalla parte opposta alla punta, c'era un raschino che serviva per cancellare e spianare nuovamente la cera. Venivano usate per esercitazioni scolastiche, per conti, per brevi comunicazioni epistolari e anche per la prima stesura di lavoro del poeta: "Saepe stilum vertas, iterum quae digna legi sunt scripturus" (Orazio, Satyrae, I, X, 72-73) - rovescia spesso lo stilo se vuoi scrivere qualcosa che meriti di essere riletto-. A seconda del numero di tavolette unite con corda o fermagli, si ottenevano dittici, trittici o polittici. Le tavolette dell'età romana a noi note appartengono ai secoli I, II, III d.C. e provengono da scavi: contengono atti privati o di natura giuridica come contratti di vendita, affitti; dittici e trittici sono scritte nelle facciate interne, chiuse da una legatura che gira attorno, assicurate con sigilli. Le più importanti pervenuteci furono scoperte a Pompei nel 1875 nella casa del banchiere L. Cecilio Giocondo: sono 127 e vanno dal 15 al 62 d.C.: contengono quietanze dell'amministrazione municipale di cui il Giocondo era appaltatore. Altre furono trovate nelle miniere d'oro a Veraspatak in Transilvania, che purtroppo andarono per lo 21
più perdute o guastate: sono dette "tavolette daciche", e sono costituite da una ventina di trittici degli anni 131-167 d.C. con documenti di carattere privato. Dal secolo IV al XII non ci è pervenuta alcuna tavoletta, anche se ci sono delle testimonianze che ne affermano l'uso: la Regola di San Benedetto, del VI secolo, dice espressamente che i monaci non potevano possedere, senza il permesso dell'abate, "neque codices, neque tabulas, neque graphium". Nella "Vita Karoli di Eginardo" vissuto tra l'VIII e il IX secolo, si legge che Carlomagno impiegava tavolette per esercizi di scrittura, e per uso privato furono usate anche nei secoli XII, XIII e XIV; le prediche, ad esempio, venivano stilate con un metodo tachigrafico su tavolette di cera, come ci riferisce anche l'anonimo presentatore delle prediche di san Bernardetto Cimatore, il quale "stando alla predica, scriveva in tavole di cera con stilo". Simili alle tavolette cerate, ma in avorio, e riccamente scolpite, sono i dittici, δι, due volte e πτυχη, piega - consolari, che consoli e altri magistrati offrivano ad autorità e amici in occasione della loro nomina: dei 71 arrivati a noi, il più antico è un dittico sacerdotale dell'anno 388 conservato a Madrid; un'importante serie di dittici consolari è conservata alla Trivulziana, grazie alla ricerca da parte dei fratelli Teodoro e Carlo Trivulzio. Il "rotolo" o "volumen", che fu la prima forma del libro nella civiltà antica del mondo occidentale e in Oriente, verso l'inizio dell'era cristiana, venne poco a poco sostituito dal "codice", il libro manoscritto, formato dall'insieme di quaderni ricavati dalla piegatura di uno o più fogli cuciti gli uni agli altri. L'etimologia della parola si fa risalire a "caudex", tronco d'albero e restrittivamente corteccia, oppure a "goda" che in caldeo significava "tavola". Sono migliaia i libri manoscritti, copiati in forma di codice nei dieci secoli che hanno preceduto l'invenzione e la diffusione della stampa in Occidente. Nel Medioevo, la sua età d'oro, ebbe un nuovo supporto scrittorio nella pergamena che soppiantò il papiro. La sua importanza è grande per la conoscenza e la versione esatta di eventi storici e di opere letterarie anche dei secoli più remoti, determinante per un sicuro approfondimento dei testi antichi. Serve soprattutto allo storico e al filologo, è lo studio dell'archeologia del libro in tutte le sue problematiche le quali, viste nel loro insieme, costituiscono la cosiddetta "codicologia". 22
La predisposizione del quaderno sul quale scrivere era laboriosa, e la tecnica riguardava la piegatura della pergamena in fogli, la cura attenta nell'accostare le pagine chiare e lisce della parte della carne e quelle più scure e meno levigate della parte che in origine aveva i peli e la formazione di fascicoli omogenei, oltre a tracciare le linee orizzontali allineate sul foglio intero non ancora piegato e di tracciarle dalla parte dei peli, dove la pergamena è più resistente e ne sopporta meglio l'incisione del tiralinee, senza scordare di calcolare le proporzioni della pagina piegata in modo che il testo vi fosse inserito armonicamente. Secondo la tradizione, fu alla biblioteca del re di Pergamo che ebbe inizio l'uso della pergamena. Fondata da Attalo I, ma sviluppatasi sotto Eumene II tra il 195 e il 158 a.C., la sua biblioteca oscurò quella più antica e ormai famosa di Alessandria. Per questo motivo, secondo la leggenda tramandata da Plinio, Tolomeo Filadelfo re d'Egitto si era rifiutato di rifornirla di papiro. La pelle degli animali era già stata usata nei tempi antichi sia dagli ebrei che dagli assiri e dai persiani, e anche dagli egiziani e con tutta probabilità anche presso i greci. Ma soltanto intorno al III secolo a.C. venne usato un nuovo trattamento del cuoio, in modo da renderlo adatto a ricevere la scrittura: pare che tale innovazione tecnica avvenisse a Pergamo dove la fabbricazione, eseguita in grande, ricevette dai Romani il nome di "pergamineum" al nuovo supporto scrittorio. La pergamena è citata per la prima volta nell'editto "De pretiis rerum venalium" nell'anno 301 d.C., anche se il suo nome originale, sia greco che romano, con qualche alterazione nel medioevo, fu "membrana" , come pure fu di uso medievale il termine improprio "charta" per indicare il papiro. Venivano usate pelli di vari animali per lo più di pecora, di capra, di montone, di vitello, e in Egitto anche di antilope o di gazzella. Il valore della pergamena era dovuto più che alla materia, alla fattura che raggiunse un alto grado di perfezione tra il II e il VI secolo d.C.: bianca e sottile quella fabbricata in Italia e in Spagna, spessa e scura quella francese e tedesca. Nel XIV secolo, il monaco greco Planude si lamentava che le pergamene inviategli per far copiare i codici fossero di cattiva qualità, più simili a "pelli d'asino e non di pecora, più atte a farne scudi e tamburelli che non codici". 23
Dalle pelli di agnellini non nati o appena nati si otteneva un foglio bianco e finissimo detto "carta virginea". Da una ricetta ricavata da un codice dell'VIII secolo conservato nella Biblioteca Capitolare di Lucca, si è saputo che la pergamena veniva immersa a purgare per qualche giorno nella calce, poi, mentre era molle, si radeva da ambo le parti per eliminare il grasso e toglierne le macchie, e per renderla del tutto liscia, veniva poi levigata con la pomice fino a ridurla alla grandezza desiderata: con punti e suture venivano chiusi eventuali tagli della pelle. Il più antico esempio di pergamena pervenutoci è un frammento del "De bellis macedonicis", già in forma di codice. Ma è certo, secondo la testimonianza di scrittori antichi, che già nell'età classica esistevano codici membranacei. San Paolo in una lettera chiedeva a Timoteo che portasse con sé in viaggio non soltanto i libri in papiro, ma specialmente quelli in pergamena che aveva lasciato nella Troade: "Penulam quam reliqui Troade apud Carpum, veniens affer tecum, et libros, maxime autem membranas" (2a lettera, IV,l3). Nel III-IV secolo, con la trasformazione della forma del libro da rotolo a codice, ebbe inizio il diffondersi dei manoscritti, e la pergamena avrebbe dominato incontrastata dal V al XIII secolo, allorquando avrà inizio l'uso della carta di stracci. In Italia durerà più a lungo che altrove per i libri, specie quelli giuridici a Bologna, poiché non si ammetteva che fossero scritti su altro materiale, e il diffondersi dei caratteri di stampa, ne relegherà l'uso a codici di lusso destinati a bibliofili e biblioteche di corte, divenendo una rarità dopo la metà del XVI secolo. Per i documenti, si riteneva d'uso più legale il papiro: gli esempi più antichi in pergamena sono del secolo VIII. La Francia ne conserva venti pezzi tra i quali la Carta di fondazione del monastero di Bruyère le Château del 10 Marzo 670. L'originale più antico in Italia è conservato nell'Archivio di Stato di Milano e risale all'anno 716. Anche la curia pontificia continuò a servirsi del papiro come supporto della scrittura sino ai tempi di Benedetto VIII (1013-1023), e solo con questo papa s'incominciò ad adoperare regolarmente la pergamena. Per i codici veniva usata la pergamena più fine e levigata perché veniva adoperata da entrambe le parti, mentre quella dei documenti era lisciata soltanto da una parte, e la scrittura compariva sul recto. Divenne anche materia di lusso 24
colorandola. Secondo le testimonianze di Giovenale, di Quintiliano e d'Isidoro di Siviglia, i Romani usavano tingere le pergamene di giallo o di rosso, per evitare che il troppo bianco si sporcasse nuocendo alla vista. Per i codici di lusso venne usato il colore purpureo con la scrittura in oro e argento: si usavano di solito per i Vangeli e altri libri sacri, come lo attestano i numerosi esempi dei secoli V-VII e poi nel periodo carolingio. Il più famoso fu il "codex argenteus" detto di Ulfila perché presentava i Vangeli tradotti in lingua gotica dal vescovo Ulfila, scritto a lettere d'argento di forma onciale e ora conservato nella biblioteca dell'università di Uppsala. Nel Medioevo la forma di rotolo per il libro fu assai rara, preferendo i "codices" o libri compatti. Il codice membranaceo venne usato dapprima per libri di piccolo formato da regalo o da viaggio, per libri di conto o per uso scolastico, nel I secolo. Il poeta Marziale, vissuto tra il 143 e il 104 a.C. esprimeva il suo stupore davanti alle dimensioni a cui potevano venir ridotte opere lunghissime come l'Iliade e l'Odissea, tutto Virgilio o i 142 libri di Tito Livio; i codici, scriveva, non ingombrano le biblioteche, sono adatti ai viaggi e si possono leggere tenendoli con una sola mano, mentre per il rotolo ne occorrono due. Dal secolo IV, col prevalere della pergamena sul papiro, il "codex" " venne a sostituirsi al "volumen", costituendo la forma normale del libro. Il formato, nel medioevo, era detto "forma" o "volumen": quello più antico fu il quadrato, ma in seguito prevalse quello rettangolare. I codici erano formati da quaderni che si suddividevano in fogli, carte e pagine; il "quaderno" era un fascicolo di fogli cuciti assieme, mentre il "foglio", piegato in due, era formato da quattro facciate. "Carta" era la metà di un foglio, cioè due facciate, e "pagina" la metà della carta, cioè una facciata. In origine il "quaderno" era un fascicolo di quattro fogli, ma in seguito prese un significato più generico. Copisti e tipografi di ogni tempo si sono sbizzarriti a formare volumi a forme insolite, o piccolissimi, soprattutto per desiderio di originalità: esistono volumi a forma di cuore, di fiore di giglio, circolari, triangolari e con fogli ripiegati a blocco-notes. L'antichità classica porta a superare la profonda contraddizione fra il disprezzo per il lavoro manuale e l'alta valutazione dell'arte come strumento di culto, scindendo l'opera dalla persona dell'artista: καλοκαγαthια disprezzo cioè di ogni 25
cultura unilaterale. Dione Crisostomo, fin dal I secolo paragona l'artista al Demiurgo,all'artista creatore quale "unio mistica". Nel codice medievale, al posto del titolo, in testa all'opera trascritta si trovava una frase d'inizio scritta con inchiostro rosso e lettere ingrandite, in capitale, talora accompagnata da motivi geometrici o architettonici, decorati con grande accuratezza. Il nome dell'autore e il titolo erano invece posti alla fine dell'opera, introdotti dalla parola "explicit", come alla fine del rotolo, da "explicare" cioè svolgere; talora i manoscritti medievali terminavano bruscamente e senza data,con "finis operis" oppure "explicit liber". Nei secoli XIV e XV i copisti, alla fine, indicavano il proprio nome, la data e il luogo di provenienza, nonchè una sottoscrizione per la ricompensa per la fatica compiuta, invocando la benedizione divina su di loro e sui loro lettori. A quella dello scriba, faceva seguito l'opera del rubricatore che scriveva in inchiostro rosso un elenco dei titoli delle "rubriche" dei capitoli, guarnendo le lettere iniziali delle frasi con un tratto verticale; le sottoscrizioni dei codici verranno riprese dai primi tipografi nei loro "colophon". Sia sul papiro che sulla pergamena, il copista regolava gli spazi e i margini con un coltello o una squadra, lavoro che in latino era detto "quadratico"; nei libri di studio, la base dell'insegnamento era costituita dal commento o "glossa", che poteva venir collocata tra le righe o nei margini. Mediante il "circinus" o "punctorium", una punta di metallo, si tracciavano le righe orizzontali e si delineavano i margini con due righe verticali, a secco, per assicurare l'armonia della pagina, e nella seconda metà dell'XI secolo, con il "plumbum", una punta di piombo che si diffuse rapidamente. Alla fine del XII secolo, si adoperò inchiostro nero, e poi colorato in rosa, anche per la rigatura. La "segnatura" consisteva nel numerare con cifre poste nell'ultima pagina i quaderni che componevano un manoscritto, e anche il "richiamo", che consisteva nello scrivere alla fine di ogni quaderno le prime parole del fascicolo seguente. Sarà nel secolo XIII, dopo l'istituzione delle Università e la maggiore richiesta di codici a scopo didattico, che verrà effettuata la numerazione dei singoli fogli con la lettera del fascicolo cui appartenevano, seguita dal numero progressivo in ogni fascicolo, in modo che rubricatori, disegnatori e miniatori potessero lavorare contemporaneamente a uno stesso volume. I personaggi in atto di scrivere, dagli autori sacri ai profani, dai copisti ai calligrafi, 26
hanno nei secoli assunto posizioni varie, come si può vedere dall'iconografia: gli scribi egiziani stavano accoccolati, gli evangelisti, secondo la tradizione greco-romana, scrivevano sulle ginocchia, il monaco medievale era curvo su d'un leggío posto sulle ginocchia e in epoca rinascimentale, il leggío era appoggiato ad una base e sormontato da scaffali contenenti libri posti orizzontalmente. Nel medioevo prevarrà il vocabolo "encaustum", degenerato poi in "incaustum" per significare inchiostro fatto a fuoco; dal termine "encaustum" deriveranno i termini "inchiostro" italiano, "encre " francese, "ink" inglese, mentre il tedesco "Tinte" e lo spagnolo "tenta" deriveranno da "tincta". Il contenitore dell'inchiostro si chiamava "atramentarium" o "scriptorium", e l'inchiostro era formato per lo più da fuliggine e gomma, per cui poteva facilmente cancellarsi, specie se era fresco, con una spugna bagnata, la "spongia deletilis". Sarà nel medioevo che nella composizione dell'inchiostro entreranno elementi metallici oltre il vetriolo, la noce di galla, gomma, birra e aceto. Nell'epoca carolingia, dall'inchiostro nerissimo con prevalenza di vetriolo, si passò a quello rossiccio dove prevaleva la noce di galla. La scrittura era comunemente di colore nero, ma ne fanno eccezione per esempio la diplomatica bizantina con sottoscrizioni autografe degli imperatori in rosso, come pure alcuni diplomi di Carlo il Calvo che presentano la sottoscrizione e il monogramma in rosso; un diploma di Luigi VI re di Francia dell'anno 1127 aveva in rosso il monogramma regio, la prima linea e alcune lettere iniziali. Nei codici, la presenza del rosso era diffusa: quelli classici avevano scritte in rosso le prime linee, le lettere iniziali, i titoli e le didascalie dei capitoli e dei paragrafi, da cui "rubrica", "rubricare" e talvolta le annotazioni marginali. Nei libri destinati al culto ecclesiastico o alle preghiere rituali era scritto in rosso ciò che si riferiva al cerimoniale. Rarissimi sono i codici scritti completamente in rosso: alla Biblioteca Nazionale di Parigi se ne conserva qualcuno. A partire dal secolo XII, insieme al rosso vennero adoperati per le iniziali l'azzurro e il verde, colore questo che era presente nei documenti orientali per le sottoscrizioni dei principi e dei prelati. La scrittura in oro e argento su fondo purpureo è di origine bizantina, ma anche i latini l'usarono con grande eleganza nei primi secoli del medioevo, inserendola in codici di lusso destinati al culto 27
religioso, sebbene questo fasto fosse vivacemente biasimato da san Girolamo. In alcuni codici purpurei più antichi, il testo era in argento, rimanendo in oro alcune lettere iniziali, i titoli, i nomi propri e quelli sacri. Nella Biblioteca Universitaria di Uppsala è conservato il "Codex argenteus", scritto in argento con in oro le prime tre linee di ogni Vangelo, il "Pater noster" e alcune iniziali. Una nuova fioritura di manoscritti di lusso si ebbe nell'epoca carolingia, nei secoli VIII e IX, per lo più scritti in oro. Nella Camera del Tesoro Imperiale di Vienna c'era un Evangeliario in lettere oro su fondo purpureo che, secondo la tradizione, serviva per la cerimonia del giuramento durante l'incoronazione dell'imperatore, che si faceva in Aquisgrana; si dice che venisse poi seppellito con il cadavere dell'imperatore, posto sulle ginocchia. Al secolo IX appartengono altri codici aurei e argentei di grande valore: l'Evangeliario conservato nella biblioteca di Monaco di Baviera, già appartenente al monastero di Saint-Denis, dono di Carlo il Calvo, scritto nell'870 in lettere d'oro su pergamena naturale, con ricche cornici, fregi ed elaborate scene miniate, rilegato un secolo dopo con la preziosa copertura che ancora conserva. Tale arte riprenderà vigore in modo limitato durante l'Umanesimo; interessanti sono un codice conservato nella Biblioteca Comunale di Bergamo che contiene la vita del famoso capitano di ventura Bartolomeo Colleoni scritta da Antonio Cornazzano, e forse donato dall'autore alla repubblica veneta, stilato con lettere in argento su pergamena bianchissima e qualche iniziale miniata, e un codice umanistico conservato nella Trivurziana, purpureo e scritto in argento con i titoli in oro, che contiene le Rime di Gaspare Visconti. Nella Biblioteca Nazionale di Vienna sono conservati due libri di preghiera in pergamena, scritti in oro e argento, per uso di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano e di sua sorella Bianca Maria. Nell'epoca carolingia si eseguirono anche manoscritti su pergamena tinta in nero con titoli, iniziali e nome di Dio in oro e argento. Fino al secolo XII, l'arte della miniatura era generalmente praticata dal clero, come pure all'epoca carolingia e ottoniana, caratterizzata dalla produzione di lusso incoraggiata dagli imperatori che ne furono i mecenati. Con lo sviluppo delle università e la conseguente laicizzazione della produzione libraria, 28
l'arte del minio divenne un mestiere esercitato da professionisti indipendenti che lavoravano su commissione, e all'illustrazione di un manoscritto partecipavano diversi collaboratori, secondo i compiti assegnati dal maestro dell'officina. Dal XIV secolo in poi, il miniatore doveva accontentarsi di eseguire le indicazioni espresse sul codice già scritto in precedenza o suggerite da abbozzi indicanti le linee generali della scena da rappresentare, come " hic ponatur papa genuflexus, hic ponatur una mulier in habito viduali": qui si ponga il papa genuflesso, qui si ponga una donna in abito vedovile, limitando così l'iniziativa dell'artista. Nel medioevo i codici miniati paleocristiani manifestano una volontà artistica diretta all'ideale piuttosto che al sensibile: si prediligono le forme piatte, incorporee, la frontalità, la solennità, palesando insensibilità per tutto ciò che è caratteristico, pittoresco, singolare, per la vita organica e vegetale, fino allo schematismo dei simboli paleocristiani. Con l'inizio dell'Impero, l'artista cercherà la chiarezza nei riferimenti con un'esposizione precisa: nell'Evangeliario di Rossano, una miniatura mostra Giuda che restituisce i denari e il Gran Sacerdote sotto il baldacchino, e copre in parte una delle colonne anteriori, benchè lo s'immagini seduto dietro ad essa, ad evidenziarne il gesto di ripulsa. Presso i greci e i romani, l'opera d'arte era soprattutto uno strumento di propaganda e mai uno strumento didattico, e solo nel V secolo, con la fine dell'Impero d'Occidente, un radicale mutamento delle forme porterà l'espressionismo tardo romano verso un "linguaggio trascendente" (Rudolf Köemstedt, Vormittelafterliche Malerei, 1929), secondo la nuova paolina interpretazione dello spirito: "E vivo, non più io, ma Cristo vive in me" (Gal. 2,20). Sarà l'arte aulica bizantina a diventare arte cristiana per eccellenza, quando la Chiesa cattolica tendeva a manifestare in Occidente la stessa potenza che l'imperatore aveva in Bisanzio: l'arte manifesterà allora espressione d'autorità assoluta, di grandezza sovrumana, di mistica inacessibilità. La miniatura presenterà lo stesso stile dei mosaici: solenne, pomposo, astratto, anche se più libera e varia nei temi, più vivace e spontanea nell'espressione. Ci sono miniature grandi, lussuose, a piena pagina che s'ispirano allo stile degli eleganti manoscritti alessandrini, e quelle dei libri più modesti, destinati all'uso dei conventi, dove le illustrazioni si limitano spesso a disegni in margine, e riflettono 29
per lo più il gusto semplice dei monaci. La tecnica è scorrevole e favorisce una certa libertà e il gusto individuale: lo stile naturale è schietto e meno solenne d'un mosaico, ciò che spiega perché le botteghe degli scrivani siano divenute, durante l'iconoclastia, il rifugio dell'arte ortodossa e popolare (N.Kondakoff, Histoire de l'art byzantin considéré principalement dans les miniatures, I, 1886). Il movente principale, anche se spesso mascherato, dell'iconoclastia fu la lotta impegnata dagli imperatori e dai loro seguaci contro la potenza sempre maggiore dei monaci, i quali in Oriente non avevano certo sulla vita spirituale degli alti ceti un influsso come in Occidente, soprattutto perché la cultura laica a Bisanzio aveva una sua propria tradizione strettamente legata all'antichità classica, e non aveva quindi bisogno della mediazione dei monaci. Il manoscritto in Occidente, nella sua forma classica di codice, adottò tre distinti elementi di decorazione: l'iniziale, la cornice e le illustrazioni miniate, che alla fine del Medioevo venivano poste sulla stessa pagina. L'uso di decorare i manoscritti era comunque diffuso già nei secoli VII e VIII intrecciando steli e fogliami del corpo delle lettere, con teste di animali stilizzati e figure fantastiche, a colori vivi come il giallo, il rosso e il verde: i manoscritti franchi sono decorati con ricchezza di colori. Alcune scuole raggiunsero grande perfezione nella prima metà del IX secolo e in quello successivo: la scuola di Treviri, nota per i suoi manoscritti solenni, evangeliari o salteri, eseguiti per Carlo Magno o per membri della famiglia imperiale, con ricche cornici di fogliami, alberi, uccelli, gemme antiche, e frequente uso di oro; la scuola palatina con sede in Aquisgrana, che vantava uno stile sobrio e un disegno accurato della figura umana; la scuola di Tours che presentava varietà di soggetti in libri sacri e in opere di scrittori profani, con ornamentazioni assai vivaci in una classica sobrietà, nell'armonia del disegno e nelle iniziali. Il passaggio dall'arte romano-cristiana a quella barbarica è un fenomeno progressivo: sarà l'arte delle stirpi contadine, un'"arte rustica " dove il geometrismo dei contadini germanici s'intensifica nella miniatura dei monaci irlandesi. Il fregio, piante e animali, e perfino le figure umane vengono tradotte in segni calligrafici, perdendo ogni aspetto corporeo. A spiegare il "rustico" geometrismo di quelle miniature concorse di certo anche 30
lo speciale carattere della vita monastica irlandese: i monasteri greci partecipavano della vita urbana delle città, prendendo attiva parte alle correnti culturali e agli avvenimenti artistici e scientifici. I monaci irlandesi, erano invece per lo più contadini, come quel tale Patrizio,un "rusticus " figlio di un proprietario terriero, che nel fondare i monasteri seguiva alla lettera la regola benedettina. La più antica poesia irlandese rivela un forte senso della natura, che tanto si discosta dallo stile delle miniature di quella stessa civiltà: "Lieve sussurro, dolce sussurro, soave musica dell'universo, tenera voce di un cuculo in cima agli alberi; gioca il pulviscolo nel raggio del sole; giovenchi sono innamorati … del monte". (Kuno Meyer, Bruchstücke der älteren Lyrik Irlands, "Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaft, Philosophisch-Historische Klasse", 1919, n.7) o ancora: "L'uccelletto dalla punta del becco giallo e lustro fa risonare un fischio; il merlo dal folto dell'albero giallo manda un richiamo oltre Loch Laig" ed espressioni come "i calzari dei cigni" o "dei mantelli invernali dei corvi". Nell'antica Irlanda queste metafore linguistiche creavano immagini di vita naturale non accessibili alla pittura, arte ancora incerta e rivolta soprattutto al decorativismo. Poeti e pittori appartenevano a ceti sociali e culturali diversi: i miniatori erano semplici monaci a differenza degli autori dei poemi epici o degli idilli che erano per lo più poeti di professione e che appartenevano all'onorato ceto dei poeti aulici o a quello dei bardi , meno apprezzati, ma appartenenti anch'essi all'alta società. Le poche miniature rimaste del periodo successivo alle invasioni barbariche, rivelano una pedissequa continuazione dell'arte del basso Impero, con chiari riferimenti a quella barbarica: le decorazioni sono piatte con forte tendenza al calligrafismo. Sono ancora le forme dell'arte contadina: circoli e spirali; intrecci di nastri e di lacci, pesci, uccelli, con la sola innovazione di foglie e viticci. Con l'incoronazione imperiale di 31
Carlo Magno, e col passaggio della secolare autorità dei Merovingi alla teocrazia, si avrà un'innovazione decisiva dell'arte (Georg Dehio. Geschichte der deutschen Kunst): lo stile piatto e decorativo dei barbari viene superato, e la figura umana assume la sua realtà tridimensionale, come si può vedere nelle immagini dedicatorie degli evangeliari imperiali, grandiose nel disegno e intense nel colore e negli schizzi del salterio di Utrecht, raffinatissimi, che, pur risalenti a modelli dell'Oriente cristiano (H.Gräven. Die Vorlage des Utrechtspsalters, "Repertorium für Kunstwissenschaft", XXI, 1898), non hanno confronto dall'ellenismo in poi per delicatezza, sensibilità e forza espressiva. Il Salterio di Utrecht, manoscritto con disegni semplici, improvvisati e monocromi, che ne favoriscono il dinamismo impressionistico, era destinato ad un ambiente modesto, ben diverso per gusto da quello della lussuosa corte che apprezzava certamente di più gli "aristocratici" manoscritti miniati con illustrazioni multicolori a piena pagina. Lo stile pittorico delle miniature a piena pagina e a stesure unite di colore era considerato proveniente dalla scuola palatina di Aquisgrana, o di Ingelheim, mentre si riferiva l'estroso impressionismo del salterio di Utrecht allo stile locale della scuola di Reims, soggetta a influssi anglosassoni. Ciò non toglie che dalle botteghe di Reims siano usciti numerosi manoscritti di lusso, minuziosamente curati (Georg Swarzenski. Die karolingische Malerei und Plastik in Reims, "Jahrbuch der königlichen Preussischen Kunstsammlungen", XXIII, 1902). Il centro principale dell'attività artistica era l'officina palatina da dove si diffonderà il movimento rinascimentale e, pare, siano stati organizzati gli "scriptoria" dei conventi (Louis Réau-Gustave Cohen. L'Art du moyen âge et la civilisation française, 1935; R.Hinks. Carolingian Art). Come narra Eginardo, è merito di Carlo Magno l'aver raccolto e fatto trascrivere da chierici gli "antichi canti barbarici" di faide e di guerre che celebravano gli eroi dell'età delle invasioni, e i loro prodi. Purtroppo, però, questa raccolta è andata perduta. La generazione successiva con Ludovico il Pio rinnegherà quel tipo di poesia e la forma epica dovrà cedere il passo alla materia biblica e al pensiero cristiano. Alla miniatura carolina succederà quella ottoniana nella quale si rifletterà già l'arte 32
romanica, prodotto di scuole renane come quelle di Reichenau, Einsiedeln, Echternach, sulle quali eserciterà una certa influenza la miniatura irlandese, con motivi decorativi caratterizzati da intrecci formati da nastri, spirali, puntini rossi disposti in fila attorno alle iniziali minori o raggruppati a disegno per formare fregi. Come la scrittura, essa si formò in Inghilterra e di là passò in Irlanda, dando vita allo stile anglo-irlandese. Un'imitazione di tali motivi si ritrova nell'ornamentazione dei codici beneventani, misti a un'influenza orientale, specie bizantina: grandi lettere policrome in giallo, rosso, verde, azzurro, violetto, ornati ad intreccio con figure di animali, specialmente il cane. Il secolo d'oro di questa scuola, che si manifestò soprattutto a Montecassino, fu l'XI, con maggiore ricchezza di colori, oro a profusione e con figure dall'espressione viva. Decadde nel XII, ma risorse nel XIII secolo, pur avendo perduto le sue peculiari caratteristiche. Notevole è anche la scuola miniaturistica mozarabica in Spagna nei secoli X-XII, con forti colori giallo, rosso, blu, verde, bizzarre cornici dall'intenso effetto decorativo e vitalità popolaresca delle figure e degli animali fantastici in vignette allegorico-trascendentali,come nei codici del "Commento all’Apocalisse" di Beatus, vescovo di Liébana. Pure d'influsso bizantino è la scuola di Reichenau con le ieratiche figure sui fondi in oro, nei codici di lusso: "Libro di Pericopi" di Enrico II della Biblioteca statale di Monaco e "Apocalisse" di Bamberga della Collegiata di Santo Stefano di Bamberga, entrambi dell'XI secolo. La scuola di Winchester in Inghilterra, inconfondibile per le figure eleganti, allungate, ricche di panneggi e incorniciate da ridondanti decorazioni, come il "Pontificale"di Aethelwold della fine del X secolo, nel British Museum. La scuola miniaturistica di Salisburgo che dall'influenza insulare del secolo VIII era passata a quella carolingia e bizantina. Il centro episcopale di Canterbury e quelli monastici di Durrow e Lindisfarne avevano ricevuto la cultura di Roma direttamente attraverso il cristianesimo nel V eVII secolo. Così Irlanda e Inghilterra vantano lussosi manoscritti iminiati di tipo capitale od onciale, come l'"Evangeliario di Kalls" e l'"Evangeliario di Lindisfarne"; produssero anche libri e documenti in scrittura di piccolo formato, dalle lettere acute, con frequenti abbreviazioni e legature: Beda, "Historia ecclesiastica" del secolo VIII e l'"Evangeliario" di Maelbrigte dell'anno 1138.
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La miniatura, come tecnica artistica, fu descritta da un monaco italiano in un antico codice del XIV secolo, il "De arte illuminandi", conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. I miniatori medievali si preparavano da soli colori, colle, tempere, foglie d'oro e spesso anche i pennelli e altri strumenti. Per poter miniare su pergamene bianche, per natura un po' unte, queste venivano trattate con una specie di appretto leggero composto normalmente di creta mescolata con gomma arabica o colla di pesce, oppure si passava sulla superficie da decorare fiele di bue con albume d'uovo, o ancora si sfregava un batuffolo di bambagia impregnato di soluzione diluita di colla con miele. Di primaria importanza erano per il miniatore le penne, "calamus", e i pennelli "pinzellum" o "pincellum", che erano di varia forma, grandezza e qualitĂ . Per miniare venivano usati pennelli fatti con peli della coda di vaio o di scoiattolo, "scuirius vulgaris", innestati in un cannello di penna d'avvoltoio, d'oca, di gallina o di colombo, secondo la grandezza desiderata, e all'estremitĂ libera veniva applicata un'asticciola di legno affusolata e appuntita. L'abbozzo del disegno si eseguiva con lo "stil di piombo" o "piombino", un'asticciola di legno con punta metallica, costituita da una lega di due parti di piombo e una di stagno; e per cancellare si usava la mollica di pane pulita dai residui con "piede di lepre" o con la "bambagia". Una serie di coltelli con varie lame, "cultella", servivano a temperare le penne, a tagliare pergamene e foglie d'oro e d'argento, a grattar via le polveri dei colori macinati sulla pietra di porfido, e a raschiare scritture o segni errati sulle pergamene. Altri attrezzi furono la squadra, la riga e i calamai con inchiostro rosso e nero, e talora anche il compasso; i "colatoria", filtri di tessuto per chiarificare liquidi o separare i colori da soluzioni depuranti nel filtro conico, "lingua canis", o in un sacchetto "sachecta de tela"; mortai in marmo calcareo o serpentino o porfido, e pestelli per la macinazione dei colori minerali o per comporre particolari misture nei mortai; lapislazzuli, diaspro rosso e giallolino, essendo durissimi, si frantumavano nel mortaio di bronzo, "mortarium aeneum, mortarium brunzi", e i metalli preziosi si trituravano in un piccolo mortaio d'oro, il "mortariolus aureus". I colori venivano conservati nei gusci di tartaruga o di conchiglie marine, e i brunitoi, asciutti e caldi, erano i tipici strumenti per lucidare le dorature e le argentature. 34
La miniatura era una pittura ad acqua: occorrevano pertanto dei leganti e agglutinanti dei colori, sostanze colloidali di origine animale e vegetale, ancor oggi in uso per la pittura a guazzo o all'acquarello; molto usati erano la gomma arabica e l'albume d'uovo o anche soluzioni d'albume, zucchero, miele, oppure gomma arabica e albume che con miele davano un impasto brillante, quasi vitreo, d'applicarsi in strati sottili sui colori, Realgar, canfora, chiodi di garofano, aceto o succo d'aglio, servivano da asettico per la conservazione di gomme e colle. Antischiumogeno era il cerume d'orecchio, e il fiele di bue favoriva l'attecchimento dei colori all'acqua dalla pergamena, usato anche per dare più vivacità alle tinte nelle velature, per fissare i disegni a piombino, per favorire omogeneità nelle tempere miste e così via. Le lacche colorate a base di estratti di vegetali contenevano l'allume di rocca e quello zuccherino. Con l'affermazione dei libri miniati nella civiltà bizantina, gli ornamenti d'oro e d'argento con metalli veri o imitati, divennero un abbellimento costante delle pagine in pergamena; nelle dorature dei codici di miniatori occidentali invece, l'adesione era più resistente perché, usando pergamene più ruvide, si dovettero scegliere mordenti più efficaci per mantenerne l'adesione della foglia d'oro. Si passò poi ad ornare le pergamene con gli stessi metalli, polverizzati, imitandone l'effetto con leghe meno preziose: il più importante surrogato dell'oro vero fu l'"oro musivo", detto anche porporina, e per le argentature, la più comune imitazione fu la foglia di stagno, brunita e verniciata con albume d'uovo o con olio di lino o con vernici trasparenti in grado di proteggere il metallo dall'ossidazione, senza alterarne l'effetto luccicante. Per le miniature medievali, i colori ebbero caratteristiche diverse: l'azzurro oltremare, il più bello e il più puro tra gli azzurri usati nell'antichità, si otteneva già nelle civiltà mesopotamiche ed egizie, macinando la pietra semipreziosa lapislazzuli, "lapis", pietra e "lazevard", azzurro in persiano, che veniva estratta dalle miniere di Badakshan, segnalate nel 1271 da Marco Polo; venne detto anche oltremarino perché veniva importato dal Levante e si distingueva dall'azzurro citramarino, l'azzurro cioè d'Alemagna. Il "brasilium" fu il colore rosso molto usato nel medioevo, che veniva estratto da leguminose esotiche; prima della scoperta dell'America, veniva importato in Europa dalle Indie Orientali il legno della "Caesalpinia Sappan" che era chiamato "brasil" o "brezil", secondo l'etimologia araba, e più 35
tardi prese il nome derivato dal Brasile. Questo legno contiene un glucoside che per l'azione dell'aria e di ossidanti si trasforma in colorante rosso, facilmente solubile in acqua; nel medioevo l'estratto colorato si preparava con l'urina e si faceva poi precipitare la lacca con allume di rocca; nella miniatura era utile per ombreggiare e velare. La nomenclatura dei colori medievali è talvolta equivoca, basandosi quasi esclusivamente sull'aspetto esteriore e non sulla costituzione della materia. Il miniatore interveniva dopo che era terminato il lavoro del calligrafo, disegnando l'abbozzo delle figure e ornamenti con lo "stil di piombo", tracciando i contorni e le linee dei panneggiamenti delle vesti, la delimitazione di zone d'ombra e di luce, creando il "campus" da coprire con i colori. Poi veniva steso il mordente, si applicava la pellicola aurea, si lisciava e si bruniva. Seguiva la pittura vera e propria. Nei secoli IV e V le acquarellate erano semplici e con pochi colori; sarà la cultura carolingia ad affinarsi nella tecnica e ad adeguarsi al mutare degli stili. Dai capitoli III-XIV dell'opera di Theophilus, "Diversarum artium schedula" ci giunge il modo di dipingere le figure, secondo rigidi precetti che si useranno anche dopo il XII secolo: 1) Campire le parti nude servendosi d'un color carne. 2) Su queste per mezzo d'un verdaccio disegnare le sopracciglia, gli occhi, le narici, la bocca, il mento, i solchi attorno al naso, le tempie, le rughe, i contorni del volto, le barbe dei giovani, le articolazioni delle mani e dei piedi ecc.. 3) Con color carne accentuato di cinabro (rosa prima) arrossare un po' le guance, le labbra, la parte inferiore del mento, le rughe della fronte, le bozze di questa, il naso nella sua lunghezza, il disopra delle narici, le articolazioni ecc.. 4) Con color carnes chiarito con biacca (lumina prima) mettere i chiari alle sopracciglia, al naso, e con sottili tratti intorno agli occhi e nella parte inferiore delle tempie, ecc.., e in mezzo al collo e nelle rotondità delle mani, dei piedi e delle braccia ecc.. 5) Con color grigio (veneda) fatto di bianco e di nero, riempire le pupille degli occhi; con grigio più chiaro (con aggiunta di bianco) dipingere gli occhi ai lati delle pupille e segnare con bianco puro il limite tra questo colore e la pupilla; sfumare poi con acqua. 6) Con colore verde-oliva carico (fatto di ocra rossa e terra verde) riempire lo spazio tra le sopracciglia e gli occhi, il disotto degli occhi, il sottomento, lo spazio tra la bocca e il mento, i riccioli e la barba degli adolescenti, la metà delle palme delle mani verso il pollice, i piedi sopra le articolazioni minori, i volti dei bambini e delle 36
donne dal mento alle tempie. 7) Con color roseo (fatto con "rosa prima" e cinabro ovvero "rosa secunda") segnare il taglio della bocca, tratteggiare le guance, il collo, la fronte e segnare le pieghe sulle palme delle mani e le giunture delle membra ecc.. 8) Se la faccia appare troppo scura, ritoccare con color carne schiarito con bianco (lumina secunda) tratteggiando dappertutto sotto il mento. 9) Con due miscele di nero e ocra gialla (una più ricca di ocra e l'altra di nero) campire rispettivamente i capelli di bambini o di adolescenti; poi lumeggiare con "lumina secunda". Analogamente campire i capelli e le barbe dei vecchi con grigio (biacca e nero), tratteggiare in scuro aggiungendo al grigio un po' di nero e rosso e lumeggiare con biacca. 10) Con miscela di ocra rossa e poco nero (colore detto "exedra") segnare il contorno delle pupille, e tratteggiare sottilmente tra la bocca e il mento ecc.. 11) Con ocra rossa segnare le sopracciglia, tratteggiare finemente fra gli occhi e le sopracciglia e la parte inferiore degli occhi; sui volti di fronte tratteggiare l'ombra del naso secondo che la luce viene da destra o da sinistra; segnare il contorno della fronte e della mandibola dei vecchi. 12) Con nero fare le sopracciglia dei giovani, ma in modo da lasciare un po' scoperto il rosso sottostante; tratteggiare le palpebre, l'apertura delle narici, i due lati della bocca, il contorno degli orecchi e delle dita ecc.. 13) Precisare i contorni dei corpi nudi e delle unghie con pura ocra rosea. L'illustrazione del libro attraverso i secoli è intimamente legata all'evoluzione generale delle arti maggiori; il libro illustrato costituisce una delle maggiori raffinatezze della nostra civiltà, e servì da ispirazione per altri settori artistici, come arazzi, sculture, vetrate e in seguito, anche per smalti. Nel linguaggio artistico la miniatura ebbe grande peso col suo ruolo nella storia della cultura: il libro miniato, punto di convergenza tra scrittura, decorazione e illustrazione, in un'armonizzazione delle sue parti tale da puntualizzarne il valore,divenne di facile circolazione grazie alla sua natura maneggevole, consentendogli così di diffondere la cultura e il gusto. Influssi vari hanno condizionato l'opera nelle officine e "scriptoria" dei monasteri: la dipendenza da Roma, il monachesimo irlandese e anglosassone, i contatti col mondo laico, i pellegrinaggi, gli incontri con mercanti, giullari, pellegrini, e in seguito anche la riforma degli ordini religiosi (C.H.Haskins. The Renaissance of the 12h Century. 1927), anche se restavano unità autonome tenacemente fedeli alle loro tradizioni. 37
La Regola benedettina prescriveva il lavoro manuale con quello intellettuale, e l'attività nei campi, negli orti e nell'artigianato si alternava alla preghiera e allo studio. L'istituzione delle biblioteche e degli scriptoria, che Cassiodoro aveva introdotto a Vivarium, venne imitata dai conventi benedettini. Gli amanuensi e i miniatori di Tours, Fleury, Corbie, Treviri, Colonia, Ratisbona, Reichenau, Sant'Albano, Winchester erano celebri fin dal Medioevo. Il lavoro dei copisti e degli alluminatori era specializzato secondo i vari compiti: i "miniatores", pittori; gli "antiquarii", maestri esperti in calligrafia; gli "scriptores", aiutanti; i "rubricatores" " i pittori d'iniziali. L'illustrazione dei libri era arte monastica per eccellenza, ma a giudicare dall'aumento delle biblioteche, si suppone che solamente un cinquantesimo del tempo complessivo del lavoro di tutti i monaci di un convento, era impiegato nella trascrizione dei manoscritti; merito loro è comunque, l'aver esperimentato e inventato nuove tecniche, come ad esempio le misture dei colori ad olio, secondo quanto si legge nelle note intitolate "schedula diversarum artium" del benedettino Teofilo, vissuto alla fine del'XI secolo (J.Kulischer. Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, I, 1928). I primi tentativi di decorazione del libro sono legati alla necessità di accompagnare i testi di carattere narrativo o tecnico con figure esplicative, come presso gli egizi che commentavano con illustrazioni i loro "libri dei morti" o, in seguito, in età ellenistica, quando prevalse un intento artistico di ordine pratico. I più antichi esempi d'illustrazione si trovano in papiri e codici della bassa antichità, ideati per essere inseriti nelle colonne di scrittura, e pertanto presentati in dimensioni ridotte, sia nel rotolo che nel codice. Le pitture a piena pagina furono adottate soltanto nel "codex". L'iniziale, che all'origine si distinse per la sua grandezza, ricevette dagli artisti medievali il carattere di entità decorativa con sue proprie caratteristiche: il termine miniare, che significa "colorire in rosso" deriva dalla parola "minium" con la quale nel medioevo si era soliti chiamare il cinabro, cioè il solfuro di mercurio di color rosso vivo, ricavato in natura da un minerale mercurico. Questo colore, già usato nelle pitture murali pompeiane, servì anche per dipingere le iniziali degli antichi codici. Nel secolo XI, veniva adoperato in Europa il termine
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"alluminare", che passerà poi in Italia e che fu anche usato da Dante nel Purgatorio: "Oh," dissi lui, "non sei tu Oderisi, L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte, Che "alluminare" chiamata è in Parisi?" (XI, 79, 81) La più semplice interpretazione data all'etimologia del vocabolo è quella di "dare l'allume", ossia dipingere con lacche allumate ottenute dalla reazione chimica dell'allume di rocca con materie coloranti vegetali, quali gli estratti di robbia, dell'ireos eccetera. L'origine del verbo si deve quindi ricercare nel latino "alumen", termine forse derivato da uno pure latino, ma più antico, "al-lu-ha-rum". Il lavoro dell'artista veniva svolto in stadi successivi: il disegno con l'inchiostro o con la matita di piombo per la composizione da rappresentare e stesura di un primo strato di colore come tono di base, configurazione degli oggetti dei personaggi dell'immagine, fasi interrotte da periodi di sosta per il seccaggio. L'oro veniva applicato per primo, sia liquido che in foglia, nel qual caso era steso s'un supporto cretoso, reso liscio mediante brunitura. Anche se si è soliti pensare che l’arte medievale sia essenzialmente anonima, la miniatura, nel suo sviluppo, fornisce moltissimi esempi di opere firmate (F. De Mély. Les Primitifs et leurs signatures. 1913). L'arte e della miniatura avrebbe originato un grande interesse per i "libri d'ore", raccolte di preghiere ad uso dei fedeli, le quali, derivando dal Breviario, comprendevano il calendario, l'Ufficio della Vergine, i Salmi penitenziali, le Litanie e l'Ufficio dei morti, ma non furono inclusi dalla Chiesa fra i libri di liturgia, come il messale e l'antifonario. Dapprima manoscritti e quasi sempre arricchiti di miniature, circolarono in gran numero specialmente in Francia; con l'invenzione della stampa daranno origine a una fioritura di graziosi libri, prima in Italia con l'"Officium Beatae Mariae Virginis" e poi in Francia, "livres d'heures " dove ebbero una grande diffusione. I primi libri d'ore erano formati dal salterio e da una specie di appendice, la quale un po' alla volta si sviluppò fino a staccarsene: l'unione risale ai secoli XII e XIII, mentre dal secolo 39
XIV si trovano i veri libri d'ore, esemplari per diocesi speciali, ma principalmente "à l'usage de Rome" o "à l'usage de Paris". Mancando per i manoscritti titoli precisi (come nei libri a stampa) e spesso il calendario, furono ricercati e fissati mezzi per riconoscere rapidamente per quale diocesi essi fossero stati eseguiti. I libri d'ore fatti per grandi personaggi, oppure per principi regnanti, sono spesso autentici capolavori: l'interesse artistico e il carattere religioso hanno servito a farli conservare meglio di ogni altro manoscritto, cosicchè se ne conoscono a migliaia: l'"Horae all'uso di Salisbury" miniato in Inghilterra nel 1280; "Horae", insieme col Messale ad uso dei padri francescani, del 1380, con 73 grandi miniature d'un artista lombardo; "Horae dette di Jean Pucelle" da lui miniate nella seconda metà del XIV secolo; "Horae di Gian Galeazzo e Filippo Maria Visconti", prezioso manoscritto riccamente miniato da artisti lombardi nella prima metà del XV secolo; le "Grandes Heures de Berry" dei primi del secolo XV con 131 grandi miniature, cominciato da Pol de Limbourg e dai suoi fratelli, e terminato da Jean Colombe nel 1284; "Horae del duca di Berry", dette "Heures de Turin"' miniato da artisti della scuola dei Van Eyck; le "Grandes Heures de Rohan " della prima metà del secolo XV con 65 miniature di un artista ignoto, francese; "Horae" per John Lancaster, duca di Bedford fratello di Enrico V, capolavoro dell'arte della miniatura inglese, degli anni 1414-1435; "Horae" di ‘Etienne Chevalier del 1455 opera di Fouquet; "Horae di Giovanna II regina di Navarra"; "Horae di Adelaide di Savoia duchessa di Borgogna", miniate nel Nord della Francia, della prima metà del XV secolo; "Horae per Bona Sforza duchessa di Milano", in 8° di 348 fogli, fatto tra il 1484 e il 1494 con bellissime miniature forse opera di Antonio da Monza; fatto a Firenze verso il 1490 e stupendamente miniato da Francesco Antonio del Chierico, le "Horae per Lorenzo il Magnifico"; "Horae all'uso domenicano per Federico d'Aragona" con 64 grandi miniature della fine del secolo XV, attribuite a Jean Bourdichon; "Horae per Anna di Bretagna" dei primi del secolo XVI, considerato uno dei capolavori dell'epoca del Rinascimento francese, con 33 grandi miniature; "Horae per Alfonso I d'Este" miniato a Ferrara nei primissimi anni del '500.
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Durante i mille anni del Medioevo, il libro divenne un bene raro e poco richiesto, e la produzione libraria segue i movimenti di fondo della storia. E' comunque significativo che la Biblioteca Vaticana constasse di soli 340 volumi quando Tommaso Parentucelli di Sarzana nel XV secolo diventò papa Niccolò V; e poichè, secondo quanto scrive Vespasiano Bisticci, il papa voleva spendere in due cose "che era in libri e in murare", alla sua morte la Vaticana con 1160 volumi era diventata la più grande biblioteca italiana. Bisogna tener presente che nella società quattrocentesca la produzione di manoscritti era arrivata a un particolare livello di organizzazione con l'opera degli "stationarii", allo stesso tempo librai e organizzatori degli "scriptoria", laboratori artigiani di produzione. Gradatamente, andando di pari passo con lo sviluppo della società europea, la produzione del libro era passata dall'ambito chiesastico a quello laico, essendo la cultura limitata agli inizi a pochi centri religiosi, a pochi dotti, "qualche centinaio, forse qualche migliaio per ogni generazione" (Georges Duby). Abbone, teologo, cronista e consigliere di Ugo Capeto nel X secolo, esortava gli scolari prima "a muoversi con disinvoltura nel profondo oceano, tumultuoso e infido, della grammatica latina di Prisciano", per poter poi intendere "il significato del Genesi e dei Profeti", e leggere "modelli di buona lingua" come Virgilio, Stazio, Giovenale, Orazio, Lucano o Terenzio. Ciò spiega il lavoro dei copisti monastici su autori "pagani".
I "cacciatori di manoscritti", specie testi della cultura greca e romana, che erano circolati sui "volumina" antichi, o libri a rotolo in carta di papiro che erano stati copiati sui codici di pergamena, venivano ricercati nelle biblioteche monastiche per essere ristudiati e nuovamente ricopiati su codici cartacei. Sarà l'opera degli Umanisti,come ad esempio un certo Poggio Bracciolini del Valdarno, scrittore apostolico di Bonifacio IX, che in due anni riscoprì ben dieci orazioni di Cicerone, il " De rerum natura" di Lucrezio, opere di Quintilliano, Valerio Flacco, Stazio, Silio Italico, Apicio e Ammiano Marcellino nell'abbazia di Cluny, nel convento di San Gallo e altri vicini, nella badia di Fulda, a Langres e nella biblioteca del duomo di Colonia. La storia del libro manoscritto, intimamente intersecata con la storia della società e della cultura, è il primo filo conduttore del 41
libro a questo patrimonio per lo più incognito, sopravvissuto quale uno dei grandi beni culturali umani; e, come abbiamo visto, il manoscritto è inseparabile dall'illustrazione, dalla miniatura. Dall'Egitto antico, dal quale ci giungono i più antichi esempi di illustrazione libraria, al Rinascimento avanzato, quest'arte di opere fragili e nascoste può rivaleggiare per qualità con le arti maggiori. Già nella grande cultura egiziana, dove la scrittura stessa era mescolata di ideogrammi, immagini, così nei rari esempi di rotoli illustrati greci, si trovano rapporti stilistici con le immagini dei papiri egiziani. Franz Wickhoff studiò i valori "illuministici" dell'arte romana, là dove pareva ci fossero soltanto decadenza e imbarbarimento, partendo da un manoscritto miniato della tarda antichità, la "Genesi di Vienna", e Jurgis Baltrusaitis ripercorre, studiando le miniature, quel "Medioevo fantastico" dove "la metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l'immaginazione". Esempio ne è il "Dioscorides constanti-nopolitanus" che un ambasciatore asburgico comprò da un medico ebreo del sultano nella capitale turca: fu miniato intorno al 512 per Anicia Juliana, figlia di Galla Placidia, ed è copia di un trattato medico del primo secolo, opera del botanico greco Dioscoride di Anazarbo: pare che alcune delle illustrazioni derivino dagli schizzi botanici di Crateva, il medico di Mitridate VI Eupatore, mentre altre costituiscono stilisticamente un anello tra l'arte greco-romana e la miniatura bizantina. Una di queste rappresenta la mandragora e la sua leggenda, e un'altra mostra Dioscoride intento a scriverne la descrizione, nell'atteggiamento che in seguito la miniatura medievale raffigurerà gli evangelisti. Le rappresentazioni delle specie botanico-medicinali verranno raffigurate anche nelle miniature di gusto gotico internazionale dei "tacuina sanitatis" tardo trecenteschi. Nell'arte romanica, sacro e profano si confondono, e da passiva imitazione, si passa al rinnovamento religioso colmando vieppiù la frattura tra i fini ecclesiastici e quelli mondani, anche se non si può più parlare di sintesi d'arte, vita e religione, come voleva il Romanticismo. L'arte non è più oggetto di godimento estetico, ma viene considerata come "servizio di Dio, offerta, sacrificio" (G.Dehio, Geschichte der deutschen Kunst). L'arte feudale prediligerà panneggi, mani gesticolanti, alberelli a forma di palma e rocce a lama metallica. Fra i monaci, lo spirito combattivo non esclude l'inclinazione alla vita contemplativa. Nell'arte, comunque, il mutamento è lentissimo. 42
La dinamica del "barocco tardo-romanico" si ricollega a Cluny e alla riforma monastica: nelle figure degli evangelisti nell'Evangeliario di Amiens e in quello di Ottone si esprime lo spirito d'ascetica riforma, quasi uno stato d'animo apocalittico. Apostoli e profeti si raccolgono attorno al Cristo, eletti e beati, angeli e santi, Giudizi e Ascensioni, asceti spiritualizzati sono i modelli per i monaci pii dei chiostri. L'arte romanica tende unicamente all'espressione dell'anima, alla visione interiore. Il gusto per l'illustrazione cresce continuamente, e l'inquietudine spirituale si manifesta anche nella progressiva estensione del repertorio figurativo, non trascurando alcun episodio delle Sacre Scritture, specie il Giudizio Universale, la Passione del Cristo e la Madre di Dio, vista come una regina superiore all'umanità. Le immagini dedicatorie delle Bibbie manoscritte ne delineano chiaramente il ritratto romanico; e sarà l'immagine dedicatoria, che oltre al committente o al promotore del manoscritto, rappresenterà spesso anche l'amanuense e il pittore (J.Prochno. Das Schreiberund Dedikationsbild in der deutschen Buchmalerei, I. 1929), che aprirà la via a un genere molto personale, anche se al momento trattato schematicamente: l'autoritratto. Urbana e borghese sarà l'arte gotica, quando l'influsso della borghesia si manifesterà nella secolarizzazione della cultura, e l'arte non sarà più il misterioso linguaggio d'un piccolo gruppo d'iniziati, ma forma d'espressione universalmente comprensibile. Lo stesso cristianesimo non sarà più una religione di chierici, ma diventerà sempre più una religione popolare, dove sugli elementi rituali e dogmatici prevarrà il contenuto morale (Gioacchino Volpe. Eretici e moti ereticali dall'XI al XIV secolo, "II Rinnovamento", I, 1907). La religione si fa più umana, e dopo le crociate, diviene anche tollerante verso i "nobili pagani": misticismo,ordini mendicanti ed eresie del XII secolo saranno sintomi d'uno stesso processo. Fino ad ora i manoscritti miniati passavano dall'uno all'altro come doni occasionali o in seguito a ordinazioni dirette, oppure venivano sottratti ad un paese e trasferiti in un altro. Ma a partire dal XIX secolo, si istituisce un commercio artistico abbastanza regolare sia tra Oriente e Occidente, che tra Settentrione e Mezzogiorno. Il Nord Europa si limita esclusivamente all'importazione. La Chiesa favorirà la formazione di una nuova nobiltà cavalleresca, consolidando la sua importanza sociale con l'ordinazione, assegnandole la protezione dei deboli e degli 43
oppressi, e facendola campione di Cristo conferendole quasi una dignità religiosa. Si sviluppava così un nuovo concetto di civiltà secondo cui i valori estetici e intellettuali erano al tempo stesso valori morali e sociali; e nuovo sarà pure il rapporto tra cultura ecclesiastica e laica. La funzione di guida passerà dal clero alla cavalleria, e la letteratura monastica perderà la sua funzione storica di guida. Il cavaliere sostituirà il monaco nella figura rappresentativa del tempo. La poesia cortese e cavalleresca darà all'amore un nuovo significato. La lirica trovadorica è "poesia di società" dove anche le esperienze vere devono rivestire le forme rigide della moda del tempo. Le poesie cantano la donna amata e vedono in lei l'incarnazione della virtù e della bellezza. Ma il tono sentimentale del corteggiamento era "consapevole illusione", gioco di società, spesso pura convenzione (E.Wechssler. Das Kulturproblem). Comunque il valore artistico della lirica d'amore era alto. Vacillando i confini tra le categorie sociali e con essi i criteri dei valori morali, la sensualità repressa irromperà con violenza invadendo i costumi delle corti e in parte anche quelli del clero. In tutta la storia occidentale non esiste letteratura che tanto parli di bellezza fisica e nudità, di vestirsi e spogliarsi, di notti nuziali e di amplessi come nella poesia cavalleresca del costumatissimo Medioevo. Perfino il Parzival di Wolfram, opera dagli alti fini morali, è pieno di episodi che sfiorano l'oscenità. Alcuni studiosi, come ad esempio il Burdach, spiegano ciò non solo da un punto di vista psicologico e sociologico, ma dovuto anche a influssi storici d'imitazioni letterarie o a imitazioni letterarie d'origine araba (Konrad Burdach. Über den Ursprung des mittelalterlichen Minnesangs, Liebesromans und Frauendienstes, "Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaft". 1918), per quanto i canti dei poeti arabi si riferiscano per lo più ad una schiava, mancando del tutto l'identificazione della signora con l'amata (Josef Hell. Die arabische Dichtung im Rahmen der Weltliteratur. Erlanger Rektoratsrede. 1927). Né sono sostenibili i riferimenti classicisti, essendo del tutto estraneo lo spirito di Ovidio e Tibullo nelle canzoni provenzali. Ultima da scartare, dopo il realismo degli elegiaci romani, è la teoria sull'origine letteraria della lirica trovadorica nel canto popolare (Alfred Jeanroy. Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge. 1925; Gaston Paris. Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge, "Journal 44
des Savants". 1892). La forma originaria della canzone cortese sarebbe una ballata popolare, una maggiolata, la così detta "chanson de la mal mariée"; ma nulla, tranne il rapporto del tema con la primavera, "il preludio naturale" (G.Paris. Les origines) e il carattere adulterino dell'amore può corrispondere a motivi trovadorici. Pare piuttosto che sulla lirica d'amore cortese abbia influito soprattutto la poesia latina dei chierici, oscillante fra l'amicizia e l'amore. Le epistole tra chierici e monache, fin dal'XI secolo denotano rapporti appassionati, mescolando tratti spiritualistici a sensuali. Probabilmente questa letteratura clericale era parallela a quella cavalleresca, con alcuni punti di contatto che risalgono a un comune denominatore storico e sociale. Il lato spirituale dell'amore cortese è certamente di origine cristiana, come lo attestano troubadours, Minnesanger e la concezione cavalleresca dell'amore dei mistici Bernardo di Clairvaux e Ugo di San Vittore, nonchè lo spiritualismo che dominava tutta la vita affettiva della cristianità. La poesia trovadorica è comunque poesia laica, nettamente opposta allo spirito ascetico della Chiesa. Durerà tre secoli il tempo in cui i monasteri saranno pressochè le soli sedi della poesia, e la funzione del laicato sarà puramente passiva. I giullari che s'incontrano nelle corti sono esperti dicitori, e fino alla metà del XII secolo, furono di certo poeti e cantori ad un tempo. I ricchi dilettanti e i trovadori più illustri non recitavano personalmente le loro composizioni, ma le facevano recitare da giullari pagati (Edmond Faral. Les Joungleurs en France au moyen âge. 1910), ciò che fece sorgere tra gli artisti una divisione del lavoro che, specie all'inizio, sottolineava in modo evidente la distanza sociale fra il trovadore aristocratico e il comune giullare. Questa distanza diminuirà gradatamente, fino alla nascita d'un poeta molto simile allo scrittore moderno, il quale non compone più versi da declamare, ma scrive libri da leggere. Si cantano ancora gli antichi poemi eroici, si recitano le chansons de geste ed è letta in pubblico l'antica epopea aulica: ma i romanzi d'amore e d'avventure vengono ora scritti per la lettura, soprattutto per quella delle dame. Soltanto ora la poesia diverrà "letteratura", e i lettori ne formeranno il "pubblico letterario".
Con la lettura, la tecnica narrativa muta, esigendo effetti fino ad ora del tutto ignoti. Chrétien de Troyes sfrutterà effetti 45
speciali di tensione con ritardi, sorprese e disgressioni, metodo questo che verrà sfruttato dal poeta del romanzo d'amore (K.Vossler. Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Sprachentwicklung. 1921) non solo perché il pubblico è ora più difficile d'accontentare di quello della "Chanson de Roland", ma anche perché scrive per "lettori" e non per "ascoltatori". Qui ha inizio la "letteratura moderna": possono essere considerati i primi "récits bien faits". I poeti di corte a impiego fisso tendono a diventare veri e propri letterati con le aspirazioni che saranno proprie dei futuri umanisti. Aspirano ora al ruolo di "maestri", e i principi li fanno confidenti, consiglieri e compagni: "ministeriales", suprema autorità in fatto di buon gusto, degli usi di corte e dell'onore cavalleresco (E.Faral. Les Jongleurs), i veri precursori dei poeti e degli umanisti del Rinascimento. Diversi da loro saranno i "vagantes", i chierici cantori ambulanti che scrivono in latino e sono i giullari degli ecclesiastici (H.Brinkmann. Werden und Wesen der Vaganten, "Preussische Jahrbücher". 1924). È difficile distinguere la poesia dei "vagantes " da quella di scuola, anche perché gran parte della lirica amorosa medievale in latino è opera di studenti. Tra le liriche latine del Medioevo, gran parte dei canti conviviali e delle canzoni d'amore, sono nati nei conventi, e componimenti quali "Il concilio d'amore di Remiremont" o "Il contrasto di Fillide e Flora" sono attribuiti all'alto clero. Fautori di una letteratura autocritica, staccata e ironica saranno i "fabliaux", borghesi, razionalisti, scettici, antiromantici. Il tardo Medioevo vedrà l'imborghesimento della poesia e dello stesso poeta. Col gotico avrà inizio il lirismo dell'arte moderna e anche il virtuosismo. Nel pieno Medioevo il carattere popolare del gusto si rivela nella letteratura e penetra negli strati sociali più bassi: lo spirito è ora meno prevenuto e disposto a liberarsi dai pregiudizi morali ed estetici della cavalleria, ma non si trova mai una vera poesia popolare. L'"apologo" medievale è stato spesso considerato dalla storia della letteratura e dal folclore come la diretta espressione dell'anima popolare: ma forse non è così; basti pensare agli apologhi popolari più antichi del "Roman de Renart", a quelli francesi, finnici, ucraini, tutti derivati dall'apologo letterario, da cui discende, probabilmente, anche la poesia favolistica del Medioevo (Bédier-Hazard. Histoire de la littérature française). I 46
"libri popolari" del tardo Medioevo, infine, non sono che la versione volgare e prosaica degli antichi romanzi cortesi. Solamente il "dramma" può venir considerato una poesia popolare tardogotica; non che sia una creazione originale del "popolo", ma la continuazione di una schietta tradizione popolare tramandata nel mimo fin dalla più remota antichità e tradotta nel Medioevo nel dramma sacro e profano. La cultura cortese e cavalleresca non cessa comunque di esistere e di operare, fiorendo soprattutto in alcuni centri, come ad esempio nella corte di Borgogna. Si scorge un chiaro predominio dello spirito borghese su quello cavalleresco, e il naturalismo prevale fortemente nell'arte aulica, perfino nella sua forma più lussuosa, la miniatura. I libri d'ore dipinti per i duchi di Borgogna e per il duca di Berry rappresentano l'inizio del "quadro di costume", cioè del genere pittorico per eccellenza "borghese", ma anche per certi aspetti si possono considerare l'origine di tutta la pittura borghese, dal ritratto al paesaggio (H.Karlinger. Die Kunst der Gotik. 1926). Con la scomparsa dello spirito dell'antica arte ecclesiastica e aulica, si modificano anche le forme esteriori: l'aristocratica miniatura verrà sostituita dalla stampa; la tavola dipinta sarà destinata al personaggio esigente e facoltoso, mentre l'arte della gente modesta, dei piccoli borghesi, e anche dei contadini e dei proletari, sarà ora la stampa, "un'invenzione divina più che umana", come fece scrivere in una sua ordinanza Luigi XII di Francia nel 1513, che relegherà il manoscritto a far parte della storia passata, ma, come ebbe a dire Walter Pater, "nessuna cosa che abbia avuto una volta valore per i viventi, può completamente perdere la sua vitalità". Nel 1492 l'erudito Giovanni Tritemio, di fronte al dilagare dei libri stampati aveva ammonito: "Anche se possediamo migliaia di volumi, non dobbiamo cessare di scrivere, perché i libri a stampa non sono mai altrettanto buoni". L'uso della pergamena diminuirà con la introduzione della carta, nè si sfrutteranno i palinsesti, o "codices rescripti" " che sino ad allora erano stati molto sfruttati usando anche manoscritti riscritti due o più volte, come un codice della Biblioteca Universitaria di Messina che contiene sovrapposte, scritture dei secoli VI, IX e XII. La raccolta più ricca di palinsesti antichi è quella di Bobbio; e il primo studioso ad occuparsi scientificamente dei palinsesti fu il Bovin che nel 1692 rinvenne un codice palinsesto sirio. In seguito l'italiano Scipione Maffei scoprì il 47
Gaio della Capitolare di Verona. Ma colui che ne trovò il maggior numero fu Angelo Mai (1782-1854) prefetto dell'Ambrosiana di Milano e poi alla Vaticana: la sua scoperta più famosa fu quella del "De repubblica" di Cicerone del IV secolo, scoperta celebrata anche dal Leopardi, sotto un'opera di sant'Agostino, e l'altro alla Vaticana, anche se provengono entrambi da un codice di Bobbio. Fu però accusato di aver fatto troppo largo uso di noce di galla arrecando gravi danni ai fogli; oggi la scrittura primitiva viene sottoposta ai raggi ultravioletti che agiscono sui residui metallici dell'antico inchiostro, rimasti incorporati nella pergamena, non danneggiando la materia. Ma anche se l'uso della pergamena diminuirà, per i documenti esso continuerà fino al secolo XV, poiché era vietato scrivere gli atti notarili su carta di stracci, e rimarrà usata in seguito soltanto per gli atti dei papi o alti funzionari. Con i cambiamenti che sorgono dopo il Mille, non è più soltanto la religione a richiedere l'opera dei copisti: sorgono le Università che necessitano nel loro ambito di altri centri di scrittura ad uso degli insegnanti e degli scolari, e le Corti favoriscono a loro volta l'amore delle lettere servendosi dell'opera di copisti laici. Con l'aumento della richiesta di libri, ne diminuirà il costo, essendo i testi divenuti ormai di uso comune. L'introduzione della carta soddisferà tali esigenze segnando una nuova era di diffusione e di sviluppo del libro. Il documento italiano più antico a noi pervenuto è una lettera della contessa Adelaide di Sicilia del 1109 scritta in greco e in arabo, conservata a Palermo; il più antico registro notarile cartaceo, invece, è del 1154, si trova a Genova ed inizia con le imbreviature del notaio Giovanni Scriba scritte per le prime pagine sopra il residuo di un rotolo arabo e poi su fogli riuniti a quinterno. Una vera e propria organizzazione per la fabbricazione della carta inizia nel 1268 nelle famose cartiere di Fabriano, alle quali seguiranno altre a Bologna, Colle Val d'Elsa, Prato eccetera. Le carte italiane furono molto apprezzate e per lungo tempo l'Italia le fornì a tutto l'Occidente. Nel XIV secolo l'uso della carta divenne larghissimo, anche se incontrava ancora delle difficoltà: nel 1231 Federico II la proibiva in Sicilia per i documenti ufficiali, come pure venne vietata per gli atti solenni nelle cancellerie imperiale, pontificia e ducali, anche se erano permesse per le lettere. A Firenze era bandita ancora nel 1517. 48
La carta ebbe la sua origine in Oriente: la tradizione ne attribuisce la scoperta alla Cina, e precisamente al direttore degli "ateliers" imperiali Ts'ai Luen che all'inizio del II secolo d.C., nell'anno 105, avrebbe avuto l'idea di fabbricare una specie di pasta sottile ed economica ricavata dalla corteccia del gelso, dalla canapa e da materiale di scarto di tela e di seta. Forse l'idea risaliva ad epoca ancora più antica, ed ora veniva perfezionata. Le più antiche carte orientali conosciute risalgono al III secolo: in una grotta del nord-ovest della Cina furono trovati rotoli di carta scritti in diverse lingue, cinese, tibetano, sanscrito, da attribuirsi ai secoli V-XI. Dalla Cina la carta arrivò nel V secolo nell'Asia centrale e in India nel VI secolo. Nel 751 a Samarcanda, i cinesi prigionieri degli arabi, vincitori nel Turkestan, rivelarono il metodo della sua fabbricazione, tenuto segreto per settecento anni, e da qui passò a Baghdad nel 793; indi, attraverso la Siria, l'Egitto e l'Africa settentrionale, raggiunse la Spagna nell'XI secolo, l'Italia nel XII, la Francia nel XIV e poi man mano tutta l'Europa. Il termine "charta", che in senso proprio indicava il papiro, con l'aggiunta di un attributo, si trova riferito alla materia: "bombucina", dal nome della cartiera araba di Bambyce in Siria, "cuttunea" dalla parola araba kattau, cioè panno, "pannucea". Il diverso aspetto e la diversa consistenza delle carte europee dei secoli XIII e XIV dipendeva dal modo differente di dare loro la colla, essendosi sostituita quella d'amido con la colla animale, da una diversa triturazione delle fibre, ottenuta con diversi mezzi meccanici. Sulla "forma", un telaio rettangolare, venivano stese le "vergelle", sottili fili di cotone, sostenuti dai "colonnelli", bastoncini di legno disposti perpendicolarmente ai primi e sostenuti a loro volta dai "filoni", fili di rame distanziati da 8 ad 80 mm. uno dall'altro; un quadro mobile posto sul telaio ne determinava lo spessore. La pasta liquida e omogenea ottenuta dalla macerazione di stracci di canapa, cotone e lino veniva versata nei tini; estratta, veniva poi essiccata con feltri pressati e con l'esposizione all'aria. Infine, per renderla liscia, veniva incollata, levigata e calandrata. James Whatman a Birmingham e i Montgolfier ad Annonay eseguirono carta "velin" senza tracce di vergelle, e nel 1844 Friederich Keller inventerà una macchina che, defibrando il legno, permetterà l'industria della carta da legno. Una particolarità della carta sono le filigrane o marchi di fabbrica, segni distintivi 49
delle cartiere; si presentavano in forma di lettere, di figure d'animali, di fiori, di frutti, di arnesi e utensili, disegnati con filo di ottone o d'argento nel mezzo della metà di una forma, in modo da poterli vedere in trasparenza. Le più antiche filigrane sono anteriori al 1271, ma diventano numerose dal secolo XIV in poi. Con l'invenzione della stampa non s'inaugura solo una nuova era della civiltà umana, ma anche un nuovo periodo del libro, che diventa lo strumento indispensabile del Rinascimento nella diffusione della cultura e del sapere. L'invenzione della stampa con i caratteri mobili fu preceduta da alcuni tentativi diretti a formare il libro con sistemi più economici, cioè con la riproduzione sulla carta da una parte sola del foglio di tavole in legno incise con caratteri e figure, "libro silografico". Quest'uso, che mirò soprattutto a soddisfare i bisogni dei fedeli non sempre in grado di acquistare degli "offizioli" o delle Bibbie in pergamena, si diffuse specialmente nei paesi tedeschi, perdurando anche dopo l'invenzione della stampa. Caratteri incisi, stampabili con inchiostro, erano stati impiegati in Cina già nel 1324 a.C.. L'invenzione della stampa fornì al mondo il primissimo veicolo di comunicazione di massa, essendo il primo mezzo capace di raccogliere e comunicare un gran numero d'informazioni da fornire a un vasto pubblico. Quando, intorno al 1450 Johann Gutenberg ideò i caratteri mobili, la stampa divenne la forza più potente per la diffusione delle idee: le idee artistiche del Rinascimento italiano, le idee umanistiche di studiosi come Erasmo da Rotterdam, le idee di riformatori religiosi come Martin Lutero. Prima d'allora, uno scrivano poteva impiegare mesi per completare una sola copia; nel 1333, ad esempio, occorsero sei mesi per trascrivere un Nuovo Testamento di 278 pagine, senza che venissero evitati errori nel lavoro di trascrizione. Grazie alla stampa, la situazione mutò nel giro di pochi decenni. Opere di letteratura rimaste per secoli inaccessibili alla maggior parte degli studiosi, vennero risuscitate dagli stampatori; i primi libri stampati furono la Bibbia e i testi della letteratura classica latina. L'unica nota e la prima opera importante realizzata da Gutenberg fu appunto la Bibbia in latino. Vennero pubblicate per prime opere religiose di autori quali Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino, assieme a quelle di scrittori latini come Cicerone e Virgilio; seguì con successo la divulgazione di libri in volgare, come raccolte di fiabe tradizionali e opere più moderne, 50
come i "Racconti di Canterbury" di Geoffrey Chaucer e "La morte di Artù", una raccolta di leggende di Thomas Malory, nè mancarono libri culturali veri, come testi di grammatica, di storia e di medicina. Il desiderio degli stampatori di conquistare un mercato più vasto, rafforzò enormemente la posizione delle lingue volgari; certe parlate, che fino ad ora erano state considerate dei "dialetti", furono accettate come lingue: così la lingua volgare tedesca che si parlava nei Paesi Bassi venne adottata dai tipografi di Amsterdam, trasformandosi da allora nella lingua ufficiale olandese. La lingua, allora, variava considerevolmente all'interno dello stesso paese, non solo nella pronuncia, ma anche nel vocabolario e nella grammatica. Fu quindi grande merito dei tipografi la formazione di una versione unificata di ogni lingua, dopo aver scelto uno dei tanti dialetti regionali. In Italia ad esempio, il toscano divenne lingua nazionale; in Inghilterra, William Caxton, il primo tipografo, nel 1476 incominciò la sua attività a Westminster e scelse come lingua dei libri da lui stampati il dialetto inglese che si parlava in quella regione, adottando anche una forma unificata di ortografia. Ma le autorità religiose e i governanti dell'Europa vedevano nella stampa una potenziale minaccia al loro potere. I tipografi pubblicavano opere contro l'autorità costituita, che gli amanuensi non avrebbero mai ricopiato, e le distribuivano a un pubblico numeroso quanto mai era stato in precedenza. Così i sostenitori della Riforma Protestante iniziata da Lutero in Germania e da Calvino in Svizzera , poterono diffondere le loro idee. Per i tipografi i rischi erano molti: in Italia, nel secolo XVI, il Tribunale dell'Inquisizione si eresse a censore dei libri stampati, e in Inghilterra il re proibì agli stampatori di esercitare il mestiere senza una licenza reale; nel secolo XVII la Corte di Star Chamber, ricorrendo a metodi inquisitori, puniva con multe e con la prigione quegli stampatori che trasgredivano il divieto. Ma fu proprio l'Inghilterra il primo Paese ad allentare i vincoli sulla stampa, quando nel 1695 venne a scadere la legge che ne regolava l'attività. Un progresso decisivo si ebbe nel 1791 quando il Primo Emendamento della Costituzione americana stabilì che nessuna legge avrebbe dovuto limitare la libertà di stampa. Se le opere di natura religiosa e politica potevano risultare pericolose, miglior fortuna ebbero invece le pubblicazioni riguardanti scoperte scientifiche e geografiche: la notizia della scoperta dell'America, 51
ad esempio, fu conosciuta con grande rapidità; l'opera di Galileo, in cui lo scienziato sosteneva la rotazione della Terra intorno al Sole, apparve nel 1632 e quella di Newton sulla struttura dell'Universo, rimasta insuperata fino ad Einstein, venne pubblicata nel I687. La stampa favorì anche l'avvicinamento di un gran numero di persone ad opere d'arte: i testi teatrali di Shakespeare sono giunti fino a noi grazie alla stampa, ché altrimenti la loro vita si sarebbe conclusa in una sola stagione di spettacoli. Ci volle insomma un'evoluzione durata oltre tremila anni per raccogliere e diffondere la conoscenza umana nel mondo. Sin dall'antichità i Cinesi adoperavano bolli o sigilli con inciso il nome o il grado, spesso ornati da decorazioni; il bollo, in origine segno distintivo di una carica, nel 1324 a.C. era già usato per timbrare i documenti: i caratteri e i fregi venivano bagnati con l'inchiostro e poi premuti sulla carta. Bolli di steatite, di giada, d'avorio o anche di bambù sono tuttora comuni in Cina e vengono usati per autenticare documenti, lettere e assegni: il bollo ha addirittura più valore della stessa firma. La stampa di libri per mezzo di tavolette di legno inciso, inventata in Cina, fu uno sviluppo del sistema di stampigliatura: su un'unica tavoletta di legno s'incideva un intero brano, lasciando in rilievo le lettere, incise al contrario, specularmente, e asportando le parti di bianco. Il legno veniva poi inchiostrato, e su di esso veniva premuta a mano la carta: questo tipo di stampa in rilievo viene chiamato xilografia. Il più antico libro che si conosca, un rotolo continuo di quasi cinque metri, stampato con tavolette di legno di 75 x 30 centimetri, fa parte delle scritture sacre buddhiste ed è noto col nome di "Sutra del Diamante": risale all'868 d.C.. L'inventore della stampa a caratteri mobili fu il cinese alchimista Pi Ching negli anni successivi al 1040. Invece d'incidere un'intera pagina di libro su una sola matrice, Pi Ching fabbricò caratteri singoli di terracotta, ciascuno dei quali rappresentava una parola della scrittura cinese. Venivano quindi riuniti in frasi e pagine complete, collegandoli su un telaio di ferro e fissandoli con un mastice. Egli sfruttava una scorta di caratteri di parole comuni, mentre quelli di parole insolite venivano preparati sul momento e fatti cuocere rapidamente su un fuoco di paglia; 52
venivano poi riposti in vassoi su di una tavola girevole per facilitarne la scelta. La prima fonderia di caratteri tipografici di metallo venne impiantata dal re T’ai Tsung in Corea nel 1403. Ogni carattere rappresentava una parola diversa, così era necessario averne un numero enorme per poter formare tutte le frasi possibili. Trent'anni più tardi, nel 1433 circa, venne ideato in Corea un alfabeto fonetico basato sulla lingua sanscrita dell'antica India, permettendo così la composizione di tutte le parole con un numero esiguo di lettere, come nelle lingue occidentali moderne. Johann Genfleisch von Gutenberg, nato a Magonza nell'anno 1438, inventò uno stampo per la fusione in metallo di caratteri singoli per tutte le lettere dell'alfabeto: per ogni lettera, preparava un punzone di metallo duro, recante incisa la lettera stessa. Poi questo punzone veniva battuto su di un pezzo più morbido di ottone per ricavarne una matrice che, sistemata su di una forma regolabile, era capace di controllare la larghezza del carattere, mantenendo un'altezza sempre uniforme. Il carattere finito veniva fuso in una lega metallica tenera, che nel XV secolo era probabilmente costituita di stagno e piombo. Si cominciò a stampare su base commerciale intorno al 1450, e fra le prime opere c'è la "Grammatica latina" di Donato, il primo libro stampato in Europa con caratteri mobili, che porta la data del 145I, e la così detta "Bibbia delle 42 righe" in latino (dal numero di righe per ogni colonna di testo) sulla quale Gutenberg incominciò a lavorare nel 1453. La stampa a colori venne invece inventata a Magonza da tali Johann Fust e Peter Schöffer, soci del Gutenberg fino al 1454. Prima d'allora i colori venivano aggiunti a mano, dopo la stampa. Si bagnavano le diverse parti della forma con inchiostro di un secondo colore oltre il nero; il primo libro a due colori fu un "Libro dei Salmi" in latino, che venne pubblicato nel 1457. Per creare invece un libro stampato con illustrazioni, si usarono per la prima volta nel 1461 matrici di legno combinati assieme ai caratteri mobili: il primo libro illustrato fu una raccolta di favole in tedesco, con 101 figure incise a mano su blocchi di legno. Sarà nel 1470 che il primo carattere romano verrà ideato dal francese Nicolas Jenson per la sua tipografia di Venezia, staccandosi dallo stile comune a tutti i tipografi che fino ad allora 53
avevano cercato di far sì che i tipi di carattere somigliassero il più possibile alla scrittura manoscritta. Il disegno usato dallo Jenson con le maiuscole basate sulle iscrizioni incise sui monumenti dell'antica Roma, e con l'aggiunta delle maiuscole si era dimostrata subito più leggibile di quella basata sugli stili dei manoscritti degli amanuensi; l'ultimo a sopravvivere sarà il "fraktur", un carattere di uso pressoché universale in Germania, che verrà abolito da Hitler nel 1941. Nel 1477 viene pubblicata la "Cosmografia" di Tolomeo, il primo libro di mappe stampate, ottenute con un sistema d'incisione definito "stampa ad intaglio", e che consiste nell'incidere l'immagine s'una lastra di rame o d'acciaio. Come nelle xilografie, la parte stampata è quella che viene asportata con l'incisone e non quella che resta in rilievo. L'opera conteneva 26 mappe stampate con lastre di rame, metodo questo che viene tuttora usato nella stampa di banconote e di documenti di valore, perché rende difficile la contraffazione. Quasi contemporaneamente a Gutemberg, anche in Italia si sviluppava l'arte della stampa ad opera del feltrino Panfilo Castaldi, medico laureatosi a Padova, città nella quale, pare, incominciò ad esercitare detta arte. Galeazzo Maria Visconti, venuto a conoscenza dell'attività del Castaldi, lo invitò alla sua corte, offrendogli il privilegio e l'esclusiva dei lavori di stampa1 . Altri pionieri italiani furono Clemente da Padova e Bernardo da Firenze che imitarono il medico feltrino pubblicando libri di Virgilio e di altri autori latini. Ben presto gli stampatori italiani, primi fra tutti quelli Veneziani, divennero tanto famosi da venir richiesti in tutta Europa; celebre maestro dell'epoca fu Aldo Manuzio di Bassano, che realizzò un alfabeto corsivo chiamato "aldino" o "corsivo italico». Nel XVIII secolo fu determinante 1
L'ultimo ricordo che si ha di lui è un documento del 21 agosto 179. La fama del Castaldi è connessa alla dibattuta questione di attribuirgli l'invenzione dei caratteri mobili da stampa prima del Gutemberg o di altri introduttori stranieri della stampa in Italia. L'attribuzione compare nella secentesca cronaca di Feltre del Cambruzzi, che venne successivamente accennata da altri e ripresa dal Bernardi nel 1864; inoltre alcuni documenti - 4 lettere 4 e 6 marzo, 5 maggio 1472 e 21 aprile 1474 - scoperti nell'Archivioano nel 1880, poi illustrati dal Motta, diedero alla tesi castaldina un effimero successo, anche se detti documenti non offrono alcuna valida testimonianza per attribuirgli una prorità nell'invenzione della stampa.
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l'opera di Giambattista Bodoni il quale, dopo essere stato compositore nella tipografia Propaganda Fide di Roma, nel 1768 passò a dirigere la stamperia regia di Parma, e tre anni dopo ne aprì una sua propria; di lui rimane un celebre "Manuale Tipografico" con i famosi caratteri "bodoniani". Nonostante il giuramento degli operai magontini di non divulgare i procedimenti dell'arte tipografica, la stampa si diffuse in poco tempo in altre città tedesche, a Bamberga nel 1460 con Albert Pfister, a Strasburgo con Giovanni Mentelin, a Colonia con Enrico Quentell, a Norimberga con Antonio Koberger, ad Augusta, a Ulma, a Lipsia, a Basilea eccetera, con carattere prevalentemente universitario, teologico e religioso, storico universale e locale. Gotici furono i caratteri e la xilografia che li illustrava. Nel secolo XII la scrittura assunse forme calligrafiche e manierate nei codici solenni, e modeste, più piccole o meno artificiose per gli altri libri: nei documenti presentava una grande quantità di tipi corsivi in seguito allo sviluppo della vita economica, del commercio, dei movimenti bancari. Tali forme vennero indicate col termine generico di "scrittura gotica", denominazione già usata dagli umanisti italiani, in opposizione a quella di "scrittura antiqua" che indicava la minuscola carolingia, il cui centro più importante fu Corbie, come attestano i codici della Bibbia eseguiti dall'abate Maurdramno del 772-780, l'opera dei centri scrittori di Tours, specie quello del monastero di San Martino, dove il monaco anglosassone Alcuino, che vi fu abate dal 796 all'804, stimolò l'attività dei copisti; ma fu soltanto durante il periodo dell'abate Fredegiso, tra l'806 e l'834 che la scrittura di Tours acquistò uniformità di stile e perfetta regolarità, divenendo appunto la "scrittura carolingia" vera e propria. Tra i numerosi codici di Tours, famosa è la Bibbia offerta da Rorigone, genero di Carlo Magno, all'abbazia di Glanfeuil, dopo l'830. Altri centri scrittori con Scrittura "carolina " o "carolingia" sorsero tra il Reno e la Loira, centri che furono il punto focale della civiltà dell'Occidente medievale durante il regno di Carlo Magno, tra il 768 e l'814. Le riforme scolastiche e liturgiche di Carlo Magno e di Alcuino, con la creazione della scuola palatina e le scuole episcopali e monastiche in tutto il regno, coincisero con l'elaborazione del nuovo tipo di scrittura.
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Il rito gallico veniva sostituito da quello romano, e con il capitolare del 23 Marzo 789 veniva sollecitata la revisione dei libri ecclesiastici: ciò diede il via a una considerevole richiesta di codici e allo sviluppo dei centri scrittori. Tra l'820 e l'830 la scrittura carolingia si presentava con lettere dalla forma quasi fissa, di piccolo formato e d'uguale altezza, dando inizio alla storia della scrittura medievale e moderna, che raggiunse la sua epoca d'oro dalla seconda metà del IX secolo e il principio del X, divenendo la scrittura corrente di tutto il mondo franco e diffondendosi rapidamente nell'interno dei territori che facevano parte dell'impero carolingio, formando un'unità culturale, oltre che politica. L'introduzione in Inghilterra seguirà la riforma ecclesiastica sostenuta da re Edgardo tra il 958 e il 975, della quale san Dunstan di Canterbury e Osvaldo Vescovo di Worcester, e poi arcivescovo di York, furono i principali artefici. Negli stati cristiani del nord della Spagna, la riforma religiosa guidata dai cluniacensi francesi, aprì la via alla penetrazione di questa scrittura, favorita dall'abolizione al Concilio di Burgos nella Pasqua 1080, dell'antica liturgia nazionale e dall'insediamento di prelati francesi nelle sedi vescovili castigliane: il primo esempio datato di scrittura carolingia è un manoscritto di Sant'Agostino appartenente alla chiesa di Toledo del 1105. La cancelleria pontificia abbandonò definitivamente la vecchia scrittura curiale all'inizio del XII secolo, dopo che i notai romani vennero sostituiti nella cancelleria curiale da chierici tedeschi, francesi ed italiani di altre regioni, per passare alla scrittura carolingia. Sotto Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno, le molte legature sui diplomi carolingi della cancelleria imperiale scomparvero, e con Carlo il Calvo, la forma delle lettere si avvicinò a quelle carolinge classiche. La scrittura carolina rimarrà quasi inalterata per quattro secoli, dall'VIII al XII, dando all'Europa occidentale uno stesso tipo di scrittura, anche se ogni paese ebbe il proprio stile e ogni scriba la sua mano. Col mutare dell'indirizzo della cultura nel secolo XII, subiranno un mutamento anche il carattere dei codici e le forme della scrittura. La cultura ora, si diffonde nel mondo secolare e laico, e non è più esclusiva prerogativa degli ecclesiastici, dei monasteri e delle sedi vescovili; il rinnovamento intellettuale accompagnato dall'apertura delle Università, provocherà un bisogno sempre maggiore di libri: nacquero così lo studio di Bologna, che nel 1158 ebbe il riconoscimento imperiale, l'università di Parigi che nel 1215 emanò i suoi Statuti, e altre Università in tutta l'Europa 56
occidentale, sotto la protezione di papi e principi. Per far fronte alla necessità di testi per gli studenti, sorsero numerose officine librarie, dove gli amanuensi copiavano su ordinazione e dietro compenso, e lo sviluppo dell'amministrazione locale, la rinascita del diritto romano e l'ampliamento del notariato ne aumentarono enormemente la necessità degli scritti. Nel '200 si costituiscono così le grandi cancellerie e la burocrazia pontifica, francese e inglese; il notariato si affermerà nel mezzogiorno della Francia. La scrittura gotica non aveva alcuna relazione con i goti, ma era piuttosto un segno di disprezzo con cui tale scrittura era guardata dagli umanisti, i quali ritenendola barbara rispetto all'"antiqua" che credevano romana, diedero ad essa e allo stile architettonico corrispondente il nome di uno di quei popoli ai quali si doveva, a loro avviso, la caduta della civiltà romana. La "gotica libraria" è la stessa scrittura minuscola carolingia che nel suo ultimo periodo, divenuta manierata, s'indurì con punte ed angoli acuti, grossa e pesante. Il mutamento fu dovuto solo al progresso tecnico col mutamento dello strumento di cui gli scribi si servivano, passando dalla penna d'oca a becco dritto, a quello obliquo a sinistra della punta della penna; e poiché nelle scritture usate in Gran Bretagna dopo la conquista normanna ai tempi di Guglielmo il Rosso, tra il 1086 e il 1100, le caratteristiche della spezzatura e dei tratti grossi e sottili si potevano ottenere solo col taglio obliquo della penna, s'ipotizzò che la nuova tecnica fosse partita dall'Inghilterra per passare nell'Ovest della Francia e in tutto il continente. I primi esempi di gotica si trovano in manoscritti della fine del secolo XI e inizio del XII nel Nord della Francia, come il "Psalterio" dell'anno 1105 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, e il "Sant'Eusebio" tradotto da Ruffino del duomo di Treviri, scritto nel 1191. Si diffuse in tutta la cristianità regnando sovrana sino al secolo XVI; nel secolo XV, quando gli umanisti riportarono in uso la minuscola, la gotica rimase nei libri liturgici, fatta eccezione per la Germania. Poiché la principale caratteristica della gotica consisteva nella spezzatura delle linee diritte, nel secolo XIV venne anche chiamata "fractura". Le abbreviazioni divennero numerose, specie nei manoscritti di carattere tecnico, di teologia, di filosofia, di diritto, di medicina e di matematica, nei quali i caratteri erano di difficile lettura. Per le maiuscole dei titoli si foggiò uno speciale 57
alfabeto, detto "gotico", derivandolo in buona parte dall'"onciale", con esagerazione di curve, rigonfiamenti, raddoppiamenti di tratti e linee ornamentali, soprattutto nei messali e nei libri liturgici, nei codici di lusso, con le caratteristiche di un tessuto, per cui tale scrittura fu anche detta "textura" dai tedeschi e "littera de forma" in Francia. Nel XIII secolo, accanto alla gotica libraria, si venne formando nell'uso corrente, per la stesura degli atti di lettere, di registri, di libri di conti e anche di codici, specie in lingua volgare, una scrittura gotica corsiva che si distingueva per i tratti angolosi, per la legatura delle lettere tra loro e per la disgiunzione dei loro tratti. Un altro tipo di corsiva fu quella usata nei libri di commercio e nella corrispodenza dei mercanti fiorentini, detta "minuscola mercantile", meno solenne e più semplice, tracciata in modo rapido e perciò con maggiori legature. In Italia l'arte della stampa giunse già nel 1465, e alla fine del secolo XV esistevano tipografie funzionanti in 250 città europee tra Germania e Italia, Francia e Paesi Bassi, Portogallo e Inghilterra, Polonia e Ungheria, Boemia e Croazia, Montenegro e Scandinavia. In Italia, soltanto Venezia raggiunse nell'arte tipografica, nell'industria e nel commercio del libro uno sviluppo superiore alle altre città, anche europee. L'intensa vita culturale che si viveva in Italia nel Rinascimento influenzò favorevolmente anche l'arte del libro che raggiunse livelli qualitativi notevoli sia nell'edizione dei testi che nella bellezza dei caratteri tipografici, accompagnata da artistiche illustrazioni. Secondo alcuni studiosi, "in ogni fase della storia della stampa primitiva dietro e accanto al libro impresso era presente il manoscritto: non solo (e neppure sempre!) come fonte del testo, ma soprattutto come modello esteriore", e "sino ai primi del Cinquecento, storia del libro manoscritto e storia del libro a stampa non possono e non debbono essere considerati due fenomeni separati, ma piuttosto come diversi aspetti d'un unico processo di produzione e di diffusione culturale, differenziato nontanto dai procedimenti tecnici adoperati (scritture a mano, stampa xilografica, stampa a caratteri mobili) quanto dal tipo di testo riprodotto e perciò dal tipo di pubblico per il quale si produceva e cui ci si rivolgeva».
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Il massimo dell'eleganza e perfezione, puro manierismo decorativo, venne raggiunto nel XIV secolo dalla scrittura gotica "rotonda" italiana e "littera de forma" francese; ma, anche se le pagine dei codici di lusso offrivano un godimento per l'occhio, non erano agevoli a leggersi, costituendo anche un notevole impegno per gli scribi. Francesco Petrarca fu il primo a denunciare il disagio nel campo scrittorio, e la comune aspirazione di letterati e studiosi a restituire alla scrittura la sua funzione espressiva, sobria e nitida, e lui stesso aveva cercato di dare l'esempio usando una minuscola piccola, elegante e chiara, senza eccessive spezzature, anche se ancora gotica, come risulta dai suoi autografi. Ma la riforma scrittoria fu opera degli umanisti, i quali nei loro viaggi di studio attraverso le biblioteche dei vecchi monasteri, rinvennero innumerevoli testi di autori classici scritti in minuscola carolina dei secoli IX-XII. Ne ricopiarono molti imitandone anche la scrittura, da loro ammirata e che chiamarono "antiqua". L'umanista Ambrogio Traversari, vissuto tra il 1386 e il 1439 rivolgeva al fratello vari consigli per raggiungere una buona imitazione, e per il fiorentino Niccolò Niccoli, vissuto in quegli stessi anni, la maggiore gioia era "vedere una bella lettera antica, la quale non stima bella e buona, se ella non è di forma antica e bene dittongata; e nullo libro per buono che sia gli piace ... non essendo scritto di lettera antica", come scriveva un contemporaneo. Il famoso scopritore e trascrittore di testi classici Poggio Bartolini, dovendo nel 1403 scrivere a richiesta di Coluccio Salutati le "Filippiche" e le "Catilinarie" da un esemplare di Jacopo da Scarperia, lo fece con mano abilissima, imitando perfettamente le forme della carolina. I più antichi esempi di umanistica libraria risalgono ai primissimi anni del '400, e l'esempio del Bracciolini, spinse gli altri umanisti fiorentini ad impararla: l'umanistica divenne così espressione letteraria, fatto di cultura e conclusione di uno sforzo artistico che andava al di là dell'imitazione dell'antico; Firenze è consideratala culla della riforma scrittoria: da qui i codici con la nuova scrittura si diffusero negli altri centri culturali della penisola, ma soltanto dopo la metà del secolo XV si può parlare di scuole scrittorie umanistiche fuori di Firenze.
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La scrittura umanistica era di due tipi: rotonda e corsiva; nella prima, che riproduceva nell'aspetto generale la carolina più progredita, i copisti quattrocenteschi avevano aggiunto alcuni elementi tratti dalla gotica: certi caratteri personali della scrittura di Pomponio Leto, ad esempio, passarono nei suoi discepoli, influenzando così lo sviluppo della scrittura nell'ambiente umanistico romano del tardo '400. Anche se con l'invenzione della stampa la scrittura in genere cessò di essere il mezzo di diffusione della cultura, venendo meno la sua importanza nel campo librario, l'umanistica rotonda continuò comunque a vivere, anche attraverso i caratteri di stampa. I primi esempi di umanistica corsiva furono posteriori di una decina d'anni a quelli dell'umanistica rotonda; la sua formazione è d'incerta provenienza, o dalla gotica italiana o dal tracciato corsivo dell'umanistica rotonda. Quella corsiva venne usata nelle lettere e nei documenti, come nei brevi della cancelleria pontificia della fine del XV secolo e dell'inizio del XVI, ma comparve anche nell'uso librario. Il termine che si usa per indicare il lavoro di chi cura il libro destinato al lettore è "arte libraria": essa comprende sia l'opera dei librai che ne curano diffusione e commercio, che gli scribi, i copisti e gli amanuensi che nei tempi antichi ripetevano in varie copie il testo d'una stessa opera, trascrivendola a mano. Con la caduta dell'impero romano, produzione e commercio del libro subirono una lenta evoluzione secondo le trasformazioni della società e i mutamenti dell'economia. Con le invasioni barbariche e la scomparsa dell'aristocrazia colta e dedita agli studi, fu soltanto il mondo monastico a servirsi del libro, così che dopo la caduta dell'impero romano d'Occidente, cultura e composizione dei libri furono eseguite esclusivamente nei monasteri, dove la scrittura dei codici era un dovere monastico. Già nel IV secolo, san Girolamo raccomandava ai monaci la copiatura dei libri come una delle occupazioni più adatte; Sant'Efrem l'invitava a copiare e a dipingere di porpora le pergamene. Si ebbe così una larga diffusione di libri sacri e di agiografie. Postumiano racconta che i librai romani diedero manifestazioni di gioia quando Paolino vi portò la vita di san Martino vescovo, scritta da Sulpicio Severo. La Regola di San Benedetto stabiliva, nel capitolo 48, che durante la Quaresima 60
"accipiant omnes singulos codices de bibliotheca"- prendano ciascuno un codice dalla biblioteca - e che i monaci dovessero leggere ogni giorno "a mane usque tertiam plenam" - dalla mattina fino all'ora di terza -. Nel medioevo si diceva che "claustrum sine armario est quasi castrum sine armamentario" - un chiostro senza l'armadio dei libri è quasi come un campo militare senza armi -. Grazie alle Università europee rinacque un vero commercio librario, dedicato all'insegnamento. Nella V delle sue "Epistole familiari", il Petrarca ci descrive come veniva diviso il lavoro dei copisti: "Sic apud nos alii membranas radunt, alii libros scribunt, alii corrigunt, alii, ut vulgari verbo utar, illuminant, alii ligant et superficiem comunt" - così da noi alcuni rasano le pergamene, altri scrivono i libri, altri correggono, altri, per usare la parola in volgare, alluminano, altri rilegano. - Anche san Luigi, vissuto tra il 1226 e il 1270 si dedicò ad accrescere il numero dei libri, e cercò di raccogliere in un luogo accessibile a tutti le copie dei diversi manoscritti esistenti in Francia, anche se poi questo progetto di biblioteca pubblica non ebbe seguito perché alla sua morte lasciò in testamento i suoi libri a diversi monasteri. Una strada di Parigi era chiamata "as ecrivains" dove dimoravano di preferenza gli scrittori di libri. Nella tecnica libraria, il termine più antico è di "fascicolo sciolto", formato originariamente dalla piegatura in quattro dalla "pecia" di pergamena ricavata dalla concia di una pelle intera; la "pecia" era il fascicolo numerato dell’"exemplar", cioè del manoscritto tipo, riconosciuto dalle autorità che ne permettevano l'esecuzione contemporanea di più copie, e fu anche unità di misura per il pagamento dei copisti. Mentre la cultura andava diffondendosi nel mondo laico, decadeva nei monasteri, tanto che il Boccaccio riferiva di aver trovato la biblioteca dei monaci di Montecassino in un deplorevole abbandono, e nella prima metà del '300 Richard de Bury, vescovo di Durham, che fu detto il padre dei bibliofili, scriveva che i monaci erano più portati allo studio di vuotare i bicchieri che di copiare i codici; e nel suo "Philobiblon", il più antico trattato di bibliofilia che si conosca, si scaglia contro i chierici degeneri del suo tempo, che comparava a vipere e al cuculo, che uccidono i genitori da cui hanno ricevuto la vita e gli alimenti, e introduceva a parlare con una certa vis comica i libri stessi, per rimproverare ai chierici l'ingratitudine che loro dimostravano.
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Notevole impulso alla ricerca e alla trascrizione dei codici diedero gli umanisti, e l'attività fu tanta che fece sorgere i veri librai: essi tenevano presso di sé degli amanuensi che rifornivano di tutto il necessario e principalmente della carta, così da venir chiamati "cartolai"; il più celebre fu Vespasiano da Bisticci, tra il 1421 e il 1498 a Firenze, accanito raccoglitore e organizzatore del lavoro di trascrizione e di correzione. Per Cosimo de' Medici, che volle istituire una biblioteca nel chiostro di san Lorenzo, arruolò 45 scrittori e riuscì a far loro copiare 200 manoscritti in ventidue mesi. A Vespasiano si rivolse anche il re d'Ungheria Mattia Corvino, per arricchire la sua preziosissima biblioteca, tanto che alla sua morte si trovavano ancora presso Vespasiano ben 150 codici a lui commissionati: in parte furono ritirati dal successore Ladislao e trasportati in Ungheria, in parte furono acquistati dai Medici. L'industria del manoscritto era alimentata anche da una clientela borghese, interessata soprattutto alla lettura in volgare in prosa e in versi, religiosa e profana, e alla divulgazione di opere di medicina. Ma i copisti non erano tutti fidati: "correctores, seu magis corruptores" - correttori ma piuttosto corruttori -, per cui un umanista del tempo, Zunino, "Sozomeno" da Pistoia, scriveva su un suo codice di Cicerone: "… meglio comprar libri già scritti che farseli scrivere". Un'anonima filastrocca stampata nei primi anni del '500, "Le malitie di tucte l'arti" e desunta dal Barberi, c'illumina in proposito: "E mi convien saltar da cartolai che carte assai da pergamene faranno comperanno scripture vecchie assai le raschian sì che nuove ti paranno se un libro a legar tu gli darai et da qualche putto sarra acciabattato et miniato alla grossa et mal legato". Per ciò che riguarda il formato e la presentazione, i manoscritti del '400 si possono distinguere in libri "da banco", quelli liturgici o esemplari sontuosi per bibliofili, "da bisaccia", gli universitari o umanistici, cioè di studio, "libretti da mano " di varia letteratura e di piccolo formato da portarsi anche in viaggio. Privilegio di nobili e sovrani erano i libri d'ore scritti su finissime pergamene e miniati da grandi artisti. 62
Soprattutto il Medioevo può venir considerato come l'età d'oro del manoscritto e della preziosa illustrazione miniata. Ma l'invenzione della stampa a caratteri mobili, rendendo possibile la produzione in serie di testi, determinò un nuovo modo di pensare del lettore e persino un suo nuovo modo di essere: si stava per entrare in una nuova era, quella della tecnologia elettronica. I primi tentativi di stampa con i caratteri mobili effettuati in Europa risalgono alla metà del XV secolo, e portarono un cambiamento della storia del libro con conseguenze notevoli anche per lo sviluppo della cultura. La possibilità di diffondere a basso prezzo le copie di un testo, moltiplicandole rapidamente, facilitò le comunicazioni tra gli uomini e accelerò il moto del progresso scientifico, nel momento stesso in cui il processo di laicizzazione degli studi, facilitato dalla fondazione delle Università e favorito dall'introduzione in Europa della carta, si apriva il risveglio rinascimentale in ogni campo, letterario, artistico e scientifico. Ma l'invenzione della stampa a caratteri mobili, sorta in un paese dove il Rinascimento si dedicò più alle innovazioni meccaniche che all'umanesimo letterario, portò in un primo tempo a sacrificare la bellezza del libro, anche se in nessuna fase della genesi di un'opera d'arte, volontà artistica e tecnica sono date indipendentemente l'una dall'altra, ma risultano sempre compenetrate in un insieme da cui possono essere separate solo teoricamente. Tra intento artistico e tecnica non sussiste quasi mai un contrasto di principio; le forme artistiche esprimono la tecnica, e i due fattori sono ugualmente razionali o irrazionali. Fu in Italia che il libro stampato con caratteri mobili andò sviluppando una sua particolare estetica, dopo aver assorbito le caratteristiche più eleganti del codice: apparvero i primi "Officium B.M.V." all'inizio senza decorazioni, poi con poche xilografie e infine ornatissimi. Il più antico sembra essere quello stampato a Venezia da N. Jenson verso il 1472, di 204 carte in 16°, e dello stesso tipografo un altro data 1473. Dopo Venezia viene Napoli, dove Mattia Moravo e Cristiano Preller ne stamparono parecchi, tutti straordinariamente rari, dal 1476 al 1498. Il primo in greco, in 16° fu pubblicato da Aldo Manuzio a Venezia nel 1497 e a Venezia apparvero poi, dalla fine del secolo XV quelli meglio decorati: bellissimo quello di Lucantonio Giunta del 1501 e quello milanese del 1503 di Leonardo Pachel. Si conosce uno stampato 63
nello stesso anno da Benedetto Dulcibelli a Cortemaggiore presso Piacenza; ultimo, pieno di xilografie originali, è l'"Officium" stampato a Venezia da Francesco Marcolini nell'anno 1545. I primi esempi di stampa tipografica con caratteri mobili eseguiti in Europa e a noi pervenuti sono della metà del XV secolo; sono pezzi anonimi e per lo più non datati, ciò che provocò molte discussioni; George Painter nel 1970 volle assegnarli tutti a Gutenberg, che pare sia stato il solo a incidere e fondere i quattro tipi di caratteri apparsi prima della fine del 1455. Un primo importante cambiamento nel disegno della macchina da stampa di Gutenberg appare per opera di Wilem Janszoon Blaeu di Amsterdam, con l'aggiunta di un contrappeso capace di sollevare la pesante piastra di ferro, dopo ogni impressione, ciò che permise una produzione più numerosa, fino a 150 copie l'ora. Poi il colonnello tedesco Ludwig von Siegen di Hesse inventò il procedimento detto "mezzatinta", impiegato nella stampa delle illustrazioni. Fu questo il primo metodo di stampa che permise di ottenere toni sfumati: la prima mezzatinta di Siegen, pubblicata nel 1642, fu un ritratto della contessa tedesca Amalie Elisabeth. E, basato su questo principio, venne brevettato in seguito dal tedesco Jakob Christof Le Blon di Francoforte un procedimento a stampa a colori, basandosi sul fatto, noto ai pittori, che è possibile ottenere qualunque colore mescolando in proporzioni opportune i tre colori fondamentali. Egli usò il rosso, il giallo e il blu; ma oggi, una migliore conoscenza delle leggi dell'ottica induce ad usare come colori fondamentali il rosso Magenta, il giallo e il Cyan, un azzurro verdastro. La sua prima pubblicazione, con nove pagine intere di mezzetinte a colori, fu "Coloritto, ovvero l'armonia dei colori nella stampa" apparsa nel 1725. Due anni dopo, un orafo scozzese di Edimburgo,William Ged, inventò la tecnica della stereotipia che permette la riproduzione di un'intera pagina tipografica per mezzo di uno stampo, usando per l'impronta lo stucco oppure l'argilla, che nell'800 venivano sostituiti dalla cartapesta che poteva venir incurvata, ciò che permise lo sviluppo della stampa rotativa per mezzo di cilindri, comparsa nel 1861. Sarà François-Ambroise Didot, membro di una delle principali famiglie di tipografi francesi, nel 1775, a sostituire le misure convenzionali "elite" e "pica" con l'unità di misura conosciuta col nome di "punto 64
Didot", usata in tutte le parti del mondo, fatta eccezione per i Paesi di lingua inglese. Un "didot" corrisponde a 0.3759 mm. Alla fine del secolo XVIII un attore cavarese fallito, Alois Senefelder, inventerà la "litografia", termine derivato dal greco "scrittura con la pietra" e che consiste nell'usare una superficie piana al posto di una incisa o in rilievo e inchiostro grasso. Oggi, al posto della pietra, si usa una lastra di metallo, e l'immagine viene formata con un procedimento fotografico; per favorire la stampa dell'immagine su superfici di diversa consistenza, essa viene trasferita su un cilindro rivestito da morbida gomma, e a sua volta trasportato sulla superficie da stampare: da qui il nome di "offset", trasferire appunto, da cui il procedimento prende nome. La litografia venne usata per la prima volta in Inghilterra per la stampa sulla latta di scatole di fiammiferi. Blaeu porterà modifiche al torchio di legno, e il tipografo dilettante Lord Stanhope lo sostituirà con uno di ferro, che a sua volta verrà sostituito da quello a vapore inventato a Londra dal meccanico tedesco Friedrich Koenig, ottenendo così una velocità quasi doppia di quella dei torchi manuali. Koenig perfezionerà ancora il macchinario, aiutato dal compatriota Andreas Friedrich Bauer, con l'aggiunta di un cilindro, e il primo modello della nuova macchina verrà acquistato dall'editore del "Times" di Londra, John Walter che la descrisse come "il più grande progresso legato alla stampa da quando quest'arte fu inventata". Due anni dopo, il geniale tipografo inventò un'altra macchina capace di stampare contemporaneamente le due facciate del foglio. L'elettrotipia fu ideata contemporaneamente e indipendentemente l'uno dall'altro, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Russia. Ma la prima vera macchina rotativa per la stampa fu brevettata dall'americano Richard Hoe nel 1845, e il primo cliente ad acquistarla fu il Ledger di Filadelfia. La scoperta del principio della mezzatinta, per opera dell'inglese William Henry Fox Talbot nel 1852, rappresentò senza dubbio uno dei primi passi verso la riproduzione di fotografie su giornali; la prima illustrazione apparve sul Daily Graphic di New York col titolo di "Una scena nei quartieri poveri di New York". Sarà merito di Ottmar Mergenthaler la prima macchina veramente capace di comporre automaticamente i caratteri tipografici: la "linotype", che troverà 65
come rivale la "monotype " inventata da Tolbert Lanston. L'alta qualità di quest'ultima, farà sì che la monotype verrà largamente usata per la stampa di libri. Xilografia e incisione in rame saranno i primi prodotti popolari, relativamente a buon mercato, dell'arte figurativa. La riproduzione meccanica permetterà di raggiungere lo scopo conseguito dalla poesia con la recita ripetuta di fronte all'alternarsi degli uditori. La stampa sarà il riscontro popolare dell'aristocratica miniatura; ciò che per principi e signori erano i codici miniati, diventano per i borghesi le incisioni, singole o raccolte in fascicoli, messe in vendita nelle fiere e alle porte delle chiese. Aumenta enormemente la tendenza a diffondere l'arte tra il popolo, al punto che la xilografia più grossolana e a buon mercato, prevale non solo sulla miniatura, ma anche sull'incisione in rame, più fine e più costosa (G. Dehio, Geschichte der deutschen Kunst. II). La stampa prodotta meccanicamente, che circola in molti esemplari e che viene diffusa da intermediari, assume, di fronte all'opera d'arte originale, un esplicito carattere di merce, divenendo sempre meno personale rapporto tra artista e pubblico. E se il lavoro di bottega è quello di "produrre" la merce, la stampa, coi molteplici esemplari d'una stessa immagine, costituisce un chiaro esempio di produzione di "scorte". Nel secolo XV sorgono officine in cui si copiano in serie anche i manoscritti, illustrandoli con rapidi schizzi a penna, e gli esemplari finiti vengono esposti come in una libreria. È arbitrario dividere il Rinascimento dal Medioevo, prova ne sia il naturalismo quattrocentesco continuazione di quello gotico e, secondo Walter Pater, c'è presenza di espressioni rinascimentali perfino nel "chante fable" di "Aucassin et Nicolette", ciò che convaliderebbe l'intima connessione e continuità esistenti tra Medioevo e Rinascimento. E i più noti sostenitori dello sviluppo ininterrotto tra questi due periodi segnano un valore decisivo al movimento francescano, collegando la sensibilità lirica, il senso della natura e dell'individualismo di Dante, di Giotto e dei maestri successivi, con il soggettivismo e l'interiorità del nuovo spirito religioso, e ne contestano ogni frattura (H. Thode. Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance, 1885. - H.Thode. Die Renaissance, in "Bayreuther Blätter". 1899. È Gebhardt. Origines de la 66
Renaissance en Italie. 1879. È Gebhardt. Italie mystique. 1890. P.Sabatier. Vie de Saint François d'Assise. 1893). Nel '400 Firenze e Venezia sono centri di grande attivit‡ artistica con tendenze moderne e per lo più indipendenti dallo stile tardogotico e aulico dell'Occidente europeo. Nella Firenze borghese, da principio l'arte cavalleresca, importata dalla Francia, trova limitata comprensione, mentre viene adottata dalle corti dell'alta Italia. Anche geograficamente la Toscana è più vicina all'Occidente, confinando con territori di lingua francese, e i romanzi cavallereschi di Francia vi si diffondono già nella seconda metà del '200: vengono tradotti e imitati nell'idioma del paese, e anche ripresi e sviluppati nella lingua originale. Si scrivono poemi epici in francese e liriche nella lingua dei trovadori (A. Gaspary. Storia della Letteratura Italiana. I. 1887). Ma le grandi città mercantili dell'Italia centrale sono prive di un pubblico veramente interessato all'epopea cavalleresca, mentre alle corti dei principi padani, a Milano, Verona, Padova, Ravenna e anche in città minori, dove dinasti e tiranni si uniformano strettamente agli esempi di Francia, non solo si continua a leggere con entusiasmo il romanzo cavalleresco francese, lo si copia e lo si imita, ma anche lo s'illustra nel gusto d'oltralpe (W. Weisbach. Francesco Pesellino und die Romantik der Renaissance, 1901). L'attività pittorica di queste corti non si limita ai manoscritti miniati, ma si esercita anche in grandi cicli decorativi, i quali ugualmente traggono ispirazione dagli ideali cavallereschi di quei romanzi, attingendo argomenti dalla stessa vita di corte: battaglie e tornei, cacce e cavalcate, scene di gioco e di danza, favole mitologiche, soggetti biblici e storici, immagini di eroi antichi e moderni, allegorie delle Virtù cardinali, delle Arti liberali e soprattutto dell'amore, figurato o celato in mille modi. Queste pitture seguono, in generale, i modi dell'arazzo da cui per lo più derivano.
L'arte dei Comuni mantiene con la Chiesa e con la religione legami più stretti che non l'arte delle Signorie, e in queste la borghesia è più conservatrice della società di corte. Ma a metà del '400, anche nei Comuni, specie a Firenze, si possono notare nell'arte elementi cortesi e cavallereschi. I romanzi, diffusi dai giullari, penetrano tra la gente più umile e in forma popolare 67
giungono anche nelle città toscane, perdendo comunque il loro idealismo originario per diventare semplice lettura amena (Adolfo Gaspary. Storia della Letteratura Italiana. I. 1887). L'alta borghesia, ormai ricca e potente, nella materia del romanzo cavalleresco non vede più soltanto qualcosa d'esotico, ma anche, in un certo senso, dei modelli di vita. Dopo le scosse della crisi finanziaria, della peste e del tumulto dei Ciompi, la borghesia si mostra più sobria e più puritana, più semplice nei costumi e nel gusto, e a Firenze torna a dominare una mentalità obiettiva e realistica, aliena dal romanzesco e incline ad un fresco naturalismo opposto alla concezione aristotelica e cortese dell'arte. Il '400 italiano sarà pervaso dalla presenza di tendenze antitetiche, dalla "coesistenza degli uomini di età diversa" (W. Pinder. Das Problem der Generation. 1926). Il nuovo spirito pratico, nazionale, antitradizionale non risparmia neppure la vita delle Corti: si leggono ancora gli antichi romanzi di cavalleria, ma con atteggiamento nuovo, con distacco un po' ironico. Non solo Luigi Pulci nella Firenze mercantile, ma anche il Boiardo alla corte di Ferrara, tratta la materia cavalleresca nel nuovo tono disinvolto e semiserio. In contrasto con la comunità fondata su principi morali, propria del mondo cavalleresco, si sviluppa nelle corti una società "da salotto", libera e intellettuale, che, pur continuando la cultura dei più raffinati ambienti borghesi, com'è descritta nel "Decameron" e nel "Paradiso degli Alberti", anticipa quei salotti letterari che nel '600 e '700 avranno tanta parte nella vita intellettuale europea. Gli umanisti divengono le autorità indiscusse in tutte le questioni iconografiche di tipo storico e mitologico, e anche intenditori di questioni formali e tecniche. Nel Medioevo la lingua della cultura ecclesiastica era il latino, perché la Chiesa era legata direttamente e organicamente con la tarda civiltà romana; gli umanisti, invece, scrivono in latino perché rompono ogni continuità con le correnti culturali popolari, che si esprimono nei diversi idiomi, volendo crearsi un monopolio della cultura. Così nel Rinascimento gli artisti si sottomettono alla protezione e tutela intellettuale di questa cerchia. Tipiche della Rinascita italiana del '400 saranno le biografie degli artisti: il Brunelleschi sarà il primo ad avere la sua 68
biografia, scritta da un contemporaneo, mentre fino ad allora un tale onore era riservato a principi, eroi e santi; la prima autobiografia appartiene al Ghiberti. Ciò dimostra che l'attenzione del pubblico si è ormai spostata dalle opere alla persona dell'artista, con un moderno concetto di "personalità creatrice". E finchè il mercato rimarrà favorevole agli artisti, il desiderio di un'espressione personale non sarà ancora ricerca d'originalità, ciò che avverrà solo col Manierismo, anche se il "genio originale" apparirà soltanto nel 1700 quando gli artisti si troveranno a dover combattere per l'esistenza materiale. Il disegno, l'abbozzo, lo schizzo, il bozzetto e in genere "l' incompiuto" danno origine al gusto del frammento che è anche ricerca d'una concezione soggettiva dell'arte. Questo nuovo stile è pieno d'interesse nel Rinascimento anche come documento, come testimonianza di un momento del processo creativo, il poter cogliere l'invenzione alla sua origine: si vuol fissare ogni fuggevole idea. Rarissimi sono i disegni medievali giunti fino a noi: ma bisogna anzitutto ricordare che il disegno si diffuse universalmente solo quando si potè disporre di "carta" adatta e facilmente accessibile (J. Meder. Die Handzeichnung). Dal Rinascimento all'800 si affermerà sempre più il concetto che unità e coerenza siano i più alti criteri di verità. Dilettantismo e virtuosismo si trovano uniti nella figura dell'umanista che è definito come "il virtuoso della vita intellettuale"; sono due caratteristiche che rientrano in quell'ideale della personalità che gli umanisti si sono sforzati paradossalmente di attuare. Tale problematicità ha la sua origine nel modo stesso in cui è intesa la condizione del "letterato". Nel Trecento gli scrittori italiani provenivano per lo più dai ceti superiori, dal patriziato urbano o da facoltose famiglie mercantili: nobili erano Cavalcanti e Cino da Pistoia; Petrarca è figlio d'un notaio e notaio era Brunetto Latini; Villani e Sacchetti erano agiati mercanti come i genitori del Boccaccio e del Sercambi, e non avevano nulla in comune con i giullari medievali (E. Zilsel. Die Entstehung). La letteratura medioevale era destinata a una cerchia ristretta; gli umanisti sono i primi che si rivolgono, con i loro scritti, a un pubblico vasto e per lo più sconosciuto. Oltre ai discorsi, i libelli sono le prime forme della moderna pubblicistica, e le loro lettere sono i giornali del tempo (J. Huizinga. Erasmus. 1924. K. Bücher. Die Anfänge des Zeitungswesens, in Die Entstehung der Volkswirtschaft. 1919. I). 69
L'Aretino è il "primo giornalista". Ma il mecenatismo perde ora il suo carattere innocuo, e il rapporto dell'intellettuale con la potenza e la ricchezza crea continue complicazioni. Dapprima gli umanisti, quali poveri studenti, maestri o letterati vagabondi, professavano lo stoicismo dei "vagantes" e dei monaci mendicanti, negando ogni valore alla ricchezza, ma entrando in stretto contatto con la classe ricca, sorse in loro un profondo conflitto tra le antiche sedute e il nuovo modo di vita (H. Baron. Franciscan Poverty and Civic Wealth as Factors in the Rise of Humanistic Thought", in "Speculum", XIII. 1938; citato da C.E. Trinkaus. Adversity's Noblemen. 1940). Così, come l'età di Platone aveva intuito il pericolo implicito nel pensiero dei sofisti, ora la classe dirigente che appoggiava appieno l'umanesimo, si poneva in un atteggiamento di sospetto verso quegli umanisti che, privi di ogni base sociale, ne costituivano un elemento distruttivo, anche se tale conflitto tra l'aristocrazia intellettuale e quella economica, non si era ancora manifestata apertamente. La passività dell'umanista nei confronti dell'attività politica rafforzerà i potenti e verrà incolpato di "trahison des clercs" (Julien Benda. 1927). Così l'umanista perderà il contatto con la realtà, estraniandosi fino all'indifferenza: "Per lui vita vuol dire scrivere un'eletta prosa, tornir versi raffinati, tradurre dal greco in latino . . . Ai suoi occhi l'essenziale non è che i Galli siano stati sconfitti, ma che siano stati scritti i Commentari della loro sconfitta ... il valore del fatto cede al valore dello stile ..." (P. Monnier. Le Quattrocento. I). Uno dei concetti più importanti della classicità del '500, la definizione della bellezza come armonia, è già formulato dall'Alberti: egli pensa che la natura dell'opera d'arte è tale che nulla vi si possa togliere o aggiungere senza pregiudicarne la bellezza, e la rapidità dell'esecuzione viene celebrata nelle sue lettere al Tintoretto degli anni 1545-46. Tale idea, che l'Alberti ha ripreso da Vitruvio e che risale ad Aristotele, resta una tesi fondamentale dell'estetica classicistica. I precetti di ordine e disciplina troveranno la più stretta analogia nei principi cari all'arte, di sobrietà e ritegno: "Chi molto cercherà dignità in una storia, a costui piacerà la solitudine. Suole ad i principi la carestia delle parole tenere maestà dove fanno intendere suoi precepti; così in istoria uno certo competente numero di corpi rende non poco dignità" (L.B. Alberti. Della pittura. II). 70
L'ideale umano, che il Castiglione presenta come raggiungibile, o meglio come già raggiunto, viene preso ad esempio ed elevato a quel grado che ogni arte classica impone alle dimensioni dei propri modelli. Ciò che il Castiglione esige dal perfetto uomo di mondo è versatilità, equilibrato sviluppo delle doti fisiche e intellettuali, elegante disinvoltura nella pratica delle armi e della società, esperienza di poesia e di musica, dimestichezza con la pittura e le scienze. Nel "Cortegiano" si riflette soprattutto la ripugnanza dell'aristocrazia a ogni lavoro professionale e la signorilità nel sapersi dominare in ogni circostanza e nel comportarsi in società con naturale nonchalance e disinvolta dignità. Il Castiglione invita il gentiluomo a vestirsi di nero, come si fa in Spagna, o almeno di scuro per non dar nell'occhio; e per un ventennio, questo nuovo gusto porterà a rifuggire dalla policromia quattrecentesca e a preferire il monocromo e il bianco e nero (H. Wölfflin. Die klassische Kunst. 1904). Nella biografia di Annibale Caracci, inclusa nella "Vita dei Pittori" che il Bellori scrisse nel 1672, si trova per la prima volta il termine "Manierismo" ( W. Weisbach. Der Manierismus, in "Zeitschrift für bildende Kunst", vol. LIV. 1918-'19), concetto negativo, anche se attribuito ai grandi artisti e scrittori del periodo. Per il Vasari, "maniera" non era altro che la forma propria dell'artista, il suo modo d'esprimersi, la sua tecnica e il carattere personale: con una parola "lo stile". Soltanto per il Belloni e il Malvaria, classicisti del 1600, l'idea di "maniera" si riferisce ad una pratica d'arte ricercata, stereotipa, riducibile a un formulario. In realtà questi artisti avevano voluto staccarsi dalla regolarità e armonia troppo lineare dell'arte classica e sostituire alla sua norma universale, caratteri più soggettivi e suggestivi, fino a raggiungere un'estrema maturità del gusto, raffinato, prezioso che traduce ogni cosa in sottigliezza ed eleganza, del tutto privo d'ingenuità (W. Pinder. Zur Physiognomik des Manierismus, in "Die Wissenschaft am Scheudewege. Ludwig-Klages-Festschrift. 1932). Col Rinascimento, la raffinatezza e il gusto si riversarono anche sulla legatura del libro, con decorazioni anche su opere di argomento profano e di tema classico; i codici, oltre che in cuoio 71
furono in seta, in damasco, in velluto con ricami in oro, guarniti di borchie e motivi in metallo, e con fermagli per la chiusura. L'evoluzione della "legatura" è collegata alla forma del libro. I rotoli in papiro venivano racchiusi in scatole o astucci sia dai greci che dai romani. Nel I secolo d.C., i quaderni contenenti più fogli di papiro o di pergamena venivano inseriti tra due tavolette in legno o di fogli di papiro incollati tra loro, come lo attestano le più antiche legature di questo tipo pervenuteci dal Medio Oriente e dall'Egitto, dove il clima aveva consentito la migliore conservazione. Per cucire tra loro i fascicoli e fissarli alle assi di copertura, o si facevano attraversare i foglietti da un filo a qualche millimetro dalla piegatura, oppure si cucivano a due aghi di filo così da legare solidamente i fascicoli di un libro, tecnica questa che venne usata nell'Egitto copto e presso gli etiopi che la usano tuttora. In Occidente le più antiche legature risalgono al VII secolo e presentano procedimenti di cucitura di fascicoli su doppi nervi formati da cordicelle di cuoio disposte lungo il dorso: copertura dell'"Evangeliario" della regina Teodolinda a Monza, composta da una lastra finissima d'oro con otto cammei disposti a forma di croce. Fissate le assi ai fascicoli, la legatura poteva essere rivestita in modi diversi: nei libri di lusso e nei testi sacri le decorazioni erano per lo più in oro, pietre preziose, smalto ed avorio, come i dittici consolari, mentre per i manoscritti più correnti si usò la pelle decorata o la stoffa. I piatti del libro venivano protetti da chiodi e angoli metallici, e i titoli venivano scritti sul dorso orizzontalmente o su di un'etichetta applicata sul piatto. Nell'età carolingia si produssero in Occidente ricche legature gemmate, mentre in Oriente apparivano le prime legature con ornamentazione in smalto policromo, con scene religiose e figure di santi, espresse secondo il gusto dell'epoca. Nel secolo XIV si usarono legature decorate direttamente sul cuoio, inciso a secco con ferri o punzoni, di stile romanico e gotico con animali alati, scene di caccia, armi nobiliari, foglie e tralci di vite, rami di quercia rappresentati con fantasia e abilità. La decorazione dorata, usata dagli arabi dalla fine del XIV secolo, venne introdotta in Italia e in Spagna, e poi anche in Francia, adoperando una nuova tecnica per decorare il cuoio, lumeggiandolo con lacche e oro liquido e in polvere, con un disegno simile a quello dei tappeti orientali. Ma già in precedenza, attorno al 1470, era stata introdotta in Italia la doratura a caldo con oro in fogli, portata da 72
operai saraceni emigrati dalla Siria e dall'Egitto, aprendo una nuova via all'ornamentazione della legatura; i primi ad usufruirne furono i legatori della corte aragonese a Napoli, poi si sviluppò anche a Firenze e Milano, con l'aggiunta di piccoli cerchi e puntini in oro, motivo che si sviluppò soprattutto a Venezia sotto l'influsso del Rinascimento misto all'arte bizantina e orientale. Presso le corti rinascimentali vennero fondate ricche biblioteche nelle quali ogni volume era rivestito da preziosa legatura: tra i più noti bibliofili dei secoli XIV-XV si ricordano in Italia gli Aragonesi di Napoli, Mattia Corvino re d'Ungheria, i Medici, i Malatesta, i Visconti e gli Sforza, gli Estensi, i Gonzaga e altri ancora; in Francia il duca Jean de Berry e i duchi di Borgogna; in Spagna Alfonso XI di Castiglia, Pietro IV, Giovanni I, Ferdinando II e Isabella d'Aragona e Castiglia. Fin dall'antichità, quindi, il libro veniva abbellito col contributo dell'arte: il manoscritto si valse della miniatura e il libro a stampa dell'incisione in legno e in rame. La xilografia era già in voga prima della stampa. La prima opera figurata è "Edelstein" di Ulrich Boner pubblicata a Bamberga nel 1461, adorna di 101 xilografie stampate posteriormente al testo, mentre in una successiva edizione, testo e figure sono stampate insieme. In Italia, la illustrazione xilografica appare per la prima volta nelle "Meditationes" del cardinal Torquemada, il de Turrecremata, stampate a Roma da Ulrich Han nel 1467 con 31 xilografie, mentre il secondo libro con illustrazioni in legno è il "De re militari" del Valturio, stampato a Verona nel 1472, adorno di 84 figure attribuite a Matteo dei Pasti. Nel '400 i libri più celebri per le xilografie sono la "Bibbia volgare" del Malermi, il "Fasciculo de Medicina" del Ketham, l'"Hypnerotomachia Poliphili", tutti di Venezia; le "Laudi" del Beato Iacopone, il "Tractato della Oratione mentale" di Girolamo Savonarola e le "Sacre rappresentazioni" di Firenze; il "De claris mulieribus" di Giovanni Bergomense e le "Epistole volgari" di san Girolamo, due magnifici esempi di libri a figure, apparsi nel 1497 a Ferrara. Con l'introduzione della xilografia ombreggiata, quest'arte a poco a poco decade, anche se sono ancora molti i libri adorni di figure in legno, usciti specialmente a Venezia dalle tipografie dei Giunti, dei de' Gregori e di Gabriele Giolito.
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La Germania produsse libri di molta bellezza e importanza per le figure in legno, come lo "Schatzbehalter" e il "Liber Chronicarum" di Hatmann Schedel stampati a Norimberga da Antonio Koberger, con le figure del Wohlgemuth e del Pleydenwurff; il Tirenzio e l'Orazio stampati a Strasburgo dal Grüninger e il celebre libro "Stultifera navis" di Sebastiano Brandt pubblicato a Basilea nel 1497. In Francia, la xilografia applicata al libro cominciò più tardi, verso il 1480 e si sviluppò rapidamente soprattutto per mezzo dei "libri d'ore", tutti riccamente illustrati. Dopo il '500 la xilografia viene quasi del tutto abbandonata ed è sostituita dall'incisione in metallo, ma risorgerà alla fine del XVIII secolo in Inghilterra, riprendendo piede nel periodo romantico in Francia con Devéria, Gogoux, Garvani e specialmente con Gustave Doré, e in Italia con Luigi Sacchi, Francesco Gonin e Pietro Riccardi. Il '600 segnerà un periodo di decadenza per il libro italiano: la pessima qualità della carta e degli inchiostri unitamente al cattivo gusto e alle condizioni politiche della penisola non permetteranno alcuna ripresa della tipografia, e i libri rifletteranno lo stato poco felice della cultura del tempo. Il libro si polarizza attorno alla Corte, con qualche modesta edizione di poeti italiani accolti da Carlo Emanuele I: Marino, Tasso, Guarini ed opere legate ad eleganti svaghi principeschi, come la serie di poemetti dedicati alle stagioni: la "Primavera" del Botero, l'"Autunno" di Ludovico San Martino d'Agliè, l'"Estate" del Corbellini e l'"Inverno" dello stesso duca Carlo Emanuele, del quale ci restano alcuni mediocri versi in lingua francese. Altre opere narrano solenni entrate dei duchi nelle città fedeli, descrivono ville, palazzi e feste, tramandano la memoria di principesche esercitazioni di araldica come i "Livres de Blasonerie" di Carlo Emanuele I. L'aspetto esteriore segue la moda del libro secentesco italiano nella modestia della composizione tipografica, nella solennità della decorazione, nell'abbondanza di scene mitologiche delle illustrazioni incise da Giorgio Tasnière o da Giovenale Boetto: i testi del Tesauro, dell'Arnaldo o dell'Audiberti sono di scarso interesse, ed è particolarmente caratteristico il contrasto tra le solenni presentazioni delle tesi di laurea affidate per l'incisione ad artisti di vaglia e il vuoto delle proposizioni filosofiche discusse presso il Collegio della Compagnia di Gesù. 74
Non mancarono tuttavia personalità interessanti alla corte sabauda: "furier mayor de la cavaleriça" dell'infanta Caterina, duchessa di Savoia, fu l'astigiano Federico della Valle, poeta di notevole valore; poco si sa della sua vita: di lui si conosce una rappresentazione e un'edizione torinese dell' "Adelonda di Frigia". L'opera del Botero ebbe risonanza soprattutto fuori dello Stato sabaudo. I soli bei libri del Seicento piemontese sono quelli di due architetti: i "Disegni d'architettura" del padre Guarini e "La Venaria Reale" del Castellamonte con il giocoso frontespizio di caccia. Per l'Accademia Militare di Torino, Luigi Lagrange dettava i "Principi di analisi sublime", oggi conservati nella Biblioteca Reale; e il Lagrange assieme al Beccaria erano in corrispondenza con gli scienziati di tutta Europa. Di loro si parla nella "Miscellanea Philosophico Mathematica" della Societas privata assieme a Cigna, Saluzzo, D'Alembert ed Eulero. I documenti sulla storia della legatura in Piemonte risalgono ad epoca abbastanza recente: pubblicati dall'Armando e dal Morazzone, si riferiscono ai legatori dell'officina dei Regi Archivi; il primo è del 1734. Pertanto le legature dei secoli XVII e XVIII sono appartenute a principi e personaggi sabaudi, e quindi parte integrante dell'ambiente barocco e rococò. Come quelle del secolo seguente, sono di gusto francese: particolarmente eleganti sono le legature piemontesi di piccola mole, eseguite per esemplari di dedica di Palmaverde o Calendari di Corte. Con il fallimento delle trattative condotte dal Contarini alla dieta di Ratisbona nel 1541, finisce il periodo "umanistico" del movimento riformatore cattolico. Nel 1543 viene imposta la censura sulla stampa e nel 1545 si apre il Concilio di Trento. Con la fondazione della Compagnia di Gesù si ha una prima attuazione d'un'idea totalitaria, e con la massima che il fine santifica i mezzi, rappresenterà il supremo trionfo della politica realistica, carattere fondamentale del secolo. La teoria del realismo politico aveva avuto la sua prima formulazione in Machiavelli e nella sua opera si trova la chiave della concezione manieristica in lotta con quest'idea, anche se non è sua invenzione il "machiavellismo", la scissione cioè della prassi politica dagli ideali cristiani. Egli non è stato che un esponente e un interprete del suo tempo, che con la dottrina della "doppia morale" (P. Villari. Machiavelli e i suoi tempi. Vol. III. 1914) trova un solo parallelo nella storia 75
dell'occidente, nella dottrina della "doppia verità" che aveva scisso la civiltà medievale aprendo la via al nominalismo e al naturalismo. L'influenza machiavellica sarà tale da poter valutare con certezza su scritti d'una certa importanza se l'autore l'abbia composto prima o dopo le idee del Machiavelli. Sarà opera del Concilio di Trento la grande scuola del realismo politico, segnando un netto confine tra ortodossia ed eresia, la fine del liberalismo della Chiesa nel campo dell'arte, e il riacquisto degli antichi diritti della teologia medievale le cui questioni vengono ora decise d'autorità (E.V. Laurence. The Church and the Reformation, in "Cambridge Modern History. II). Tutti gli scritti sull'arte religiosa pubblicati dopo il Concilio, e primi fra tutti il "Dialogo degli errori dei pittori " del Gilio (1564) e il "Riposo" di Raffaele Borghini (1584) riprovano assolutamente il nudo nell'arte sacra (J. Schlossen. Die Kunstliteratur). Secondo il Gilio anche là dove il testo biblico richieda che una figura sia rappresentata nuda, è bene che l'artista la copra almeno con un perizoma. Stupisce che perfino il Vasari, nella 2a edizione delle sue "Vite" condanni la nudità delle figure affrescate nel "Giudizio" di Michelangelo come sconvenienti al luogo. Ma pur con il suo rigorismo morale e il suo dichiarato anticonformismo, il Concilio di Trento, a differenza della Riforma, non era per nulla ostile all'arte. II celebre detto di Erasmo da Rotterdam "ubique regnat lutheranismus, ibi litterarum est interius" non è certo applicabile alle decisioni del Concilio; nella poesia Lutero vedeva tutt'al più un' "ancilla theologiae". Gli artisti entreranno in crisi spirituali combattuti tra costrizione e libertà, e l'intimo dissidio creerà tipi originali o addirittura psicopatici: il Parmigianino passerà all'alchimia, il Pontormo diverrà misantropo (F. Goldschmidt. Pontormo, Rosso und Bronzino, 1911), il Rosso si suiciderà, il Tasso impazzirà, il Greco velerà le sue finestre per poter scorgere cose… oscurate dalla luce (da una lettera del pittore Giulio Clovio: H. Kehrer. Kunstschronik. Vol.XXXIV. 1923). Lo Zuccari, nel chiedersi da dove derivi la rispondenza tra le forme dello spirito e quelle della realtà, dato che l'"idea" dell'arte non viene tratta dalla natura, si convince che le vere 76
forme delle cose nascono nell'anima dell'artista, in quanto percepite dalla mente divina: la creatività dello spirito è spontanea. E Giordano Bruno parlerà non solo della libertà, ma addirittura dell'assenza di ogni regola nell'operare artistico: "La poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie; e però tanti son geni e specie di vere regole quanti son geni e specie de veri poeti" (G. Bruno. Eroici furori, in "Opere italiane" ed. P. de Lagarde. 1888. vol. I). Abbinate alle lezioni delle Accademie e degli istituti scolastici si organizzeranno conferenze e dispute, specie su problemi teorici; e in un secondo tempo tali conferenze verranno anche pubblicate e largamente divulgate. Nasceranno così le celebri "conférences " dell'Accademia parigina, che tanto incideranno sulla vita artistica dei secoli seguenti. In Italia, comunque, l'Accademia divenne più che altro un mezzo per distinguere l'artista dall'artigiano, il colto e materialmente indipendente dall'incolto e dal povero, riducendosi più che altro a un semplice criterio di distinzione sociale. Gli scrittori d'arte non scriveranno più solo per gli artisti, ma anche per gli amatori. Borghini, l'autore del noto "Riposo", lo fa di proposito, anche se sente il bisogno di giustificarsi, e Ludovico Dolce ne "L'Aretino" (1557) già si pone il problema se chi non pratica l'arte abbia il diritto di giudicarla, concludendo che il profano colto ha tale diritto. Gli scritti dei nuovi teorici tralasceranno ogni problema tecnico. La critica d'arte in senso stretto, cioè la discussione, più o meno indipendente da teorie tecniche o filosofiche sulle singole opere, è fin dall'inizio materia dei profani. I primi segni d'interesse per la vita campagnola come soggetto d'arte si notano nelle Corti, e fin dagli inizi del '400 i libri d'ore del duca di Berry offrono nei loro calendari, esempi di auliche versioni di scene campestri. Miniature di questo tipo sono uno dei filoni che stanno alla base dell'arte del Bruegel (G.Glück. Bruegel und der Ursprung seiner Kunst, in "Aus drei Jahrhunderten eurooäischer Malerei". 1933). La vita della povera gente, contadini e operai, per quei circoli per i quali si miniavano i libri d'ore, rappresentava una curiosità, una stranezza esotica e non certo qualcosa di umanamente commovente. Di queste scene di vita quotidiana i signori godevano, e a loro soli erano riservate le preziose miniature: il pubblico del Bruegel apparteneva alle classi più facoltose e più colte. 77
La fine del '400 assiste in Italia e nelle Fiandre ad una rinascita del romanticismo cavalleresco e ad un nuovo entusiasmo per la vita eroica col rinnovarsi della moda dei romanzi di cavalleria. L'imperatore Massimiliano verrà detto "l'ultimo cavaliere" e Ignazio di Loyola chiama se stesso "cavaliere di Cristo" organizzando il suo ordine secondo i principi dell'etica cavalleresca, anche se nello spirito del nuovo realismo politico. Gli ideali cavallereschi, inconciliabili con la struttura razionalistica della realtà economica-sociale, evidenzierà la loro vanità nel mondo dei "mulini a vento"; così dopo un secolo di entusiasmo per il cavaliere errante e dopo un'orgia di romanzi avventurosi, la cavalleria subirà la sua seconda sconfitta. I grandi poeti del secolo, Shakespeare e Cervantes, non sono che i portatori del loro tempo, proclamando ciò che la realtà rivela ad ogni passo: la sopravvivenza della cavalleria, mentre la sua forza etica è ridotta a pura finzione. Quando la Spagna dovette cedere alla supremazia economica dei mercanti olandesi e dei pirati inglesi, il fiero hidalgo divenne un affamato e spesso anche un briccone e un vagabondo: nella realtà, i romanzi cavallereschi si rivelarono la preparazione meno adatta alle funzioni di un veterano nel mondo borghese. La parodia della vita cavalleresca non era d'altronde una novità: già il Pulci si era preso gioco della cavalleria, e nel Boiardo e nell'Ariosto si ritrova lo stesso atteggiamento ironico di fronte al fascino del cavaliere. Ma per il Cervantes non si trattava solo d'una canzonatura degli artificiosi e stereotipi romanzi alla moda nè una semplice critica della cavalleria ormai anacronistica, ma anche di un'accusa contro la prosaica, deludente realtà, dove all'idealista non rimane che trincerarsi dietro la sua idea fissa. Di fronte al problema della cavalleria, Cervantes oscilla fra la giustificazione dell'idealismo estraneo al mondo e la ragionevolezza mondana, e il suo nuovo eroe segnerà l'inizio di una nuova era letteraria. Finora nella poesia c'erano buoni e cattivi, salvatori e traditori, santi e malfattori: nel Don Quijote l'eroe è a un tempo santo e pazzo, e crea un umorismo sconosciuto prima dell'età manieristica: il senso comico affiora dalla tragedia, come il tragico dalla commedia, la duplice natura dell'eroe un po' ridicolo e un po' sublime, la "romantica ironia" e la natura fittizia del mondo, un Sancio Panza che si definisce "lo stalliere di Don Chisciotte,... e si chiama Sancio Panza se non l'hanno scambiato in culla, cioè in stamperia". Cervantes sarà il 78
primo a introdurre nel romanzo i dialoghi colti della vita comune (J.F. Kelly. Cervantes und Shakespeare, 1916), accanto a ritmi artificiosi e a leziosi tropi del "conceptismo". Il tono è discontinuo nell'esposizione, ora delicata e squisita, ora negletta e cruda, tanto che l'opera è stata definita la più trasandata fra le grandi opere di poesia (W.P. Ker. Collected Essays. II. 1925). Shakespeare, invece, cittadino d'un paese socialmente evoluto, tende ad attribuire ai suoi eroi un alto rango sociale, anche in vista di particolari effetti drammatici, così che al momento della disgrazia cadano dall'alto e, come i suoi connazionali, è perseguitato dall'idea dell'anarchia, dal sovvertimento dell'ordine universale e dalla distruzione, temi fondamentali del pensiero e della poesia di quei tempi (A.A. Smirnov. Shakespeare. A Marxist Interpretation, in "Critics Group Series. 1937): "Quando la gerarchia vacilla, s'infirma tutto il sistema" (Troilo e Cressida. I,3). Gli argomenti di Tolstoj e di Shaw che attribuiscono a Shakespeare le opinioni politiche dei suoi aristocratici eroi, specie di Coriolano, non persuadono, nonostante il palese compiacimento del drammaturgo per le ingiurie dirette al popolo; ma egli non approva i pregiudizi di Coriolano, anche se lo ammira quale "splendido uomo". I mercanti Antonio e Timone, ricchi, distinti, generosi, dalle maniere raffinate e dal tratto signorile, ci danno forse l'immagine più rispondente del suo ideale umano; e benchè attratto dallo stile dei signori, Shakespeare non manca mai di parteggiare per il buon senso, l'equità e il sentimento spontaneo, ogniqualvolta queste virtù borghesi vengono a conflitto con gli oscuri motivi d'un irrazionale romanticismo cavalleresco, della superstizione o di un torbido misticismo. Cordelia rappresenta la più schietta incarnazione di tali virtù nel mezzo dell'ambiente feudale che la circonda (S. Dinamov. King Lear, in "International Literature". 1935). Sir John Falstaff, Sir Toby Belch, Sir Andrew Aguecheek sono impudenti parassiti; Achille, Aiace, Hotspur, vanitosi e rissosi fanfaroni; i Percy, i Glendower, i Mortimer spietati ed egoisti, e Lear un despota feudale in cui domina esclusiva l'etica dell'eroismo cavalleresco, e dove nulla di ciò che è soave, intimo e modesto può sopravvivere. Donchisciottesche sono le figure di Bruto, Amleto, Timone e Troilo (W. Lewis. The Lion and the Fox. 1927), in quanto l'idealismo staccato da ogni realtà, l'ingenuità, la credulità sono caratteri che accomunano a Don Chisciotte. Il pessimismo 79
shakesperiano ha una portata che trascende l'individuo e reca segni di una tragedia storica. Quando, alla fine della guerra delle Due Rose, i nobili inglesi presero a seguire l'esempio dei loro pari d'Italia e di Francia, dedicandosi alle lettere, in Inghilterra la corte divenne il centro della vita letteraria. Aulica e dilettantesca è la letteratura inglese del Rinascimento, a differenza di quella medioevale, coltivata per lo più da poeti di mestiere: Wyatt, Surrey, Sidney sono illustri dilettanti, Marlow, Peele, Dekker e Ben Johnson sono scrittori venuti da ceti modesti, mentre la maggioranza viene dalla "gentry", dal ceto dei funzionari o dei ricchi mercanti (P. Sheavyn. The Literary Profession in the Elizabethan Age. 1909). Al tempo di Elisabetta, comincia la caccia alla protezione dei signori: la dedica di un libro e il compenso per tanto onore diventano un puro affare d'occasione, scevro da ogni stima (P. Sheavyn. The Literary Profession). L'anello di congiunzione fra i misteri medievali, privi di conflitto tragico e di movimento drammatico, e le nuove tragedie sono le "moralités " del tardo Medioevo nelle quali viene espressa per la prima volta la lotta spirituale che nel dramma elisabettiano assurgerà a tragico conflitto di coscienze (A. Nicoli. British Drama. 1945). Durante il Rinascimento e il Manierismo si hanno nei paesi europei tre forme di teatro: la sacra rappresentazione, il dramma dotto diffuso ovunque con l'umanesimo e il teatro popolare nelle due diverse forme, dalla commedia dell'arte al dramma shakesperiano, sempre più o meno connesse col teatro medievale. La "tragédie classique", il dramma borghese del '700 e quello classico tedesco, come pure il teatro verista dell'800 da Scribe a Dumas figlio, e fino a Ibsen e Shaw, sono più affini al dramma umanistico che a quello di Shakespeare, scarsamente rigoroso nella struttura e modesto nell'illusione scenica. Tra i contemporanei più giovani di Shakespeare, alcuni drammaturghi come Thomas Heywood e Thomas Dekker descrivono il mondo delle classi medie, interpretandone la mentalità e scegliendo i loro eroi fra mercanti e artigiani: dipingono la vita e i costumi familiari con effetti melodrammatici mirando a ricercare una morale, tra tinte forti ed ambienti crudamente realistici, come bordelli e manicomi. "A Woman Killed with Kindness" di Heywood è in quei tempi il paradigma della tragedia amorosa e "borghese": è un 80
lavoro a tesi imperniato sul tema scottante dell'adulterio, come "Tis a Pity She's a Whore" di Ford che tratta del tema popolare dell'incesto, o "The Changeling" di Middleton che indaga sulla psicologia del peccato. In tutti quei drammi, come pure nel lavoro anonimo a tinte forti "Arlen of Feversham", è tipicamente "borghese" l'interesse per il delitto, mentre in Shakespeare misfatto e peccato non assumono mai questa tinta criminale. Il carattere fondamentale della sua arte è naturalistico, e naturalistico è il disegno dei caratteri, le differenti psicologie delle figure e la misura umana degli eroi, pieni di contraddizioni e debolezze, come quel Troilo che dopo la prima notte d'amore dice a Cressida di guardarsi dall'aria fredda del mattino: "You will catch cold and curse me", - T'infredderai e mi maledirai -. Nessuna sua opera sarà del tutto immune dal "manierismo", ora stravagante, ora bizzarro o paradossale: esempi ne sono il gioco erotico che nasce nelle Commedie dal travestimento maschile delle fanciulle, l'amante dalla testa d'asino nel "Sogno d'una notte di mezza estate", la figura di un negro come protagonista in Otello, l'arcigno personaggio di Malvolio ne "La dodicesima notte", le streghe e la foresta in marcia del Macbeth, le scene di passione in "Lear" e in "Amleto", il tono sinistro da giudizio universale in "Timone di Atene", la statua parlante nel "Racconto d'inverno", il mondo magico nella "Tempesta" e così via. Tutto ciò è solamente un lato dello stile shakesperiano. Burckhardt e i più recenti puristi come il Croce, incapaci di svincolarsi dal nazionalismo settecentesco, vedranno nel Barocco soltanto i caratteri illogici e gli elementi strutturalmente irrazionali, come le colonne e i pilastri che non sostengono nulla, tuonando contro il "cattivo gusto" del Seicento, ma sostenendo nel contempo pregiudizi accademici antiquati (B. Croce. Storia dell'arte barocca in Italia. 1929). La rivalutazione del barocco per opera di Wölfflin e del Riegel, sarebbe comunque inconcepibile senza l'assimilazione dell'impressionismo "il più importante mutamento di rotta nella storia dell'arte" (Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. 1929) dove il soggettivizzarsi della visione artistica, lo spostarsi dell'attenzione dall'essere all'apparenza, l'accentuazione del carattere transitorio sono tutti fenomeni preparati dal Rinascimento e dal Manierismo, che troveranno nell'arte barocca la loro conclusione. Tutto il barocco è dominato dal senso dell'inesauribile, dell'inafferabile e dell'infinito.
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La nuova visione scientifica del mondo prese l'avvio dalla scoperta di Copernico, e con la teoria che la terra ruota attorno al sole, mutava definitivamente l'antica posizione assegnata all'uomo dalla Provvidenza. L'universo era ad un tempo infinito e pure unitario, fondato s'un unico principio, "una unica orologeria" per usare le parole del tempo. Il terrore del giudice universale cederà al "brivido metafisico", all'angoscia di Pascal di fronte al "silence éternel des espaces infinis", allo stupore per il lungo, ininterrotto respiro dell'universo, l'eco degli spazi infiniti. L'iconografia dell'arte cattolica si schematizza: l'Annunciazione e la Samaritana al pozzo, il "noli me tangere" e altre scene della Scrittura assumono un tono ufficiale perdendo sempre più ogni carattere spontaneo, soggettivo a favore del culto e a sfavore della fede. La Chiesa vorrebbe che i teologi nei loro scritti esprimessero la dottrina ortodossa, scevra da interpretazioni arbitrarie. La devozione diventa un'abitudine esteriore, perdendo il suo carattere severamente oltremondano (E. Gothein. Staat und Gesellschaft des Zeitalters der Gegenreformation. Die Kultur der Gegenwart. II. 1908). Alla corte di Francia la familiarità dei rapporti tra il re e il suo seguito, scomparirà del tutto dopo Luigi XIII (F. Funckì Brentano. La Cour du Roi Soleil. 1937) e l'ardito gentiluomo d'un tempo diventa un cortigiano mansueto e ben educato: "Les grands même y sont petit", dirà La Bruyère. I francesi si sentono ora cittadini del mondo, e nulla rivela il loro spirito cosmopolita meglio delle tragedie di Racine nelle quali non compare un solo francese! Prima del 1661 sotto il governo di Richelieu e del Mazarino, nella vita artistica predomina ancora una tendenza relativamente liberale; il "grand siècle" non coincide affatto col tempo di Luigi XIV come si crederà a lungo dopo Voltaire. L'opera di Corneille, di Cartesio e di Pascal era già conclusa prima ancora che morisse il Mazzarino: fra gli autori importanti del secolo, solo Molière, Racine, La Fontaine, Boileau, Bossuet e La Rochefoucauld possono veramente rappresentare l'epoca di Luigi XIV. Le seconda metà del secolo, pur con i suoi grandi poeti, non ha la fecondità della prima. La letteratura, come l'arte, perde il contatto con la vita reale e con le tradizioni del Medioevo. La forma già prevale sul contenuto, come dice Retz, e di certe cose non si solleva mai il velo (H. Le Monnier. L'Art français au temps de Richelieu et Mazarin. 1893). Molière è l'unico a 82
mantenere il legame con la poesia popolare del Medioevo, ma parla con disprezzo del ... fade goût des monuments gothiques, ces monstres odieux des siècles ignorants (La gloire de Val-deGrâce, V). II governo tende ad allentare i rapporti personali tra il pubblico e l'artista, ponendo quest'ultimo alle dirette dipendenze dello Stato, e vuol anche por fine al mecenatismo privato, come all'appoggio di artisti e scrittori ad interessi privati: artisti e poeti dovranno d'ora in poi servire lo Stato, e a ciò devono educarli le Accademie (E. Lavisse. Histoire de France. VII. 1906). In un'allocuzione ai principali membri della sua Académie royale, il re dirà: "Io vi affido la cosa più preziosa della terra, la mia fama", e all'osservazione di Boileau che Molière è il più grande poeta del secolo, trasecolato risponde: "Questo proprio non lo sapevo!". Colbert farà del re l'unico importante cliente del paese. Sarà la spietata psicologia del Machiavelli all'origine di tutta la letteratura psicologica successiva; la sua concezione dell'egoismo e dell'ipocrisia sarà per tutto il '600 la chiave per intendere gli occulti movimenti delle passioni e degli atti umani. Alla Corte e nei salotti parigini subirà un'ampia elaborazione prima di diventare strumento del La Rochefoucauld: le osservazioni e le lucide formule delle "Maximes" sono figlie della sottile arte del vivere e i raffinati rapporti sociali di quella Corte e di quei salotti. Lo spirito critico, il culto dei "bons mots" e il passatempo delle "médisances", lo sforzo continuo per esprimere un'idea nel modo più sorprendente, più sottile, più acuto, l'autoanalisi dei sentimenti e delle passioni, tutto ciò fa da sfondo alle tipiche risposte di La Rochefoucauld. Inoltre fa parte della nuova psicologia il pessimismo della nobiltà delusa, priva della sua ragione di vita: Madame de Sévigné confessa di fare spesso con Madame de Lafayette e con La Rochefoucauld discorsi così tristi, che per loro sarebbe meglio farsi subito seppellire. Anche se l'uomo non è più un "monstre incompréhensible" com'era ancora per Pascal e Corneille, per i nobili dilettanti Retz e Saint-Simon, l'uomo è ora "spogliato di ogni carattere straordinario, assume proporzioni mediocri, comode, trattabili" (K. Vossler. Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Sprachentwicklung. 1921).
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Insignificante fu la produzione letteraria, e neppure dall'Hôtel de Rambouillet, il primo e più importante dei circoli parigini, emerse alcun talento (Bédier-Hazard. Histoire de la littérature française. I. 1923); la "Guirlande de Julie", una raccolta per la figlia della marchesa e prototipo di tutti gli album per giovinette, sarà il prodotto ufficiale dell'ambiente. E anche lo "stile prezioso" non è che una variante francese del marinismo, del gongorismo, dell'"eufuismo", delle forme cioè di poesia metaforica del Manierismo, tanto che tutta la classe intellettuale di Francia, nel secolo XVII, non esclusi il severo Corneille e il borghese Molière, fu più o meno "prezioso". Eroi ed eroine sul palcoscenico non dimenticavano le buone maniere; erano cortesi e galanti e si dicevano "Monsieur" e "Madame", senza peraltro svelare nulla sulla sincerità dei sentimenti (V. Klemperer. Zur französischen Klassik, in "Oskar-Walzel-Festschrift. 1924). I principali scrittori di Francia, che nel Rinascimento venivano per lo più dalla nobiltà, nel '600 appartengono in gran parte alla borghesia. Sulla scena letteraria francese, accanto ad aristocratici e principi della Chiesa, ormai relativamente pochi, come il duca di La Rochefoucauld, la marchesa di Sévigné, il cardinale di Retz, si trovano ora semplici borghesi e scrittori di professione, quali Racine, Molière, La Fontaine e Boileau. Il "Figaro" di Beaumarchais sarà soprattutto il discendente dei valletti e delle cameriste di Molière, più che araldo di progresso capace di smascherare in parte la realtà sociale del tempo. Nelle Fiandre, il dominio spagnolo e il favore che questo incontrò presso gli alti ceti locali, crearono condizioni molto simili a quelle di Francia, ma per ciò che riguarda l'arte, a differenza del Barocco francese, non le venne meno l'impronta religiosa. La Chiesa si limitò, comunque, a dare un generico orientamento cattolico, senza peraltro imporre costrizioni né riguardo al tono delle opere, né riguardo ai particolari iconografici. In nessun luogo, ad eccezione dei paesi della Germania meridionale, la restaurazione cattolica ebbe esito più felice che in Fiandra (P.J. Block. Geschichte der Niederlande. IV. 1910), e l'alleanza fra Stato e Chiesa non fu mai così stretta come al tempo di Alberto e Isabella, l'epoca d'oro dell'arte fiamminga, e mai nella storia dell'arte l'analisi sociologica fu tanto istruttiva: si sviluppano due tendenze artistiche radicalmente diverse, come il Barocco fiammingo e quello olandese. Tale scissione nella cultura dei 84
Paesi Bassi era sorta sotto il regno di Filippo II che, da despota innovatore, volle introdurvi le conquiste dell'assolutismo, il sistema dell'accentramento statale e l'ordinamento razionale della amministrazione finanziaria (J. Huizinga. Holländische Kultur del XVII. Jahrhunderts. 1933. - G. J. Renier. The Dutch Nation, 1941). Il paese si ribellò, il Nord protestante con successo e il Sud cattolico inutilmente. Nell'arte olandese, le storie bibliche hanno un posto relativamente modesto accanto a soggetti profani, specie a quelli inerenti la vita quotidiana. Significativo è, nell'arte olandese il peculiare verismo che la farà distinguere dal Barocco del resto d'Europa e da ogni naturalismo antico. Gli inizi del commercio artistico nei Paesi Bassi risalgono al '400 con l'esportazione di miniature olandesi, arazzi fiamminghi e quadri sacri di Anversa, Bruges, Gand e Bruxelles (H. Flörke. Studien); anche librai ed editori cominciano già molto presto a commerciare quadri; spesso anche gli incisori sono mercanti d'arte, come Jerome de Cock, Jan Hermensz de Muller e Gerard de Jode. Il '500 sarà dominato dalla figura del Bruegel; in relazione con pittori "italianeggianti" della cerchia del suo maestro Pieter Coeck van Alost e con l'ambiente umanistico fiammingo, nelle sue prime opere comunque egli dimostra una chiara reazione al "romanismo" rappresentato da Orley, Floris, van Hemessen e dalla stesso Coeck, come si nota nella "Cacciata dei mercanti" a Copenaghen e nella "Adorazione dei Magi", una tempera, di Bruxelles, e inoltre è evidente l'influenza del Bosch e del Patinir nella sua attività grafica come collaboratore dell'incisore antiquario ed editore di stampe Hieronymus Cock, egli pure assai legato alla cultura italiana. Una vasta letteratura ha dimostrato i suoi rapporti con Rabelais e con tutta una cultura criptica e simbolica dell'umanesimo fiammingo. Egli riprende temi profani e agresti che risalgono alle miniature franco-fiamminghe, agli arazzi della scuola di Bruxelles, alla letteratura e anche alla pittura italiana del '400, alle incisioni del Dürer, di Lucas van Leyden e di altri ancora, con un atteggiamento personale di fantastica libertà e di sintesi rappresentativa. La stessa indipendenza non polemica, ricavata dal confronto con le esperienze altrui, manifesterà il Rembrandt nelle sue prime incisioni: per lui non c'è differenza tra il bello ideale e 85
quello reale quando il vero si pone alla base dell'arte, il vero come verità totale e non solo apparente. L'esperienza proviene dall'osservazione, si matura nell'esercizio e nella disciplina. La tecnica dell'incisione su metallo lo attrasse subito, influenzato forse dal fatto che Leida era allora un centro editoriale salito in fama e attivissimo, e molti erano gli artisti che incidevano su lastre, a bulino, le opere di pittori e di grandi maestri, per darle agli stampatori. Non ammirava i bulini freddi e sofisticati del Goltzius, anche se andava per la maggiore, preferendo la libertà di Ercole Seghers e la fantasia del Callot: per lui l'incisione era disegnare sul metallo, non trascriverne un modello, disegno originale alla punta d'acciaio nel procedimento dell'acquaforte, opera d'arte che poteva anche venir riprodotto in più copie. Era questo lo stile che era venuto sviluppandosi in Italia col Parmigianino e in Germania col Dürer. Rispetto all'incisione meccanica a bulino, più adatta alla divulgazione grafica dei capolavori dei grandi maestri, il nuovo uso dell'acquaforte offriva possibilità straordinarie come vero e proprio strumento creativo: maggior precisione e finezza di resa affidata all'impiego delle morsure, all'azione dell'acido, tanto da poter rendere i valori lineari e pittorici del disegno nelle più sottili sfumature e di contrasto luministico. Ritratti, autoritratti, scene di vita storiche o familiari, scene bibliche tratte dall'antico come dal nuovo Testamento, pezzi di bravura come il famosissimo bue squartato; ma soprattutto l'Uomo: fra i grandi artisti è quegli che ci ha lasciato il più gran numero di autoritratti, quasi un poema della sua vita, la storia di un uomo. Per Rembrandt creare del mistero attorno alle composizioni col chiaroscuro era più che un'arte, come lo dimostrano le sue stampe soffuse da un'alone di magia, e non solo per metafora, in quanto grande era il suo interesse per la Cabbala e l'Alchimia. C'e una stampa intitolata il "Faust", ma non si tratta del personaggio goethiano: pare che il volto sia quello del filosofo olandese Fautriens, ma assomiglia di più ad un elfo, ad uno spirito terrestre influenzato dal richiamo cabalistico delle parole luminose in un cerchio attorno al monogramma del Cristo. Il grande studioso del Rembrandt incisore, André-Charles Coppier, conferma l'attrazione del grande artista per studi e ricerche nell'ordine esoterico, ciò che viene confermato anche dai rapporti che ebbe col rabbino Menassehben-Israel, con Ephraim Bonus ed altri. In quattro stampe egli conferma i suoi rapporti col rabbino Menassehben-Israel con conoscenze della materia 86
superiori alle esigenze di un semplice illustratore; nel 1665 il rabbino pubblica una sua opera intitolata "Piedra gloriosa" chiedendo all'amico di preparargli quattro acquaforti di piccolo formato: "La scala di Giacobbe", "David e Golia", la "statua di Nabuchadnezzar" e la "Visione di Daniele". La più famosa è quella di "David e Golia", la più cabalistica la "Visione di Daniele". Era quasi una frenesia dionisiaca derivante da esperienze mistiche accanto a veri e propri maestri dell'arte alchemica, con l'esecuzione anche di stampe licenziose quali "Lit à la française" e "Moine dans le bled" e della "Tavola Smeragdina" che inizia con l'equazione "quel che è in alto è uguale a quel che è in basso", linguaggio iniziatico difficile da analizzare. Pur trafficando con personaggi illustri, il suo amore, la sua forza umana vanno di preferenza verso gli umili e i provati dalla sorte trovando qui l'ispirazione e la poesia, come nei "Mendicanti alla porta di una casa". Tra le stampe più famose va ricordata "la Medea" per la tragedia omonima di Jan Six; la "Giunone senza corona" ricercatissima dai mercanti ed amatori di Amsterdam; "Adamo ed Eva" e "Giove e Antiope " dove il nudo è legato ad un mito o a un testo; figure femminili il cui corpo è studiato in diverse pose; la "Donna alla stufa" modellata a bulino; "Donna al bagno con i piedi nell'acqua"; la "Negra distesa" che si può accostare alla "Conchiglia" per la maestria tecnica; "Donna con freccia", quasi interamente eseguita a punta secca. L'ultima sua incisione non finita rappresenta "Il disegnatore davanti alla modella": è lo studio di un nudo con la medesima modella della "Cleopatra". Il Rembrandt ha composto ben 250 lastre, ma non tutte interamente di sua mano, in quanto su molte si è accanita la manipolazione di ammiratori interessati. Le prime incisioni dai suoi dipinti vengono eseguite nel 1631 da Van Vliet e Van der Leeuw. La consuetudine di lavorare i metalli, contribuì certamente alla rapida affermazione a Norimberga della nuova attività: la stampa a caratteri mobili, soprattutto per la stampa di libri illustrati. A Bamberga, sede vescovile della "città libera dell'impero", con cui esisteva un continuo scambio di idee ed esperienze artistiche, fu stampato per la prima volta nella bottega di Albrecht Pfister un libro a caratteri mobili, illustrato con xilografie. Era l'anno 1461. Nella prima metà del secolo XV 87
avevano preceduto quest'opera volumi nei quali testo e disegni erano intagliati insieme sulla stessa matrice. Anche la xilografia, come la tipografia, è una tecnica di stampa a rilievo: della superficie d'un blocco di legno rimane solo la parte che per mezzo dell'impressione deve lasciare traccia sulla carta, mentre il rimanente viene eliminato o con il bulino, o con sgorbie e lancette. Dopo la stesura del colore, si premono leggermente l'una contro l'altra la matrice e il foglio di carta; superate le difficoltà dei primi tentativi, fu possibile eseguire contemporaneamente la stampa del testo con caratteri tipografici e dell'illustrazione in xilografia. Johann Sensenschmidt di Norimberga si dedicò a questa tecnica così ricca di sviluppi, e nel 1475 pubblicò una raccolta in due volumi di leggende di santi. Notizie a noi giunte riguardano più gli stampatori che non gli artigiani xilografi; il lavoro di questi ultimi richiedeva numerose operazioni: al primo bozzetto del disegnatore, che fissava il tema e la composizione generale, e che in alcuni casi veniva poi rifinito, seguiva la trasposizione sul blocco di legno e infine il lavoro di intaglio. Alla stampa poteva seguire la colorazione, poiché le figure, che all'interno dei contorni presentavano solo pochi tratti, potevano essere colorate con facilità. Per le xilografie del primo '400, quando il procedimento aveva preso piede, le diverse fasi di lavorazione erano in genere affidate a una stessa persona. Ma ben presto si rese necessario ricorrere a specialisti: disegnatori, incisori, coloristi. Un passo decisivo verso il riconoscimento della xilografia come tecnica grafica autonoma in bianco e nero, senza necessità dell'aggiunta del colore, fu compiuto quando i pittori scoprirono le possibilità offerte dal procedimento e cominciarono ad utilizzarlo meglio. A Norimberga ciò avvenne nella bottega di Wolgemut, sotto lo sguardo dell'apprendista Albrecht Dürer, o con il suo autonomo intervento, come talora si è creduto di riconoscere. Due soprattutto furono le opere che influirono in modo determinante sulla successiva produzione grafica del Dürer: le xilografie a piena pagina che illustravano la raccolta dei sermoni del francescano Stephan Fridolin, apparsa nel 1491 con il titolo "Schatzbehalter", - lo Scrigno -, eseguite da Wolgemut e dal figliastro Wilhelm Pleydenwurff; e le 1809 incisioni, ottenute attraverso la stampa ripetuta di 645 matrici, della "Cronaca mondiale " del medico norimberghese Hartmann Schedel, la cui edizione latina reca la data 12 Luglio 1493, e l'edizione tedesca la data 23 Dicembre 1493. Di conseguenza, l'inizio del lavoro si può collocare fra il 88
1487 e il 1488. Entrambe le opere furono edite da Anton Koberger, padrino del Dürer. Albrecht Dürer, assieme ad Erasmo da Rotterdam, è esponente di uno tra i periodi più drammatici della storia dell'arte che ha per terreno l'umanesimo ed il confluire in esso degli impulsi provenienti dagli strati più profondi dell'anima tedesca. La sua fama è legata all'opera incisa: "La Festa del Rosario" eseguita a Venezia n e l 1506, l'"Autoritratto" del 1500 conservato nella Pinacoteca di Monaco e a quelli precedenti dell'Albertina e del Louvre; l'"Adorazione dei Magi" del 1504; i "Quattro Apostoli". La sua opera grafica è vastissima, fra incisioni su rame e acciaio, acquaforti, opere a bulino e puntasecca, e su legno con cicli di alta tematica religiosa, illustrazioni, fogli, testimonianze tutte di un'immaginazione creatrice sorretta da finissima maestria tecnica da cui affiorano fermenti di un rinnovamento che vede antico e nuovo non opposti, ma pur nei contrasti impegnati alla ricerca di una sintesi superiore di arte e di vita. I contatti con il Rinascimento italiano si notano nelle opere posteriori al 1500, quando ormai la sua maturità si è svincolata da ogni tipo di scuola per lasciar posto ad un senso della figura, delle ornamentazioni e a un più intimo rapporto tra ambiente e figurazione, certamente derivatogli da Leonardo da Vinci, come da molti suoi disegni si può arguire. Per ciò che riguarda la tecnica dell'incisione, il Dürer, dopo il suo primo viaggio in Italia, fu il primo tra gli artisti nordici a stampare direttamente le sue lastre, firmandole e dal 1503 anche datandole. La sua produzione come xilografo ha dello straordinario: dal 1494, l'anno delle stampe "Il grande corriere" e "La Conversione di S. Paolo" lavorerà fino al 1526, due anni prima della morte, l'anno del ritratto di "Erasmo da Rotterdam". La più antica delle incisioni a bulino è considerata "La Sacra Famiglia della farfalla", del 1495, e il tema della Madonna ricorrerà spesso in tutta la sua produzione, tanto da non trovare ostacoli nemmeno nel furore preparatorio della Riforma da parte di Lutero o di Melantone, del resto suoi fervidi ammiratori. Molte sono le incisioni che inducono la mente a cercare di scoprire i significati, i contenuti che le forme suggeriscono solo in parte, ma che per lo più celano o rivelano: ad esempio le stampe "Il cavaliere" - Der Reuter -, "La malinconia 1", "La morte e il 89
diavolo", l'opera in rame "Le streghe", o "Il sogno". Per Federico Nietzsche, "Il Cavaliere" e "La Morte e il Diavolo" sono un simbolo della nostra esistenza. Ma la più enigmatica delle stampe düreriane è certamente "La Malinconia": è un testo cifrato che provoca ammirazione mista a malessere, forse dovuti all'incerta aria di mestizia che spesso accompagna la perfezione della bellezza. È difficile scoprire che cosa nascondano dentro la loro realtà oggettiva così minuziosamente evidenziati tutti quegli strumenti, gli oggetti, l'angioletto che scrive appollaiato s'una macina, il poliedro, la sfera, la clessidra, la campanella, la bilancia, la scala, il quadrato magico di Giove, mare, cielo, arcobaleno fissati sullo sfondo. Fin dai primi tempi si notò l'analogia con il "De Vita Triplici" di Marsilio Ficino e si volle vedere in essa un sincretismo di elementi cristiani, neoplatonici confluenti nella concezione dell'universo e del mondo, della vita e del divenire presenti nell'umanesimo nordico e anche in quello italiano. Marcel Brion, nel suo volume edito a Milano nel 1960, "La Pittura Tedesca", scrive: "L'incisione si presta ancora meglio della pittura a questa ricerca del soprannaturale che occupa tanto posto nell'opera di Dürer. Le streghe, Il sogno, Il Cavaliere, La Morte e il Diavolo, la famosa Malinconia, per non citare che qualche esempio, ci appaiono come dei colpi di sonda lanciati da una immaginazione inquieta e da un temperamento visionario nell'illimitato dominio dell'ignoto, del soprannaturale". E Goethe, negli "Epigrammi Veneziani" scriveva che il "Dürer sconvolge il nostro cervello ... con immagini apocalittiche, che hanno dell'uomo e della chimera". Nei suoi "poemi grafici", il Dürer fornisce svariati aspetti della sua inquietudine spirituale, come ad esempio nell'illustrazione intitolata "La Piccola Passione " datata tra il 1507 e il 1512, dove all'eccellenza tecnica si unisce la grande esperienza compositiva fondendo la tradizione germanica all'apporto Veneziano e italiano, in grande armonia. I bozzetti di Wolgemut e dei suoi collaboratori mutarono la xilografia da semplice produzione di contorni che dovevano essere poi colorati, in creazione d'immagini che richiedevano le stesse regole della pittura su tavola. Il colore fu sostituito da sfumature in bianco e nero di diverse gradazioni, ottenute con il tratteggio.
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Si è conservato il disegno, nella versione definitiva, completo di ogni particolare, del frontespizio della "Cronaca mondiale", chiaro esempio di ciò che Wolgemut pretendeva dai suoi intagliatori. Una tecnica così raffinata e precisa poteva realizzarsi soltanto a patto che esistesse una stretta collaborazione fra disegnatore e incisore. Poichè la stampa riproduce l'incisione specularmente, il fatto che le illustrazioni stampate nel libro non siano invertite rispetto al disegno per il frontespizio, e ad altri schizzi ritrovati a Norimberga, induce a pensare che il disegnatore, nel trasportare l'originale sul legno, lo abbia rovesciato. Un'idea ancora più chiara del complicato procedimento xilografico, che richiedeva la suddivisione del lavoro fra i vari specialisti, ci è data dal vasto insieme di opere commissionate dall'imperatore Massimiliano a partire dal 1512 per celebrare la propria dinastia e la propria persona. In base agli stemmi, e interpretando i vari documenti e gli stili, si è in grado di ricostruire come si svolsero i lavori dell'"Arco dl Trionfo", ornato dalle effigi dei precursori imperiali, degli antenati e dalla raffigurazione delle imprese di Massimiliano, per il quale furono utilizzati 192 legni di varia misura. Da un progetto dello storico Stabio e da un bozzetto del pittore di corte Jörg Kölderer di Innsbruck, Dürer eseguì i disegni di cui se ne sono conservati tre, che ci danno un'idea di questo primo stadio del lavoro; la trasposizione dei disegni sui legni fu eseguita solo in minima parte dal Dürer: i disegni ornamentali dell'intera opera, qualche figura e scena storica. I lavori del maestro servirono da modello per i suoi allievi e collaboratori, Wolf Traut e Hans Springinklee, che dovettero occuparsi del resto. L'intaglio dei legni assegnati fu affidato all'incisore Hieronymus Andreae e ai suoi aiutanti. Si ritiene che la stampa, almeno per gli esemplari di prova spediti all'imperatore, sia stata eseguita nella bottega del Dürer. Il lavoro venne suddiviso a tal punto che i disegni per le due torri d'angolo, aggiunti successivamente al progetto originario per poter raffigurare anche la vita privata dell'imperatore, vennero forniti dal pittore Albrecht Altdorfer che lavorava a Ratisbona. La data che vi è riportata, il 1515, segna la conclusione del lavoro di progettazione. In seguito ad alcune modifiche, apportate per desiderio di Massimiliano, l'incisione dei legni e la stampa si protrassero fino al 1518.
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A differenza della xilografia, la tecnica dell'incisione su rame è un procedimento di stampa in cavo, cioè il segno che deve comparire sulla carta è scavato con un bulino sulla lastra. I solchi incisi trattengono il colore, mentre la superficie liscia del metallo viene ripulita; nella base di stampa, il colore è assorbito dalla carta. La forte pressione che deve venir esercitata, con il tempo deforma il rame, relativamente tenero, così da rendere possibile un numero limitato di copie. I cinquecento esemplari del ritratto del cardinale Alberto di Brandeburgo tirati da Dürer, rappresentano forse il limite massimo di copie perfette ottenibili. L'incisione su rame era esclusivamente lavoro dell'artista, dal disegno preparato fino alla stampa, che offriva possibilità di varianti mediante una parziale inchiostratura di alcune parti della superficie della lastra. Per le difficoltà tecniche che derivavano dal mettere insieme stampa in cavo e stampa di rilievo, inizialmente non si riuscì ad adoperare l'incisione per le illustrazioni dei libri. Come foglio singolo, l'incisione servì invece fin dall'inizio per le riproduzioni di opere d'arte, sia di pittura che di scultura. La tecnica si era sviluppata dai lavori d'incisioni degli orafi, ai quali aveva poi offerto un patrimonio di motivi cui ispirarsi nelle loro creazioni. Martin Schongauer, nato ad Augusta, ma attivo a Colmar, aveva perfezionato a tal punto la tecnica dell'incisione, da essere in grado di risolvere tutti i problemi d'illusione prospettica e volumetrica derivati dalla rappresentazione del mondo reale. Il fatto che le sue incisioni fossero poi raccolte in serie, autorizza a credere che venissero collezionate da appassionati d'arte. Straordinariamente grande è il numero di dipinti e di rilievi cui le sue incisioni più famose e più apprezzate si ricollegano. In questo modo si diffuse anche il patrimonio figurativo fiammingo al quale Schongauer doveva molto. L'opera pittorica di Wolgemut e dei suoi collaboratori rivela la conoscenza di queste incisioni e la loro influenza si avverte anche nei disegni eseguiti dal Dürer durante l'apprendistato nella bottega. Per modellare figure ed oggetti, vengono in luce tratti brevi e spezzati, in ombra un tratteggio incrociato che, opportunamente ispessito, giunge fino a creare un effetto di nero intenso. È probabile che Dürer abbia avuto occasione di vedere le opere di un pittore e incisore che prende il nome dal cosidetto "Mittelalterliches Hausbuch", il Libro di Casa Medievale, della collezione dei conti Waldburg-Wolfegg, 92
contenente disegni relativi alla vita e alle varie tecniche in uso nel Medioevo. L'autore, ignoto, fu probabilmente attivo nella Renania centrale negli anni compresi tra il 1460 e il 1480. La sua mano è riconoscibile oltre che nei disegni del "Libro di Casa" e in alcuni dipinti, anche in una serie di fogli di contenuto religioso e profano, incisi con la tecnica della puntasecca. Con questo procedimento la lastra di rame viene soltanto leggermente scalfita con una punta aguzza, simile a un grosso ago; ciò permette non solo un lavoro più spedito che non con il bulino, ma anche un tratto più libero e spontaneo. I solchi, poco profondi a causa della deformazione che la lastra subisce nella stampa, permettono una tiratura limitatissima. Per questa ragione le incisioni del maestro del Libro di Casa si sono conservate solo in rari esemplari, e alcune in un unico foglio. Dalla puntasecca derivò un'altra tecnica grafica: l'acquaforte, per cui la lastra di rame non viene più scavata direttamente con il bulino o la punta, ma "a caldo" per azione di un acido. Uno strato di vernice protettiva resistente all'acido, viene steso sopra la lastra che è poi incisa con una punta là dove deve apparire il disegno. In seguito, la lastra viene immersa in un bagno di acido che corrode il metallo nei punti in cui la vernice è stata tolta con la punta, creando dei solchi nei quali si fermerà l'inchiostro. Si devono al Dürer i primi tentativi con questa tecnica, che sperimentò negli ultimi anni della sua vita utilizzando una lastra di ferro. La dimostrazione che il Dürer conosceva i lavori del maestro renano ci è data da alcuni suoi disegni, sia per l'affinità iconografica, che per il tratto sottile, non influenzato dalla precisione di linee delle incisioni di Schongauer. Nei primi disegni eseguiti durante gli anni trascorsi lontano da casa e raffiguranti la "Sacra Famiglia" all'aperto, si nota, oltre all'influenza dei lavori dello Schongauer, anche quella dell'anonimo maestro, benchè sia evidente l'apporto individuale del Dürer in una maggiore chiarezza della figura e del paesaggio. Com'era consuetudine degli incisori, il Dürer aggiungeva il proprio monogramma che era costituito da una "d" minuscola e da una "A" maiuscola. Dopo il contributo all'edizione delle "Lettere" di san Girolamo, con gli editori di Basilea, al giovane artista venne affidata la decorazione di tre grosse opere, tra cui la "Stultifera Navis " di Sebastian Brant, uno dei maggiori successi dell'epoca, 93
grazie anche alle illustrazioni del Dürer. Il linguaggio immaginoso dello scrittore viene tradotto fedelmente dal Dürer nelle xilografie, anche se non tutte le 116 illustrazioni sono opera sua. Il lavoro per le illustrazioni della "Nave dei folli" era stato preceduto da 47 xilografie per un altro volume a sfondo moraleggiante, il "Der Ritter vom Turn" - il Cavaliere diTurn -, una traduzione degli "esempi" che il nobile cavaliere francese Geoffrey de La TourLandry aveva inventato e scritto a edificazione delle figlie. Il terzo progetto editoriale al quale egli collaborò non venne mai dato alle stampe; era un'edizione delle "Commedie" di Terenzio curata da Sebastian Brat. Il ritratto di Terenzio che, seduto all'aperto, il capo cinto d'alloro compone i suoi versi, svela la presenza d'un antico manoscritto miniato delle "Commedie", dove i personaggi e gli ambienti sono raffigurati come fossero contemporanei all'artista. Unica testimonianza del pittore a Norimberga è costituita dai ritratti del suo maestro di Strasburgo e della moglie di questi, inventariati nella collezione del patrizio Willibald Imhoff. È documentabile soltanto una xilografia per un editore di Strasburgo: il frontespizio della quarta parte dell'edizione delle opere del teologo francese Giovanni Gerson, vissuto tra il 1363 e il 1429. La data 1494 apposta dal Dürer su d'un disegno che eseguì prendendo a modello un'incisione di Andrea Mantegna, con un gruppo di baccanti intorno a un sileno nudo sorretto da satiri dai piedi caprini, dove ogni elemento, sia pelle che veste e perfino i viticci sul fondo, da puro ornamento vengono ricondotti alla loro realtà vegetale, dimostra l'influenza e l'attrazione che le città italiane e gli umanisti avevano avuto sull'artista, specie Venezia, dove poteva incontrare uomini eccellenti come il Cellini ed editori di opere scientifiche come il Manuzio, oppure la vicina Padova con la sua famosa università che aveva ospitato giovani di Norimberga fra i quali anche Willibald Pirckheimer. Nell'indicare la propria origine, il Dürer fa delle distinzioni: sulla xilografia di Basilea scrive "von nörmergk", cioè di Norimberga; in seguito userà il termine "Noricus" oppure "Norembergensis" per indicare la propria cittadinanza. Egli fu il primo artista ad usare contemporaneamente la xilografia e l'incisione, e fu anche il primo a servirsi dell'acidatura del metallo per preparare lastre da stampa, che utilizzò per l'acquaforte, tecnica questa che offriva possibilità straordinarie come vero e 94
proprio strumento creativo: precisione, finezza di resa affidata all'impiego delle morsure e all'azione dell'acido, tanto da poter rendere i valori lineari e pittorici del disegno fin nelle più sottili sfumature e di contrasto luministico. La borghesia olandese era formata da vari strati culturali: i ceti colti, educati alla letteratura classica e custodi della tradizione umanistica, favorirono le correnti italianeggianti, che spesso risalivano al Manierismo, prediligendo soggetti di storia antica e di mitologia, allegorie e scene pastorali, piacevoli illustrazioni bibliche; la media borghesia teneva invece un tenore di vita più semplice ed era più rigida nelle idee religiose. Fin dai primi decenni della stampa, quindi, anche l'incisione su metallo venne usata per ornare il libro: quello più antico, con figure in rame, è il "Monte Sancto di Dio" del vescovo Antonio Bettini di Siena, stampato a Firenze da Niccolò della Magna. Le tre incisioni e le venti che ornano il Dante pubblicato dallo stesso tipografo, sono note come opera di Baccio Baldini, da disegni del Botticelli. L'illustrazione di questa "Divina Commedia" è limitata all'"Inferno", ed è particolare anche per la difficoltà tecnica: solo tre rami - si pensa che l'incisione sia fatta su lastre d'argento - sono impressi direttamente sulle pagine del libro, mentre gli altri furono tirati a parte su carta sottile e incollati poi negli spazi del testo lasciati vuoti a questo scopo. Il secondo illustrato con rami, sarebbe stato un volume milanese, la "Summula de pacifica conscientia" di Pacifico da Novara, stampata da Filippo di Lavagna, dove si trovano tre tavole incise. Meno nota è la "Geografia" di Tolomeo, stampata a Bologna da Domenico de Lapi con la data erronea del 1462, comprendente 26 carte geografiche incise in rame, su disegni del miniatore Taddeo Crivelli. In Italia, nel '600, fiorirà con l'acquaforte, specialmente per opera di Jacques Callot e Stefano Della Bella. Ma sarà nel '700 che l'incisione in rame si affermerà maggiormente, non limitandosi alle tavole e ai frontespizi, ma abbellendo il libro anche con piccole vignette, testate, iniziali e finali. Il centro di maggiore attività sarà Venezia per merito degli editori Pasquali, Albrizzi e Zatta ricordato soprattutto per le commedie del Goldoni e per l'"Orlando Furioso", con più di 1900 rami. Nello stesso secolo, il libro francese acquista il massimo favore, specie per le incisioni di artisti quali Gravelot, Moreau, 95
Eisen, Boucher, Cochin e Marillier che lasciarono documenti perfetti, inimitabili, d'illustrazione del libro, e per i legatori i quali, pur rinnovando lo stile, seppero conservare la grande tradizione cinquecentesca producendo dei veri capolavori; i più celebri stampatori del periodo sono i Didot, specie Pierre, figlio di François-Antoine, che stampò magnifiche edizioni improntate a un alto senso tecnico e culturale. Il "Virgilio" e il "Racine" sono le sue opere più ammirate, anche perché rappresentano dei veri capolavori tipografici. Con la "querelle des anciens et des modernes" erano cominciate le lotte tra tradizione e progresso, antico e moderno, ragione e sentimenti. Verso il 1685 si conclude l'epoca creativa del Barocco classicheggiante. Nel '700, quando la borghesia riacquista potenza economica, sociale e politica, l'arte aulica ufficiale torna a scomparire per lasciare il gusto borghese padrone assoluto del campo. Nel '600 solo in Olanda si era avuta una grande arte borghese: la borghesia s'impadroniva di tutti gli strumenti della cultura; scriveva libri e li leggeva, dipingeva quadri e li comprava. Col crescere dell'irreligiosità e col farsi più libero il costume, decadde nell'arte il "grande" stile di corte. Il romanzo si avvicinava allo spirito delle classi medie col passaggio dal romanzo cavalleresco a quello pastorale che, sebbene si sviluppi in una cornice fittizia, tratta problemi della vita reale e anche sotto un travestimento fantastico, rappresenta la gente del tempo. D'Urfè scrive il primo vero romanzo d'amore, dove l'amore diviene il movente dell'azione. Già nell'"Amadis" l'amore prevale sull'eroismo, ma Céladon è il primo eroe dell'amore in senso moderno, schiavo della passione, estraneo ad ogni eroismo, il precursore del cavaliere Des Grieux e l'antenato del Werther. Il romanzo tratta grandi fatti, descrive paesi lontani, popoli stranieri, figure e caratteri imponenti dove l'eroismo non è più l'ardire temerario dei romanzi cavallereschi, ma la coscienza del dovere della tragedia corneliana. Nel commediografo Marivaux, ad esempio, i suoi personaggi sono legati a una precisa condizione sociale, e dalla dinamica di questa ne deriva l'azione drammatica (WL. Phelps. The Beginnings of the English Romantic Movement. 1893), mentre nel "Jeu de l'amour et du hasard", - il gioco dell'amore e del caso - di Marivaux, l'azione s'impernia s'un gioco d'apparenze sociali. Col Rococò s'impone definitivamente il principio fondamentale dell'arte rinascimentale e la rappresentazione obiettiva delle cose raggiunge quella precisione che sarà la meta del naturalismo moderno. 96
Alla fine del secolo, si aggiungeva tra le molte maniere di abbellimento del libro, anche la litografia, inventata nel 1790 da Luigi Senefelder e introdotta a Milano dal trentino Giuseppe de Werz: non venne mai molto applicata nell'illustrazione quanto piuttosto negli album di vedute panoramiche o per caricature; oggigiorno si usano in prevalenza processi fotomeccanici, la fotoincisione, la zincotipia e la tricroma, eccetera. Ma fino dal Medioevo, oltre l'"interno" del libro, venne curata anche la decorazione "esterna", la "legatura", che consiste nel legare assieme i fogli dei libri e fornirli di copertina. Da quando il libro cessò di avere la forma di rotolo o "volumen" per assumere quella attuale, intorno al V secolo, si pensò di dargli una legatura adatta a contenere le pagine, cercando di renderla adorna e preziosa per i libri di qualche riguardo. Tale cura è attestata fino da Cassiodoro per i codici che egli faceva trascrivere dai monaci del suo cenobio di Vivario. Le legature semplici dovevano essere di cuoio o di stoffa o di pergamena, ma non si hanno esemplari che si possano far risalire al V secolo: il più antico è quello aureo dell'evangeliario donato dalla regina Teodolinda al duomo di Monza e che risale al principio del XII secolo, lavoro probabilmente d'un orafo italiano, che s'ispirò all'arte bizantina, adornando i piatti di cammei antichi, di croci, di gemme intorno a cui altre gemme e lamelle in granato racchiuse in alveoli, decorano anche gli orli. Il campo centrale rettangolare, incassato e incorniciato, reca spesso immagini allusive al contenuto del libro, mentre il piatto posteriore è meno accurato o semplicemente ricoperto di stoffa o di cuoio. Tra gli avorii più frequentemente usati per legature sono i dittici consolari o cristiani, le cui valve occupano di solito la parte centrale del piatto, circondate da strisce d'avorio lavorate a giorno o da lamine d'oro sbalzato adorne di pietre preziose e smalti: noti sono quelli di Rufio Probiano che coprono un manoscritto berlinese dell'XI secolo, quelli del tesoro del duomo di Halberstadt che coprono un innario dello stesso secolo, quelli della Bibliothèque Nazionale di Parigi adoperati per un evangeliario del IX secolo, quelli carolingi e della scuola di Metz dei secoli IX e X nella biblioteca del convento di San Gallo, in quella civica di Francoforte sul Meno, nella Biblioteca Nazionale di Parigi, sacramentario del vescovo Dragone dell'826-855; quelli bizantini del XII secolo, come il salterio di Melisenda al British 97
Museum. Esiste un solo esempio di copertura di libro in avorio creata appositamente come tale, ed è quella di un evangeliario del X secolo che si trova nel convento di Egmiadzin in Armenia. Un'altra legatura conservata nel tesoro di Monza, con sculture d'avorio e lavoro d'oreficeria è quella del sacramentario di Berengario I del secolo IX, in cui gli ornati eburnei a traforo spiccano sull'argento dorato del fondo e dentro gli orli pure d'oro e d'argento tempestati di perle e lavorati a filigrana. Opera invece esclusivamente d'oreficeria bizantina o bizantineggiante sono cinque legature del tesoro di San Marco a Venezia, che vanno dal secolo VIII al XII, in tavolette di legno rivestite di lamine d'argento dorato, decorate di castoni con pietre o paste vitree, perle e smalti; l'evangeliario del Louvre della fine del X secolo con raffigurate le Marie al sepolcro e la coperta di evangeliario della Biblioteca comunale di Siena. Ad orafi carolingi appartengono l'evangeliario Ashburnham di Lindau dell'VIII secolo, il salterio di Carlo il Calvo alla Biblioteca nazionale di Parigi, l'evangeliario di S. Gauzlin vescovo di Toul nel tesoro del duomo di Nancy del X secolo, il "codex aureus" del convento di S. Emmeramo a Ratisbona della fine del secolo IX e l'evangeliario di Echternach. Sono invece romanici quello di Enrico II per il duomo di Bamberga del 1014, oggi nella Staatbibliothek di Monaco, quello del monastero di Essen del 1050, quelli del museo arcivescovile di Utrecht, quelli dell'arcivescovo Ariberto nel tesoro del duomo di Milano dell'XI secolo, con smalti cromatici d'imitazione bizantina, e quello della cattedrale di Vercelli del secolo XII. In altre legature romaniche, le lamine d'argento sono sbalzate a rilievo assai accentuato, come nell'evangeliario dell'abbadessa Uta, del secolo XI, dell'evangeliario di Euger, di quello del convento di Notre-Dame a Namur appartenente a Hugo d'Oignies del XIII secolo e quello frammentario nel tesoro di San Marco a Venezia. La filigrana predomina come ornamento esclusivo soltanto più tardi, come si può notare nella legatura del secolo XIII nel tesoro del castello di Quedlimburg. Alcune legature fatte su lamine metalliche ritagliate a contorno e incise, su fondo di seta o di cuoio, si rifanno alla speciale tecnica dell'"opus interrasile" citata dal monaco Teofilo nella sua "Schedula diversarum artium", e si trovano soprattutto nei paesi germanici: il lezionario del X secolo della biblioteca del conte Schönborn a Pommersfelden, l'evangeliario di Enrico II a Monaco, gli evangeliari del XII secolo nella biblioteca universitaria di Würzburg, e legature dello stesso secolo nel 98
tesoro del duomo di Hildesheim. Nei secoli XII e XIII, oltre gli smalti ad alveoli rapportati, "cloisonné", si trovano quelli ad alveoli incavati, "champlevé" su fondo di rame, delle officine renane, mosane e poi limosine. Queste legature sono molto numerose ed hanno un tipo di decorazione quasi costante: i simboli evangelici agli angoli, uno o più smalti grandi al centro, con la crocifissione e Cristo in trono con le vesti e le figure incise e dorate sullo sfondo in smalto, e ornamenti lunghi e sottili negli orli. L'oreficeria scompare nel secolo XIV, dopo esser stata per secoli l'elemento principale della decorazione: cominciano ad apparire riporti metallici sui piatti rivestiti di cuoio impresso o intagliato, e rimangono in uso più frequente soltanto le legature in semplici lamine d'argento sbalzato o inciso: coperta in argento dorato nel monastero di San Biagio a San Paolo di Carinzia; epistolario del 1380 nel tesoro del duomo di Limburg a.d. Lahm; evangeliario di Niederaltaich del XV secolo nella biblioteca di Monaco. Esempio di lavorazione a giorno su fondo di velluto è l'evangeliario del secolo XIV nel Museo civico di Colonia. Prevale sempre l'uso di limitare l'impiego del metallo anche prezioso a piccoli ornamenti e a borchie, e le legature di maggior pregio si fanno di velluto e di stoffa: codice delle leggi spagnole della Biblioteca Nazionale di Madrid; codice minerario di Stiavnica; o di cuoio liscio: antifonario del duomo di Györ. Formano un gruppo distinto, senza riscontro altrove, le legature in tavolette dipinte dei libri senesi della Gabella e della Biccherna, che dalla metà del XIII secolo si estendono fino alla fine del XVII, e che recano il camerlengo in atto di contare il denaro, le armi dei provveditori e i loro nomi, ai quali si aggiungono poi nel secolo XV figurazioni sacre, allegoriche o allusive a fatti della vita cittadina. Il primo sistema di decorazione usato per legature in cuoio è quello dell'intaglio: si conosce la legatura di un codice Bonifaziano della Biblioteca civica di Fulda, che risale al secolo VIII e un'altra dello Stonyhorst College nel Lancashire del secolo XII. Questo tipo sarà molto diffuso nei secoli XIV e XV arricchito anche di decorazioni a punzone e a sbalzo, specialmente nell'Europa centrale. Veniva usato di solito il cuoio di bue di color bruno e lo schema di un campo centrale contenuto entro cornici ornate, guarnite agli angoli di rapporti metallici.
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Le legature trecentesche hanno ornamenti di motivi vegetali o animali, talvolta stilizzati e fantastici, mentre sono rare le figure umane: frequenti si trovano nei manoscritti ebraici, come ad esempio una delle più antiche è la custodia di una Bibbia ebraica del 1331 e anche i Decretali del 1388 della Biblioteca civica di Norimberga. Il primo libro ebraico stampato nel 1475 a Reggio Calabria per Abraham sarà il "Commentarius in Pentateuchum" di Salomone Jarchi, seguito dall'"Arbà Turim" impresso a Piove di Sacco nello stesso anno. Le legature del '400 verranno arricchite con le armi dei possessori, con figure di santi e scene di contenuto profano; eccellenti per la tecnica sono quelle prodotte a Norimberga, con notevoli varietà dei modelli in cui predominano le scene figurate, soprattutto di caccia. Notevoli esempi di fattura italiana sono offerti dal "Poggio" della Biblioteca Marciana del 1485, da un "Officium B.V.M." conservato nella Biblioteca Braidense di Milano, dalla custodia sforzesca della raccolta Figdor e dalla teca per l'atto di donazione della Biblioteca del cardinale Bessarione, del 1468, conservato pure nella Biblioteca Marciana di Venezia. Questo tipo cesserà totalmente con la fine del XV secolo. Il tipo dell'impressione a freddo sul cuoio, attestato antico nella legatura del codice Bonifaziano I a Fulda, che contiene un manoscritto dell'"Armonia evangelica" del vescovo Vittore di Capua dell'VIII secolo, raggiungerà una diffusione maggiore e più duratura. Uno dei gruppi più antichi è quello inglese dei secoli XII-XIII che copre piatti di legno con cuoio bruno o rosso scuro decorato con ferri ripetuti in lunghe serie negli orli, e con ferri geometrici variati nel centro, disposti per lo più secondo un motivo circolare, senza che manchino i motivi vegetali stilizzati, quelli puramente ornamentali o quelli figurati. La perfezione della tecnica, è ora assai superiore alla bellezza dell'effetto d'insieme. Nota è l'officina del convento di Durham. Questo tipo scomparve in Inghilterra nel secolo XIV per risorgere nel successivo, il secolo d'oro di questa particolare tecnica decorativa della legatura. Le pelli usate sono ora la bazzana rossa, il vitello bruno, il cuoio cosidetto cardovano di pelle di capra, colorito in rosso e la pelle di porco; la pergamena bianca apparirà solo nel secolo successivo. Il dorso è liscio e il taglio colorito uniformemente con frequenti ornati metallici agli angoli e al centro. Lo schema decorativo non 100
varia: un campo centrale rettangolare con una o più cornici, diviso a sua volta in campi più piccoli, con ferri ripetuti in serie verticali, diagonali, incrociate o a losanga; la superficie talvolta è divisa in triangoli come nelle legature tedesche e inglesi, o ricoperta da un unico stampo come in quelle olandesi, francesi e anche inglesi. Nelle cornici, i ferri sono ripetuti uno accanto all'altro e talvolta impressi mediante un rullo. I motivi dei ferri sono ornamentali, nastri iscritti o figurati con animali fantastici o reali, scene di soggetto religioso o profano; le figurazioni maggiori sono impresse a stampo mediante un torchio e riportano figure di santi, scene bibliche, figure araldiche ai lati degli stemmi, continuando nelle forme gotiche fino al secolo XVI e diffondendosi anche in Germania, dove nel secolo precedente sono state più rare. Gli artefici di queste legature sono per lo più monaci benedettini, cistercensi, certosini, agostiniani, domenicani eccetera specie in Germania: noti sono Conrad Forster domenicano di Norimberga, e Johan Richenbach di Geislingen nel Württemberg; ma vi furono anche dei laici che lavorarono nelle officine di Erfurt: Johannes Fogel, Conradus de Argentina, Ulrich Frenckel; in quelle di Ingolstadt, di Ulma e Danzica, e in Inghilterra, a Oxford e Cambridge. Alcune officine erano editoriali. Nella seconda metà del secolo XV appaiono motivi figurati, come si può vedere nelle legature milanesi con cornici concentriche, fatte con un unico ferro, raffigurante la biscia viscontea, nella legatura del British Museum e in quelle delle raccolte De Marinis e Martini; nella legatura veneziana dell'Apuleio di Chantilly, presentata con una caratteristica cornice di sirene affrontate e influssi orientali, come trecce, nodi e nastri. Nel secolo XVI verranno aggiunti dei veri e propri arabeschi, come pure cinquecenteschi sono i rarissimi esempi di decorazione a pannello. Questo influsso è dovuto, specialmente in Italia, alla presenza di artigiani orientali, benchè non manchi negli schemi decorativi dell'arte italiana l'influsso delle decorazioni tedesche, attraverso i numerosi tipografi che qui vi avevano preso stanza: esempio ne è l'antico celebre "Sant'Agostino" del convento di Santa Giustina di Padova del 1410, ora a Londra nella collezione Goldschmidt. Le legature vengono fatte con piatti di legno coperti di cuoio impresso a freddo con motivi annodati orientalizzanti, seminati di punti e di doppi circoli dorati o colorati: i centri maggiori di produzione furono Venezia, Firenze, Napoli e anche
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Roma dove, al posto del cuoio scuro, si preferì quello rosso cupo. Nelle letterature orientali, meno quelle copte che sono le più antiche, prevale una decorazione di tipo geometrico che si limita per lo più ad occupare il centro e gli angoli del piatto, specie quelle di Samarcanda e di Herat: le legature persiane possono avere anche figure di animali o motivi vegetali, e con scene figurate sono lavorate le legature laccate persiane, turche e indiane tra i secoli XVI e XIX. Le officine più antiche sono quelle egiziane e siriane; più semplici sono quelle dello Yemen con cornici iscritte, sontuose quelle persiane del '500, in capretto bruno scuro con dorature a piccoli ferri o a stampi e interni intagliati a filigrana, caratteristiche per la mandorla ornata del centro, il cui motivo si ripete negli angoli, sul fondo liscio ed ornato di viticci fioriti di arabeschi, entro bordi semplici di cui taluni anche iscritti. Finissima è la legatura di questi volumi, in cui la doratura è data in polvere o a foglia, e gl'interni sono a traforo a filigrana su fondo di cuoio o di carta. Fu appunto dalle legature orientali che derivò quella particolare tecnica delle impressioni in oro, destinata a fiorire nel '400, soprattutto in Italia, e da qui diffondersi nel resto d'Europa. Artigiani moreschi, probabilmente di Cordova, ebbero occasione di contatto col sud d'Italia dominato dagli Aragonesi, e a queste regioni appartengono gli esempi più antichi di tali legature e anche le prime menzioni nei documenti: il manoscritto delle Deche di Tito Livio già nella raccolta Holford, fatto nel 1446 per Alfonso d'Aragona. La legatura napoletana venne favorita certamente dalla particolare cura con cui gli Aragonesi costituirono la loro famosa biblioteca, oggi purtroppo dispersa; nei pochi esemplari rimasti si possono ammirare cornici di volute fogliate, interni dorati o colorati in azzurro, occhi, nodi, palmette, fogliami, romboidi a lati curvi iscritti entro losanghe, motivi geometrici striati, uso di lacche nere o rosso-scure. Appartengono alle officine napoletane degli ultimi decenni del secolo le legature fatte per Mattia Corvino re d'Ungheria, anche se eseguite nella capitale ungherese da artisti napoletani. Gli artefici orientali avevano portato a Venezia fin dal '400 una tecnica particolare, quella dell'impressione a freddo riempita d'oro liquido e delle cornici di ferri dorati; gli esempi più insigni di queste legature veneziane si trovano nella biblioteca di Gotha, 102
dove si conservano quattro volumi legati per Pietro Ugelheimer, socio di Nicola Jenson, nella cui decorazione appare chiara l'unione degli elementi orientali e occidentali. L'accostamento di motivi di puro tipo Rinascimento ad altri orientalizzanti appare anche in altre legature veneziane, che si distinguono tutte per l'uniformità dei motivi e per l'armonia e sobrietà di composizione decorativa. A Firenze la tecnica delle impressioni dorate non si diffuse altrettanto velocemente: limitata prima a pochi circoletti dorati sparsi tra gl'intrecci impressi a freddo, come nel messale viennese del cardinal Vitez e nel messale Sassetti di Arato al British Museum, aumentò solo negli anni intorno al 1470, nominati negli inventari estensi come "stampado alla fiorentina", foggia che poi si diffuse nelle officine dell'alta Italia, romane e napoletane. La più antica rilegatura sicuramente fiorentina è quella dell'"Antologia graeca" del 1494 che reca nel centro due cammei impressi da forme d'intagli antichi con le teste di Filippo il Macedone e di Alessandro Magno. È questa una forma decorativa propria della legatura italiana, introdotta intorno al 1480 e che troverà grandissimo favore nel secolo successivo con un eloquente influsso classico e riproduzioni di cammei, monete, medaglie o targhette. Nelle altre città italiane che vantano officine di legature nel XV secolo, si ricorda Ferrara dove gli Estensi andavano radunando testi per la loro insigne biblioteca fin dal principio del secolo e nella quale, risalenti all'epoca di Niccolò III, si trovano rammentate legature di libri, anche se prive d'impressioni dorate che appariranno nell'ultimo decennio, insieme con legature decorate con xilografie incollate sul cartone. In precedenza le legature erano prevalentemente in stoffa, come quella del "Trattato di falconeria" per Francesco Sforza, i corali della Biblioteca Laurenziana legati in velluto, e il Breviario francescano della Biblioteca comunale di Siena. Notevole fu l'attività dei legatori romani: ci sono legature per Pio II alla Biblioteca Vaticana; e quella dei lombardi come è attestato nei documenti della cancelleria ducale e nelle legature, come quella trivulziana della Grammatica di Donato, per Massimiliano Sforza, e ancora in cuoio, metallo o velluto eseguite per chiese o per biblioteche principesche.
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Nel '500 sono Roma e Venezia a dominare nel campo della legatura artistica italiana: fedeli ai propri schemi, si può rintracciare per quasi tutto il secolo l'attività esercitata anche per principi stranieri, oltre che italiani, evidenziate soprattutto attraverso le numerose legature di "commissioni dogali" con gli interni in marocchino di più colori e con impressioni dorate. Le legature "dogali", così chiamate perché contengono commissioni e istruzioni dei dogi alle varie magistrature, costituiscono il gruppo più caratteristico: hanno per lo più i piatti coperti di pelle scura e sono decorati ad incassature che fanno emergere un disegno prestabilito sul fondo più basso; la decorazione è prevalentemente orientalizzante, sostituita talvolta nei fondi da colore nero o azzurro: al centro del piatto anteriore troneggia il leone marciano in gazzetta e l'arme del magistrato al centro posteriore. Nella Biblioteca Vaticana sono conservate legature romane del XVI secolo assai belle per la varietà dei motivi, per le ampie cornici e le riproduzioni di simboli sacri o classici caratteristici nei numerosi esemplari di dedica a pontefici: cartelle ricche di mascheroni, volute, trofei; fondi seminati di trifogli, stelle o elementi araldici, decorazioni a cammeo, impronte di gemme o di monete classiche, di medaglie o di targhette del Rinascimento, con scene mitologiche o allegoriche; esecuzioni in pastiglia policroma; tipico di alcuni gruppi di legature pertinenti a biblioteche d'insigni amatori, come Apollonio Filarete e Pier Luigi Farnese, le cosidette "legature Canevari", sarà più tardi il cammeo. Caratteristici sono pure i registri della Depositaria pontificia conservati nell'Archivio di Stato, ognora più riccamente decorati. Meno numerose e meno importanti sono invece le legature cinquecentesche fiorentine, dove si preferisce ancora la "legatura alla greca" con il marocchino nero impresso a freddo, con sobri motivi dorati al centro e agli angoli, e quelle napoletane che presentano comunque una particolare distinzione: legature a cammeo con impronte di medaglie contemporanee: legatura per Andrea Matteo III d'Acquaviva duca d'Atri e Pontano dell'edizione Summonte con la medaglia di Adriano fiorentino. Legature a cammeo con riproduzioni di targhette fatte per Jean Grolier e altre eseguite per Francesco I di Francia e per altri dignitari dell'occupazione francese della Lombardia, sono opera 104
delle officine milanesi del secolo. A Bologna troviamo le legature per Daniamo Pflug e Nicola Ebeleben, e altre ancora a Padova e a Ferrara, dove lavorano anche artigiani stranieri, francesi, tedeschi, fiamminghi e anche greci e saraceni. A Genova, un'officina adotta il tipo non italiano della decorazione a pannello, ma con poca fortuna; esistono due esempi con la firma del legatore: Antonio di Tabia e Viviano de Varixio. Esempi cospicui, anche se pochi di numero, di legature nell'oreficeria del '500 italiano, sono l'evangeliario di Isidoro della Biblioteca capitolare di Padova, opera di un tale Alvise, e quella del breviario Grimani dovuta forse a Vittorio Camelio. Sarà Jean Grolier ad introdurre in Francia il tipo di legatura italiana del Rinascimento: sono tutte in marocchino o in vitello con il titolo sul piatto anteriore e il motto su quello posteriore, e sono decorate con intrecci geometrici che ricoprono tutto il piatto, laccati in nero o in colori, con arabeschi al centro, agli angoli e sugli orli, e con motivi continui impressi mediante una rotella. Contemporaneo al Grolier è Tommaso Maioli, autore di alcune fra le più belle legature francesi del '500, anche se meno sobrie e dai colori degli intrecci e degli arabeschi meno fini, ma più variati e mossi. La legatura francese venne favorita da re e dignitari: si ricordano le legature di Guillaume Eustace per Luigi XII, quelle per Francesco I e quelle di'Etienne Roffet-Le Faulcheur, e le legature per Geoffry Tory a stampo con l'impresa del "pot cassé". Il migliore periodo fu quello di Enrico II cui appartengono le legature per Caterina de' Medici e per Diana di Poitiers: hanno tutte l'arma in un quadrilatero al centro, e le iniziali del re, della regina o della favorita, con intrecci e arabeschi alla Grolier e simboli allusivi soprattutto a Diana. Quelle di Caterina hanno l'arma dei Medici e di Francia, e le iniziali in cartigli colorati; in quelle del periodo vedovile appaiono lacrime e simboli di lutto e di morte. Intorno al 1550 si affermano le officine lionesi con legature raffinate: lo stampo diviene d'uso comune nel centro e agli angoli a imitazione delle legature musulmane. Sotto Carlo IX cominciano le decorazioni esclusivamente a seminati, ossia con piccoli ferri disposti in file orizzontali, come si può vedere nelle legature di Claude de Picques. Nicolas 'Eve lavorerà per Enrico III e per Enrico IV adoperando gigli, fiamme, armi, cifre, simboli, statuti dell'ordine dello Spirito Santo e divise di morte; a 105
lui sarebbe dovuta l'invenzione dello stile "à la fanfare" che copre tutto il piatto con motivi vegetali entro comparti polilobati. Seguirono Georges Drobet e Clovis ´Eve che lavorò anche per Luigi XIII; le legature per Enrico IV hanno le armi al centro in un fondo liscio o seminato di gigli; quelle per la prima moglie del re, Margherita di Valois, sono "à la fanfare" con margherite, e quelle per Maria de' Medici hanno le iniziali o dei monogrammi, lo stemma o dei gigli. La Spagna seguì i modelli italiani e francesi, come pure la Germania che rimase comunque inferiore ai suoi modelli. Centro massimo di legature fu Wittenberg in Sassonia, dove molte furono quelle eseguite da Joachim Lonck e da Thomas Krüger per gli elettori e i duchi di Sassonia della linea albertina. La tecnica delle impressioni in oro è dovuta soprattutto all'elettore Augusto di Sassonia, che chiamò Jacob Krause da Augusta e poi Caspar Meuser. Sulle legature tedesche spiccano le armi dell'elettore oppure il suo ritratto. Con i successori di Augusto lavoravano Christoph Weidlich, Mathias Hauffe, Bastian Ebert e Kaspar Krafft che ingrandirono via via più gli stampi centrali fino a coprire tutto il piatto. Anche Ottone Enrico, conte palatino ed elettore del Reno, ordinerà legature di questo tipo a Heidelberg, mentre il duca Alberto di Prussia farà allestire legature in oreficeria per la sua Silberbibliothek di Königsberg, valendosi prima dell'opera di orefici di Norimberga e di Münden, e poi di quella di Königsberg. Analogo processo si riscontra nella legatura inglese del '500: alle legature impresse a freddo in stile gotico succedono quelle di tipo Rinascimento solo verso la metà per opera di Thomas Berthelet, legatore di Enrico VIII; l'impressione in oro diviene d'uso comune sotto Edoardo VI. Ma la tecnica e il disegno si svilupperanno di più sotto Elisabetta, specie per i suoi dignitari: Matthew Parker, arcivescovo di Canterbury e Thomas Wotton, conte di Arundel. Anche Giacomo I favorì la legatura, e per lui lavorarono John Gibson in Scozia e John e Abraham Bateman in Inghilterra. Inizialmente i paesi scandinavi seguono la legatura tedesca, e nei due secoli successivi passano a quella francese, poichè nei secoli XVII e XVIII sarà la Francia a tenere il primato dell'arte della legatura, con l'uso quasi esclusivo del marocchino rosso con ornamenti dorati a piccoli ferri. Sotto Luigi XIII 106
appaiono i primi ferri "pointillés" a filigrana: le legature hanno le armi di Francia e di Navarra e un seminato di doppie λ o di L coronate o di gigli, talvolta anche di una doppia A per indicare Anna d'Austria: legatore fu Macé Ruette. Le legature dette "gianseniste" per la loro semplicità furono care ai cortigiani del re Sole, e compensano la nudità dell'esterno con la sontuosità degli interni. Intorno al 1620 appare il tipo "à l'éventail" che si diffonde oltre che in Francia, anche in Italia, in Germania presso la legatoria palatina di Heidelberg e in Svezia. Il '700 vede in Francia l'introduzione dei "fers à la dentelle", motivi desunti dall'imitazione dei merletti che si estenderanno dagli orli agli angoli. Sotto Luigi XV e Luigi XVI si ebbero famiglie di legatori insigni: i Padeloup, che lavorarono anche per la marchesa di Pompadour, e per il conte di Hoym, i Derôme più fini ed eleganti la cui opera si distingue per l'emblema di un uccellino ad ali aperte negli angoli, e i Le Monnier, legatori del duca d'Orléans. Officine sono attive anche in Italia, specie a Roma, come provano i libri della Depositeria papale: le armi dei pontefici sono sempre nella parte alta del piatto anteriore. Mentre la legatura tedesca dei secoli XVII e XVIII ha forme più pesanti e viene favorita da Augusto III di Sassonia re di Polonia, e da Federico il Grande che ebbe varie biblioteche nei suoi castelli, valendosi di vari legatori come il Krafft a Berlino e il Rochs a Potsdam. Nella Germania settentrionale e in Olanda compare un tipo di legatura in pergamena con impressioni in oro e a freddo, arricchite di colori: legatore degli elzeviri sarà Jacques Magnus. Forme originali e distinte ebbe invece l'Inghilterra, dove i tipi con iniziali coronate fra due rami di palma, di Samuel e Charles Mearne per Carlo II vengono poi seguiti dal "Cottage style" con un motivo a tetto sopra e sotto al campo centrale, e l'"Alloverstyle" con piatti pieni di decorazioni svariate, naturalistiche e fantastiche, ricche di colori; l'"Harleian style" in pelle rossa, con piccolo centro nero e ampie cornici a fiorami, sono opera di Eliot e Chapman. Legature metalliche in argento sbalzato o in filigrana, e in ottone dorato non sono rare nei secoli XVII e XVIII, limitate però ai libri di preghiere. Con il secolo XIX appare lo stile impero che si diffonderà in tutta l'Europa con ornamenti classicheggianti e in Francia 107
quest'arte fiorirà nel periodo romantico con i legatori Semier, i due Bozerian, Vogel Duplanil, Thouvenin, Purgold, Deforge, come pure in Italia e in Inghilterra con Hering. Nella seconda metà del secolo la decorazione delle legature viene circoscritta ai dorsi, e solo nei primi decenni del XX secolo, si sono fatti tentativi per far risorgere quest'arte: a Parigi, una schiera di appassionati mantiene attiva questa tradizione. L'uso corrente di numerare le pagine comincerà nel XVI secolo, mentre nel '400, salvo l'esempio isolato del "Sermo in festo Praesentationis beatae Virginis", stampato a Colonia da Arnaldo Ter Hoernen nel 1470; solo dopo il 1480 s'incontra qualche volume con le carte numerate prima con cifre romane, poi con quelle arabe. Al posto dei numeri, il "legatore" si era servito in precedenza dei "richiami", delle "segnature" e del "registro". Un elemento che compare di frequente nel libro fin dai primi tempi della stampa fu il "privilegio", cioè quella dichiarazione mediante la quale un principe garantiva a uno stampatore l'esclusivo diritto di stampare una determinata opera nei suoi stati per un determinato numero di anni. Al posto del "privilegio" venne ben presto usato una specie di "brevetto", una forma di protezione a sicurezza dei diritti dell'ingegno. A partire dal '500 si trova nel libro l'"imprimatur" o licenza, ossia il permesso che veniva dato alla stampa di una determinata opera dall'autorità civile o ecclesiastica, previa visione del manoscritto. Essa veniva riportata in principio o in fine del libro con queste parole: "Con licenza", oppure "Con approvazione dei Superiori". Il Concilio di Trento fissò le norme per la revisione dei libri, che venne affidata generalmente agl'inquisitori, ma talvolta anche all'autorità ordinaria. Con la censura era intimamente legata la materia della proibizione e dell'espurgazione dei libri: l'"Index librorum prohibitorum" cominciò ad apparire nel Cinquecento. Il primo esempio della "marca" o "insegna" che gli stampatori erano soliti apporre alle proprie edizioni è quello del "Psalterium" di Fust e Schöffer del 1457, ma l'uso si propagò rapidamente. Venne chiamata "marca tipografica" e assunse via via e nei diversi paesi forme svariatissime: in Germania prevalse la forma araldica, in Italia fu dapprima assai semplice, per esempio un cerchio sormontato da una croce; poi queste marche assunsero la forma di scudo o di cuore, divennero elissoidali ed ovoidali: per tutto il '400 si trovano poste in fine del volume, 108
dopo la sottoscrizione. Nel XVI secolo verranno impresse nel frontespizio, e diverranno più complesse assumendo l'aspetto di insegne figurate o impresse, accompagnate da motti e divise, spesso bizzarre per il loro simbolismo: offrono esempi interessanti d'invenzione d'arte decorativa. Note sono l'àncora del Manuzio, la Fenice dei Giolito, il giglio dei Giunti e il gatto di Melchiorre Gioia. Il libro a stampa compare in Italia nel 1465 nel monastero di Subiaco ad opera di due stampatori tedeschi, Corrado Sweynheym e Arnoldo Pannartz, e il primo libro da loro stampato è la Grammatica di Donato, e subito dopo il "De Oratore " di Cicerone, senza data, ma pubblicato certamente prima dell'Ottobre 1465, con priorità sul "Lactantius" che reca la data 29 Ottobre 1465. Il primo libro, invece, apparso a Roma, sono le "Epistolae familiares" di Cicerone nel 1467. I tipografi veneziani introdussero eleganza e bellezza ai testi, creando un tipo di libro nel quale tutto è in armonioso equilibrio; i margini larghi, i titoli ben proporzionati, le lettere maiuscole aggraziate, la distanza delle linee e delle parole in giusto rapporto con i caratteri e col formato, le illustrazioni piene di finezza, tutti pregi derivati dal manoscritto, che in Italia, durante il Rinascimento, venne trattato come una vera opera d'arte. Nel '400 il libro italiano raggiungerà un grado di eleganza e di bellezza non più superato, con stampatori come Jenson ed Erardo Ratdolt a Venezia, Filippo di Lavagna a Milano, Giovanni Filippo La Legname a Roma, Bartolomeo Libri a Firenze, Baldassarre Azzoguidi a Bologna, Mattia Moravo a Napoli, per citare alcuni dei più illustri tipografi del tempo. Il migliore, per le sue innovazioni e per l'impulso dato al progresso tipografico, fu certamente Aldo Manuzio, uomo nel quale si trovano fuse in modo eminente le qualità del tecnico con quelle del letterato e dello scienziato. Grandissima fama gli deriva dall'impiego di una carattere nuovo detto "corsivo" o "italico" o anche "aldino", messo in voga col formato in 8°, più maneggevole e comodo, apparso nel 1501 col Virgilio. Il primato raggiunto dall'Italia nella perfezione e nella diffusione del libro nel '400 si riafferma nella prima metà del secolo successivo, con Venezia sempre alla testa per numero di stampatori, per ricchezza di produzione e per eleganza delle edizioni, sotto la guida di Andrea Torresani d'Asola, , suocero di 109
Aldo e tutore dei nipoti, e con il figlio Paolo Manuzio. Nello stesso tempo il libro riceve notevole sviluppo ad opera di Lucantonio Giunti, il più noto della grande famiglia fiorentina di editori e di stampatori, al quale si devono i magnifici messali e altri libri liturgici, decorati con figure e con musica, che formano una delle maggiori meraviglie della tipografia veneziana del '500. Anche nelle altre città italiane è assai coltivata la tecnica del libro: a Firenze con i Giunti, specie con Bernardo al quale si deve la famosa edizione del "Decameron" detta "Ventisettana" del 1527, e con Lorenzo Torrentino; a Roma con Antonio Blado; a Bologna con i Benedetti e con i Faelli e a Milano con Gottardo Pontico. Come abbiamo visto, fuori d'Italia il libro raggiunge pure notevole sviluppo durante il '500, favorito anche dal nuovo spirito umanistico; in Francia fioriranno i "Libri d'ore" - les "livres d'heures"- che già verso la fine del '400 avevano raggiunto un'alta perfezione e una grande fortuna specie con Antoine Vérard, Philippe Pigouchet, Thielman Kerver, Gilles Hardoyn e del libraio Simon Vostre. Ma nello stesso tempo fiorivano Parigi e a Lione alcune tipografie famose in tutto il mondo per le loro alte benemerenze nel campo tipografico e culturale, con i Gryphe, i Barbou, Ètienne Dolet a Lione e con Josse Bade detto latinamente Jodocus Badius Ascensius, con ´Etienne il più celebre di tutti, a Parigi, i quali per quasi un secolo contribuirono con la loro opera a dare al proprio paese una vera preminenza scientifica e filologica. In Svizzera il libro ebbe sviluppo e perfezione con Giovanni Froben e i suoi figli, a Basilea, nonchè con Giovanni Heewagen, "Hervagius", che ne sposò la vedova, ambedue legati di amicizia ad Erasmo del quale pubblicarono le opere in correttissime edizioni. Dopo un periodo di decadenza, il libro si risolleverà soltanto nel '700 con Giuseppe Comino di Padova, con i Remondini a Bassano, con Antonio Zatta e Girolamo Albrizzi a Venezia, con Lelio della Volpe a Bologna, con i soci Tartini e Franchi, e con Giuseppe Manni a Firenze, con G.B. Bodoni a Parma che sarà il primo a riprendere la nobile tradizione del '400, pur con mezzi nuovi: egli ci lascerà gli "Epithalamia" in lingue esotiche, l'"Iliade" greca e il "Fénelon". Sorgerà un nuovo pubblico della letteratura: in Inghilterra il livellamento intellettuale si manifesterà col sorgere d'uno stabile 110
pubblico di lettori, una cerchia ampia in cui si comprano e si leggono regolarmente libri, per merito della borghesia agiata che si sostituirà al privilegio aristocratico della cultura con un sempre crescente interesse per le lettere. La politica liberale del governo e l'orientamento mondano della Chiesa Alta erano sintomi dell'illuminismo, espressione ideologica del disgregarsi dal feudalesimo e dell'avvento delle classi medie: è merito del clero protestante la diffusione della letteratura profana e la formazione intellettuale del nuovo pubblico (H. Schöffler. Protestantismus und Literatur), e in effetti, senza la propaganda dal pulpito, i romanzi di Defoe e di Richardson non avrebbero raggiunto tanta popolarità. È stato osservato che il possedere libri è tanto naturale negli ambienti descritti da Jane Austen, quanto sarebbe stato strano nel mondo di Fielding (A.S. Collins. The Profession of Letters. 1928). Saranno la libertà di stampa e la pubblica discussione dei problemi politici del giorno a permettere l'emissione delle "bombe cartacee" di Swift e dei suoi contemporanei. Sono gli uomini politici, ora, a disporre delle ricompense agli scrittori, sotto forma di alti impieghi, e i partiti e il governo assumono, nella letteratura, la posizione che un tempo avevano i circoli di Corte e i re. La borghesia diventerà anche la principale cliente della musica, che non sarà più scritta per incarico del principe, del Comune o della Chiesa. Verso la metà del '700 sorgevano nelle città le prime società musicali (H.J. Moser. Geschichte der deutschen Musik). Ma il libro non avrebbe storia senza la scrittura, nè la scrittura senza l'alfabeto. Pensieri, idee, avvenimenti, sia nel tempo che nello spazio si trovano fin presso i primitivi; la forma più semplice, potremmo dire "preliminare" della scrittura e dei segni grafici, ci perviene da oggetti capaci di richiamare alla mente dei fatti o il loro svolgimento: fasci di rami, giunchi, rami in fiore o frutti degli isolani del Pacifico e dell'Oceano Indiano; pacchetti contenenti sale, pepe, belet dei messaggeri malesi di Sumatra; reticelle di giunco delle tribù australiane; i bastoni degli africani; i più noti "calumet" degli indiani; le cordicelle a nodi di alcuni popoli dell'Africa Occidentale e dei pastori degli altipiani del Perù e della Bolivia, che ricordano i "quipu" degli Incas, formati con cordicelle di varia grandezza e di vario colore: il colore rosso significava "soldato", il giallo l'"oro", il bianco l'"argento", il verde il "grano", e a seconda dei numeri, un nodo significava 111
"dieci", due "venti", uno doppio "cento" e così via. Ogni città aveva "gli ufficiali dei nodi" " che leggevano i messaggi e registravano i patti. Presso gli Algonchini erano usate delle collane con perle o conchiglie bianche, rosse o azzurre, infilzate per lo più in fibre vegetali: ogni figura che si forma dalla diversa combinazione è un simbolo che esprime un ricordo, un fatto, una cerimonia d'amore, di nozze, d'alleanza fra tribù e tribù. I primi tentativi di una "scrittura" si hanno con l'impiego delle immagini figurate, o incise o dipinte, che indicano oggetti simbolici o caratteristici per esprimere un'idea o più idee. Così alla "tecnica mnemonica" più rudimentale, si passò a quella "pittografica", o mnemonica pittorica, con la presentazione di figure più o meno realistiche, nella loro interezza oppure limitandosi a qualche particolare, come ad esempio le corna, le impronte dei piedi e così via, con un simbolismo detto "pittografico": il Dakota, per indicare "combattimento" o "battaglia" traccia due frecce dirette l'una contro l'altra; l'Ogibway per dire "mattino" disegna il sole raggiante, e per significare il "nulla" disegna un uomo con le braccia aperte; l'Eschimese per indicare un'isola fa un cerchio, e se l'isola è abitata, vi aggiunge al centro un punto. In questa forma di vocabolario, alle figure semplici seguono quelle composte per indicare i rapporti fra le cose o tra gli esseri; la figura dell'uomo in vari atteggiamenti, con la mano al petto, col braccio in avanti, con le braccia distese, con le armi in pugno eccetera viene adoperata per indicare il movimento, il numero delle persone e delle cose, dimostrando la relazione fra questa specie di scrittura figurata e il linguaggio per gesti, da cui essa deriva particolari segni.
Il sistema mnemonico-pittorico è molto diffuso nelle società primitive, specie tra gli Indiani d'America, dove sono state trovate tavolette di legno o di corteccia d'albero con figure incise o dipinte; le figure sulle pelli o sulle tende, costituiscono dei veri e propri archivi storici e genealogici, cronache di fatti, avvertimenti, racconti totemici o fantastici, formule d'incantesimo. Poche figure sono sufficienti a esprimere un racconto, a suggerire al cacciatore le operazioni da compiere, allo stregone le formule delle pratiche magiche. Sono note alcune lettere o petizioni di carattere politico fatte dagli Indiani d'America al Presidente degli Stati Uniti per il possesso di alcuni territori, come quella del capo dei Chippewa 112
per reclamare il diritto di alcuni laghi nelle vicinanze del Lago Superiore, scritta con figure e colori simbolici che danno l'idea dell'aspetto delle cose: il colore blu "il lago", quello bianco "la strada" e i clan secondo i totem di ciascuno: la martora, la tartaruga, l'alce, il pesce gatto. L'unità dei sentimenti tra i vari clan è espressa con linee che uniscono il cuore e gli occhi dei rappresentanti dei clan con quelli del capo. Le tavole tumulari, le "pietre figure" che servono a distinguere la sepoltura dei celebri capi indiani, non sono che epigrafi figurate delle gesta operate nella vita: ognuna di esse è preceduta dall'effigie di un animale rovesciato, per significare il totem del defunto e la morte, a cui fanno seguito segni onirici, battaglie e vittorie, trattati di pace, le ferite riportate, emblemi, figure e simboli. Quando invece i segni si limitano a suggerire solamente il nome delle cose o degli esseri, la pittografia dà luogo alla "scrittura" per emblemi o simboli, l'"ideografia", che, se ne suggerisce graficamente il suono, dà origine alla scrittura "geroglifica". Il sistema ideografico fiorì presso i Maia, come lo attestano importantissimi documenti, i "pinterros", così detti perché dipinti su pelli, e tuttora in uso tra i Pellerosse. I manoscritti messicani manifestano il trapasso dalla fase pittorica a quella geroglifica, ma sono simboli fonetici, in quanto permettono d'esprimere il suono dei nomi: il nome del re "Itzcoatl", ad esempio, che è composto da due parole, "itzl" che significa "coltello" e "coatl", "serpente", è rappresentato nei più antichi codici messicani appartenenti alla fase pittografica, dalla figura d'un serpente e da quella d'un coltello di pietra, infisso sul dorso del rettile. Nei documenti posteriori, appartenenti alla fase geroglifica, la sillaba "itz" è graficamente espressa da una freccia, e la voce "coatl" è scritta foneticamente con la figura di un vaso di terra (co-mitl) con sopra il segno dell'acqua (a-tl). Nel periodo in cui il disegno o il segno suggeriscono solo il suono del nome, il simbolo grafico diviene "fonogramma" nelle sue diverse forme, verbale, sillabica, alfabetica, dando origine al vero e proprio alfabeto. Nell'antica Grecia, la tradizione voleva che l'alfabeto fosse stato introdotto dai Fenici con la migrazione del loro eroe Cadmo a Tebe, tanto che le lettere dell'alfabeto vennero chiamate 113
ϕοινικια γραµµατα oppure καδµεια γραµµατα e conferma sulla veridicità di tale tradizione, giunse nel confronto con l'alfabeto ebraico, essendo nota fin dall'antichità la stretta parentela tra Ebrei e Fenici: la forma delle 22 lettere dell'alfabeto ebraico può venir accostata a quella delle prime 22 dell'alfabeto greco, e i nomi ebraici delle lettere sono analoghi a quelli greci, con il medesimo ordine di successione. Anche altri alfabeti semitici, oltre all'ebraico, si rivelano derivati da quello fenicio: le diverse varietà dell'aramaico, l'arabo, l'arabo meridionale e l'etiopico, nonostante notevoli diversità. Tuttavia, l'età e il modo con cui la scrittura alfabetica fenicia si è formata e si diffuse, i modelli ai quali s'ispirò sia per le forme delle singole lettere che per il sistema fonetico, non sono del tutto chiare. Pare che la sua origine sia una semplificazione del sistema geroglifico egiziano, e accanto ai valori ideografici e sillabici, si erano sviluppati dei valori semplicemente consonantici, specialmente con l'applicazione del principio dell'"acrofonia", consistente nell'assunzione da parte di un determinato segno ideografico, il valore fonetico corrispondente alla propria consonante iniziale: l'ideogramma della "mano", ad esempio, "d.t" viene a prendere il valore della consonante "d", quello della bocca, "r-", prende il valore della consonante "r" e così via. L'egiziano quindi, eliminando tutti i valori ideografici e sillabici dei geroglifici, mantenendo solo quelli consonantici, si sarebbe trasformato in una scrittura puramente alfabetica, composta di sole consonanti, mancando nella geroglifica le vocali. Ma gli Egiziani continuarono ad usare i segni geroglifici coi valori promiscui di ideogramma, sillaba, consonante, mentre la trasformazione fu compiuta dalle popolazioni semitiche. La scoperta fatta nel 1905 dall'egittologo Flindes Petrie, di un particolare tipo di scrittura offerto da una dozzina di cosidette "iscrizioni sinaitiche" o "paleosemitiche" in località Seråbït alKhadim, nella penisola del Sinai, in prossimità di antiche miniere di lapislazzulo, sfruttate fin dai tempi della 18° dinastia egiziana dei secoli XVI-XV a.C., confermò quanto fino ad allora era stato più che altro un'ipotesi; queste iscrizioni hanno una scrittura identica a quella geroglifica, anche se più rozza, che è indecifrabile se si tenta di leggerla come egiziano, mentre con l'applicazione del principio dell'acrofonia al valore ideografico dei segni in lingua semitica, si riesce ad identificare qualche parola: il segno o, "casa", ha in egiziano il valore ideografico e sillabico 114
"p'"; il segno -¤-"occhio" ha il valore ideografico "ìr.t" e via dicendo, mentre in semitico "casa" e " occhio" si dicono rispettivamente "bayt" e "'ayn", per cui tali segni furono letti dalle iscrizioni sinaitiche come "b" e " ' ". I Semiti che adottarono tra i geroglifici quelli più adatti a rappresentare i valori delle consonanti semitiche, furono detti i "primi e veri inventori della scrittura alfabetica". In seguito, i Fenici o un altro popolo semitico, avrebbe modificato la forma dei singoli segni alfabetici, mantenendo invariato il sistema: così per la prima lettera, " ' " spirito dolce - si sarebbe adottata la testa del "toro" chiamato in semitico "aleph"; per la seconda, al carattere egiziano rappresentante una casa, si sarebbe sostituita la pianta della "tenda" triangolare propria dei nomadi, dove "bayt" significa sia l'una che l'altra; per "g" si sarebbe adottato il profilo del cammello, "gamal" e per "d" la porta, "dalet". Si pensa che il centro di diffusione dell'alfabeto fenicio sia stata l'antica città di Byblos sulla costa fenicia, la quale fin dal 3° millennio a.C. fu sottomessa al predominio egiziano, e costituì l'emporio del commercio tra la Siria e l'Egitto, commercio di cui uno degli elementi più cospicui era appunto il papiro, il materiale scrittorio per eccellenza, tanto che i Greci diedero al "libro" il nome stesso della città: Byblos, "biblos". A Byblos gli scavi archeologici hanno rivelato l'esistenza di grandiosi templi e sepolcreti di stile egiziano, ed è stato scoperto il più antico monumento dell'alfabeto fenicio, l'iscrizione funeraria del re Ahïram, da collocarsi nel XIII secolo a.C.. Il carattere della scrittura è già completamente sviluppato ed è sostanzialmente identico a quello delle iscrizioni più recenti. Di età posteriore sono altre due iscrizioni pure di Byblos, una del secolo X incisa s'un vaso di bronzo di cui vari frammenti furono ritrovati a Cipro, e l'iscrizione del re moabitico Mesa e quella del re aramaico Kalammu, scoperta a Zengïrlï nella Siria settentrionale, sicuramente del secolo IX. Grandi analogie presentano con quest'ultime alcuni frammenti di Nora in Sardegna. L'alfabeto fenicio presenta la caratteristica di essere una scrittura prevalentemente di tipo corsivo più che lapidario, ciò che ne evidenzia l'uso del pennello o del calamo a inchiostro su papiro, anziché per incidere con lo scalpello sulla pietra, ciò che è confermato dal ritrovamento di alcuni frammenti di coccio con iscrizioni di alfabeto fenicio a inchiostro.
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L'invenzione di un alfabeto dotato di soli 22 segni, a differenza del sistema geroglifico e cuneiforme, nei quali venivano impiegati centinaia di segni, doveva avere rapida e vasta fortuna, ma la forza della tradizione e il carattere sacrale attribuito alla scrittura, fecero sì che tanto in Egitto quanto nella Mesopotamia si conservassero ancora a lungo i vecchi sistemi di scrittura. Mentre Egiziani e Cinesi continuarono ad usare i loro complessi pittogrammi, la scrittura cuneiforme si estendeva a tutto il Medio Oriente, semplificandosi; ma solo verso al 1300 a.C. in Siria, nell'attivo centro portuale di Ugarit, l'odierno Ras Shamrah, nacque il primo vero alfabeto. Su tavolette d'argilla trovate a Ugarit, è stato identificato il primo alfabeto completo, formato da 32 lettere, alfabeto che con alcune modifiche verrà adottato dagli Ebrei e dai Moabiti: è il più remoto progenitore degli alfabeti moderni. La nuova scrittura venne adottata da quei popoli che nel 2° millennio a.C. occuparono, migrando al sud, la regione intermedia fra la Mesopotamia e l'Egitto, divenendo popoli sedentari e creando nuove civiltà: i Fenici, gli Ebrei, gli Aramei e altre popolazioni di stirpe affine che si stanziarono nelle regioni dell'Asia anteriore, come i Moabiti, gli Ammoniti, gli Edomiti e via dicendo, ma delle quali, in base all' iscrizione del re Mesa, soltanto per i Moabiti è certa la conoscenza dell'alfabeto. Con l'espansione dei Fenici verso il Mediterraneo occidentale, ancor prima del 1° millennio a.C., la conoscenza e l'uso dell'alfabeto passò i confini geografici dell'Asia Minore; i Greci, le cui relazioni coi Fenici sono attestate dai poemi omerici, l'hanno certamente assunto da loro, tanto che anche le più antiche iscrizioni greche del principio del VII secolo, presentano una somiglianza molto forte con l'alfabeto fenicio per tutte le 22 lettere. Con la scoperta delle "scritture minoiche", avvenuta all'inizio del secolo, alcuni scienziati hanno ritenuto che il processo di trasmissione dell'alfabeto sia stato l'inverso, e che quello greco derivi dai caratteri minoici, e che siano stati i Greci a trasmetterli ai Fenici. Ma tale ipotesi è insostenibile, sia perché i nomi delle singole lettere dell'alfabeto greco sono di origine semitica, e anche perché la scoperta delle iscrizioni sinaitiche permette di seguire fin dall'origine lo svolgimento organico fenicio dal sistema geroglifico egiziano. 116
Dall'alfabeto greco trarranno origine tutti gli alfabeti occidentali, latino, etrusco, e forse anche l'iberico, e quelli dell'Asia Minore, come il lidio e il cario, mentre quello fenicio si diffonderà nell'occidente anche in maniera diretta, attraverso Cartagine e le sue colonie: la scrittura "punica", attestata anche a Malta, in Sardegna, in Sicilia e in Spagna, si distingue da quella fenicia soltanto per piccole differenze nella forma delle lettere, più regolari e con tendenza spiccata al corsivo. In età romana, dal punico si svilupperà il cosidetto "neopunico", tipo di scrittura degenerata in forme grossolane, oppure, come in Tripoletania, bella e regolare dall'aspetto lapidario, con probabile influsso dell'epigrafia romana. Anche l'alfabeto "numidico", largamente diffuso nell'Africa settentrionale, deriva da quello fenicio, come pure la scrittura usata a Cipro fin dal secolo X a.C. che si mantenne accanto al sillabario cipriota indigeno e all'alfabeto greco per lungo tempo. Nell'età ellenistica, dopo varie modificazioni nella forma delle lettere, il prevalere della cultura greca e dell'aramaica, portano alla scomparsa sia della lingua che della scrittura fenicia, della quale non si hanno più tracce dopo la fine del II secolo a.C.; in Occidente, invece, la scrittura neopunica si manterrà ancora per secoli, certamente fino allo scadere del III secolo d.C., e forse anche più avanti. Pochissimo è ciò che rimane dell'antica scrittura ebraica: a parte alcuni sigilli che recano soltanto i nomi di persona e di alcune brevi iscrizioni a inchiostro su anfore, le sole iscrizioni conosciute sono il cosidetto "calendario agricolo di Gezer", forse del IX secolo a.C., e l'iscrizione di Siloah, con tratti molto simili al fenicio, del VII, sulle pendici meridionali della collina di Gerusalemme, che parla di un'escavazione di galleria per conduttura d'acqua. Dall'antico alfabeto ebraico deriva quello "samaritano" usato in iscrizioni e in manoscritti, e quello che oggigiorno è usato dagli Ebrei, deriva invece dall'alfabeto aramaico, il quale pure presenta in origine un'identità col fenicio. Gli inizi di questa scrittura si possono vedere nelle grandi iscrizioni dei re di Sam'al e del re di Hamah, dove le lettere tendono ad assumere una posizione verticale e a diventare tutte della stessa altezza. La diffusione della lingua e della cultura degli Aramei sarà vastissima nell'Asia anteriore e culminerà alla fine del VI secolo a.C. con l'adozione dell'aramaico come lingua ufficiale 117
dell'impero persiano a occidente dell'Eufrate, e anche degli Ebrei. In Egitto sono stati trovati in gran numero papiri in scrittura aramaica provenienti dalle colonie giudaiche, i più antichi dei quali appartengono al V secolo a.C.; da tale scrittura trae origine l'ebraica "quadrata", il cui documento più antico è del II secolo a.C., e che è divenuta la scrittura comune tra gli Ebrei, quella in cui sono composti i manoscritti e le edizioni del testo biblico e degli altri libri ebraici. Dalla "quadrata", si passerà alla "minuscola rabbinica" a partire dall'XI secolo d.C. e alla "corsiva moderna" sfruttata in molte varietà: tedesco-polacca, levantina, africana eccetera. Gli Ebrei di origine polacca e russa promuoveranno la rinascita dell'ebraico come lingua viva, dando origine alla scrittura corsiva corrente dell'ebraico moderno, e conservando per la stampa la scrittura quadrata. Dall'antico alfabeto aramaico si dirameranno altre varietà di scrittura: il "palmireno", legato alla breve e rigogliosa civiltà di Palmira dal I secolo a.C. al III; l'alfabeto dei Nabatei, popolo di carovanieri e di trafficanti dell'Arabia settentrionale, dal quale si svilupperà, a partire dai secoli V e VI d.C. l'alfabeto "arabo", che introdurrà un nuovo elemento per distinguere l'una dall'altra alcune lettere che il tempo aveva reso identiche: i così detti "punti diacritici" posti sopra o sotto le singole lettere. La grande espansione dell'Islamismo, a partire dal VII secolo, porterà insieme alla lingua, anche l'alfabeto arabo fino alla Spagna e all'Africa occidentale, all'altipiano iranico e ai monti Tauri, e anche ai Persiani, che a loro volta trasmetteranno il proprio alfabeto ai popoli islamizzati da essi, all'India musulmana con la lingua "urdü o hinduståni", e ai Turchi; dai Turchi il loro alfabeto passerà ai Tartati, agli Armeni, agli Slavi della BosniaErzegovina, soppiantando gli alfabeti nazionali, che verranno conservati dai Cristiani residenti in quelle nazioni. I più lontani esempi dell'uso dell'alfabeto arabo per la scrittura di altre lingue sono costituiti verso oriente dal "malese", verso occidente e mezzogiorno dal "berbero" e dal "suåhilï". Dall'alfabeto aramaico nelle regioni orientali della Mesopotamia e della Babilonide, nascerà anche il "siriaco", il "mandeo" limitato alla setta gnostica dei Mandei nella Babilonide meridionale, e la "scrittura manichea", adottati da tre confessioni religiose diverse; il "siriaco" e il "manicheo" attraverso la propaganda missionaria presero la via dell'Asia centrale, 118
spingendosi fino all'Estremo oriente e diedero origine alla scrittura dei Turchi Uiguri, dei Mongoli, dei Manciuri. Anche la scrittura "pahlavica" o medio-persiana, trae origine dall'alfabeto aramaico più antico, che avrà grande diffusione sotto la dinastia dei Sassanidi tra il 224 e il 644 d.C.. All'alfabeto aramaico vanno pure riferiti i moltissimi alfabeti "indiani", benchè sia fino ad ora carente l'indagine scientifica per ciò che riguarda l'età e il modo di trasmissione. L'imponente civiltà dell'Arabia Meridionale ci ha tramandato il suo alfabeto, elegantemente lapidario, in numerosissime iscrizioni, nelle varietà del "mineo", del "sabeo", del "himyaritico" e di altre minori è evidente la stretta connessione con gli alfabeti semitici, arricchiti di molti segni particolari inerenti anche alle sei consonanti che la lingua araba possiede, in aggiunta alle 22 del fenicio e dell'aramaico, e quella arabo-settentrionale derivata dal nabateo di sole 22 lettere, ma con l'aggiunta di punti diacritici. Probabilmente per influsso della scrittura egiziana, nella quale le vocali non sono mai espresse, anche l'alfabeto fenicio è formato da sole consonanti; le vocali devono essere supplite dal lettore, sicchè ad esempio il gruppo di tre lettere "mlk" deve venir pronunciato, a seconda del contesto, "malk" - re -, "malkï" - il mio re -, "malàk" - egli regnò -, "malaka" - essa regnò -, "malakü" - essi regnarono -. I Greci, adottando l'alfabeto fenicio, sentirono il bisogno di un'espressione esplicita delle vocali, sfruttando le semivocali dell'alfabeto fenicio, inutili alla lingua greca, o consonanti gutturali ad essa ignote: così " ' " fu adoperato per "a", "h" per "ε", "h" per "η, "y" per "ι", "c" per o, "w" per v. Già nell'età micenea, i Greci usavano la scrittura, sia quella ideografica, a noi incomprensibile, che essi appresero dai minoici, sia quella sillabica che i Peloponnesi dell'Isola di Cipro ricevettero dai vicini Ittiti. Ma queste forme di scrittura scomparvero del tutto. Accanto ad una tradizione che attribuiva l'invenzione dell'alfabeto all'uno o all'altro personaggio mitico greco, come Prometeo, Palamede, Orfeo o Museo, affermava anche l'origine fenicia delle lettere greche, chiamate perciò ϕοινικηïα - ϕολνικηïα - γραµµατα (Erodoto, V,56; Inscr.Gr.antiq., 497b.37; Diodoro, III,67 e V,74; Tacito, Ann., XI,54) fatte risalire a Cadmo. L'evoluzione successiva dell'alfabeto greco, modificherà più o meno tutte le 119
forme delle lettere, tanto che nella fase definitiva "ionica", le lettere hanno una conformazione tale da poter essere tutte iscritte entro un quadrato con grande senso armonico. L'alfabeto greco comune più antico, come ci è conservato nelle iscrizioni arcaiche di Melo, Tera e Creta, aveva poche lettere. La forma alfabetica ionica diverrà comune al mondo greco dal IV secolo in poi. Anche gli alfabeti adottati dalle popolazioni abitanti la penisola italica, meno i Greci Italioti, derivano tutti, a cominciare dal VII secolo a.C., da quello fenicio, con l'aggiunta però di quattro lettere υξϕχ; una leggenda, riferita da Tacito negli Annali (XI,14), narra che l'alfabeto greco sarebbe stato introdotto in Etruria dal corinzio Demarato. Undici sono gli alfabeti usati dalle popolazioni dell'ltalia antica: l'alfabeto dei Veneti; quello "sabellico" delle Marche e dell'Abruzzo; il cosidetto alfabeto di Sondrio, rappresentato da pochissime epigrafi rinvenute fra Tresivio presso Sondrio e Rotzo nell'Altipiano d'Asiago; l'alfabeto etrusco propriamente detto, usato nell'Etruria e nelle regioni del dominio etrusco durante la grande fioritura del VII e VI secolo; l'alfabeto campano-etrusco, del quale esistono due soli esemplari su due tazze di Nola; l'etrusco umbro, rappresentato dalle "Tabulae Eugubinae" di Gubbio; quello "osco" che si conosce dall'iscrizione votiva di Agnone e da una convenzione sacra fra Nola ed Abella; l'alfabeto latino, il cui monumento più antico è quello comparso sotto il "lapis niger" del Foro, un'iscrizione contenente probabilmente un regolamento religioso del VI o del V secolo. L'alfabeto "arcaico latino" era formato da 21 lettere: A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X. La scrittura corsiva latina deriverà direttamente dall'alfabeto arcaico repubblicano, senza tener conto degli abellimenti introdotti fin dagli inizi dell'Impero. L'alfabeto "falisco", rappresentato da alcune iscrizioni rinvenute nel Lazio settentrionale, e l'alfabeto "messapico", del quale si conoscono ben due centinaia d'iscrizioni, le più antiche delle quali sono scritte in un peculiare alfabeto pre-euclideo. Intorno al libro, che fisserà e trasmetterà nozioni e tradizioni, verrà organizzata la scuola nel mondo antico e nel Medioevo, per svilupparsi poi attraverso la Rinascita e 120
l'Illuminismo, come abbiamo visto, con la moltiplicazione dei libri per l'educazione di tutto il popolo. Alla fine del '700, Hamann si era chiesto se non fosse il caso di far accedere il fanciullo all'alfabeto per la stessa via attraverso la quale vi giunse l'umanità, con riferimento vichiano alla psicologia dei popoli e alla storia della cultura. Desidero terminare questo studio sulla parola e sul libro, con un'espressione poetica dal suggestivo titolo di "Alfabeto dell'amore", Αλϕαβητοσ τησ αγαπησ. L'editore dei "Carmina Graeca medii aevi" Guglielmo Wagner pubblicò l'opera a Lipsia nel 1879 sotto forma di raccolta di poesie volgari neogreche, dedotte da un manoscritto del British Museum, l'"Aditional" 8241, del '500, nel quale sono intitolate "versi d'amore e d'affetto" στιχοι πδρι ερωτοσ και. Ma il Wagner, cercando di rimediare alle lacune e al disordine della traduzione, ne dispose i versi secondo le lettere dell'alfabeto. Il testo contiene un alfabeto d'amore, che va dal verso 1 al 108; distici alfabetici, dal 109 al 139; l'Ecatologo, εκατολογοσ o centorispetti, il cui acrostico è costituito dalla serie numerica da 1 a 100, dal verso 140 al 330: è la poesia più importante, della quale esistono altre versioni nei canti popolari greci; poesie diverse dal 331 al 619 verso; il terzo alfabeti dal 620 al 669 e poesie diverse dal 670 al 714. Da questo prospetto, riportato nell'edizione di HesselingPernot, appare che gli elementi della collezione non sono stati collegati secondo un ordinamento chiaro, ciò che indusse altri studiosi a tentare un secondo raggruppamento. E non è esatto neppure il sottotitolo "Collezione di canti d'amore rodî" dato dal Wagner, basandosi su due passi allusivi a Rodi, il 370 e il 450. La lingua stessa non permette alcuna precisa localizzazione, perché questi canti non sono scritti in un greco strettamente dialettale, ma in una lingua comune, tinta semplicemente di qualche particolarità dialettale che riconduce alle isole orientali dell'Arcipelago, da Chio a Rodi, con qualche influenza dotta dovuta al "diasceuaste", o riordinatore. Il valore di questa corona di poesia, comunque, è notevole non soltanto per i pregi intrinseci e per la presenza di canti veramente poetici, pieni di vita e di passione, ma anche per la molta luce che essa diffonde sulla storia della poesia volgare 121
medievale, dimostrando che molti elementi della poesia popolare neoellenica hanno origine molto remota. E termino con una frase significativa di Gustav Freytag: "I libri sono i grandi guardiani dei tesori del genere umano. Essi conservano da un secolo all'altro il meglio, che fu mai pensato o inventato, e ci fan sapere ciò che una volta fu vivente in terra". Die Bücher sind die grossen Schätzehüter der Menschengeschlechts. Das Beste, was je gedacht und erfunden wurde, bewahren sie aus einem Jahrhundert in das andere und sie verkünden was nur einst auf Erden lebendig war -. (Gedanken).
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Finito di stampare nel mese di aprile 1999 da Fiordo s.r.l - Galliate Italy
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