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Radici Collana di testimonianze letterarie italiane all'estero

DAL PO AL POTOMAC Esperienze di poetica e poesia italiana in America ALFREDO DE PALCHI LUIGI FONTANELLA MARIO MORONI PAOLO VALESIO

Edizioni "Il Grappolo"


CopyrightŠ 1998 by Edizioni ''Il Grappolo'' Parco S.Anna -Tel.089-894457 84080 S.Eustachio di Mercato S. Severino (SA) Italy E-mail:il.grappolo@xcom.it-Internet:www.ilgrappolo.it

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PARTE PRIMA

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The years, after all, have a kind of emptiness when we spend too many of them on a foreign shore. We defer the reality of life, in such cases, until a future moment when we shall again breathe our native air; but, by and by there are no future moments; or, if we do return, we find that the native air has lost its invigorating quality, and that life has shifted its reality to the spot where we have deemed ourselves only temporary residents. Thus, between two countries, we have none at all, or only that little space or either in which we finally lay down our discontented bones. NATHANIEL HAWTHORNE

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POETI EMIGRATI ED EMIGRANTI POETI NEGLI STATI UNITI And hunger is the patrimony of the emigrant; Hullger, desolate and squalid For the fĂ therland. For bread and for women, both dear. America, you gather the hungry poeple And give them new hungers for the old ones. EMANUEL CARNEVALI Non era forse vero che gli esclusi e gli esiliati erano sempre esistiti, da quando gli uomini si erano riuniti in gruppi? E la condizione dell'esilio non era foese l'inevitabile immagine speculare dell'essere radicati nella propria terra? Quanti milioni di esiliati, scacciati e profughi c'erano stati nei millenni della storia umana? E la caratteristica principale della loro tragedia non era forse il permanente legame con la comunitĂ dalla quale erano stati o si erano strappati? Questa comunitĂ era come un'amata perduta. JOHANNES URZIDIL

Il titolo del mio saggio necessita qualche riflessione iniziale, non soltanto sulla base della mia personale esperienza di poeta e intellettuale residente da parecchi anni negli Stati Uniti ma anche sulle sottili implicazioni ad esso sottese; titolo che, recitato tal quale, presupporrebbe un'indagine a largo raggio che qui per varie e ovvie ragioni non posso presentare. Vorrei, anzi, subito precisare che questo mio studio, pur con qualche riferimento testuale, intende

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soltanto porre alcune questioni preliminari di carattere teorico e metodologico. Intanto il titolo "poeti emigrati ed emigranti poeti", suggerisce due categorie di poeti, distinte e simultanee allo stesso tempo, sia sul piano storico-temporale sia sul piano stilisticotematico. Al primo "gruppo" appartengono di fatto poeti italiani che, emigrati negli Stati Uniti quasi cento anni fa (Arturo Giovannitti, che può considerarsi il primo importante poeta emigrato in America, vi arrivò nel 1901), abbastanza presto si inserirono, chi con maggiore chi con minore fortuna, nel mainstream letterario americano; divennero insomma scrittori americani a tutti gli effetti (per loro stessa volontà, oltre che, s'intende, per l'impiego espressivo della lingua adottata). A questo gruppo andrebbero aggiunti quei poeti che, nati in America, vengono ciò non di meno ancora oggi definiti "poeti italoamericani", ma che di italiano hanno solo il cognome e solo alcuni di essi, in misura larvata o "riflessa", talora trasmisero, per via indiretta, nella loro opera creativa, riferimenti culturali italiani, lato sensu; "riflessi", appunto, da intendersi proprio letteralmente (Ciardi, Rago, Stefanile, Ferrini, ecc.). Mi rendo conto dell'approssimazione del termine in questione: più avanti spiegherò più ampiamente cosa intendo per "riflessi" trasmessi occasionalmente nella loro opera. A questi due gruppi, potremmo infine aggiungere una terza schiera di poeti italiani emigrati/emigranti, abbastanza infoltitasi dal dopoguerra in poi, che, avendo ben assorbito la nuova lingua, o ha decisamente optato per l'una o per l'altra, o scrive indifferentemente in italiano o in inglese (Tusiani, Rimanelli ecc; poeti, fra l'altro, di cui mi sono già occupato in altre sedi; rimando all'appendice bibliografica di questo saggio), o ha perfino optato, in qualche caso di interessante sperimentazione sfiorante il "collage", per una sorta di mescidazione plurilinguistica (si vedano alcuni testi recenti di Giose Rimanelli, che io ritengo, oggi come oggi, lo scrittore italiano più stimolante espatriato negli Stati Uniti). Resta ancora meglio da chiarire quella doppia accezione (emigrato/emigrante) nel titolo di questo studio. Dire "poeta emigrato" vuol significare una persona che era già poeta prima della partenza dall'Italia (poteva, fra l'altro, avere al suo attivo una certa produzione nella lingua madre: è il caso di un Giovannitti), ovvero un poeta che, restando tale, ma emigrato definitivamente (diremmo meglio, usando un vecchio termine prezzoliniano ancora

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valido, "trapiantato" in un'altra cultura) ha giocoforza assorbito, di questa, modi, temi e forme e, soprattutto, la nuova lingua espressiva. Sono, in altre parole, scrittori italiani che a un certo punto della loro vita si sono trasferiti e integrati stabilmente negli Stati Uniti continuando a fare gli scrittori ma volendo considerarsi ormai scrittori "americani" a tutti gli effetti. Quando un Emanuel Carnevali, nato a Firenze nel 1897 ed emigrato in America nel 1914, dove si formò come poeta e polemista stabilendo rapporti d'amicizia con alcuni fra i più importanti scrittori americani (tra gli altri: Carl Sandburg, Sherwood Anderson, Ernest Walsh e William Carlos Williams), dichiara esplicitamente: "l want to become an American Poet" (lettera a Harriet Monroe, Poetry, 6, XI, marzo 1918, p.343), non fa solo un'ammissione esplicita sulla sua definitiva emigrazione fisica, ma, come scrittore, fa anche una dichiarazione di poetica, volendo far intendere che quanto scrive(rà) non soltanto è (sarà) scritto in lingua inglese ma appartiene (apparterrà) alla letteratura scritta in quella lingua. Ma basta a uno scrittore adottare una nuova lingua per considerarsi di questa, tout court, uno dei plausibili adepti? Quanto permane della cultura che si è lasciati alle spalle nella scrittura creativa espressa in una lingua nova? Non c'è in tutto questo una sfida temeraria, che però resta pure la sfida di ogni letteratura, purché valida e innovativa? È forse impossibile rispondere a questi quesiti perché significherebbe addentrarsi nell'officina profonda di uno scrittore; scoprire e stabilire, ad esempio, quanto e cosa e come precisamente sia rimasto del proprio retroterra spirituale-emotivo-culturale e, al contempo, individuare quanto e cosa e come precisamente sia stato da lui assorbito della cultura adottata. Inoltre: quanto di puramente (astrattamente) programmatico ci può essere in dichiarazioni simili? A noi è permesso, credo, solo di riuscire a individuare e valutare le cause di questa volontarietà che, nella maggior parte dei casi, si condensa in questa aspirazione: quella di essere letti, apprezzati e accettati da un pubblico che non è più quello che si è lasciato dietro ma quello in mezzo al quale si è deciso di vivere e operare per il resto della propria vita. A questa aspirazione, destinata a restare a mio avviso quella basilare, possono aggiungersi altre considerazioni ad essa vicarie: l'opportunità di esprimersi, come scrittori, in una lingua egemonica di maggiore diffusione (fu, com'è noto, il sogno giovanile di un Mario Soldati); i vantaggi (e le feconde contraddizioni) del plurilinguismo; il sentimento di

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lavorare con maggiore "libertà" e in spazi, geografici e letterari, più ampi, magari con la segreta ambizione di poterne riempire un vuoto "unico": ancora Carnevali, in una lettera scritta nel '32, allorché la conquista (e relativa fruizione/gratificazione) dell'inglese era fatto ormai compiuto, scrive: "I believe that I fill a certain space unique in American literature" (a Peter Neagoe, curatore di Americans Abroad, The Hague, The Service Press, 1932; cito da Di Biagi 1991, 423). E una convinzione che può apparire ingenua, perfino velleitaria, ma essa nasconde anche una verità o una consapevolezza di fondo relativa all'inappartenenza letteraria di questo poeta eslege, che ha perso il suo baricentro etnograficoculturale. Vorrei chiarire meglio quest'ultimo punto, che mi sembra centrale per tutti quei poeti italiani trapiantati oltreoceano, ma mai fino in fondo accettati dall'establishment letterario americano, o da questo spesso guardati con schizzignoso sospetto, o genericamente classificati ethnic writers. Il problema, ovviamente, a parte l'antropologia culturale (e perfino nominale) diversa, risiede prima di tutto nella lingua: uno strumento acquisito (applicato) che si pone in chiave antagonistica o alternativa rispetto alla lingua madre che si va man mano perdendo ma mai perdendo del tutto. Di nuovo, il caso di un Carnevali, cui si può aggiungere parzialmente anche quello di un Giovannitti, è esemplare. Una lingua "seconda" e applicata non può spazzare via del tutto quella "primaria" e originaria. Già un attento studioso anni fa mise in rilievo, ma forse un po' troppo drasticamente, questo punto nodale sulla lingua di Carnevali, parlando di "travestimento linguistico" e di "inevitabile processo di autotraduzione preventiva, rinvenibile a monte di ogni poesia e della prosa stessa" (Fink 1973, 85-88); giudizio che si può in parte condividere ma sfrondandolo della sua severità. Il problema infatti a me pare molto più complesso: la lingua di un Carnevali non può essere interpretata come semplice processo di "autotraduzione preventiva", perché a un certo punto a uno scrittore trapiantato da anni in America (con relativa realtà linguistica diversa da quella originaria) succede di assorbire naturaliter la lingua "nova" e in/con essa esprimersi direttamente, senza operazioni intermedie di tra/vestimento o di pura sovrapposizione. Voglio dire che il problema, più che di "autotraduzione" è di natura interlinguistica; in non pochi casi si tratta di un vero e proprio connubio senza soluzione di continuità. Lo provano le incertezze sintattiche e lemmatiche che lo stesso Carnevali, già all'altezza del

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'19 (ossia dopo appena cinque anni di permanenza in terra americana) egli confessa in una lettera a Papini: "Non so più tanto l'italiano". È significativo che, quando nel '22 egli rientra in Italia, malato, passando da una clinica all'altra, i suoi contatti e scambi letterari avverranno prima di tutto con scrittori americani, alcuni dei quali andranno non di rado a fargli visita. Tutto questo ce lo conferma il carteggio avuto con i pochi intellettuali italiani (Linati, Papini, Croce, ecc.), infarcito di anglismi e frasi direttamente in inglese inserite in modo del tutto spontaneo nel testo epistolare, specialmente laddove l'italiano non soccorre immediatamente lo scrivente. È sorprendente verificare come questo problema interlinguistico ritorni in tutti i migliori scrittori italiani trapiantati in America e sia riscontrabile ancora oggi. Recentemente mi è avvenuto di leggere e chiosare un nuovo romanzo di Giose Rimanelli, altro scrittore eccellente, da anni espatriato negli Stati Uniti. Non posso fare a meno ora di ritornarci per meglio definire questo aspetto di Carnevali. Il romanzo di Rimanelli s'intitola Detroit Blues (Welland, Ontario - Lewiston, New York: Ed. Soleil, 1997, pp.216), e descrive le indagini di un professore di antropologia, figlio di emigrati italiani, su suo cugino Larry (musicista di genio, molto impegnato politicamente contro l'emarginazione negra), assassinato barbaramente per motivi razziali (Larry, di colore scuro, era figlio del noto chitarrista jazz Nebraska Dope, un indiano Omaha, da tutti creduto negro). Il tutto in una magmatica Detroit, sotto l'infuriare dei problemi razziali e delle sanguinose rivolte che sconvolsero questa città in un torrido luglio del '67, un anno prima che venissero assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King. La lettura dell'epistolario di Carnevali, pur risalente a tanti anni fa, mi ha fatto irresistibilmente pensare - parlo, s'intende, dal punto di vista linguistico - a questo romanzo di Rimanelli laddove il denso connubio italiano/inglese è a forza evidente (l'inglese che s'inserisce spontaneamente come naturale proseguimento del discorso in italiano); connubio da intendersi non come semplice mescidazione ma proprio di una naturale, fluida intereferenza di una lingua dentro un'altra lingua o inestricabilmente intrecciata insieme. Qualche esempio ad usum collationis, fra i numerosissimi che si potrebbero estrapolare. CARNEVALI (...) E siccome he knows all about Italy, la sua parola valse.

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(...) Lei sarà sport abbastanza da aiutarmi e loving enough da non buttarmi fuori dalla sua stima. RIMANELLI Well my friends, stavo proprio adesso passando per questa lovely city of yours perché la mia missione has a universal worth. Quel camioncino è una ghiacciaia.. His best food, Black Magyk, is sold frozen. Come si vede, pur da questi pochi esempi, si tratta di una convivenza interlinguistica che non presuppone (più) una autotraduzione preventiva, ma viene esperita direttamente nella frase in un suo naturale continuum. Ovviamente sto parlando di due scrittori assai diversi fra loro e assai divaricati nel tempo; diversità che presuppone in un caso (Carnevali) un effettivo oblio dell'italiano che tende a sottrarsi di fronte all'uso, ormai assunto, dell'inglese, e, nell'altro (Rimanelli), la creazione consapevole e sofisticata di un proprio idioletto espressivo, che però è anche indice di un'avvenuta ingerenza di una lingua altra da quella nativa. Se il problema della lingua (della voce) da dare al proprio testo è destinato a restare irresolvibile ed è obiettivamente una sorta di handicap rispetto al nuovo establishment letterario in cui il poeta emigrato è chiamato a operare con le sole sue forze culturali (non ha più, dietro le sue spalle, geografie e persone che gli sono familiari, mentre le nuove sono riluttanti a farsi assorbire), non bisogna pensare che esso scompaia automaticamente in quei poeti che, di discendenza italiana ma nati in terra americana, avrebbero dovuto (e dovrebbero) essere considerati scrittori americani tout court. Ma qui si pone un'altra questione. Possono davvero considerarsi scrittori del tutto americani? E giusto allora chiamare, come correntemente avviene, "scrittori italo-americani", autori come Puzo, Talese, Stefanile, Mangione, Gambino, ecc.? Che significa essere "scrittore del tutto americano"? E che significa essere "scrittore italo-americano"? E ancora: quell'attributo ("italo") posto accanto ad "americano", ma preceduto da un trattino su cui

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recentemente alcuni studiosi hanno a lungo discusso o polemizzato (Tamburri, Alfonsi, Valesio, Gardaphé, ecc.), proponendo soluzioni più "moderne", tipo "Italian/American", oppure "Italian American", oppure (se detto in italiano) "italiano americano", dicevo, quell'attributo ("italo") in che modo e misura dovrebbe far presupporre una presenza della cultura italiana (della italianità) all'interno dei loro testi? Ecco che qui posso spiegare meglio quel termine "riflessi" da me menzionato all'inizio, affermando che questi scrittori, della cosiddetta "italianità", hanno solo un'immagine irrelata; nella maggior parte dei casi si tratta di un'affettività che potremmo chiamare libresca, echeggiata in casa dai genitori o dai nonni, insomma una cultura derivata o interposta, che non presuppone la conoscenza diretta della lingua italiana, né della letteratura se non di quella dei classici letti in traduzione (Dante, Petrarca, Machiavelli, Manzoni, Pirandello sono gli autori previlegiati), né dell'arte (in genere solo quella rinascimentale vista attraverso le illustrazioni contenute nei libri di storia dell'arte). Questa, la situazione prevalente. Conosco personalmente intellettuali americani, bravi studiosi di letteratura inglese e di cultura italo americana che s'improvvisano traduttori dall'italiano in inglese, che non conoscono l'italiano (qualcuno, addirittura, non è mai stato in Italia), e c'è chi, come il professor Frank McShane della Columbia University, pontifica che si può essere traduttori senza conoscere la lingua dalla quale si sta traducendo ! Sì, questa è la situazione prevalente, ma non complessiva, ché non poche sono le eccezioni (dico "eccezioni") rappresentate da scrittori e intellettuali americani, di discendenza italiana, che non si sono contentati di questa "cultura derivata" e hanno sentito l'esigenza profonda di riimpossessarsi degli strumenti linguistici che dopo una generazione o due erano stati gradualmente negletti. La vecchia officina si è rimessa in moto: gli antichi strumenti dei padri o dei nonni sono stati ripuliti, oleati, rimessi in attività di servizio o sostituiti con altri più agguerriti e aggiornati, non soltanto riimparandone la lingua ma anche le funzioni espressive di essa: la letteratura italiana è stata affrontata nella sua dizione originale, i capolavori dell'arte rinascimentale italiana (e non più solo questa) sono stati osservati in presa diretta; si è infine riscoperta (e confrontata) la vita e la società italiana personalmente, con viaggi frequenti nell'antica madre patria: penso a scrittori come John Fante, Lawrence Ferlinghetti (che però d'italiano ha ben poco, essendo più francesi le sue origini), John Ciardi, Felix Stefanile,

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Jerre Mangione, Fred Gardaphé, Anthony Tamburri, Robert Viscusi che sono (stati) dei veri e propri ambasciatori biculturali-bivalenti, nonché traduttori reali da una lingua perduta, studiata e infine ritrovata. Casi emblematici: l'irruente, disuguale ma geniale John Ciardi (1916-1986), autore di numerosissimi libri, tra i quali, il primo, Homeward to America (1940), vincitore l'anno precedente del Hopewell Award, implicitamente quanto drammaticamente "mette in rilievo la dicotomia del vecchio e del nuovo mondo, laddove l'America è ora la nuova casa" ("sets up the dichotomy of the old and the new worlds, where America is now home", Tamburri 1996). A un certo punto Ciardi scrittore squisitamente americano (e orgoglioso di esserlo), sente irresisitibile il desiderio di riappropriarsi della lingua italiana. Lo sforzo è enorme; il risultato complessivo e palpabile sarà la traduzione della Divina Commedia (1954), forse a tutt'oggi la migliore traduzione esistente in lingua inglese del poema dantesco. A Ciardi, direttore fra l'altro dell'importante rivista Saturday Review, si può affiancare Stefanile che pubblicò i suoi versi giovanili proprio su questa rivista. Anche Felix (Felice) Stefanile (nato nel 1920), fine anglista e professore emerito della Purdue University, poeta americano tra i più significativi, s'è gradualmente riavvicinato alla lingua paterna, con accenti toccanti che fondono - è proprio il caso di dire "felicemente" - una sincera nostalgia (da intendersi non in chiave lamentosa come è avvenuto nella stragrande maggioranza della miriade di poeti e poetucoli italo-americani di cui Ferdinando Alfonsi ha dato cospicuo ma generico esempio (Alfonsi 1985, 1989, 1991, 1994); una nostalgia ch'è storica e culturale, accompagnata da un'acribia filologica e letteraria che l'ha portato a tradurre, con grande finezza ermeneutica, non poca poesia italiana: da Cecco Angiolieri, ai poeti futuristi, a Umberto Saba. Mi piace dare almeno un esempio testuale di questo scrittore il cui lavoro poetico, a differenza di quello più noto di un Ciardi e di un Ferlinghetti, è tempo che il pubblico italiano conosca. Il componimento del quale offro la prima traduzione in italiano s'intitola How I changed My Name (dal volume A Fig Tree in America, 1970). Scrivo di seguito prima l'originale e poi la mia traduzione. In Italy a man's name, here a woman's, transliterated so I went to school for seven years, and no one told me different.

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The teachers hardly cared, and in the class Italian boys who knew me said Felice, although outside they called me fee-LEE-tcahay. I might have lived, my noun so neutralized, Another seven years, except one day I broke a window like nobody's girl, and the old lady called a cop, whose sass was wonderful when all the neighbors smiled and said that there was no boy named Felice. And then it was it came on me, my shame, and I stepped up, and told him, and he grinned. My father paid a quarter for my sin, called me inside to look up in a book that Felix was American for me. A Roman name, I read. And what he said was that no Roman broke a widow's glass, and fanned my little Neapolitan ass. In Italia è nome per maschi, qui per femmine. Così traslitterato frequentai la scuola elementare per sette anni, e nessuno mi chiamò in altro modo. Poco importava ai miei insegnanti, e in classe i compagni italiani mi chiamavano Felice, anche se poi fuori dicevano Fehlichei. Con un nome così neutralizzato avrei potuto vivere altri sette anni, se un giorno non avessi spaccato un vetro, come una ragazzetta qualunque. La vecchia incazzata chiamò un pizzardone che ci mise il resto del sugo... mentre tutto il vicinato sghignazzando disse che nessun ragazzo si chiamava Felice. Fino a quando la vergogna non mi coprì tutto, gli dissi che Felice ero io, e lui sghignazzò pure. Mio padre pagò il dovuto per il mio peccato. Mi portò dentro e mi fece vedere in un libro che Felix era il mio nuovo nome americano. Nome romano, lessi. E lui mi disse

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che mai nessun romano aveva spaccato il vetro di una vecchia vedova, e strigliò a dovere il mio culetto napoletano. How I Changed My Name potrebbe considerarsi una poesia-manifesto della letteratura poetica italo-americana. E per molti versi lo è, in quanto addita a quello che può ritenersi il problema primario che hanno dovuto affrontare tutti gli scrittori americani di diretta discendenza italiana (nel nostro caso Felix è figlio di Antonio Stefanile, nato a Nola nel 1873 ed emigrato in America giovanissimo; il figlio Felice - alias Felix - nacque nel quartiere del Queens di New York), e cioè quello di un cognome rimasto per necessità italiano, spia linguistica per molti versi "dannosa" se non in alcuni casi discriminatoria rispetto all'ufficialità letteraria americana: penso ai vari Pietro Di Donato, Jerre Mangione, John Ciardi, Felix Stefanile, Robert Viscusi. Si tratta di un problema nominale, solo apparentemente trascurabile rispetto all'effettiva appartenenza linguistica e culturale americana cui questi scrittori possono naturalmente ascriversi, all'interno della quale sono stati educati e della quale sono ben orgogliosi di rappresentare una componente, sia pure "etnica" (ho già detto che questo è l'attributo dispregiativo talora usato dagli scrittori e intellettuali americani "uffìciali" per ghettizzare una fenomenologia letteraria che pure fa parte a buon diritto della composita facies della letteratura americana). Un clamoroso episodio su tutti, appartenente alla vita letteraria di Ciardi, può essere preso come valido esempio globale. Lo ricordano Tamburri, Giordano e Gardaphé nell'Introduzione all'ottimo volume da loro curato From the Margin (1991), richiamando un incidente in cui incappò Ciardi all'apice della sua carriera di poeta. L'Atlantic Monthly aveva pubblicato una sua poesia nella quale Ciardi faceva riferimento all'Italia fascista di Mussolini. Robert Lowell, concittadino e coetaneo di Ciardi (ambedue nacquero a Boston; il primo nel '17, il secondo nel '16), poeta anche lui sulla cresta dell'onda (epperò con cognome yankee; fine poeta ma pessimo traduttore di Leopardi), lesse la poesia giudicandola (secondo quanto riporta Ciardi): (...) The best Italian American poem he had ever seen. And I thought, "Does this son of a bich think he is more American I am?" Where does he think I was brought up? Because my

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name is Ciardi, he decided to hyphenate the poem. Had it been a Yankee name, he would have thought, "Ah, a scholar who knows about Italy." Sure he made assumption, but I can't grant for a minute that Lowell is any more American than I am. (Tamburri-Giordano-Gardaphé 1991, 6-7; Caetura 1986, 150)

La migliore poesia italo-americana che aveva letto. Ed io pensai "Questo figlio di puttana pensa di essere più americano di me?" Da dove pensa che io sia sbucato? Siccome il mio nome è Ciardi, lui ha deciso di scomporre, dividendola con un trattino, la mia poesia. Se fosse stata firmata con un nome yankee, avrebbe pensato "ah uno studioso americano esperto di cose italiane". Di sicuro un atto di presunzione, ma io non posso ammettere in nessun modo che Lowel sia più americano di quanto non lo sia io. (La traduzione è mia) La citazione su riportata si presta a qualche considerazione, al di là del suo essere self explanatory. Se da un lato riconferma, da parte di un poeta come Lowell, un voler prendere le distanze nei confronti di un suo versatile collega americano (la cui unica "colpa" è quella di portare un cognome italiano, e si badi che il fatto è tanto più grave e significativo perché riscontrabile in un poeta come Ciardi, che al tempo in cui pubblica quel testo nell'Atlantic Monthly è uno scrittore americano ben noto e apprezzato), dall'altro riconferma - e siamo solo alla prima generazione di italo americani - lo scollamento socioculturale ormai avvenuto dall'antica Mutterland. Ciardi non ha nemmeno per un momento il dubbio di non essere ciò che la storia letteraria nella quale si è formato gli comanda di essere: uno scrittore americano come altri scrittori americani. Il che porta ad un'altra, e a questo punto ineludibile considerazione teorica preliminare. Ed è questa: non sarebbe ora di chiamare scrittori come Ciardi, Carnevali, Mangione, Rago, Stefanile, ecc. ecc., qualora si volesse per forza mantenere una certa plausibilità "etnica" a quella dicotomia relativa alla hyphenation (unione di due parole mediante un trattino: italo-americano, appunto), semplicemente e più giustamente scrittori americo-

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italiani? È una denominazione della quale ho già accennato in altre occasioni ma che ora qui esige una concreta e più esauriente definizione. Definisco scrittori "americo-italiani" tutti quegli intellettuali americani di origine italiana della prima e seconda generazione, ossia quelli che hanno per padri ( prima generazione) e per nonni (seconda generazione) parenti italiani nati in Italia, emigrati definitivamente in America. "Americo-italiani" sono dunque da considerarsi tutti quegli americani che, nati in America, sono prima di tutto americani, vivono ed operano perfettamente integrati nel sistema sociale americano e non necessariamente hanno, dell'italiana, una conoscenza diretta della lingua, né, in parecchi casi, della cultura, se non per loro fortuna orecchiata in casa dai padri e dai nonni, o, per loro scelta, imparata nelle scuole americane e, successivamente, attraverso viaggi più o meno frequenti nella loro antica patria d'origine. Questo termine "americo-italiano", insisto su questo punto, va però applicato soltanto a quegli americani di discendenza italiana di prima e seconda generazione, ossia quando la cultura italiana vissuta fra le mura domestiche possiede ancora un "lievito" originario e una sua attiva riverberazione. Dopo queste due generazioni trovo assolutamente incongruo chiamare italo-americano o americoitaliano qualsiasi americano che d'italiano ha, ormai, soltanto il cognome, talora perfino irrimediabilmente storpiato. È una questione che fra l'altro, pur senza arrivare alla terminologia da me qui proposta, ha recentemente dibattuto un poeta e intellettuale americano, Dana Gioia, in un articolo intitolato What is ItalianAmerican Poetry? (Gioia 1993), affermando, giustamente, che se esiste una categoria di "poeti italo-americani", questa è da ritenersi storicamente transitoria all'interno della letteratura americana, e che studiarla con strumenti e criteri di tipo etnico, così come si fa ad esempio con la letteratura afro-americana, si commetterebbe un errore metodologico, in quanto l'identità degli scrittori italoamericani è profondamente legata a un problema di storia e non di razza ("The Italian American writer's identity is rooted in history not race", Gioia 1993, 61). E la storia, a differenza della razza, cammina e si evolve; così la storia degli italiani d'America si è andata evolvendo di generazione in generazione, man mano che i legami con l'Italia si sono andati attenuando, man mano che le famiglie dalle varie "piccole italie" (Little Italies) si sono frammentate e sparpagliate un po' ovunque in America, man mano che i valori culturali sono andati cambiando anche per l'intreccio di

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matrimoni misti, e l'intermarriage, piuttosto che un'eccezione, è finito per diventare una regola. Converrà dunque allo studioso della poesia scritta dagli italiani emigrati in America fare piuttosto, o preliminarmente, un lavoro di archeologia letteraria e non di "attualità" o semiattualità su poeti ormai americani(zzati). E proprio su questo, ad esempio, che ha richiamato recentemente l'attenzione un italianista americano come Anthony J. Tamburri, ma attento e sensibile anche alla produzione letteraria degli italiani espatriati negli Stati Uniti. Se proprio si volessero studiare i vari Ciardi, Stefanile, Rago, Ferrini in chiave di letteratura "italo-americana", allora bisognerà fare un lavoro lungo e certosino direttamente sui loro testi (e non sul contesto precedente che rischia di diventare solo un ornamento etnico) e verificare, come ho detto all'inizio, quel dove-comequanto di cultura italiana è stata filtrata nelle loro pagine creative. Diverso invece lo studio di archelogia letteraria, oramai ineludibile e, direi, eticamente doveroso, in particolare per quei poeti che ancora oggi sono trascurati (Carnevali e Giovannitti in primis) o che giacciono nell'oblio pressoché totale; un nome su tutti, su cui mi soffermerò più avanti: Pascal D'Angelo (1894-1932). Di Carnevali ho già detto. Va ribadito che la sua lingua espressiva resterà esclusivamente l'inglese con tutte le implicazioni che la cosa comporta: collaborazioni a riviste di poesia statunitensi; il lavoro redazionale svolto all'interno di Poetry (Carnevali fu per un certo tempo "Associate Editor") insieme con l'amata disprezzata amica Harriet Monroe, "the saviour of all poets" ("la salvatrice di tutti i poeti", com'egli la definirà affettuosamente nella sua autobiografia); le frequenti polemiche e i frequenti scambi epistolari con scrittori americani; un volume autobiografico uscito postumo a cura di Kay Boyle (The Autobiography of Emanuel Carnevali, New York, Horizon Press, 1987), il suo quasi regolare inserimento nei manuali di storia della poesia americana a partire, stante quanto ha scritto una studiosa in un saggio su Giovannitti, saggio per altro alquanto sgangherato (Tedeschini Lalli 1986), fin dal 1914 (sic) - l'anno stesso della sua emigrazione negli Stati Uniti! - in A History of American Poetry, volume di cui la Tedeschini Lalli non riporta nemmeno il nome del curatore, che è James D. Hart. Si tratta ovviamente di un errore che va rettificato spostando la data di pubblicazione al 1941 (II edizione 1948). Ma anche altri volumi, a tale proposito, andrebbero ricordati nei quali sia Carnevali sia

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Giovannitti compaiono regolarmente (Kunitz 1942; Benèt 1948; Hine-Parisi 1978; si veda la mia appendice bibliografica). Va inoltre osservato, ancora a proposito del Carnevali, che una volta rientrato in Italia (1922), egli continuerà a scrivere prevalentemente in inglese (ma malato com'era i suoi scritti saranno sempre più sporadici), mantenendo a lungo i contatti con gli amici scrittori americani. Più articolato e complesso il caso di Giovannitti (Campobasso 1884 - New York 1959) sul cui lavoro letterario molto poco è stato finora scritto dai nostri critici (tra gli altri: J. Tusiani 1976, 1988; R. Lalli 1981; e il già citato, discutibile saggio, tra l'altro pieno di refusi, della B. Tedeschini Lalli del 1986). Il caso di questo poeta, che nella densa selva dei numerosi poeti(ini) nostalgici/lamentosi della prima ondata migratoria è forse destinato a rimanere il miglior scrittore italo-americano, si presenta assai diverso da quello di un Carnevali. Ma oggi come oggi Giovannitti in America non lo ricorda quasi più nessuno come poeta; la sua memoria è esclusivamente legata alle drammatiche lotte sindacali degli anni Dieci e Venti, "grazie" alle quali Giovannitti rischiò la sedia elettrica, salvandosi in extremis con una celeberrima Autodifesa che turbò e incantò giudice e giuria, e sulla quale, anni dopo, ritornerà Prezzolini in un articoletto tra il serio e l'ironico/snobistico (Il Tempo, 10 maggio 1964). A differenza del Carnevali, Giovannitti, pur impadronendosi magnificamente dell'inglese - e in inglese è rinvenibile il corpus maggiore del suo lavoro poetico (Collected Poems, Chicago, E. Clemente, 1962, poi ristampato dalla Arno Press di New York nel 1975) -, non dimenticherà mai l'italiano, lingua nella quale continuerà a scrivere fino agli ultimi anni della sua vita (tenera e memorabile la sua «Nenia sannita»), o traducendo poesie da lui già scritte in inglese o scrivendone delle nuove, a dimostrazione di un perfetto bilinguismo che mancò al Carnevali. Ovviamente non ho la possibilità, in questa sede, di soffermarmi sulla poesia di Giovannitti, dal momento che questo studio, come ho annunciato all'inizio, intende solo porre alcune questioni metodologiche di base. Ma l'appuntamento è solo rimandato. Qui varrà la pena ribadire che è tempo che la poesia di Giovannitti, sganciata dall'aureola mitizzante che ne ha fornito la (scarsa) critica su di lui oggi disponibile, venga studiata in tutte le sue valenze tematiche e stilistiche; ad esempio, quanto c'è ancora, nei suoi versi laici e al contempo messianici, di eredità ottocentesca

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(carducciana, in particolare, e dei veristi tardo-ottocenteschi), quanto delle appassionate battaglie politiche (si veda, tra gli altri, il testo da lui scritto nella prigione di Lawrence, Massachusettes, come Introduzione al volume Sabotage del socialista Pouget (Emile Pouget 1913, 11-36) e quanto del coevo lavoro dei "romantici ribelli" gravitanti attorno a The Masses, la rivista socialistarivoluzionaria americana di quegli anni Dieci che sembra fare da controcanto alla più cauta e perbenista Poetry di Harriet Monroe. Tutti elementi e arricchimenti, questi, che influenzarono il suo lavoro di poeta-politico militante e i suoi versi grondanti di febbrile esaltazione, cosi come la troviamo in magmatici poemetti come New York and I, o nel celeberrimo The Walker, scritto in prigione nel 1912, ch'è a tutt'oggi considerato il suo capolavoro politico/pojetico, tradotto in tutte le maggiori lingue e inserito già all'altezza del 1919 nell'antologia Modern American Poetry a cura di Louis Untermeyer. E, sempre in questa ricerca archeologica, andrà infine recuperato il lavoro di Pascal (Pasquale) D'Angelo (1894-1932). Vorrei concludere riassumendo le pagine, praticamente le uniche tra quelle scritte in questi ultimi anni, che a questo poeta di origine abruzzese, emigrato in America nel 1910, hanno dedicato recentemente Jerre Mangione e Ben Morreale in La Storia (New York, Harper, 1992). Emigrato dall'Abruzzo all'età di sedici anni, Pasquale (Pascal) si trovò a fare i più svariati mestieri, vivendo in un carro merci e intanto imparando, da autodidatta, l'inglese con l'aiuto di un dizionarietto tascabile e sviluppando una forte passione poetica. Nel 'l9 abbandona il lavoro e si trasferisce a New York, deciso a fare solo lo scrittore. Ma gli inizi sono difficili, praticamente proibitivi; i suo scritti respinti sistematicamente sia da riviste americane sia da giornali italiani. Per risparmiare i pochi denari che gli restano va a vivere a Brooklyn dove prende in affitto una cameretta fatiscente, senza cucina e senza riscaldamento. Nei giorni più crudi d'inverno rimane a letto per tenersi caldo; da mangiare: un semplice pezzo di pane che, quando può, intinge in una minestra fredda, e, qualche volta, una banana annerita. Intanto frequenta assiduamente la biblioteca pubblica, mentre i suoi scritti continuano a essere respinti. La situazione si fa tragica. Un giorno - siamo nel gelido inverno del '22 - rientrando nella sua cameretta la trova invasa di ghiaccio e neve (alcuni ragazzi del vicinato hanno forzato la fìnestra portandogli via un paio di pantaloni e il po' di biancheria

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che possiede); carte, libri e letto bagnati d'acqua gelida. Pascal resiste anche a questa ennesima sciagura; manda infìne una lettera a Carl Van Doren, direttore di The Nation, un documento estremo e vibrante scritto con la forza della disperazione; una lettera che è essa stessa una poesia. Van Doren ne è profondamente colpito. Avviene il miracolo. Improvvisamente, grazie anche all'intervento del Van Doren, le poesie di Pascal D'Angelo vengono ospitate nelle migliori riviste; il suo nome e la sua incredibile storia prende a circolare sui giornali; il suo lavoro riconosciuto. Quando due anni dopo pubblica il volume autobiografico A Son of Italy (1924), con l'lntroduzione di Carl Van Doren, questo viene recensito sul New York Times Book Review. È il momento più alto della sua carriera di scrittore, ma Pascal, ingenuo e idealista com'è, non sa trarne gli opportuni vantaggi. Pochi anni dopo s'ammala e muore in estrema solitudine e povertà all'età di 38 anni (1932). Funerali e sepoltura vengono pagati da amici e ammiratori. Il suo nome e la sua opera cadono rapidamente nell'oblio. A tutt'oggi (sono trascorsi oltre sessant'anni dalla sua morte) i suoi scritti non sono ancora stati raccolti in un libro, il suo nome del tutto scomparso da qualsiasi elenco o manuale o indice o dizionario letterario americano. Mangione e Morreale nel loro libro citano un componimento, senza titolo, di Pascal D'Angelo. Non ne viene fornita la fonte. È possibile, però, che i due studiosi l'abbiano tratto da una di quelle riviste su cui D'Angelo tra il '22 e il '24 pubblicò le sue poesie. Mi fa piacere presentarlo in questo saggio, con la mia traduzione in italiano, in attesa che qualche studioso di letteratura americana si decida a recuperare tutti i testi di Pascal e affidarli a un libro compiuto. In the dark verdure of summer The railroad tracks are like the chords of a lyre gleaming across the dreaming valley, And the road crosses them like a flash of lightning. But the souls of many who speed like music on the melodious heart-strings of the valley, Are dim with storms; And the soul of a farm lad who plods, whistling, on the lightning road Is a bright blue sky. (Mangione 1992, 358-359)

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Nel verde cupo dell'estate i binari sono come le corde d'una cetra che luccicano oltre la sognante valle. E la strada li taglia come un baleno lampeggiante. Ma le anime dei tanti che s'affrettano, come musica che vaga tra le fibre del cuore della valle, sono incerte e piene di tempeste; E l'anima di un ragazzo di campagna che arranca fischiettando sulla strada che lampeggia è come un cielo d'azzurro luminoso. Il caso di Pascal d'Angelo, la cui storia sopra compendiata rischia di sembrare - me ne rendo conto - un film strappacuore o un romanzo lacrimoso da poeta scapigliato o crepuscolare, è, invece, drammaticamente esemplare e forse perfino "giustificabile" dati i tempi, le discriminazioni xenofobe e le tante difficoltà di vario genere che i nostri connazionali patirono all'inizio di questo secolo. Ciò che non è giustificabile è l'incredibile, lungo silenzio in cui scrittori come D'Angelo o Giovannitti sono sprofondati dopo la loro morte. La cosa è tanto più inammissibile se a dimenticarli sono anche gli stessi italo-americani d'oggi tra i quali - e questo è grave, ma per fortuna non sono molti - ci sono anche scrittori e intellettuali che amano qualificarsi come tali (cioè "italoamericani"). In questo caso ignoranza e silenzio diventano imbarazzanti e inaccettabili. Mi chiedo: è possibile che il silenzio sia dovuto "anche" a una certa volontà da parte di chi, raggiunto ormai benessere e prestigio sociale, vuole dimenticare scrittori che testimoniarono coi loro scritti la più squallida miseria dei nostri emigranti, e con essa le sofferenze, le speranze ("il Sol dell'Avvenire"), i sacrifici e il dolore che essi patirono: tutte cose che, insomma, è meglio dimenticare? Cancellarli dalla memoria significa, psicologicamente e ideologicamente, cancellare anche le pagine su cui furono scritte quelle sofferenze. Il compito di uno studioso di letteratura italoamericana non sarà, allora, innanzi tutto, proprio quello di stanare dall'oblio questi scrittori? E, prima di disquisire sulle tematiche e sugli aspetti "etnici", stilistici, interdisciplinari ed ermeneutici

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dell'attuale fenomenologia letteraria, non farà bene ad avviare un sistematico lavoro di archeologia (e giustizia) letteraria? Con il tempo in cui viviamo, un tempo che oggi ha fretta di bruciare se stesso, il passato non va seppellito, ma, se mai, riesaminato, soprattutto ove sia stato ingiustamente cancellato, non solo per salvarne la validità letteraria e la memoria ma perché queste possano arricchire (e non impoverire) il nostro volatile presente.

Luigi Fontanella

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Questa rassegna contiene, in ordine alfabetico, le fonti biobliografiche relative ai riferimenti critici posti in parentesi nel corso di questo saggio. Per una più ampia bibliografia sull'esperienza culturale italo-americana e americo-italiana, rimando a quelle contenuto nei volumi di A.J.Tamburri-P.A.GiordanoF.L.Gardaphé, From the Margin. Writings in Italian Americana, West Lafayette, Indiana: Purdue University Press, 1991, pp. 431-452 e di J.Mangione-B. Morreale, La Storia. Five Centuries of the Italian American Experience, New York: Harper Perennial, 1993, pp.463-494. Colgo l'occasione per ringraziare vivamente, per alcuni soccorsi bibliografici, gli amici Paolo Giordano, Michael Palma e Anthony J.Tamhurri. Questo studio è stato primamente pubblicato, con alcune varianti, in "Italica", vol. LXXV, n.2, 1998.

Ferdinando Alfonsi (a cura di), Poeti italo-americani, Carello (CZ), 1985. - Dictionary of Italian-American Poets, New York: Peter Lang,1989. W.Rose Benèt, The Readers Encyclopaedia, New York: Thomas Y. Crowell, 1948.

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Kay Boyle (a cura di), The Autobiography of Emanuel Carnevali, New York: Horizon Press, 1987. Linda Caetura, Growing Up Italian, New York: Morrow and Co., 1956. Emanuel Carnevali, Il primo dio, Milano: Adelphi, 1978. Peter Carravetta (a cura di e in coll. di Paolo Valesio), Poesaggio. Poeti italiani d'America, Treviso: Pagus Ed., 1993. - An Other Columbiad, in "Differentia", nn.6-7, Spring Autumn 1994. John Ciardi, Homeward to America, New York: Henry Holt and Company, 1940. Pascal D'Angelo, Son of Italy, New York: John Day Co., 1924. Flaminio Di Biagi, Emanuel Carnevali: un "American Poet", nel volume La letteratura dell 'emigrazione, a c. di JeanJacqucs Marchand, Torino: Ediz. Della Fondazione Giovanni Agnelli, 1991. Pietro Di Donato, Christ in Concrete, Indianapolis: Bobbs-Merrill Co., 1939. John Fante, Dago red, New York: Viking Press, 1940. -, Wait Until Spring, Bandini, Santa Barbara, California: Black Sparrow Press, 1983 (ma la prima ed. risale al 1938). Guido Fink, Le bugie colorate di Carnevali, in "Paragone", n.280, giugno 1973. Luigi Fontanella, Poeti espatriati negli Stati Uniti, nel volume La letteratura dell'emigrazione, a c. di Jean-Jacques Marchand, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1991. -, Da Tusiani a Tusiani, in "Otto/Novecento", nn.3-4, 1995; poi inserito nel volume a c. di P.Giordano sotto indicato. Fred L. GardaphĂŠ, From Oral Tradition to Written Word, nel volume From the Margin, a cura di A.J. Tamburri - P.A. Giordano - F.L. GardaphĂŠ, West Lafayette, Indiana: Purdue University Press, 1991. Dana Gioia, What is Italian-American Poetry?, in "Voices in Italian Americana", IV, n.2, 1993. Paolo Giordano (a cura di), Joseph Tusiani: Poet Translator Humanist, West Lafayene, Indiana: Bordighera Inc., 1994. Arturo Giovannitti Collected Poems, Chicago: E.Clemente, 1962; poi ristampato dalla Arno Press, N.Y., 1975. Daryl Hine (a cura di, insieme con Joseph Parisi), American Poetry Anthology, New York: Houghton & Mifflin, 1978. James D.Hart, Oxford Companion to American Literature, London-New York: Oxford University Press, 1941, 1948.

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Stanley Kunitz (a cura di e in coll. con Howard Hay Craft), Twentieth Century Authors, New York: H.W.Wilson, l942. Renato Lalli, Arturo Giovannitti, Campobasso, Editoriale Rufus, 1981. Jerre Mangione - Ben Morreale, La Storia.. Five Centuries of the Italian American Experience, New York: Harper Perennial, 1992. Jean-Jacques Marchand, La letteratura dell'emigrazione, Torino, Ed. Della Fondazione Giovanni Agnelli, 1991. Emile Pouget, Sabotage, Introduction by Arturo Giovannitti, Chicago: Charles H.Kerr & Company, 1913. Giuseppe Prezzolini, Elogio di un "trapiantato " molisano, bardo della libertà negli Stati Uniti, in "Il Tempo", 10 maggio 1964. Giose Rimanelli, Detroit Blues, Welland, Ontario: Ed. Soleil, 1996. Felix Stefanile, A Fig Tree in America, New Rochelle, New York: The Elizabeth Press, 1970. Anthony J. Tamburri, To Hyphenate or Not to Hyphenate, Montréal: Guernica Editions, 1991 . -, In (Re)cognition of the Italian/American Writer: Defnitions and Categories, in "Differentia", nn.6-7, Spring/Autumn, 1994. -, Italian/American Poetry, in Encyclopaedia of Italian American Culture, a cura di Frank Cavaioli e Salvatore La Gumina, New York: Garland, 1997. Biancamaria Tedeschini Lalli, La metapoesia di Arturo Giovannitti, nel volume di AA.VV. L 'America degli italiani, Roma: Bulzoni 1986. Joseph Tusiani, La parola difficile, Fasano: Schena, 1988 (in particolare i capitoli X, XII, e XVIII). Paolo Valesio, Lo scrittore fra i due mondi, nel volume Italian Literature in North America, a cura di John Picchione e Laura Pietropaolo, Biblioteca di Quaderni d'italianistica n.9, Ottawa: Canadian Society for Italian Studies, 1990. -, Introduction, Italian Poets in America, in "Gradiva", nn. 10-11, Stony Brook, New York: Gradiva Publications, 1993 . -, I fuochi della tribù, nel volume antologico Poesaggio, a cura di Peter Carravetta - Paolo Valesio, su menzionato. Robert Viscusi, Circles of the Cyclopes: Schemes of Recognition in Italian American Discourse, nel volume Italian Americans, a cura di Lydio Tomasi, New York: Center for Migration Studies, 1986.

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-, A Literature Considering Itself: The Allegory of Italian America, nel volume From the Margins, a c. di Tamburri-Giordano-GardaphĂŠ, su menzionato.

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