Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani - Night diaries

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a cura di Cam Lecce, Jörg Christoph Grünert

Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani atti di una mattinata di studio

Night Diaries Acquerelli libanesi 2004 - 2011 di Jörg Christoph Grünert Edizioni Tracce


1° Copertina: “Forum” di Jörg Christoph Grünert, rilievo in pietra per il grande Mandala del 1° World Social Forum, Porto Allegre, Brasile, 2001 2° Copertina: “Campo profughi palestinese di Shatila, Beirut - Libano, 2009”, fotogra�ia di Cam Lecce 3° Copertina: Night Diaries. epistrophé n.6/2008, 40x30 cm, di Jörg Christoph Grünert fotogra�ia di Gino Di Paolo

Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani atti di una mattinata di studio

Night Diaries

Acquerelli libanesi 2004 - 2011 di Jörg Christoph Grünert

a cura di Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert Realizzazione: Associazione Deposito Dei Segni Onlus Responsabile organizzativo: Cam Lecce Progettazione: Jörg Christoph Grünert Foto documentaristiche: Jörg Christoph Grünert, Cam Lecce, Sandra Mazzoni, Monalisa Sundbom Foto acquerelli “Night Diaries”: Gino Di Paolo Uf�icio Stampa: Cristina Mosca - Modiv snc 2011, Deposito Dei Segni Onlus con il patrocinio di:

L.R. 29/05 Promozione di una Cultura di Educazione alla Pace e ai Diritti Umani

Progetto gra�ico e impaginazione: Jörg Christoph Grünert Segreteria: Ida Evangelista

© Copyright 2011 Edizioni TRACCE Via Eugenia Ravasco, 54 65123 PESCARA Tel. e Fax 085/76658 www.tracce.org Proprietà letteraria riservata ISBN 978-88-7433-816-0

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Publish - San Giovanni Teatino per le Edizioni TRACCE

Stampato in Italia - Printed in Italy


Sommario 5 9 17 27

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Premessa

Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani atti di una mattinata di studio Cam Lecce, Jörg Christoph Grünert, La pedagogia teatrale ed artistica uno strumento resiliente a favore dei diritti umani ed educazione alla pace Raimondo Guarino, Teatro Sociale e Lavoro su di sé. Elementi di ri�lessione Ezio Sciarra, La vocazione del teatro sociale

Night Diaries Acquerelli libanesi 2004 - 2011 di Jörg Christoph Grünert Rolando Alfonso, Nuova Gestalt. Gli acquerelli libanesi di Jörg Grünert Jörg Christoph Grünert, Night Diaries. Acquerelli libanesi 2004 - 2011

Riferimenti fotogra�ici Sandra Mazzoni, Laboratorio Il Libro Vivente di Cam Lecce e Jörg Grünert, Janana Summer Encounter organizzato dal Centro Al-Jana/ARCPA, Libano, 2008 Cam Lecce, Campo profughi palestinese di Shatila, Beirut, Libano, 2009 Jörg Grünert, Laboratorio Costruzione e manipolazione dei burattini di Cam Lecce e Jörg Grünert, Janana Summer Encounter organizzato dal Centro Al-Jana/ARCPA, Libano, 2006 Sandra Mazzoni (1,2), Jörg Grünert (3,4), Laboratorio Il Libro Vivente di Cam Lecce e Jörg Grünert, Janana Summer Encounter organizzato dal Centro Al-Jana/ARCPA, Libano, 2008 Cam Lecce, laboratorio giocare con l’arte: l’autoritratto di Cam Lecce e Jörg Grünert, Centro Al-Jana, 2009, Campo profughi palestinese di Shatila, Beirut, Libano, 2009 Jörg Grünert, Laboratorio Il Corpo e la Maschera di Cam Lecce e Jörg Grünert, Janana Summer Encounter organizzato dal Centro Al-Jana/ARCPA, Libano, 2010 Jörg Grünert, Laboratorio E�iginie, Glauce e le altre di Cam Lecce e Jörg Grünert, promosso dal Ministero degli Affari Esteri Italiano/Uf�icio della Cooperazione Italiana a Beirut, Libano, 2009 Jörg Grünert (1), Sandra Mazzoni (2), Cam Lecce (3), Monalisa Sundbom (4), Laboratori Il Libro Vivente, Il Corpo e la Maschera, Costruzione e manipolazione dei burattini di Cam Lecce e Jörg Grünert, 2008, 2010, 2011 Gino Di Paolo, Night Diaries. Acquarelli libanesi 2004 - 2011, di Jörg Christoph Grünert



Premessa Questa pubblicazione documenta le attività del progetto Il Teatro Sociale e l’Educazione alla Pace e ai Diritti Umani, svoltosi presso il Museo delle Genti D’Abruzzo, Pescara - Italia, 18 dicembre - 27 dicembre 2011 a cura dell’ Associazione Deposito Dei Segni Onlus. Le attività articolate in due momenti prevedevano una mattinata di studio Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani, e l’inaugurazione della mostra Diari della Notte. Nella mattinata di studio e testimonianza sul teatro sociale sono intervenuti: il Prof. Raimondo Guarino, ordinario di Storia del Teatro, Facoltà di Lettere e Filoso�ia, Dipartimento Comunicazione e Spettacolo Università Roma Tre: Il concetto di lavoro su di sé da Stanislavskij a Grotowski come premessa pratica e di pensiero del teatro detto sociale. Il Prof. Ezio Sciarra, ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali, Facoltà di Scienze Sociali Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara: Il teatro sociale e le sue applicazioni tra Goffman e Maslow. Gli artisti Cam Lecce e Jörg Christoph Grünert, esperti di pedagogia teatrale ed artistica, Associazione Deposito Dei Segni Onlus: La pedagogia teatrale ed artistica uno strumento resiliente a favore dei diritti umani ed educazione alla pace. La mostra Diari della Notte, attraverso immagini dall’archivio fotogra�ico, con fotogra�ie di Jörg Christoph Grünert, Cam Lecce, Sandra Mazzoni e Monalisa Sundbom, proiezione del video-documento di Jörg C. Grünert: Laboratori di pedagogia teatrale ed artistica con i profughi palestinesi in Libano, testimoniava l’attività di formazione realizzata dal Deposito Dei Segni Onlus in Libano tra il 2004 e il 2011, e in�ine Night Diaries, da cui il titolo della mostra, una collezione dagli acquarelli libanesi dell’artista Jörg Christoph Grünert. 5



Teatro come Corpo Sociale e Orizzonte di Diritti Umani atti di una mattinata di studio



La pedagogia teatrale ed artistica uno strumento resiliente a favore dei diritti umani ed educazione alla pace di Jörg Grünert e Cam Lecce ... «every impossible thing I can think of is possible, everything I think already exists. everything exists in any possibility» ... James Lee Byars

Osama, aveva 17 anni ed era seduto di fronte a noi, nel circle time che Moataz1 aveva organizzato, mentre raccontava con uno sguardo perso nel vuoto dei suoi compagni saltati in aria nell’ ambulanza della protezione civile durante la guerra appena conclusa. Lui insieme con altri volontari su due ambulanze erano andati a soccorrere dei feriti dopo un bombardamento dell’aviazione israeliana nel sud del Libano, appena dopo aver caricato i feriti, mentre si accingevano a ripartire, l’ambulanza accanto alla sua fù colpita da un missile e uccise i suoi amici. Il cerchio era stato predisposto af�inché chiunque potesse raccontare la propria esperienza durante la guerra. Il modo di raccontare di Osama ci aveva molto colpito perché evinceva uno stato di grande shock, e nonostante Moataz insistesse nel chiedergli di esprimere i suoi stati d’animo, lui non riusciva a raccontarsi e ripeteva solo l’accaduto. Una tristezza indicibile pian piano cadde su di noi e un nodo chiuse la nostra gola, sconquassando la nostra emotività. Eravamo in Libano nel settembre 2006, la guerra era �inita da 15 giorni, e il Centro Al Jana/Arcpa di Beirut, nonostante le dif�icoltà, in extremis e nell’urgenza era riuscito ad organizzare il Janana Summer Camp, convinto della necessità di non saltare l’appuntamento annuale del meeting internazionale di scambi, pratiche e formazione sui linguaggi artistici ed olistici, così aveva chiesto a noi operatori internazionali di dare disponibilità ad essere presenti a Brumana per attivare il campus residenziale al quale partecipavano circa 150 persone. Il mattino seguente Moa’taz Dajani è scultore, pedagogo, direttore artistico e coordinatore del Centro Al Jana/Arcpa (Arab Resource Center for Popular Arts) di Beirut, Libano, http://www.aljana.org, Centro con cui collaboriamo dal 2004.

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Osama era tra i partecipanti al nostro workshop sulla tecnica di costruzione, manipolazione e drammatizzazione dei burattini. Osama con dedizione e solerzia iniziò a costruire il suo personaggio-burattino, un soldato israeliano ci disse. Mentre lavorava era ombrato, taciturno, distante, atomizzato, ma si applicava con ardore, costruiva il suo burattino con dovizia di particolari, chiedeva ed imparava a realizzare con precisione i caratteri somatici per imprimere l’espressione al volto, tagliava la stoffa e cuciva il buratto (il costume del burattino) usando ago e �ilo con disinvoltura, predisponeva la lana per applicare i capelli, ritagliava le sagome delle mani dal cartoncino, etc, �ino al giorno in cui Osama giunse al punto in cui, il suo burattino gli richiese di essere animato per esistere come personaggio nella storia inventata collettivamente, doveva divenire lui in prima persona il soldato israeliano per dare vita al suo burattino/personaggio. Osama ci guardò incredulo ed ebbe una istintiva reazione di ri�iuto netta e decisa, non poteva diventare, neanche per �inta colui che rappresentava il male assoluto. Non chiedevamo di �ingere di essere ma di diventare, ossia di passare attraverso l’essere altro da sé rimanendo se stesso, e il burattino è sempre un favoloso “artista” pronto ad assorbire qualsiasi proiezione senza ferire ed esporre il proprio “demiurgo”. Per un attimo abbiamo temuto che volesse abbandonare il workshop, ma poi, pensiamo, che per la “grammatica” di empatia profusa e creatasi nel gruppo, Osama con un atto di �iducia si lasciò andare ad animare il suo terri�icante personaggio nei gesti, con la voce, con le azioni. Un fragore di applausi salutò la sua esibizione ... lui esausto, madido di sudore, terreo in volto chiese di andare a dormire. Dormì tutto il pomeriggio oltre alla notte, e il giorno seguente, per la prima volta dopo tanti giorni di lavoro insieme, Osama si avvicinò a noi come a degli amici. Nel frattempo Jörg aveva preparato fogli grandi di carta, colori a tempera, pennelli e li aveva sistemati nella stanza accanto al laboratorio. Osama per un intero giorno sostò nella stanza ricoprendo quei fogli con colori e con il gesto pittorico della cancellazione, poi dovendo andar via prima del previsto (prima della �ine del laboratorio), timidamente ci ringraziò e ci salutò con un sorriso (�inalmente). 10


Potevamo far iniziare questa nostra ri�lessione dalle conclusioni dei testi a seguire, quelli di Raimondo Guarino, e di Ezio Sciarra, i cui contributi hanno puntualizzato il senso, e dato necessità, al nostro lavoro di pedagogia teatrale ed artistica in Libano e non solo, in quanto la nostra attività si esplica anche qui in Italia nelle scuole di ogni ordine e grado e in differenti luoghi ed ambiti. Sentivamo, e sentiamo, urgente la necessità di insistere sullo scarto di riconoscibilità del signi�icante, che si cela nelle immagini fotogra�iche e video (presentati nella mostra), riguardante le attività e il contesto in cui accadono le pratiche vissute contemporaneamente da noi trainer e dai partecipanti. L’urgenza è quella di partecipare ed affermare “l’invisibile”, ciò che accade durante lo svolgimento di queste pratiche, a cui Raimondo Guarino ed Ezio Sciarra hanno dato voce. Abbiamo voluto cominciare da un esempio per permetterci e tentare una ri�lessione sull’orizzonte del nostro “fare” laboratorio. Gli esempi e le descrizioni posseggono il valore della concretezza, possono fungere anche da paradigmi, ma possono anche togliere l’attenzione dalla temperie della questione, indirizzare lo sguardo su presupposizioni di entità differenti. È ovvio che le nostre attività di formatori, facilitatori, e/o trainer si inseriscono e promuovono programmi di cooperazione, sviluppo ed empowerment, per sostenere i diritti umani (il diritto dell’infanzia all’innocenza che nella nostra esperienza abbiamo rilevato essere sempre leso ovunque), l’emersione dalla miseria, dalla povertà, dalla marginalizzazione psico-socio-economica, da gravi traumi e gravi forme di violenza. Programmi e misure in cui la dimensione del “laboratorio” è riconosciuta ed acclamata come “strumento” per la gestione del con�litto, la prevenzione del disagio sociale, lo sviluppo umano. I laboratori di pedagogia teatrale ed artistica, così come li intendiamo e li pratichiamo noi, sono un accadimento particolare nel panorama delle possibili “oggettivazioni artistiche”, poiché i partecipanti non producono “risultati” come spettacoli, opere, etc.(che comunque quasi sempre vengono prodotti, presentati, rappresentati e talvolta sono anche necessari da farsi), ma quello che “producono” 11


è l’esperienza che vivono coloro che ne prendono parte, la cui oggettivazione è la processualità del percorso esperito nel laboratorio, il cui “risultato” o “prodotto” che si realizza resta all’interno del laboratorio e riguarda soltanto i partecipanti stessi. Da qui la multidimensionalità dei processi di pedagogia teatrale ed artistica che li rendono adattabili ad una varietà di richieste a cui rispondono per porsi in essere e rendere omaggio alla sua intrinseca passione per l’essere vivente nella difesa e rivelazione della sua dignità fragile. L’ambito del sociale in cui le nostre attività sono per la maggior parte realizzate, diventa una dimensione di elezione poiché nella sua processualità il laboratorio riesce a contemplare obiettivi e �inalità riferiti agli indicatori pedagogici, psico-sociali, sociologici: la scoperta delle risorse personali e sociali della persona, autostima, autonomia, riconoscimento dei legami emotivi signi�icativi, buon umore, empatia per le reti sociali di appartenenza, condivisione per dare un senso al dolore, alla solitudine, alle dif�icoltà, per diminuire l’aspetto negativo del contingente esistenziale sostenendo soluzioni creative davanti alla sofferenza e ai distacchi, e in�ine, e non ultimo, anche di importante formazione e sensibilizzazione artistica. Poiché nel suo porsi in essere le attività svolte, attraverso giochi, esercizi, improvvisazioni, etc., entrano nello schema corporeo della persona, assumono una “grammatica” che scava e va oltre. Il laboratorio ha sicuramente effetto terapeutico in senso lato, l’esempio di Osama descrive la possibilità del laboratorio di promuovere le capacità resilienti 2 delle persone e delle collettività sottoposte a grandi traumi e stress derivanti sia da multi-problematicità del vivere quotidiano, o a seguito di guerre, catastro�i naturali, eventi luttuosi improvvisi, disagi e costrizioni, ed è anche “misurabile” attraverso i monitoraggi e le relazioni, da noi accumulati nel tempo, che in ambito sociale parlano di questo. Comunque pensiamo che non sia il suo �ine ultimo. Pensare al laboratorio con funzioni utilitaristiche all’interno della società, o dal punto di vista delle programmazioni sociali, è fuorviante e toglie alla pratica del laboratorio la sua possibilità di essere visione nel presente. Il 2

B. Cyrulnik, E.Malaguti, Costruire la resilienza,Trento, Erickson, 2005

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laboratorio è luogo della formazione dell’essere umano, e la sua energia può essere considerata principio individuationis. Il laboratorio dispiega il valore della creatività intrinseca all’anthropos e nello stesso momento la sostiene. Il laboratorio come visione artistica pratica la visione di un altro approccio alla formazione tot court della persona e delle comunità, pre�igura intese altre riguarda la biosfera dell’essere umano. Sappiamo che noi siamo i nostri organi, sappiamo che senza il nostro essere bios non possiamo esistere, nonostante questa ineluttabile verità troppo spesso nella prassi della vita quotidiana lo scordiamo facilmente e volontariamente sotto la pressione della normalità. Contemporaneamente si può leggere il laboratorio come estrema autodifesa dell’arte al confronto con la normalità della società, ossia l’arte che difende l’arte diventa la difesa dell’essere umano da se stesso, dalle sue forme (o meglio deformazioni) organizzate per sostenere lo status quo socialmente utile alla normalità del presente. La pratica del laboratorio elude il quotidiano, il quotidiano delle convinzioni e convenzioni, delle irriggimentazioni dei comportamenti e delle corazze muscolari ed è in grado di destrutturarle. I vissuti possono rivisitarsi liberi dai giudizi, costrizioni e paure, rinvenire nel proprio schema corporeo la dimensione di corpo/mente non scisso, aperto alle suggestioni delle intelligenze multiple che lo presiedono. Naturalmente tutto quanto appena affermato è una posizione guidata dalla passione che abbiamo nei confronti della pratica del laboratorio, quindi è una posizione parziale, che si muove in bilico perché implica i termini arte e vita nello stesso istante. Ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che la pratica del laboratorio è critica e crisi dell’individuo formato e della processualità degli iter delle formazioni. Perchè si dovrebbe altrimenti intraprenderlo? La sua dimensione è quella del gioco, e come ogni gioco si gioca seriamente, la sua posizione è quella del non-potere, non si afferma e non si impone, solo si fa. 13





Teatro Sociale e Lavoro su di sé. Elementi di ri�lessione di Raimondo Guarino L’attore tra mestiere e persona Nel novembre del 1979, in occasione del ventennale della fondazione del Teatr Laboratorium, Jerzy Grotowski tenne a Wrocław una conferenza tradotta e pubblicata su un numero di «Sipario» del 1980 con il titolo Ipotesi di lavoro1. Nell’intervento Grotowski descrive l’uomo contemporaneo come uomo-medusa. «Un essere che si lascia portare e lacerare da tendenze contraddittorie. Il suo volto, i lineamenti, le rughe, la �isiologia, portano su di sé i segni di un tale stato di cose. L’uomo-medusa: trabocca, ma brucia a toccarlo». Grotowski pone una domanda che è, nella metafora zoologica, concreta e nello stesso tempo paradossale: come innestare lo scheletro nella medusa? I nodi della risposta sono: lavoro su sé stessi e stretto praticismo. «Praticismo» è, anche nel testo polacco una parola singolare e rara, ma comunque chiara. Grotowski si rivolgeva nello stesso tempo all’esperienza di teatro che considerava indispensabile (l’insegnamento di Stanislavskij) e all’universo di pratiche e situazioni che andava creando, in quegli anni, oltre la dimensione professionale dello spettacolo (il «parateatro» e precisamente la fase del «teatro delle fonti»). La spiegazione del concetto è chiara nella sua portata: «Il lavoro su sé stessi nel senso in cui ne parlava Stanislavskij, ma non con applicazioni direttamente concernenti l’attore, oppure non solo o non principalmente con tali applicazioni. Per noi – al Teatr Laboratorium – il lavoro su sé stessi deve avere per forza di cose un carattere organico, scaturire dall’azione con l’essere vivo. Il lavoro su stessi può 1

In «Sipario», n. 404, 1980, pp. 42-49

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essere il praticare la cultura con sé stessi. Mi avvicino al punto che de�inirei “ecologia dell’uomo”». Grotowski evidentemente, perseguendo il suo rapporto costante con Stanislavskij, intendeva dilatarne e protrarne le implicazioni oltre i con�ini dei presupposti fondamentali della sua esperienza teatrale. Intendeva, per sintetizzare una questione di rilievo centrale nel teatro contemporaneo, preservarli e portarli oltre l’orizzonte del mestiere di attore. Lo spostamento di campo era possibile in un senso coerente con le basi dell’esperienza di Stanislavskij. Il concetto e la pratica del «lavoro dell’attore su sé stesso», come era intitolato il primo volume del Lavoro dell’attore, uscito postumo nel 1938 (l’anno stesso della morte di Stanislavskij), traevano origine da uno spostamento del mestiere verso la persona. Questo movimento era stato mostrato e argomentato da Stanislavskij nelle memorie di La mia vita nell’arte, pubblicate nel 1924, precisamente dove si sostiene la divaricazione tra condizione dell’attore e condizione creativa. La condizione creativa esigeva un riscatto dal mestiere. Il lavoro sulla tecnica psichica dell’immaginazione e sulle azioni �isiche, che doveva creare in scena l’«azione reale», passava, secondo Stanislavskij, per l’affermazione e la scoperta dell’«io sono» che ispirava la de�inizione e le risorse determinanti dell’uomo-attore2. Questi presupposti, decisivi nella rivoluzione teatrale del XX secolo, e nel quadro di un bilancio provvisorio delle attività del Teatr Laboratorium, Grotowski li ascriveva all’«ecologia dell’uomo», alla trasformazione del rapporto tra uomo, natura e comunità. L’intervento di Grotowski del 1979 si chiudeva con una laconica dichiarazione d’intenti: «Nell’epoca della medusa: lo stretto praticismo, e attraverso di esso il lavoro su di sé, con gli altri» Necessario qui il riferimento a F. Ruf�ini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Bari. Laterza, 2003 2

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L’azione consapevole Il concetto di lavoro su di sé af�iora per altre vie e per altre ragioni nella scrittura e nel pensiero di René Daumal (19081944). Nella vita e nel pensiero di Daumal c’è un versante di attenzione peculiare al teatro. Daumal è stato nei primi anni Trenta consapevole del lavoro di Artaud, e suo interlocutore nella densità dei contatti che preludono e presiedono alla stesura dei testi decisivi poi raccolti in Il teatro e il suo doppio. Si tratta di una connessione sviscerata nell’analisi di Franco Ruf�ini su I teatri di Artaud3. Il dialogo di Artaud con Daumal avrebbe dovuto produrre, nel 1931, una comune déclaration sulla «degenerazione organica» del teatro contemporaneo. L’ipotesi non ebbe seguito. Daumal aveva attinto negli anni, studiando la grammatica e la poesia del sanscrito, al rapporto tra conoscenza e mutamento del sé. Credette di vederne una rappresentazione vivente nelle danze di Uday Shankar, nel 1931-32. La sostanza della ricerca di Daumal non è il teatro ma la sua condizione, il nervo che lo percorre e lo anima: l’azione consapevole. L’azione consapevole, momento della coscienza pratica, è il territorio, l’esperienza centrale che richiama il ridestarsi dell’essenza nella persona, qualcosa che ritornerà, per tradurlo nella ri�lessione di Grotowski, nella nozione di «via negativa». E che richiama i presupposti dell’ «azione reale» nel linguaggio di Stanislavskij. Daumal, come Artaud, era un cercatore di verità, e come Artaud ricercava una verità pratica. Nella �iloso�ia, come nella lingua poetica. Artaud meditava e sperimentava contemporaneamente la «verità limitata» del teatro. Lo scrive, quasi rivendicando la portata speci�ica della ricerca della verità nel teatro come delimitazione necessaria, in una lettera a André Rolland de Renéville del luglio 1932, pochi giorni dopo una discussione con Paulhan, Daumal e lo stesso Rolland de Renéville de�inita «seminario sulla verità». 3

F. Ruf�ini, I teatri di Artaud, Bologna, Il Mulino, 1996

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«Cerco di trovare e �issare la verità limitata del teatro. Si tratta, attraverso l’espulsione organica dei valori inerti del mondo contemporaneo, di ottenere un’affermazione della verità teatrale. L’apparizione della verità teatrale non si può fare che attraverso gli ostacoli concreti e organici che si oppongono alla situazione esatta e reale del teatro, in questo momento preciso, nella vita e nelle menti» (A. Artaud4). Artaud cerca una via nello stesso tempo pratica e meta�isica alla rigenerazione del teatro. Nell’elemento del teatro c’è un’evidenza che soverchia le oscillazioni del pensiero e le aporie del linguaggio. Ma quell’evidenza è fatta di azioni reali. Negli stessi anni, tra il 1930 e il 1932, Daumal è attratto dall’interrogazione radicale sullo «studio di noi stessi» legata all’insegnamento di Gurdjieff, impersonato a Parigi da Alexandre e Jeanne de Salzmann. Nel febbraio del 1934 Daumal assiste a una dimostrazione della ginnastica ritmica di Emile Jaques-Dalcroze. Dal 1934 partecipa direttamente all’atelier di Jeanne de Salzmann sul movimento, a Evian e poi a Ginevra. Non c’è qui, come si scrive in questi casi, lo spazio per affrontare o riprendere il senso dell’eredità della ricerca sulla ginnastica ritmica in orizzonti diversi da quelli musicali, pedagogici, teatrali in cui aveva già segnato varie e importanti esperienze europee. Ma la questione centrale è un’altra, e riguarda il terreno e l’esito dell’incontro di Daumal con i Salzmann, nell’ultima fase della sua vita, tra il 1930-31 e il 1944 (Alexandre muore nel 1934): il cammino verso l’essenza, o la verità, attraverso la sperimentazione sull’azione �isica. Le condizioni che nell’insegnamento di Gurdjieff signi�icano la rottura della �inzione sociale, nella scoperta di una realtà potenziata dell’io, si esprimono in termini af�ini ai principi che per Stanislavskij presiedono all’azione reale nel teatro. Gli esperimenti sul movimento si muovono, in queste of�icine della metamorfosi umana, oltre il teatro, alla ricerca dello 4

A. Artaud, Oeuvres complètes, V, Paris, Gallimard, 1979, pp. 82-84

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spazio di determinazione dell’io, dove la meta è «comandare secondo una giusta economia, per un miglior rendimento possibile, le risorse, le riserve, gli usi e le trasformazioni della propria energia; muoversi verso un obiettivo; sapere ciò che si vuole fare, farlo, volere ciò che si fa».5 L’esperienza pratica di Daumal nell’educazione del movimento coinvolge la trasformazione radicale delle costanti psico�isiche del pensiero e del fare che si attribuiscono alla dimensione passiva, meccanica, inconsapevole della «vita quotidiana». «Se, anche con una sola esperienza, si capisce com’è dif�icile fare coscientemente e semplicemente la minima azione, una volta che ci si privi di abitudini meccaniche e �inzioni, allora la vista di un uomo che cerca di mettere un piede davanti all’altro o sentire un’andatura propria, o di dire ciò che pensa, diventa più drammatica che comica, o piuttosto non lo si vede più, si ha già troppo da fare con sé stessi».6 La meta della ricerca è l’essenza, l’ambito del lavoro una dimensione limitata e personale ma assoluta. «La differenza tra l’essenza e la personalità. Bisogna ritrovare il gusto di questa differenza. L’essenza è la natura con la quale siamo venuti al mondo. La personalità viene da tutto quanto si è imparato, acquisito, ed è venuto a incidersi sulla sostanza dei centri».7 Il lavoro sull’azione consapevole con Jeanne de Salzmann diventa con gli anni per Daumal, con l’approfondimento dello studio della letteratura e della �iloso�ia indiana, con il tentativo di guarire dalla tubercolosi che gli sarà fatale, una ragione di R. Daumal, Il movimento nell’educazione integrale dell’uomo, 1934, in R. Daumal. Essais et notes. I. L’évidence absurde, Paris, Gallimard, 1972, p. 280 6 R. Daumal, Lettera a Emile Dermenghem, agosto 1934, in Correspondance, III, Paris, Gallimard, 1996, p. 49-50 7 R. Daumal, Il lavoro su di sé, Lettere a Geneviève e Louis Lief, trad. it. Milano, Adelphi, 1998, p. 55 5

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vita e un itinerario di salvezza. «Cerco di fare sempre meglio gli esercizi come lei me lo chiede, “come un servizio” e “come s’impara un mestiere”. Il lavoro diviene sempre più un lavoro “su di me”, anziché un lavoro «per me». […] Sento in modo nettissimo che “io sono” è il contrario di “io, io”...» 8 L’uso della parola lavoro da parte di Stanislavskij, in ambito sovietico, nella tradizione del Teatro d’Arte e nell’elaborazione conclusiva del suo libro, e l’uso della parola lavoro in Daumal, sono evidentemente il prodotto di matrici eterogenee. Il concetto di lavoro su di sé è in Daumal la traduzione e la sintesi morale dell’esperienza sull’azione consapevole, sui meccanismi del movimento cosciente. E il fulcro della ricerca sull’essenza. La convergenza con l’af�iorare e il ritorno del concetto, e la sua dilatazione, nella tradizione di Stanislavskij a Grotowski, sta nell’indicazione del territorio in cui l’azione è l’elemento oggettivo della relazione, lo strumento del ridestarsi dell’essenza nella persona, e d’altra parte ciò che salva l’essenziale, in quanto implica l’essenza del sé, nel passaggio dell’esperienza del teatro nelle relazioni umane. Il rapporto tra creazione dell’identità e rigenerazione dell’azione (intesa come azione �isica ed espressiva) illumina il tessuto connettivo del sociale proprio del teatro. Naturalmente, ri�lettendo su Grotowski, si dovrebbe ragionare su come l’uscita dal teatro, o l’uscita dalla dimensione di spettacolo del teatro, che ne segna l’itinerario dopo Apocalypsis cum �iguris, implichi l’adozione e la ride�inizione del lavoro su di sé con gli altri, come salvezza e rigenerazione del lavoro in teatro. Ma Grotowski, nel 1979, pensava a un’ipotesi più vasta. Pensava in termini di «ecologia dell’uomo». R. Daumal, Lettera a Jeanne de Salzmann, agosto 1943, in Il lavoro su di sé, p. 118 8

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“L’attore, quest’uomo che vuol essere conosciuto con precisione come persona” L’excursus sulle accezioni del lavoro su di sé consente alcune rapide considerazioni conclusive sull’uso e l’abuso delle parole. Quando il teatro viene chiamato in causa dalla sociologia come il termine di paragone di un sistema di ruoli, di identità che si acquisiscono e si �issano, di modelli d’interazione, è un metafora morta. Diventa un alimento vivo quando, invece di de�inire convenzioni, circoscrive e attiva la sfera delle contraddizioni e dei con�litti, la rende evidente e rappresentabile nella modi�icazione del sé, nel lavoro sul corpo-mente. La direzione di Grotowski, alla �ine degli anni Settanta, nel provvisorio bilancio delle prime fasi del lavoro sulla dimensione detta del «parateatro», era esplicita: continuare ad agire concretamente (secondo la linea dello «stretto praticismo») in opposizione alla corrente, creare antidoti all’ «epoca della medusa». D’altra parte, per il teatro che si orienta verso la de�inizione di «teatro sociale», si pro�ila la distorsione funzionale, strumentale del lavoro sul sé: la sua adozione terapeutica, la sua funzione di adattamento nella situazione. L’antidoto della funzione è la costante attenzione operativa sulle contraddizioni della persona, sul con�litto di persona e mondo. Vanno ricordate qui le considerazioni di Claudio Meldolesi sulla singolarità dell’uomo-attore. Sono pensieri che offrono una sponda necessaria di ri�lessione perché sintetizzano, sia nelle implicazioni metodologiche e storiogra�iche di lungo periodo, sia nell’osservazione partecipe di margini vitali come il teatro in carcere, un’attenzione costante e critica per il rapporto tra teatro e sociologia. Nel saggio La microsocietà degli attori: una storia di tre secoli e più9, Meldolesi scrive: «L’attore è un individuo notevole sia in scena che nella vita, sia che si dedichi alle sue relazioni private, sia che corra per il C. Meldolesi, La microsocietà degli attori: una storia di tre secoli e più, apparso in «Inchiesta», 14, 1984, pp.102-111 9

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mondo a esibire i suoi fantasmi: nessuno studio sull’attore può eludere lo spazio biogra�ico. Per�ino la sua socializzazione, la sua appartenenza alla microsocietà – all’opposto che nelle società normali - gli impone di restar fedele a una singolarità di comportamento; la singolarità è l’elemento dell’attore» (p. 107). Il perno intorno a cui ruota il saggio sulla microsocietà non è la funzione né il signi�icato sociale del teatro come settore d’interesse e veri�ica per lo storico o il sociologo, ma il con�litto bifronte, costellato di eccezioni e rivolte, tra la comunità degli attori, i quadri sociali e culturali in cui opera, e tra gli individui della microsocietà e il loro mondo a parte. «L’attore, quest’uomo che vuole essere conosciuto con precisione come persona, e come idea di persona, chiede che gli si dedichi uno sguardo tutto suo, radente i fenomeni. […] Il sociale determina l’individuale, ma anche l’individuale non è inin�luente. L’attore, individuo per eccellenza, ha un punto di forza che contrasta le sue servitù: mentre dall’individuale si può risalire al collettivo per coglierne nuove profondità, il collettivo non può che spiegare i contorni dell’individuale». Nel lungo saggio metodologico Ai con�ini del teatro e della sociologia10 Meldolesi riprese il tema frontalmente: «L’espressione del teatro, nella storia, si è sempre misurata col sociale per il tramite dell’individuale» (p. 135). Alla luce delle esperienze degli anni Settanta, il teatro diventa laboratorio in quanto terreno di «delimitati incontri interumani» (p. 132). Riemerge qui, prepotentemente, collocata nelle mura, nelle reclusioni e nei ghetti che rivendicano la liberazione, l’idea della necessaria «verità limitata» che Artaud conferiva al teatro, all’epoca dei dialoghi con Daumal. In questa limitazione si riconosce la concentrata potenza dell’azione che smaschera l’ «io sono» e lo trasforma. C. Meldolesi, Ai con�ini del teatro e della sociologia in «Teatro e Storia», 1, 1986, pp. 77-151 10

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Nella sintesi ulteriore del saggio su Immaginazione contro emarginazione. L’esperienza italiana del teatro in carcere11 è scritto che «nessuna forma di comunicazione artistica si presta, come quella teatrale, alla riattivazione dell’individuo nel gruppo sociale, soccorrendolo nel passare dall’ombra alla luce [c.vo nel testo]. Il teatro è luogo di luce, dove l’individuo acquista diritto d’attenzione anche per un piccolo gesto o per un segno di desiderio». Specialmente nella reclusione, il teatro è «rivelazione dell’individuo nel collettivo». Il vero paradosso dell’uomo di teatro nelle esperienze determinanti del Novecento è che la sua capacità di creare e difendere comunità lo apre al mondo nel segno di una domanda radicale su di sé. Gli scenari e le maschere, le circostanze, i frames e le situazioni, gli strumenti della distanza e della trasformazione, gli servono non per una conferma o una variazione dei ruoli, ma per la creazione del sé in base alla reinvenzione della dimensione materiale delle azioni e delle relazioni. La competenza e l’esperienza dell’operatore che forma, e che forma formatori, nel «teatro sociale» devono essere pensate, necessariamente, come eredità della crisi che ha segnato le ragioni delle comunità teatrali del secolo scorso. Non in quanto cantieri di teatro, ma in quanto atmosfere di disciplina e mutamento, proiettate nel con�litto tra intenzione creativa della persona, mercati dell’arte e lotta per la sopravvivenza.

*** Che il teatro prenda e ridoni vita alla sfera del sociale è un’ovvietà. L’essenziale è chiedersi come chi viene dal teatro sia in grado di riassorbire questo �lusso, questa forza generativa per salvare la vita del teatro. E per difendere il teatro dalla pressione della normalità. Per mobilitare forze umane, rendendo sostenibile il con�litto.

C. Meldolesi, Immaginazione contro emarginazione. L’esperienza italiana del teatro in carcere, in «Teatro e Storia», 16, 1994, pp. 41-68 11

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La vocazione del teatro sociale di Ezio Sciarra Il teatro sociale ha una sua vocazione salvi�ica. Serve alla guarigione, alla salvezza, attraverso la rappresentazione vissuta in una �inzione. Come è possibile che attraverso la �inzione, la maschera che si indossa, si possa prendere la via della cura, della salvezza? Evidentemente perché esiste un legame profondo tra il teatro e la vita sociale, quello stesso legame per cui il teatro classico inaugurava in Grecia, nell’interpretazione di Aristotele, la funzione sublimativa, nella rappresentazione pubblica dei drammi sociali e umani. Ma oggi siamo più consapevoli di una funzione ancor più profonda di quella classica che il teatro esercita, oltre quindi quella sublimativa, pedagogica, di orientamento etico ed estetico, a illuminare e superare anomie e contraddizioni sociali. È quella funzione che Guarino, da �ine storico del teatro, rinviene nelle pratiche e nelle teorizzazioni dei grandi maestri delle scuole contemporanee come Artaud1 e Grotowski2 che interpretano il teatro come lavoro su di sé, sul movimento del proprio corpo vissuto, intenzionalmente diretto ad una simulazione in cui il teatro salvaguarda la sua speci�icità di �inzione, ma di �inzione “autentica”. Una ricerca di autenticità che già sperimentava il sociodramma di Moreno3. L’autentica speci�icità e vocazione del teatro consiste nell’indossare una maschera per giocare a diventare altro da sé, ma nel fare questo invece di essere espropriato delle proprie identità, si gioca la �inzione per ritrovare ed esprimere una identità più autentica e profonda, per ritrovare l’ “io sono”, oltre l’ “io-io” che di noi è stato fatto dalla natura come dalla società. 1 2 3

A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968 J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970 J.L. Moreno, Principi di sociometria, Milano, 1964

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In questo senso si può parlare del problema del teatro come problema “dell’ecologia dell’uomo”: si deve indossare la �inzione per uscire da ciò che di �into è stato fatto di noi, per ritrovare quindi l’armonia nascosta, da cui emerge la persona, la natura umana4. Letteralmente la persona è la maschera, e l’uomo si maschera per ritrovarsi persona. É questo il segreto terapeutico del teatro, perché scopre diagnosticamente e sana pragmaticamente, con l’esercizio di una effettiva simulazione vissuta, la frattura che si è inserita tra me e me, per riscoprire ciò che io sono, oltre quella frattura di inautentiche costruzioni fatte su di me. È una funzione terapeutica più profonda di ogni psicologia o psicoterapia, che sono pur sempre analisi e interventi dall’esterno, mentre il teatro opera sul corpo vissuto, oltre ogni scissione interno-esterno. Si è invece molto più vicini all’antropologia esistenziale per cui la persona è sempre una connessione costituente-costituito. Da un lato il soggetto è intenzionalità cosciente e libera, oltre ogni inerzia della natura e della società che lo costruisce. Dall’altro il soggetto umano è il prodotto non voluto di strati�icazioni della natura e della società che lo formano, in una tensione irriducibile della coscienza intenzionante a superare l’alienazione di ciò che lo ha costituito, attraverso un suo progetto costituente di libertà tendenziale illimitata. Proprio per questo la persona è un nesso irrisolto e aperto costituente-costituito, alla ricerca permanente dell’autenticità della propria libera coscienza intenzionale, oltre l’alienazione dei condizionamenti naturali e sociali che lo hanno formato. Su questa piattaforma di antropologia esistenziale, che rinvia a Sartre5 in particolare, che non a caso fu anche Cfr. E.Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, Bompiani, Milano, 1974 5 J.P.Sartre, Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano, 1963, su cui cfr. E.Sciarra, Il metodo dell’antropologia storica di Sartre, Edizioni Scienti�iche, Sigraf, Pescara, 2009 4

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drammaturgo, può edi�icarsi una prospettiva del teatro sociale come ritrovamento dell’identità autentica dell’uomo, oltre la espropriazione dell’uomo da se stesso, nella natura come nel sociale. In effetti la personalità è un intreccio complesso bio-psico-culturale. L’uomo ha un corpo, una psiche, una cultura, e la sua integrità consiste nel mantenimento di un equilibrio �luente organizzato tra queste componenti. La persona è una maschera costruita su queste componenti, ma la sua identità di maschera percepita dagli altri o autopercepita mentre recita nel teatro della vita non coincide affatto con le proprietà oggettive delle sue componenti bio-psico-culturali. La coscienza distingue sempre un sé, diverso e più autentico in cui si riconosce una propria maschera, personalità, identità accettata, rispetto alle proprietà oggettive, spesso alienative e non accettate delle componenti biopsico-culturali costituenti. Dice Assaggioli6, maestro e fondatore italiano della psicosintesi, che anche la personalità più malata sa riconoscere nel fondo della sua coscienza un sé sano, rispetto alla cui identità comprende la sua diversità di malato. Come ben sapeva Pirandello7, inauguratore della complessità del postmoderno, la personalità è portatrice di molte maschere percepite da sé e dagli altri, maschere cangianti nei vari teatri del sociale come ben sapeva Goffman8, per cui l’identità assoluta dell’io cartesiano che ha inaugurato il moderno è ormai uno sfondo inattuale e cadùco. In queste maschere multiple in cui si è sempre altro da sé, la coscienza riconosce, ma non necessariamente accetta, le proprietà oggettive della biologia, del corpo, il cui codice genetico ci costruisce come persone con certe caratteristiche che non abbiamo voluto e che spesso non sono per noi desiderabili, ad R.Assaggioli, Principi e metodi della Psicosintesi Terapeutica, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973 7 L.Pirandello, Maschere nude, Mondadori, Milano, 1986 8 E.Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969 6

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esempio quanto a statura, colore della pelle, sembianze del volto, andatura, voce, se non le malattie. Per questo il corpo è una maschera in cui non necessariamente ci riconosciamo, lo indossiamo e lo usiamo, ma non ne accettiamo la �isionomia e le proprietà che ci alienano. Per superare l’alienazione del biologismo deterministico che ci costituisce costruiamo liberamente una diversa maschera di rappresentazione dell’identità del nostro corpo da mettere in scena e su cui costruire le nostre relazioni con gli altri nell’autenticità del sé che vogliamo che gli altri percepiscano come noi stessi desideriamo. Quello che accade col corpo accade anche con la psiche. Ci ritroviamo determinati da una personalità psichica costituente che non abbiamo voluto, ma che sappiamo riconoscere come maschera che indossiamo, senza accettarne le proprietà oggettive. Di volta in volta si può non accettare nelle diverse circostanze del teatro della vita di essere ad esempio irosi e vendicativi oppure timidi e remissivi, ovvero ambiziosi e passionali, o tiepidi e compromissori, costruendosi liberamente una maschera più autentica di una identità più accettata da noi e dagli altri, in cui non ci sentiamo alienati. Quello che accade col corpo e con la psiche accade anche con la cultura sociale che ci costituisce con le sue regole di comportamento individuale e collettive e con i suoi valori determinanti. La nostra personalità sociale è formata oltre la nostra volontà dai modelli interiorizzati della cultura dominante. La nostra socializzazione dipende dai valori, pratiche, simboli, regole di comportamento, convenzioni, dei nostri gruppi di appartenenza, la cui maschera siamo obbligati ad indossare nel teatro della vita, ma nelle cui proprietà oggettive possiamo non riconoscerci, e che anzi possiamo sentire alienanti. Per questo anche nel sociale andiamo alla ricerca di una maschera più autentica da indossare, aprendoci alla libera progettualità di un nuovo e più grati�icante gioco di identità nel teatro della vita. Se siamo in una società che ci ha socializzato ai valori dominanti della 30


competizione, del successo, del dominio, del con�litto, possiamonon riconoscerci in questa cultura sociale e cercare un’altra identità in cui le relazioni sociali siano governate da regole per noi più grati�icanti come la tolleranza, la collaborazione, la sobrietà, la pace. Il determinismo del corpo o biologismo, della psiche o psicologismo, del sociale o sociologismo, pur producendo realtà alienative nella costituzione delle personalità e maschere del teatro sociale, non impediscono la libertà progettuale di una maschera più autentica con cui la persona costituita diventa costituente di un’altra identità disalienata, innovando il proprio gioco creativo nel teatro sociale. Per questo i personologi, gli studiosi della personalità come Maslow9, Murray10, Nuttin11, tra gli altri, hanno approfondito gli indicatori delle propensioni che aprono alle dimensioni disalienative di maggior autorealizzazione delle personalità, specie nei rapporti sociali. Di questi indicatori che io chiamo «beni relazionali», in quanto contrastano il «malessere relazionale» nei contesti della vita sociale, voglio tratteggiare gli aspetti essenziali, che considero essere i pilastri stessi di un autentico teatro sociale. Questo orienta ai suoi valori liberatori i ruoli, le maschere, le identità delle persone, condizionate dagli aspetti alienativi dei loro corpi, delle loro psiche, delle loro culture sociali. I valori liberatori sono beni relazionali che si affermano come regole da soddisfare nel gioco delle maschere sociali, alla ricerca di una realizzazione più autentica dei loro bisogni. I beni relazionali di cui parlo sono almeno quattro: sicurezza, valorizzazione, appartenenza, convivialità, di cui ho trattato nel mio volume: Paradigmi e metodi di ricerca sulla socializzazione autorganizzante12. Essi reggono i rapporti tra persone nel A.H.Maslow, Motivazioni e personalità, Armando, Roma, 1973 H.A. Murray, Exploration in Personality, Oxford University, New York, 1983 11 J.Nuttin, Comportamento e personalità, PAS, Roma-Zurigo, 1964 12 E. Sciarra, Paradigmi e metodi di ricerca sulla socializzazione autorganizzante, Edizioni Scienti�iche, Sigraf, Pescara, 2007 9

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gioco del teatro sociale, tra frustrazioni e grati�icazioni. Se la personalità nella sua formazione evolutiva soddisfa prima il bisogno della sicurezza nell’infanzia, poi il bisogno di valorizzazione della fanciullezza, poi il bisogno di appartenenza nell’adolescenza e quindi il bisogno di convivialità nella giovinezza, soddisfa i requisiti essenziali dei beni relazionali di grati�icazione nella scena del proprio teatro sociale. Solo chi può possedere e sommare in età adulta tutti e quattro i beni relazionali combinati, ha modo di rappresentarsi ed essere rappresentato nella maschera di un “io sono” più autentico rispetto a chi non ha soddisfatto quei bisogni, e quindi ha subito la frustrazione di una maschera imposta nel teatro sociale dall’ “io-io” dei condizionamenti della biologia, della psicologia, della società, senza la conquista liberatoria e disalienante di poter vivere i rapporti sociali nella scena d’azione del proprio teatro in sicurezza, valorizzazione, appartenenza, convivialità. La vita è questa, una convenzione teatrale in cui si recita secondo alcune regole che possono ora frustrare ora grati�icare l’io, rendendolo ora più alienato ora più libero. In questo senso il teatro è una metafora compiuta della vita e della sua ricerca incessante di identità autentica, che ogni persona progetta per emanciparsi dalle frustrazioni imposte dalle maschere biologiche, psicologiche e sociali che non accetta. Il teatro sociale riveste questa funzione emancipatoria se le regole delle sue azioni sono orientate alla soddisfazione dei beni relazionali nella formazione evolutiva grati�icante e autentica della persona. Partiamo dal bisogno di sicurezza relazionale. Questo bene risponde al bisogno di soddisfazione di un aiuto gratuito immediato nelle regole del gioco sociale, facendo maturare l’aspettativa che se io offrirò solidarietà agli altri in caso di bisogno, riceverò a mia volta solidarietà dagli altri tutte le volte che ne avrò bisogno. Come recitatore teatrale vivo una contraddizione: sono potenzialmente sia Madre Teresa e sia il torturatore di Guantanamo. Dipende dal teatro sociale in cui vivo e alle cui regole mi conformo, perché se sono in guerra sarò 32


legittimato a torturare, se vado in missione religiosa sarò legittimato ad aiutare i più bisognosi. La società è relativista ed esclude solo l’incoerenza dell’attore con le regole che di volta in volta cambiano col cambiare dei teatri sociali. Ma ogni io sa nel profondo del suo sé, che è il luogo d’incontro tra natura e cultura, tra biologia e società, tra determinismo e libertà, che il teatro sociale preferito per la propria identità autentica dell’ “io sono”, è quello con le regole di Madre Teresa che all’attore garantisce la sicurezza relazionale di aiutare ma anche di essere aiutato, mentre quello delle regole del torturatore di Guantanamo garantisce legittimità di torturare ma anche di essere torturato potenzialmente in futuro. È il criterio di reciprocità che de�inisce l’autenticità dell’ “io sono”, e consente di scegliere tra l’emancipazione e l’alienazione, tra la grati�icazione e la frustrazione. Il bisogno più profondo nel criterio di reciprocità è il bene relazionale della sicurezza di aiutare ed essere aiutato e non di torturare ed essere torturato. Su queste premesse la personalità evolutiva cresce in un teatro sociale che risponde alle regole della soddisfazione del bene relazionale della valorizzazione reciproca, dopo aver maturato il bene relazionale della sicurezza reciproca. L’attore preferisce recitare la parte di una scena in cui sia soddisfatto il bisogno di riconoscimento e apprezzamento della sua maschera all’interno del gruppo, in una valorizzazione reciproca, piuttosto che una scena dominata da regole di manifestare il bisogno di denuncia dei limiti che ogni maschera può attribuire all’altra, togliendole dignità. La persona che elabora se stessa tra natura e cultura, maschera che è alla perenne ricerca di un mutamento d’immagine per una maschera più autentica che è insieme un miglior ritrovamento del sé, ma all’interno di un miglior ritrovamento della scena in cui recitare. Per questo la persona è attore di un teatro di mutamento nella storicità. Dove prevale il determinismo di natura e non c’è la libertà inventiva e innovativa della cultura, non c’è neanche il teatro storico. Le api e le formiche fanno sempre la 33


stessa recita, per natura indossano sempre gli stessi ruoli nel loro teatro sociale, ape regina, fuco, operaia, etc. Gli uomini invece hanno evoluzione socioculturale, storicità, e aprono a sempre nuovi ruoli e nuove scene teatrali, quali sono i quadri di civiltà diversi che si trasformano in sempre nuove regole e nuove differenziazioni. In questo mutamento storico non c’è una struttura stabile e de�initiva a cui pervenire, ma c’è solo la contingenza di una linea di tendenza aperta a varie identità e quindi a varie possibilità di teatri sociali. Il benessere relazionale cresce se la linea di tendenza attraversa situazioni sociali nel cui equilibrio �luente si affermano i beni relazionali disalienativi della sicurezza, valorizzazione, appartenenza, convivialità. Se la sicurezza è la relazione d’aiuto reciproco, e la valorizzazione è la relazione di apprezzamento reciproco, nelle regole delle maschere del teatro sociale, il bene relazionale appartenenza risponde al bisogno di accettazione di una identità di ruolo e di status all’interno del gruppo, che riconosce alla mascherapersona funzione e prestigio pienamente accettati come appartenenti al gruppo, invece che marginalità e invisibilità alienanti. In�ine il bene relazionale convivialità risponde al bisogno di inclusione nei rapporti informali e caldi all’interno di un gruppo, in modo da superare la gerarchia, il formalismo e la freddezza dei ruoli e degli status, per accedere alla reciprocità dell’accettazione interna con�idente, amicale, paritetica.

*** La vocazione del teatro sociale che si celebra nei riti e nelle rappresentazioni delle linee di tendenza manifestate è disalienativa per la persona ed emancipatoria per la società.

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Jörg Christoph Grünert NIGHT DIARIES

acquerelli libanesi 2004 - 2011 Riferimenti Immagini 36-37 epistrophé n.14/2009, 30x40 cm, particolare

38 epistrophé n.7/2011, 30x40 cm (foto di Jörg Grünert) epistrophé n.8/2011, 30x40 cm (foto di Jörg Grünert) 41 epistrophé n.7/2004, 30x40 cm epistrophé n.8/2004, 30x40 cm 42 epistrophé n.2/2005, 30x40 cm epistrophé n.4/2005, 30x40 cm

43 epistrophé n.6/2006, 30x40 cm epistrophé n.10/2006, 30x40 cm 44 epistrophé n.7/2007, 30x45 cm epistrophé n.14/2007, 30x45 cm 45 epistrophé n.5/2008, 40x30 cm

46 epistrophé n.9/2009, 30x40 cm epistrophé n.12/2009, 30x40 cm 47 epistrophé n.8/2010, 30x40 cm epistrophé n.1/2010, 30x40 cm

48 epistrophé n.14/2010, 30x40 cm, particolare epistrophé n.15/2010, 30x40 cm, particolare fotogra�ie degli acquerelli: Gino Di Paolo



Nuova Gestalt Gli acquerelli libanesi di Jörg Grünert di Rolando Alfonso Una delle prerogative atte ad una più lucida coscienza di sé e del mondo è quella del distacco improvviso da una norma di vita, operativa e quindi esistenziale. Quell’essere sradicati dalla familiarità di luogo. In breve, quella messa a distanza dalla presunta e fallace convinzione d’aver posto un ordine de�initivo in noi e fuori di noi. In altre parole, interrompere il meritato riposo di una coscienza quietata e riportare a luminescenza viva l’intelletto assopito nell’abitudine del già compreso. Di questa prerogativa, o meglio accidente, è stato partecipe Jörg Grünert durante la sua permanenza in Libano dal 2004 al 2011. Se è stata l’ineluttabile consequenza legata all’impegnativo lavoro pedagogico svolto in tale regione, periferica rispetto alla centralità della cultura europea, noi non possiamo asserirlo con sicurezza, ma è certa l’importanza simbolica, e la validità sul piano di una riproposizione gestaltica dei risultati visivi. Possiamo anche addossare alla diversità del contesto geopolitico – pervaso, ultimamente, da una rinnovata dinamicità che ha riinnescato un dispositivo storico inceppato – la responsabilità di questi esiti formali, ma nulla toglie ad essi di aver cesellato una risposta praticabile, una ripresa della parola all’interno del fare, sia essa come uso del colore che come gesto pittorico. Questa sua disposizione sulla soglia della gestione automatica del colore azzera con�litti irrisolti nella contemporaneità e riapre la dinamicità di faglia di quesiti storicamente già individuati e sperimentati che, forse, non raggiunsero, nel periodo che accomuna gli anni ’20 e ’30, una esaustività della loro teoresi. Possiamo anche dire che questo distacco lo ha posto in 39


una prospettiva nuova che gli ha permesso di fronteggiare il determinismo classi�icatorio che ha infettato, negli ultimi due decenni, il panorama delle arti visive. Infatti cade ad uopo che alla dichiarata e sancita caduta del postmodernismo - basta analizzare il grafema che ne illustra la morte nell’incipit del catalogo della mostra all’ Albert Museum di Londra per farsene un’idea precisa – si reclami da più parti la necessità di un nuovo realismo. Un ritorno all’ordine oggettuale, un tornare al mondo e nel mondo per descriverlo nuovamente. In questo contesto, che incita all’ennesimo ritorno di una �igurazione necessitata dalla storia, il compito che Jörg Grünert si assume, con i suoi acquerelli, codi�ica un tragitto diverso, in risposta ad un richiamo che gli viene, direttamente, da una tradizione teorico-operativa tutta tedesca. Tutto ciò, tramite automatismi psicologici nell’uso del colore e del gesto pittorico incarnato nella ricerca di un’astrazione lirica e geometrica. Itinerario che, nell’attualità, trova una rinnovata giusti�icazione nel perseguire ancora le germinali intuizioni sul colore di Goethe e le teorie teoso�iche di Rudolf Steiner, ma anche l’aurea ri�lessione, in�ine, degli artisti del Bauhaus. Avanguardia nel pensiero e nell’arte, che ha visto come protagonisti eccellenti Johannes Itten, Vasilij Kandinskij e Paul Klee, dai quali Jörg Grünert da attento e rispettoso allievo prende il testimone. Testimone che sonda, nuovamente, la sua ricerca sull’origine mistica e sulla funzione psicologica dei colori, evidenziandone, come per i suoi predecessori, una loro supposta essenza e spiritualità. Allegandovi, inoltre, alcune proprietà già precedentemente enucleate, ad esempio, la tendenza centrifuga e centripeta dei toni caldi e freddi e parallelamente, accentua la loro natura terrestre in sintonia con quella spirituale. Senza dimenticare l’attenzione riposta sulla percezione del colore e sui meccanismi della visione che forse sarà l’apripista ad una nuova teoria gestaltica. 40












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