Libro Mon Amour

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LIBRO MON AMOUR!

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Un progetto a cura di Giovanna Nicolai e Carla Petino 7/8/9/10 marzo 2019, Via dei Marsi 20- 22 Roma Una manifestazione per gli amanti dei libri di carta. Tutti i partecipanti, grandi e piccoli, poeti e non, insieme per leggere: ognuno con un libro in tasca da cui recitare un brano preferito, in libera condivisione. Proiezione di video di Maria Pizzi: ‘Cartoni inanimati’: Questa Divina Commedia e ‘Ritratti involontari’: Artaud, Raffo, Maria

Mostra e Installazioni ‘Ex Libri’ di Maria Grazia Tata

Reading e Recital su Alda Merini di Antonio Marziantonio Si ringraziano tutti i numerosi partecipanti intervenuti alle serate di lettura.

Si ringraziano inoltre Peppe De Gregori e Antonio Idini che hanno allestito un set fotografico per fotografare e stampare in diretta, durante le quattro serate, i ritratti dei nostri lettori. Grazie agli amici fotografi Juan Carlos González Santiago e Dino Ignani e a tutti coloro che hanno inviato foto delle serate. Ideazione e realizzazione del catalogo digitale di LIBRO MON AMOUR! Juan Carlos González Santiago Editing a cura di Carla Petino

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MARIA PIZZI

Video CARTONI INANIMATI: QUESTA DIVINA COMMEDIA RITRATTI INVOLONTARI: ARTAUD RAFFO MARIA

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Video “cartoni inanimati” L’immagine digitale è utilizzata come scrittura: una serie di foto (come le lettere di un alfabeto che si ripetono, caratteri tipografici, maiuscole e minuscole) e che diventano immediatamente, senza racconto un sonno – sogno ad occhi aperti: una scrittura lampante, senza messaggio, o un messaggio senza scrittura. Maria Pizzi

Nell ’opera di Maria Pizzi “Questa Divina Commedia” la morte è la prova che esiste l ’al di qua, l ’al di qua dell ’arte! Per cui chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Per l ’artista e l ’inclito pubblico è vietato guardare. Prevale il rumore del tempo che diventa suono e forma di preavviso. Tutti dovete morire. In fede Achille Bonito Oliva

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MARIA GRAZIA TATA legge MASAOKA SHIKI

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Masaoka Shiki

da Il Grande Libro degli Haiku Un intervallo della malattia a cura di Irene Starace 10


isu wo oku ya sobi ni hiza no furuku toko Metto la sedia dove le mie ginocchia possono toccare le rose

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Maria Grazia Tata - A Shiki, 2010 (legno e tulle)


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“Maria Grazia Tata cuce il cielo con la terra� Franco Arminio, poeta

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Chi ha ucciso la professoressa Marino Ultime stanze e poi a casa. Rodolfo il vigilante ciondola svogliatamente per il corridoio, ha raggiunto il terzo piano, controlla che tutto sia a posto e non ci sia più nessuno. I portieri aspettano con impazienza per poter chiudere la Facoltà. La stanza della professoressa Marino è spalancata, Rodolfo giocherellando con le chiavi pensa: Quella stronza è uscita senza neanche chiudere la porta. Sulla scrivania ci sono libri sparpagliati. Che strano dov’è andato a finire il suo ordine maniacale! Sta per uscire quando vede un pesante fermacarte in terra, si avvicina per prenderlo e scorge il corpo della professoressa in terra, proprio di fronte alla libreria: «Professoressa Marino mi sente, sta male?» Che succede, è svenuta, sembra morta! Non avendo risposta alcuna chiama a gran voce i portieri, che si precipitano al piano. Accorre Giovanni, uno dei portieri più anziani, che si avvicina alla professoressa e cerca di capire se respira ancora, con gli occhi sbarrati, esclama: «È morta! Chiamate la polizia.» Il Commissario Marco Pancheri era a casa dei genitori, stava assaporando gli involtini che solo sua madre cucinava così bene. Quella sera del 20 gennaio 2008 la ricorrenza da festeggiare era importante: suo padre compiva settant’anni. Ancora c’erano portate da gustare compresa la famosa crostata di marmellata alle arance. Il cellulare lo fece sobbalzare, ingoiò velocemente il boccone sussurrando: «E mo chi cazzo è?» La madre, mentre appoggiava sul tavolo un piatto di portata a motivi floreali, da dove spuntavano fritti e ogni ben di Dio, con disappunto esclamò: «Non rispondere Marco, almeno finisci la cena!» «Pronto chi è?» 14


GRAZIANA ALESSANDRINI legge GRAZIANA ALESSANDRINI «Commissario, sono l’agente Vito Perotta, pare che abbiano ucciso una professoressa alla Facoltà di Psicologia.» Pancheri era già in piedi: «Perotta, vai subito sul posto con Servilio e avvisa la Scientifica. Non fare uscire nessuno dei presenti dalla Facoltà, fai piantonare l’edificio, che non entri nessuno. Dammi l’indirizzo, vi raggiungo subito!» Baciò frettolosamente il padre e la madre: «Festeggeremo domani, vi porto al Ristorante “Il Grillo” dove si mangia la carbonara più gustosa a Roma.» La madre indispettita esclamò: «Sì e io che ci faccio di tutta questa roba!» Il Commissario le lanciò un bacio ed era già per le scale. Marco Pancheri era un uomo affascinante di circa quarantacinque anni di bell’aspetto, i suoi occhi intensi di colore verde erano penetranti e contornati da folte ciglia nere, i suoi capelli tagliati quasi a zero lasciavano intravedere una leggera sfumatura bruna. Sentiva la sua professione come una missione a cui si dedicava con impegno, ciononostante amava viaggiare, divertirsi, fare nuove esperienze e detestava trovarsi nella routine quotidiana. Fin da bambino aveva pensato di fare il poliziotto e non aveva mai cambiato idea nel corso della sua giovane vita e, appena laureato in legge, era entrato in polizia. La legge, le regole erano per lui indiscutibili, chi non le rispettava andava punito. Questo zelo verso la sua professione gli aveva giovato nella carriera e in breve tempo era diventato Commissario. Con i suoi collaboratori era esigente ma molto amato per la sua grande umanità. Lo stesso successo non era avvenuto nella sua vita privata. Sposato con Luisa, sua compagna di liceo, avevano avuto un bimbo, ora di otto anni, ma il matrimonio era durato appena tre anni. Luisa non sopportava questo suo esagerato senso del dovere che lo teneva lontano dalla famiglia. Marco aveva sofferto molto per questo distacco, specialmente dal figlio Luca. Aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più sposato, da qualche anno aveva una relazione con la collega Mirella Della Croce, ma ognuno a casa propria. 15

da Delitto alla Facoltà di psicologia


Renga per Cecilia

(scritto da nonna per l’imminente nascita della nipote)

cambia la luna Cecilia nascerà? la culla è pronta

profumo insolito di struggimento nuovo Cecilia è qui

Cecilia cresce è un sorriso tenero risucchia baci

nel firmamento ora albeggia una stella nasce Cecilia

giorno al mattino Cecilia tra le braccia dorme e sorride

sei un seme nitido come granello puro di buona terra

Dona Amati da Haiku della buona terra con otto opere di Maria Grazia Tata

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DONA AMATI

legge DONA AMATI e WALLADA BINT AL-MUSTAKFI

Quando le ombre della notte saranno più opache aspettati la mia visita; sai bene che la notte è la conservatrice più sicura di segreti. Mi hai procurato un tale rapimento che se l’avesse avuto il sole non spunterebbe più, se l’avesse sentito la luna, non sorgerebbe più, se l’avessero provato le stelle non intraprenderebbero affatto il loro consueto viaggio notturno.

Wallada Bint Al-Mustakfi da Cammino orgogliosa per la mia strada

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Il silenzio della notte

Nattens tystnad

è sempre così bello quando qualcuno va via e il silenzio che ho raccolto dentro di me per un giorno o più finalmente può uscire prendere posto di nuovo sui tavoli e sulle sedie avvolgermi nello spazio della notte posso di nuovo ascoltare niente un cane che abbaia lontano un altro che risponde ancora più lontanto il rumore del mare e i pensieri di qualcosa che avevo dimenticato o che pensavo di aver dimenticato

det är alltid så skönt när någon åker och tystnaden som jag har samlat inuti mig i en dag eller flera äntligen får slippa ut ta plats igen på bord och stolar omsluta mig med stjärnhimlens oändliga rymd och jag igen kan höra ingenting en hund som skäller långt härifrån en annan som svarar ännu längre bort havets brus och tankarna på något som jag glömt eller trodde att jag hade glömt

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IDA ANDERSEN legge IDA ANDERSEN

La Terra

Jorden

Io credo nella Terra La Terra crede in me La terra è un dolce che camminandola lo mangio La terra ha delle piccole orecchie che bacio fin dentro La terra è di fieno di pietra di cassette rosse con ali bianchi La terra è un mare interno di nostalgia Le mani della terra portano due cespugli piccoli con delle piccolissime bacche aspre Le bacche annaffiano il palato sanno di terra Io credo nella Terra come credo nelle parole Le parole portano dei piccoli dolci che accarezzo quando li assaggio quando li preparo La Terra è l’albero più alto La Terra è un’incudine Io sono una statua di terra di parola

Jag tror på jorden Jorden tror på mig Jorden är en kaka som jag äter när jag går på den Jorden har små öron som jag kysser inuti Jorden är av hö av sten av röda hus med vita vingar på Jorden är ett längtans innanhav Jordens händer bär två buskar små, med små små sura bär Bären vattnar gommen smakar jord Jag tror på jorden som jag tror på orden Orden bär små kakor som jag smeker när jag smakar när jag bakar dem Jorden är det högsta trädet Jorden är ett städ En stod av ord av jord är jag

Ida Andersen 2016

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LIVIA ANDRUCCIOLI legge MAURIZIO BETTINI un’età aurea, della letteratura e della a vita, che oggi si è perduta. Allora pareva ovvio, normale, che di fronte al racconto virgiliano di un naufrago che tentava di approdare sulle coste italiane, ci si soffermasse ad analizzare la formula usata dal poeta per descrivere Nel primo libro dell’Eneide Virgilio descrive la tempesta che trala meta del suo viaggio. Oggi non è piú cosí. Inevitabilmente legvolge le navi dei Troiani in fuga dalla loro città, distrutta dalla guerra. Scampati miracolosamente alla furia delle onde, alcuni nau- gendo le parole di Ilioneo il pensiero corre ai nuovi profughi che, come i Troiani dell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per fraghi approdano sulle coste di Cartagine, nei pressi dell’odierna raggiungere (come allora) l’Italia, fuggendo da morte e distruzioTunisi, sul canale di Sicilia. Vi regna Didone, in fuga da Tiro per sfuggire alla tirannia del fratello, e la città da lei fondata, Cartagine ne; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a appunto, è ancora in costruzione. mezz’acqua perché quei diventati cronacaversi. Gli orrori del MeIlioneo, uno dei naufraghi troiani, rivela alla regina la meta verso diterraneo hanno tolto all’Eneide ogni innocenza letteraria. Adesso cui i fuggiaschi erano diretti prima del disastro: l’Italia. E lo fa in che centinaia di disperati tentano quotidianamente di varcare lo questo modo: stretto braccio di mareche potrebbe finalmente allontanarli dalle terre in cui non si è persone, ma solo corpi da venderé e torturare; V ’è un luogo - con il nome di “Esperia” lo chiamano i Greci - teradesso che la topothesia – l’atto di “porre il luogo”: l’Italia – non è ra antica, potente di armi e di campi felici; l ’ebbero gli uomini Enotri; adesso è fama che i posteri abbian chiamato quel popolo “Italia” dal nome più figura poetica, ma il sogno, il fantasma di una meta che migliaia di fuggiaschi si “pongono” davanti agli occhi, ben sapendo che non di un capo. Qui facevamo rotta’. tutti ce la faranno. «C’è un luogo, lo chiamano Italia...» Ripenso con dolcezza e nostalgia al tempo, ormai lontano, in cui l’Eneide Ricordo bene le lezioni durante le quali (ero ancora all’università) era fatta di figure poetiche; ma so che se mi ostinassi a perpetuare il mio professore, Marino Barchiesi, ci spiegava che questo genere di descrizione corrisponde a una precisa figura poetica, la topothesia: quel tempo, nonostante ciò che accade intorno a noi, mi sentirei colpevole. letteralmente “porre il luogo”, quasi che il poeta “disponesse” sotto gli occhi del lettore l’immagine di una determinata terra o regione. La topothesia comincia quasi sempre con la formula «C’è un luogo... Virgilio Eneide (Fo), i, 530-34• (Le traduzioni di Alessandro Fo dei / est locus...» e l’aveva già usata Ennio, diceva Barchiesi, la userà versi virgiliani in qualche caso sono modificate per rendere piú chiare le piú volte anche Ovidio, la userà Dante quando scriverà: «Luogo è riflessioni che prendono spunto dai versi). in Inferno detto Malebolge tutto di pietra di color ferrigno...» Era bello ascoltare quelle spiegazioni. Eppure ricordarle adesso suscita in me solo tenerezza mista a rimpianto, come se appartenessero a da Homo Sum Prologo. Porre il luogo, l ’Italia

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LAURA BENIGNI

legge NON HO PECCATO ABBASTANZA

Amore Ora mi siedo e scrivo un discorso semplice in cui ti comunico come è iniziato tutto ciò e come non riesco ancora a cacciare dalla testa il fragore del mare

da Non Ho Peccato Abbastanza Antologia di poetesse arabe contemporanee a cura di Valentina Colombo.

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SILVIA BRE legge SILVIA BRE

Si può scavare nella scena del giorno

Se il nostro luogo è dove

La poca la povera cosa

basta un maestro piccolo, una guida

ha bisogno di noi

come una donna nascosta

come l’occhio nel verde

alla volta, uno che è linea di montagna ramo di salice, lavanda, fatti così

perché lo spazio insegna a conquistare il cielo dietro e più lontano

è libera pazzia che cerca ancora

e scava in fondo a sé, finché mi avvista.

il silenzioso guardarsi delle cose dire non è sapere, è l’altra via, tutta fatale, d’essere. Questa la geografia.

Si sta così nel mondo

pensosi avventurieri dell’umano, si è la forma

si mette davanti, s’imposa in un velo da sposa.

E io maledetta che ho scelto

la sua parte, quel buio senza ritegno in cui cadere,

la fine di quest’arte.

che si forma ciecamente nel suo dire di sé per vocazione.

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tre poesie da La f ine di quest’arte


Indossa il proprio corpo adolescente come un abito appena acquistato che deve adattarsi alle forme che veste. Non è la propria immagine allo specchio ma il riflesso di tanti a cui somigliare, il tentativo di essere quell’unico irraggiungibile, meteora vagheggiata che da sé separa e a nulla lega. Nell’incertezza che limiti e pregi accompagna affiora una domanda su cosa muta in noi giorno per giorno, su che saremo e cosa siamo stati e il divenire che si prende gioco di noi dove potrà guidarci e quale corpo abiteremo infine?

Bastarsi in una stanza in un sommesso amoroso brusio, lontane da quanto la gente là fuori propina, lasciare che il guscio si schiuda e riconoscere se stessa nell’altra, e non in un magico istante ma in ogni consueto momento, se il vento carezza le spighe o inclemente le sferza, se il sole riscalda o il serrarsi delle nubi lo scherma. Comunque sorelle le amiche del cuore sussurrano l’un l’altra parole da niente, l’attesa il timore di quel che potrebbe arrestare la danza.

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MARCO CAPORALI legge MARCO CAPORALI Romics Ciascuno con il proprio distintivo che sia una spilla una maglia un mantello divise mai così l’una diversa dall’altra in una folla che si accalca alle porte del reame vagheggiato che accoglie adolescenti pronti ad essere coloro che più li ammaliano, segreti artefici di magiche imprese, oltre le reti divisorie al varco di un’allegria irridente che in maschera straripa ad ogni passo in ogni via dove si snoda varia e unanime la fiera, la voglia sfrenata e festosa di liberarsi dei lacci che trattengono i padri appostati sull’argine in attesa che passi.

da La vita inoperosa

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Il tempo mi chiede

Gennaio

Mi insegue il tempo improvviso mi stringe alle spalle

La pioggia ancora indugia in perle cocciolanti intorno ai rami spogli

mi chiede: dove sei stata ora che ti cercavo Dove hai posato In quale spazio i tuoi pensieri il tuo corpo la tua testa stanchi

e il freddo accoglie specchi di cielo sulle foglie dell’edera selvaggia.

Dove Ed ecco in un sospiro lascio cadere come vesti vecchie e rotte tutto ciò che è stato.

da Il tempo mi chiede

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FABIANA CARPICECI legge FABIANA CARPICECI

Sotto i verdi abeti, al momento, inedita:

che il tempo dall’interno cambia ora su questo ricordo porto fuori e vedo. Vedo il colore mutato dal freddo le mareggiate in tempesta gli alberi travolti quelli più esposti gli stessi dell’estate,quando il mare è piatto, che sporgono radici come grosse corde nodose per scendere lì nella caletta in ombra

Lia mi racconta Lei ha vissuto sul mare Da casa - mi dice ne vedevo il colore le alghe nella trasparenza D’inverno a volte la balena quando perdeva la rotta la vedevo per giorni rotolarsi nel mare. Poi, si sa, da giovane di me poche parole. Solo azioni. Adesso invece

E lì in quella luce ancora bassa non del tutto soleggiante ricordo l’acqua al primo tuffo scivolare sul corpo come seta.

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LAURA CECCACCI legge EMANUELE ALTISSIMO

(…) Gridai più forte che potevo, liberai tutta l’aria che c’era nei polmoni mentre scivolavo in basso come lungo il perno di una carrucola, dritto, con le braccia alte sui fianchi. Rimbalzai e andai a sbattere contro la parete. Sopra di me, Diego aveva le braccia tese e la fune stretta intorno alle mani. “Hai paura, adesso” gridò per farsi sentire. Ero sceso di un paio di metri, eppure la cima era lontanissima. “Tu dondoli sul vuoto, appeso a una corda che reggo io. Il massimo della fiducia.” “Smettila” urlai ancora, con la voce spezzata. “Allora fallo. Di’ alle montagne che sei senza colpa.” Chiusi gli occhi, aggrappato alla corda. Ci fu uno scossone e caddi di un altro metro, ma questa volta non riuscii a urlare e le lacrime presero a uscire da sole. “Dirò che c’è stato un incidente” riprese mio fratello. “La corda era usurata, lui è caduto di sotto. Pensa ad Aime.” Spalancai gli occhi e cercai un appiglio con entrambe le mani. “Non resisterò ancora per molto” disse mio fratello. Presi un respiro, un altro e un altro ancora. “Io non ho colpa” gridai. Mio fratello si sporse, la corda tremò. “C’è corrente, qui. Non ti sento.” “Io non ho colpa” ripetei. “Più forte” ruggì lui.

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“Io non ho colpa” urlai bruciandomi i polmoni. All’improvviso, mentre ancora ondeggiavo a chissà quanti metri da terra, mi sentii libero, come se tutta l’angoscia delle settimane precedenti avesse lasciato il mio corpo. Mio fratello aveva iniziato a tirarmi su. Poco dopo afferrai la sua mano e caddi in avanti sull’erba, dove restai con gli occhi attaccati al cielo, respirando più ossigeno che potevo. “Era un’esercitazione” disse, sedendosi accanto a me. “Quello che hai visto nella segheria. Una prova di sopravvivenza. Come per gli spartani.” Mi sollevai per vedere la radura che si apriva davanti a noi, una macchia verde sotto la cima innevata della montagna. Più avanti c’era un lago azzurro. Intorno alla sponda, un gruppo di pecore al pascolo. Mi chinai con le mani sulle ginocchia, ascoltando il suono dei campanacci.

da Luce rubata al giorno


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ATHINA CENCI legge RAINER MARIA RILKE È certo strano non abitar più la terra,

usanze appena apprese non più praticare, non dare alle rose e alla particolare promessa di altre cose il senso

di un futuro umano; non essere

più ciò che si era in mani di ansia infinita, e lasciare via persino il proprio nome come un giocattolo spezzato. Strano

non più desiderare i desideri. Strano vedere sbattere sfuso nell’aria tutto

ciò che aveva un legame. E l’essere morto è faticoso e tanto vi è da riprendere

per avvertire gradualmente un senso di eternità. - Ma i vivi fanno tutti l’errore di troppo distinguere.

Gli angeli (si dice) spesso non sanno

se vanno tra vivi o tra morti. L’eterna corrente trascina sempre con sé per i due regni tutte le età e le copre col suono.

da Elegie Duinesi

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Odore

rarsene affatto e a testa alta sfoggiava la sua armatura. Alfine anch’io dovetti arrendermi: dove ella era, sostava o anche solo furtivamente passava, in quel medesimo luogo una sensazione dapprincipio sgradevole poi un odore acre e pesante inondava, ingombrava, soffocava i presenti tanto da renderne pericolosa la sosta per più di una manciata di secondi. Le sue lunghe gambe, il suo magnifico corpo, i suoi capelli setosi, sprigionavano un fetore orripilante, devastante! Prima Donna: Ma non era possibile farle notare con tatto, con discrezione … Primo Uomo: Nessuno per molto tempo volle accettare simile verità, un tale scherzo del destino, un tal contrappasso. Gli uomini poi non si davano pace! Il loro unico oggetto dei desideri era lì a portata di sguardo ma allo stesso tempo irraggiungibile, causa morte per asfissia. Le donne invece erano soddisfatte di tale punizione per una creatura che le faceva apparire meno di niente alla vista di un solo suo centimetro di pelle bianca come la neve; ombre imperfette e così terribilmente umane, prive di quel tocco divino che in lei prorompeva in ogni poro. Così non avevano altre armi che cospargersi dei profumi più allettanti: odore di rosa e cannella, gelsomino siciliano, pepe rosa e vaniglia. Il Primo Uomo s’interrompe e distoglie lo sguardo dai presenti e lo dirige verso un qualcosa che in alto ma solo in un’altezza sacra e irraggiungibile si può anche il solo tentare di cercare. Il Secondo Uomo, le labbra umide, le gote

racconto, 1996

In un ristorantino a piazza Trilussa due coppie discutono animatamente. La serata è accesa, a lume di candele. Primo Uomo: A proposito di odori! Mi viene in mente quella volta in cui provai empiricamente il significato di odore. In ufficio era stata assunta una nuova dattilografa. Aveva lunghi capelli lucenti e neri come il petrolio, lunghe ciglia nere, occhi grandi color brace e un corpo da pantera! Ebbene dopo lo sguardo fu subito e forzatamente l’olfatto. Dapprincipio proprio non volevo crederci. Una creatura sì meravigliosa, la tentazione sotto sembianze umane, il frutto proibito, si aggirava tra le ariose stanze dell’ufficio al centro di Roma come una pantera. Lungo i muri, acquattata dietro gli angoli sembrava scrutare le sue prede. Eppure era così evidente. Ma cos’altro mai poteva essere, chi altri il responsabile di quella nuova e spiacevole sensazione? Ogni qualvolta lei compariva, ecco nuovamente, repentinamente riaffiorare quella soffocante sensazione. Nell’ufficio oramai non si parlava che di questo. Gli uomini furono gli ultimi ad arrendersi all’evidenza che con gran soddisfazione le donne sbandieravano al suo passaggio. Sventolando fogli o ondeggiando ricamati ventagli. Con il passar dei giorni e poi delle settimane la situazione, l’atmosfera ma che dico, l’aria stessa divenne irrespirabile. Ma la pantera nera sembrava non cu-

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CHIARA COLAFRANCESCHI legge CHIARA COLAFRANCESCHI puta. Contro la mia volontà, nei miei pantaloni profumati di fresco e pulito qualcosa cresceva, aumentava di volume, si ergeva infine ad evidenziare il chiaro gradimento! All’inizio provai un immenso imbarazzo, disappunto, totale vergogna per una simile reazione e non ne feci parola con alcuno. Ma già le perfide colleghe osservavano la durata delle mie apnee sempre un po’ più lunghe. Tentai allora di evitarla ma mi vennero a mente le parole di un famoso libertino del ‘700 “Trascende ogni mio controllo!” Così erano per me le vertiginose erezioni suscitate da quel puzzo fetente che emanava la meravigliosa divina pantera. Poco dopo, per ovvi motivi olfattivi che cominciavano a minare il grafico dei profitti dell’ufficio, fu licenziata in tronco. Quella mattina senza la magnifica creatura, per le stanze ariose, per i corridoi, i colleghi nuovamente in libertà: solo profumi ed odori dei più comuni e dozzinali. Cercai in ogni dove quel odore ma non lo sentii mai più. E con la dipartita dell’angelo anche i miei picchi vertiginosi del mio basso ventre, che avevano risvegliato un ardore sopito da tempo. Ora non più di giorno ma la notte sotto le mie profumate lenzuola, l’angelica creatura ed i miei picchi solitari. La Seconda Donna larghi occhi verdi nello sguardo azzurro vetro del Primo Uomo, imbarazzata nell’impossibilità di gareggiare con l’angelica creatura, furtivamente il naso al di sotto della spalla. Un profondo respiro, l’inarcarsi del acerbo seno, a controllare reminiscenze di antichi pudori, odori.

infiammate, nervosamente s’accende una sigaretta. Le due donne lentamente il bicchiere alla bocca e lo sguardo fisso sul Primo Uomo. Il Primo Uomo: Ma tra tutti, io fui l’unico ad essere turbato in maniera eccessiva da tale evento. Oramai l’andare in ufficio, la strada che da anni percorrevo con disattenzione ogni mattina, assunse tutt’altro significato! L’intera mia vita ne fu sconvolta, per breve ma intenso lasso di tempo. Piazza Trilussa, il giornalaio, per la prima volta notavo il suo viso: larghi occhi chiari e un sorriso stampato nel porgermi da anni il mio giornale. Via Giulia con il primo sole primaverile, riscaldata nei mille sampietrini che ora accuratamente contavo, mentalmente calcolando la distanza che ancora mi separava da lei. Via dello Spiffero e il suo odore già arrivava sottile e pungente alle mie narici. Fino a giungere a Campo de’Fiori, lo sguardo fiero ed accusatore del bronzeo accusato. Ed eccomi strisciare, privo di forze per via del Biscione, numero 13 e salire le scale. Capii subito che a differenza degli altri io non avevo dinnanzi a lei un’unica irreversibile sensazione, reazione. Netta, inoppugnabile, un definito senso di repulsione, un desiderio impellente di aria fresca. No, io sentivo, oltrepassata questa prima sensazione sgradevole, un qualcosa che m’attraeva come una calamita. Qualcosa che mi faceva ricercare quel nauseabondo odore, che suscitava in me dapprima fastidio ma poi resistendo poco dopo mi faceva sentire … vivo! Si dico proprio vivo, pieno, traboccante di passione. Qualcosa in me sentito l’odore acre e pesante s’inalberava a mia insa-

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Maria Grazia Tata

Libro Muto

2014 (carta, filo)

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ROSELLA DE SALVIA legge RENATO NICOLINI La città dei libri Quando i libri divennero per me degli oggetti che si acquistano e non solo si attendono in regalo, la geografia della mia città cambiò completamente. I suoi spazi privilegiati erano la cartolibreria Maraldi in via Ferrari, dove acquistavo i libri della BUR ed anche pennini, gomme da cancellare che collezionavo, e l’edicola grande di via Cola di Rienzo di fronte al cinema Smeraldo, dove pure i libri della BUR così eleganti nella loro copertina tipografica così priva dì altri stimoli all’immaginazione che non fosse il potere assoluto del testo, venivano venduti, più sbrigativa- mente, senza distrazioni di altri oggetti, in rapporto non per- sonale ma d’affari che alla fine finii per preferire. Ma oltre questi due vertici si stendeva la rete sottile, inquietante e peccaminosa, delle bancarelle dei libri usati. Inquietante e peccaminosa per più motivi. Che i miei non amassero l’acquisto di libri, «che erano stati in mano di altri, chi sa chi», è quello più banale. C’era il soggetto di quei libri. I «libri del pinguino», per esempio, che i miei dicevano stampati «dai comunisti», e mio padre in persona, sempre così buono con me, mi prese dalle mani e strappò in pezzi una copia del «Garibaldi a Londra» di Herzen, che a rileggerli oggi non mi è parso quella cosa rivoluzionaria che lui credeva. O i libri di fantascienza, o i libri gialli, che mi sarei vergognato a leggere in classe sotto il banco, cosa che non mi accadeva con il «Circolo Picwick» di Dickens. Anzi lo esibivo un po’ sfrontata37

mente. Infine c’era il fatto che quei libri per lo più li rubavo. I libri di fantascienza ad una bancarella vicino al Nazareth (sfilavo l’ultimo della pila con la mano sinistra, mentre con la destra sfogliavo quello in cima); i libri gialli ad una bancarella all’angolo tra via Barletta e viale delle Milizie, vicino alle caserme, (li mettevo sotto il cappotto, avevo una tasca sfondata, attraverso la quale la mia mano, che fingeva di essere in tasca raggiungeva e faceva sparire il libro, anche sei o sette per volta; una volta mi caddero tutti dietro un cartellone pubblicitario a pochi metri di distanza: li raccolsi con il cuore in gola); i «libri del Pinguino» a via Vittoria Colonna di fronte al Ponte Cavour (e fu lì che per la prima volta mi scopersero a rubare; protestai che li avevo semplicemente messi dietro la schiena e li pagai). La cosa più importante fu però la scoperta di Largo Fontanella Borghese, con le sue bancarelle meravigliose dove il mio amico Camillo Filadoro non comperava libri ma orologi antichi, e sfogliava persino le stampe. Ho tentato, recentemente, quando ho viaggiato, di ricostruire un clima piuttosto che i luoghi della città. Ho così portato “I demoni di Dostoievskij” a Mosca, Baudelaire a Parigi; ma la città è diversa dalla città dei libri, la mia città è diversa dalla città dei poeti. Così ho letto Musil a Procida anziché a Vienna, perché la Vienna di Musil è ormai un luogo ideale, come la Parigi di Balzac, indifferente agli spazi. Meraviglioso Urbano da L’eff imero teatrale di Renato Nicolini e Franco Purini


PIERO PIZZI CANNELLA Una mappa per andare via San Lorenzo è una barca. No una grande barca. No un bateau ivre Non naviga in mare aperto né scende per fiumi in piena o rapide. San Lorenzo è una piccola barca. Naviga le stesse acque, sempre le stesse acque, San Lorenzo naviga nel porto.

Photo Juan Carlos González-Santiago

Il porto confina: a EST: l’ospedale Policlinico, a SUD: l’Università La Sapienza, a OVEST: la stazione Termini, a NORD: lo scalo ferroviario. AI QUATTRO ANGOLI DEL PORTO È SEMPRE LA STESSA MUSICA

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ROSELLA DE SALVIA legge R. DE SALVIA e R. GALLUZZI PAOLO TAMBURELLA Artista a San Lorenzo - PALAZZO SARTORIO Sono arrivato a San Lorenzo nel 2009 dopo aver trascorso sei anni a New York e due tra India e Singapore. Ho trovato il mio studio sul giornale Portaportese. Alla mia prima visita, il locale era ancora il laboratorio di un marmista, Adriano Frioli. Lo spazio sembrava sospeso nel tempo, con lapidi sul pavimento e polvere di marmo sopra a ogni cosa. Mi ricordo che parlai con la proprietaria seduto sotto a una torretta sulla terrazza del palazzo, con la vista sul Verano e molti gabbiani nel cielo. C’era qualcosa di dimesso e allo stesso tempo di solenne nel nostro incontro. Mi impegnai ad affittare il locale e a ristrutturarlo dopo il mio ritorno dalle isole Comore. Partii poco dopo, era aprile e ritornai a maggio insieme ai portuali comoriani che erano rimasti senza lavoro per via della modernizzazione del porto. Tornammo con una loro imbarcazione chiamata Djahazi che presentammo alla Biennale di Venezia a giugno. Sarà anche per questo inizio che penso al mio studio un po’ come una nave, una nave che ha ospitato e ospita persone da tutto il mondo e che continua a viaggiare, anche se non so davvero dove vada. In effetti ripensandoci nella storia dell’ edificio il tema della nave è ricorrente. Quello che ora è il mio studio era originariamente lo studio dello scultore

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Giuseppe Sartorio, che all’inizio del novecento aveva costruito per sé e la sua famiglia un bel palazzetto che ospitava sia la sua abitazione che la sua attività. Sartorio sparì misteriosamente nel 1920 proprio da una nave in ritorno dalla Sardegna. Dopo alcuni cambi di destinazione il suo studio diventò il laboratorio di una grande falegnameria, la Giombi Ottavi, che realizzò il mobilio della Motonave Napoli della flotta Achille Lauro. Dalla nave di Sartorio, a quella di Achille Lauro fino alla Djahazi comoriana a Venezia. In questo momento nel mio studio ci sono tre sculture giganti di cani realizzati dai fabbri del Teatro San Carlo per un progetto che ho presentato a Piazza del Plebiscito a Napoli lo scorso ottobre. Un grande arazzo fatto di palloni da calcio indiani che è stato esposto alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel 2007. Alcuni tele che riproducono le grattate di Gratta e Vinci perdenti, realizzate per il Macro nel 2012. Una parete di cartoline da Iran, Iraq, Somalia e Darfur, che ho portato alla Stazione Santa Maria Novella di Firenze nel 2007. Una serie nuova di bassorilievi in cera e un computer Mac a cui ho intagliato lo schermo facendone scaglie l’altro ieri sera. Domani inizio un nuovo progetto in un campo nomadi in Via di Salone a Roma. L’idea è di realizzare una grande padella. Paolo W. Tamburella: artista italiano lavora sui temi legati all’identità culturale e alla globalizzazione. Ha realizzato vari progetti negli Stati Uniti, Europa, India, Bangladesh, Singapore, Isole Comoros e Turchia.


40 Photo Juan Carlos Gonzรกlez-Santiago


ROSSELLA FUMASONI Artista, pittrice vivente. Ho dodici anni è il 1977 sono in un bar di Via dei Volsci, osservo rapita una ragazza di Viareggio lunghi capelli biondi riccioluti bombetta nera in testa e cappotto porpora con strascico. Gioca a flipper fumando; è la maga del flipper. Mai li in quel rapido passaggio avrei pensato che ci avrei vissuto trent’anni a San Lorenzo. A San Lorenzo e nel Pastificio Cerere sono arrivata nel giugno del 1988, mentre finivo l’Accademia di Belle Arti, ed era così buio per le scale che si saliva illuminando i gradini con l’accendino, passando dal buio pesto alla luce dello studio di qualcuno, che scoprivi chi era solo nel corso della serata, in un clima festoso confuso e molto acceso a ripensarci incantato. Gli artisti, pittori e scultori, per primi avevano ripopolato il Pastificio che per anni era stato deserto, in disuso, ed alcuni degli studi erano molto animati e frequentati anche di notte da habitué che portavano in visita amici come me e in quella confusione, ”lo studio” mi è apparso subito come uno spazio sacro quanto ludico . Studi ricolmi dell’odore della pittura o del rumore della scultura e poi il giorno dopo magari li trovavi completamente svuotati. Tutto sparito. Tutto era una dichiarazione d’intenti lì, la promessa di qualcosa che sarebbe successa, uno stato perenne di vigilia: un libro caduto a terra, un’unica poltrona mezza rotta in una stanza, le finestre spalancate, lo stesso disco che risuonava tutta la notte. C’era nella vita di studio un pensiero cosi preciso e avvolgente sull’esistenza, non sapevo bene quale ma volevo scoprirlo. Gli studi del Pastificio erano intimi privati ma anche pubblici come stazioni cosmiche aperte giorno e notte, dove le idee erano in transito e si manifestavano tangibili in quell’oggetto misterioso sotto la luce che è l’opera d’arte e poi partivano, sia l’opera che l’idea per un’altra destinazione e si ricominciava. Dal pastificio Cerere non sono più andata via e nel 1994 ho preso lo studio dove sono ancora adesso. Via degli Ausoni 1, 3, 5 e 7 per essere precisi… (Agli inizi del secolo scorso era un mulino una fabbrica di pasta. Pompavano l’acqua dal fiume sotterraneo che scorre sotto San Lorenzo…Le vetrate, i soffitti, le colonne di ghisa a scandire gli spazi ,tutto si presta all’immaginazione, tutto il novecento aleggia negli studi… Il Palazzo è un’immensa casa di bambola, tolto il frontespizio lascia vedere dentro tutto dei suoi inquilini. Di studio in studio, di piano in piano, le porte grigie di ferro i divani di velluto…Il palazzo sembra dire: “Non facciamoli entrare, non facciamoli più uscire.” ...Sembra che lo spazio non basta mai, ne vorrebbero tutti un pezzo in più 41

ma tutti se ne vogliono sempre andare…Il Palazzo ti osserva ti tiene d’occhio valuta la tua presenza. Ha un criterio di scelta tutto suo… Il Palazzo fa come vuole, ti trattiene per alcuni anni e poi ti rilascia…c’è chi è rimasto solo un anno, chi più di trenta, chi un estate, chi solo per una festa…il Palazzo fa entrare, illude e caccia via. È lui il vero ladro d’illusioni. Nella sua insondabile saggezza sceglie per ognuno un tragitto diverso. Lunghissime degenze, fulminanti apparizioni, cammei, ritorni inaspettati…Quanti passaggi e combinazioni umane tra inquilini. Essere stati così amici ma diventare solo vicini, non volersi vedere ma incontrarsi sempre e finalmente prendere la decisione di non salutarsi più, ma poi stare al bar insieme e rimanerci tanto come fosse il ponte di un traghetto per la Grecia…). Il “Palazzo” tratto dalla raccolta “I Mesi della Settimana” 2008 edizioni L’Obliquo. Il pastificio è un’isola nel quartiere, chi è nato a San Lorenzo vede con sospetto e diffidenza gli inquilini del Palazzo. Hanno ragione. Ed io? Che ci faccio in questo studio? Ho corteggiato per anni il vuoto ho creduto nel colore cosi tanto da crederlo una lingua, l’unica vera forma di esperanto. Ora ho una mia piccola compagnia di avanspettacolo pittorico. Dipingo, ritaglio, incollo mescolo carta e colore, spesso figure che s’intrattengono dove vogliono: su torte a più piani, sopra o sotto rose inglesi o farfalle monarca, su fulmini e tastiere di pianoforti, su spartiti musicali e pagine di romanzo, su tela a righe da materasso; gli va bene tutto pur di dare appuntamento alla pittura. E poi ci dormo ci vivo e ci vado a passeggio per il quartiere. Via Tiburtina è più propositiva, via dei Volsci è una salita se Monte Gennaro ce l’hai alle spalle, via dei Reti mi ha sempre inquietato, via dei Sabelli è più metafisica, via dei Dalmati, via dei Rutoli pure via degli Etruschi sono troppo misteriose, su via dei Sardi ci si sente soli in via degli Ausoni può accadere di tutto e in Piazza dei Sanniti bisognerebbe metterci il mare. A giorni alterni, ristorante, bar, fruttivendoli egiziani, Pastificio Cerere, ex cinema Palazzo, signore gattare, invasori diurni e notturni, fidanzati sbagliati che si prendono a calci, ubriachi cantanti, barboni, tutti quanti un giorno si e uno no avrebbero il mare. Sabbia, riva, orizzonte, faro, bagnasciuga, ombrelloni, cabine. Vorrei lo stabilimento “Roma” di Ostia, la rotonda sul mare, la sua splendida cupola di rame, il suo lungo pontile, quello stesso stabilimento che non aveva eguali in Europa, fatto esplodere, brillare, dai nazisti il 13 dicembre 1943. Vorrei che affiorasse dall’asfalto della piazza per emergere nella sua magnificenza assieme ad un mare tutto fresco di colore... da Passione San Lorenzo


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FLORA DI BATTISTA (10 anni) legge MELANIA MAZZUCCO

La tragica scomparsa della Tartaruga Leo (...) mia cara, - rispose la vecchissima tartaruga Leo -, non ho bisogno degli occhi per vedere, né delle orecchie per sentire. Tu [si rivolge al pappagallo, voce narrante della favola, ndr] guardi questo mio vecchio corpo rugoso e pensi che io sia solo questa: un collo a tubo come un periscopio, una testa minuscola, un guscio fatto di ossa, quattro corte zampe ricoperte di scaglie, venti unghie affilate, un mozzicone di coda, due pupille appannate. Ma invece io mi nascondo in questa forma come il mio corpo si nasconde nella corazza per proteggersi dal pericolo. Capisci quello che cerco di dirti? La forma è solo un’apparenza, e non ha davvero importanza. Quando mi chiudo nella mia mente e mi abbandono al ritmo segreto del mondo, posso lasciare il mio corpo come il bruco lascia il suo bozzolo per farsi farfalla. E io, che sono pesante come la terra, i sassi e gli alberi, posso volar via come se fossi cenere, o scintilla del fuoco. Allora vedo nel buio e sento nel silenzio. Né l’acqua, né la tempesta, né le porte possono fermarmi. Il mondo mi appartiene. Cammino nel tempo e oltrepasso anche le frontiere della morte.

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MOHAMED DJAFARZADEHM legge OGNI SERA CHE ESCO

Ogni sera che esco dalla casa

del vino, passo per la tua strada col desiderio di te.

Ho dato il mio cuore a te passante

e ora sono perduto e fuori di me. Girando per le case del vino,

bevendo… bevendo, fino a essere ebbro come sono ebbro del tuo amore… Brucio ogni notte nel fuoco di una candela,

come guardare il tuo viso,

resisterò col mio cuore bruciato e col mio segreto nascosto…

cantatina persiana

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ANNAMARIA FERRAMOSCA

legge ANNAMARIA FERRAMOSCA e PAUL CELAN

suona palo de lluvia

suona palo de lluvia

suona palo de lluvia

guariscimi dalla dissonanza

intera la tua amarezza

pioggia che batti vita che pulsi

ti corrispondo in vermiglio

rinascimi conchiglia nel tempo dell’oceano

cantocuore di donna

includimi nel tufo della fine

tu fanne uno scampanío

in quella fermissima speranza

io metterò un vaso sul balcone

di vita fossile

a dire ancora vita a mostrare la rosa del Nulla che siamo

suona palo de lluvia

questa lunghissima notte diluviale

gl’incontri sonori i fuochi che dileguano la grande macchia vermiglia che dilata lasciami

note: -- palo de lluvia è uno strumento musicale della cultura Mapuche

curva sul dolore muto dei corpi

bastone, imitando il suono della pioggia.

alla mia orfanezza del mondo

(Cile-Argentina), che fa suonare granelli di conchiglie all’interno di un

ricordando il loro splendore

-- la rosa del Nulla richiama un verso della poesia Salmo di Paul Celan. 47


Narciso (si) parla Eco risponde

amato appari scompari tra i riflessi essi

disorientami d’amore piegami

io solo inestimabile

essi? chi? nulla valgono

sul tuo insuperato viso iso

mio vacuo amore in profonde onde

isomero di te sono stordito

a squassarmi armi

mille volte più bello mille volte la madre mi ripeteva

divine armi quella sera Era

eva

dea per cui divenne muta Eco

Eva? lei no mai solo ego

condannata al lamento sillabico

a sommuovermi a smuovere

pure mi amava Eco mi diceva parlami

pietre nel mio stagno

perché sapeva integra di labbra in labbra resta

dove s’intorbidano cielo e terra capovolti

solo la parola che scambia generosa osa

e la mente ammaliata

si salva e salva

a vuoto gira sull’asse centrifugo

ucciso

resta Narciso per narcosi da

selvaggio self che nasce muore lungo i fossi

autoincoronato fiore Annamaria Ferramosca da Andare per salti

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Salmo Nessuno c’impasta di nuovo, da terra a fango, nessuno insufflala vita alla nostra polvere. Nessuno.

Che tu sia lodato, Nessuno. Ăˆ per amor tuo

che vogliamo fiorire. Incontro a te.

Noi un Nulla

fummo, siamo, resteremo, fiorendo:

la rosa del Nulla,

la rosa di Nessuno. Con

lo stimma anima-chiara lo stame ciel-deserto, la corona rossa

per la parola di porpora

che noi cantammo al di sopra, ben al di sopra

della spina. da Paul Celan Poesie

trad.ne di Giuseppe Bevilacqua

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LUIGI GALLO legge LUIGI GALLO avvertì un insolito malessere, simile a un rimorso. Gli sembrava di aver lacerato un velo delicato, di riaprire una ferita lenta a guarire. Lo stringersi incontro dei versanti dischiusi al passaggio del veliero, la sottile linea di schiuma grigiolina persistente sulle acque immote come una smorfia di dolore, sembrava irridere alla futilità di ogni conoscenza. Lui, il comandante Logher, l’usurpatore, contemplava la vampa del sole sullo specchio d’acqua, l’immota circolarità concentrica dell’onda che si chiudeva su sé stessa, la muta fenditura da cui si librava soltanto un alito morente. Logher scorgeva nella piega gelatinosa un vuoto tormento, il profilo labile di un presagio nefasto. Si avviò con la pena nel cuore giù nell’hangar ad accogliere la nuova preda. Sostenuta in un invaso magnetico, galleggiante al centro di uno spazio vuoto dai riflessi metallici, la barca di legno denudata delle vele, zeppa di rughe (...)

(...) del mare bagnato da una luce livida. Il suo sguardo troppo acuto per non essere ferito dalla crudezza smalta: dura e guasta di quella pelle salina. Una linea ondulata saliva dalla fonda gelatina d’acqua. L’albero di maestra poi la crocetta e quindi l’albero di trinchetta, il boma incrostato, la tolda di legno integra e ben conservata affioravano tra lente schiume. Un’acqua esausta colva lungo i fianchi dello scafo protetto dalla garza, In un punto la barca scomparve dalla sua visuale, coperta dalla pancia ogivale della nave spaziale riflessa. La superficie del mare. Il passaggio lento e maestoso della creatura marina custodita a lungo nella quiete degli abissi apri un taglio profondo nel bacino di quelle acque malate, l’umile sostanza liquida, immortale, che per Talete di Mileto fu origine di tutte le cose, pronta a servire ancora chi un tempo la tradì e poi l’abbandonò in cerca di nuovi lidi. Logher

da Zingari della Galassia

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Yo era el chulo del pulpo Una temporá me dio por marisquear y marisqueando marisqueando me encontré con un pulpo que no veas el pulpo... Entonces me acordé de una cosa que me habían dicho de los pulpos: que cuando van por el fondo del mar toas las cosas que ven bonitas se las pegan en los bigotes, van andando por debajo el agua y cuando ven una piedrecita de color o cualquier cosa bonita, se la van pegando en los bigotes y cuando ven que la marea va vaciando se van pa’ la cueva que tienen y en la puerta de la cueva echan toas las cosas que llevan pegás en los bigotes... Y claro, en vez de trincarlo lo dejé otra vez en el agua, me fijé en el sitio aonde tenía su cueva y toas las tardes, cuando emprincipiaba a bajar la marea, me iba a La Caleta y esperaba que vaciara hasta llegar a la cueva del pulpo, entonces llegaba a la puerta de la cueva y siempre había dos o tres anillos, una pulsera... Atrincaba lo que había, me lo guardaba sin decirle a nadie na’, y se lo vendía a uno que tenía un puesto en la plaza que le decían Manolo el Pajarero que compraba alhajas y cosas d’esas. Llegaba y le decía: -A ver, Manuel, a ver qué le parece a usté esto. Miraba lo que te había Ilevao y claro algunos eran falsos, pero también iban algunos anillos de oro y salcillos. -Pues mira, estos dos salcillos sí son de oro y este anillo también, pero éste no vale na’, Pericón; así que te voy a dar treinta y ocho pesetas.

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Y claro, en aquella época cogía yo treinta y ocho pesetas y parecía el más rico del mundo. Y al otro día ya estaba yo esperando a que la marea subiera y bajara pa’ ver lo que me había dejan el pulpo en la puerta la cueva... Y efectivamente, llegaba yo y hala, otra vez a coger los anillos y las pulseras y los salcillos que el pulpo me había recogío con los bigotes y así traía loco a to’ Cádiz, porque decía la gente: «¿De aónde sacará éste el dinero?». Porque si en una fiesta te daban un duro y to’ los días no había fiesta, no era posible que Pericón gastara to’ los días dinero tomándose copas con los amigos, comprándose trajes que no le hacían falta... Y así traía loco a to’ Cádiz, hasta que uno que le decían Mangoli, uno que era mariscaor, metió el garabato en la cueva del pulpo mío y me lo sacó. iMe dejó desamparao!, desamparaíto perdío, porque yo era el chulo del pulpo y nadie se podía imaginar que era un pulpo el que a mí me mantenía, y así con este pulpo me llevé lo menos tres años, hasta que me lo mató el Mangoli este y me quitó la cabeza, que yo muchas veces cuando lo veía por La Viña se lo decía: -Mangoli, ¡qué ruina m’has buscao, hijo, qué ruina!


JUAN CARLOS GLEZ-SANTIAGO legge PERICÓN de CÁDIZ Io ero il pappone del polpo Per un periodo mi sono dato alla pesca dei frutti di mare e cercando, cercando, mi sono trovato un polpo che non puoi immaginare che polpo... Allora mi sono ricordato cosa mi avevano raccontato sui polpi: che quando girano i fondali prendono tutte le cose belle che trovano e se le attaccano ai baffi. Camminano sotto l’acqua e quando vedono una piccola pietra colorata o qualsiasi cosa carina, la attaccano ai baffi, e quando vedono che la marea si sta abbassando vanno nella loro grotta e nella porta della grotta lasciano tutte le cose che portano lì, attaccate ai baffi... E naturalmente, invece di prenderlo, l’ho lasciato di nuovo in acqua, ho fissato il posto dove aveva la sua grotta, e tutte le sere, quando incominciava la bassa marea, mi approcciavo a La Caleta fino a raggiungere la grotta del polpo; alla porta della grotta c’erano sempre due o tre anelli, un braccialetto... Prendevo quello che c’era senza dirlo a nessuno e lo vendevo a uno che aveva una bancarella al mercato che si chiamava Manolo el Pajarero, e che si occupava di comprare gioielli e cose del genere. Arrivando gli dicevo: -Vediamo Manuel, dimmi cosa ne pensi. Dava una occhiata a quello che avevo preso e naturalmente alcune cose erano false, ma c’erano anche degli anelli d’oro e orecchini.

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-Bene, guarda, questi due sono d’oro e anche questo anello, ma questo non vale niente Pericón; quindi ti darò trentotto pesetas. A quel tempo se guadagnavo trentotto pesetas mi sentivo il più ricco del mondo. E il giorno dopo aspettavo che la marea salisse e scendesse per vedere cosa il polpo aveva lasciato alla porta della grotta... E così andavo e tiravo fuori gli anelli, i braccialetti e gli orecchini che il polpo mi aveva raccolto con i baffi. E questo è quello che ha fatto impazzire Cadice, perché la gente diceva: “Da dove prenderà i soldi?” Perché se quando cantavo a una festa mi davano cinque pesetas - e la festa non c’era ogni giorno - non era possibile che Pericón spendesse soldi ogni giorno bevendo con gli amici, comprando abiti di cui non aveva bisogno... E questo fece impazzire Cadice, finché uno, chiamato Mangoli, che faceva il pescatore di frutti di mare, mise lo scarabocchio nella grotta del mio polpo e me lo prese. Mi sentii disperato!, abbandonato, perso, perché io ero il pappone del polpo, e nessuno poteva immaginare che era il polpo che mi aveva mantenuto, e con questo polpo sono stato per almeno tre anni, fino a quando non me lo ha ucciso questo Mangoli e mi è scoppiata la testa. Spesso gli dicevo quando lo trovavo a La Viña: -Mangoli, che rovina mi hai procurato figliolo, che rovina! da Las mil y una historias de Pericón de Cádiz di José Luis Ortiz Nuevo


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ILARIA IZZI (11 anni) legge ANDREA BOUCHARD Ti è mai capitato di nuotare così beato nell’acqua da non sopportare la mamma che ti dice di uscire? Ecco, questo non è nulla rispetto al piacere che proveresti se ti tuffasti nel mare caldo, dolce e trasparente dell’Isola Verde, dalla forma di mezzaluna. Ma dovresti stare attento, perché una leggenda dice che chi ci resta più di un mese è destinato a non uscirne vivo! Esiste una bambina che è nata proprio sull’Isola, e porta nel cuore la sua magica bellezza, ma che dovrà sfidare tutto e tutti per poter tornare lì, con le sue amiche scimmie e i suoi amici delfini, e ritrovare le parole un tempo perdute. Acqua Dolce è una bella bambina con gli occhi verdi, una bambina che non parla. I compagni di scuola la prendono in giro (in effetti perché mamma e papà l’hanno chiamata con un nome così strano?). Quando però esagerano, il gabbiano Verdicchio, amico inseparabile della bambina, entra in classe dalla finestra e li fa scappare sotto i banchi. Poco alla volta i compagni cominciano a incuriosirsi delle cose strambe che lei organizza, come le gare delle tartarughe nei bagni della scuola o l’allagamento della palestra per farne una piscina. da Acqua Dolce

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FILIPPO LA PORTA

legge FILIPPO LA PORTA Vite parallele. Sartre e Camus “Umanisti” uguali e contrari

(...) Di Camus sapevo a memoria interi capoversi del Mito di Sisifo. Divorai a 18 anni Lo straniero (senza capirci niente: ogni volta che lo rileggo ha un significato diverso) e La peste, poi i Taccuini, e infine L’uomo in rivolta, forse il libro “politico” più bello che lessi allora (una storia della filosofia personalissima, tendenziosa), accanto al più ostico L’uomo a una dimensione di Marcuse. Si rivolgeva direttamente a me, come ad ogni lettore. Amava giocare al calcio, proprio come Pasolini. Però, inguaribile individualista, giocava nel ruolo di portiere. Solitario, tra i pali, ma anche sempre insieme agli altri, schierato con una comunità. Mi insegnò che il rifiuto dell’esistente ha senso se nasce non tanto da una utopia futura quanto da una esperienza vissuta di felicità. Camus è un autore che gli adolescenti di ogni tempo percepiscono come intimamente fraterno, per la sua disarmata purezza e per il suo oltranzismo morale, poco refrattario all’ironia. La sua è rivolta che subito trova dentro di sé la misura (concetto-chiave, di derivazione greca), e che dunque da nichilista (“la vertigine della distruzione” di Sade e delle avanguardie) diventa creativa, e da violenta non-violenta. Certo, il suo dire di sì alla vita, e alla natura, può essere pericoloso (in Mersault è dire di sì al delitto). La natura contiene il bene e il male. Ma era abbastanza pascaliano per nutrire dubbi su qualsiasi riconciliazione definitiva con il mondo. Per lui l’assurdo era un punto di partenza non di arrivo. Amico fraterno di Sartre. Poi la rottura traumatica. Dopo la sua morte Sartre però volle elogiare “il suo umanismo testardo, rigoroso e puro, austero e sensuale”. 57

da Disorganici Maestri involontari del Novecento


-1980La città bianca stesa al sole mentre strisciavamo per i suoi vicoli come topi di fogna in preda ai postumi. Io sono un uomo tu sei una donna, lo sai cosa voglio. Perché non saltiamo sulla barricata? I Clash a Firenze e la rivoluzione nel mondo. Se abbiamo avuto la fortuna di leggere almeno un libro, cazzo, facciamone buon uso. Pensiamo alla nostra vita, tanto siamo soli nell’universo circondati solo da vuoto, rocce e stelle. E poi Lennon, Bonzo e Ian Curtis se ne sono andati, ascesi al cielo come profeti moderni, decretando la fine di un’era. Guarda lassù, c’è un puntino...è la luna. Trasferiamoci tutti sulla luna e guardiamo la miseria umana autodistruggersi dal satellite dell’amore argentato. E invece siamo bloccati qui a marcire, destinati a consumarci, a bruciarsi la pelle sotto lo stesso sole. Per sempre. Almeno ci rimane il cielo azzurro sopra questi maledetti venerdì travestiti da sabato che ci rovinano i weekend. Ma le svampate d’erba. di quella buona, e i baci dati ignari della gente intorno che canta e balla, fermano il tempo portandoti in riva al mare su una spiaggia che ha visto la guerra appena finita e ne porta i segni. E allora saltiamo sul primo treno e fuggiamo a nord, verso un infinito tramonto boreale dove sapremo amarci, di un amore vero, di un amore reale.

Sulle strade di Beirut il tempo dispensa la sua moneta sotto la pioggia e nella sua voce un ti amo sussurrato per te oltre il muro di odio e mattoni ma di noi solo il ricordo fra pallottole e angeli più forti di noi la Bandita e l’Anarchico solo il ricordo

da Nadryv

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dei sogni di desolazione ad occhi aperti vedendo perfettamente come vanno le cose tutto fatto dello stesso vuoto e guardando il vuoto davanti a noi viviamo sapendo tutto questo mano nella mano sfidiamo l’eterno nudi con addosso solo il nostro amore.


JACOPO MASCI legge JACOPO MASCI

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Riflessioni sui silenzi e sull’insistere

Se cerchi lavoro o supporto e insisti con persone con cui hai

Red Bank, ottobre 2015

avuto un se pur breve scambio sul piano umano, è peggio: ricevi

una risposta garbata che rimanda a un improbabile e augurabile e vago futuro contatto

(che sai non avverrà mai), Augurio fatto ovviamente sorvolando

Sto passando giornate di grande malessere e di gran pensare.

sul doveroso scusarsi per la mancata risposta ai tuoi precedenti

Credo che oggi si stia aprendo uno spiraglio: il senso del mio

appelli, come non fossero mai esistiti.

malessere è nel fatto che probabilmente sto combattendo con

tutta me stessa contro la tentazione di omologarmi ai tanti sistemi difensivi contro la frustrazione adottati dall’umanità, primo

su tutti: l’essere sfacciati essendo coriacei per sosterere la frustrazione e insistere, insistere e insistere.

Mi suggerivano d’insistere: “Insisti, non mollare! Richiama, chiedi!, insisti!” Ho insistito, nei giorni scorsi... e oggi ho capito perché io, al contrario, preferivo non insistere.

L’insistere è un aratro spietato che svela il vuoto, annienta le illusioni e obbliga la falsità, la formalità e l’apparenza a mostrarsi al peggio di sè.

Ciò ha un unico vantaggio, il dato che raccogli mentre ti salutano sorridendo puoi utilizzarlo, se vuoi, solo per lo studio del com-

portamento sociale umano: è la misurazione esatta della massima durezza possibile raggiungibile da una faccia e da un sorrriso a fini autodifensivi.

Ma la cosa peggiore su tutte, l’inutile pena tremenda, è l’insistere per pura gratuità e non per bisogno con le persone nei cui con-

fronti si prova un qualche grado di affetto o di amore e da cui si crede di averne altrettanto di rimando in virtù di un tacito reci-

proco patto di sostegno e comprensione che si crede esista. Lí, se

dopo un tuo messaggio corredato da insistenza esponenzialmente

Se cerchi lavoro e insisti con aziende, puoi ottenere al massimo

preoccupata per il reiterato silenzio, ti arriva una risposta dol-

due cose: o un diniego asciutto e di mal garbo, o che ti buttino

nella loro black list, vanificando in questo modo qualunque pos-

sibilità che nel futuro tu possa sperare in un altro lavoro con loro. 60

ce ma piena di scuse per il “tanto da fare” portato a motivazione fatale dell’impedimento, ecco che ti ritrovi ad avere davanti con

inconfutabile chiarezza il divario che c’è tra la posizione sua e tua


BARBARA MAUTINO

legge S. VANNUCCI e W. SZYMBORSKA nelle vostre due scale delle priorità e degli affetti. E a volte, tanta

continuare ad affacciarmi ogni tanto, ma una volta soltanto: qual-

Meglio quindi, in caso di affetti, astenersi dal fare e dal ricevere

forse, lo faranno prendendosi più tempo, ma lo faranno comunque,

chiarezza parametrica è un rospo troppo difficile da inghiottire. promesse, meglio restare vaghi, illudersi e lasciare al caso.

Perchè quando l’amico o il beneamato si fa finalmente vivo grazie alla tua insistenza e preoccupazione, anzichè essere felice di sen-

tirlo e di sapere che sta bene e in ottima forma, ecco che ti ritrovi quasi a dispiacertene, a sentirti deluso per il fatto che quel suo

silenzio esteso ben oltre ogni congruo e doveroso tempo di attesa non era motivato da impedimenti quali morte o rottura di tutte e

10 le dita delle sue mani che gli impediva di inviare anche un semplice emoticon. E questo, non è certo un bel pensiero da parte tua. No... l’insistere non è la soluzione mai, ne per bisogno, nè per amore.

cuno non risponderà mai. Ma altri risponderanno subito, alcuni, anche senza insistenza: le relazioni autentiche sono queste.

Tutto il resto non vale né il cuore, né il dispiacere, né il rischio.

No, insistere no... ci ho provato: mai più. Per insistere ci vuole una corazza e un’indifferenza troppo superiori alle mie capacità!

Il tempo e la memoria corta, piuttosto, sono i miei alleati, sono

la mia strategia difensiva: io preferisco piuttosto dimenticarmi di

aver lanciato un messaggio, di aver chiesto o aver porto una mano.

Preferisco dimenticarmi il prima possibile del dispiacere del silenzio e avere una piacevole sorpresa quando, spontaneamente, con tempo di cui uno ha avuto bisogno, la risposta mi ritorna.

Il diamante lo si svela con una impercettibile limatura, se c’è, non insistendo a volerlo spaccare.

Se proprio a qualcuno o a qualcosa ci tieni puoi passare l’esistenza a limare pazientemente, impercettibilmente... ma il rischio anche qui c’è: potrebbe essere quello di aver speso l’intera vita limando un’unica pietra priva di diamante al suo interno.

La rinuncia a qualunque relazione? No... Poco fisiologico, teorico:

un altro dei tanti sistemi di fuga difensiva. Non mi piace. Io voglio 61

Sabina Vannucci da Diario di un’ emigrante vintage 2014-2019


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Scrivere un Curriculum Cos’è necessario? È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve. È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e ricordi incerti in date fisse. Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione. Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi. Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni. Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta. Wislawa Szymborska 63


Ti ucciderò, mia capitale

La prima volta che cercai di ucciderla, pensai che dovesse essere per fuoco e ferro. Saccheggiarla come una città, scendere su di lei con ali di metallo, sganciare bombe inesatte ma largamente letali sulle vie, le piazze, le sedi dei partiti, i focolari, farla una distesa di cadaveri di infanti, di donne, di vecchi. Colpire, con una forbice lanciata su di un fondale, i rifugi dei vecchi, seminare i morti senili come mirtilli grigi di polvere. M’ero disegnato il suo corpo come una mappa, con vene di strade e arterie di ramblas e avenues carotidee e i crescentes capezzolati e le esedre genitali. Poi scatenavo la grande ombra della mano sopra la pianta, la mappa, e quella imitazione di falco diffondeva dovunque il brivido, il terrore, l’angoscia, udivo il clamore inane delle sirene d’allarme, vedevo affollarsi le strade di popolazione in fuga. I plebei, abitanti tra le dita dei piedi, attorno ai calcagni hanno piantato una tendopoli di provvisori contenitori per abitanti. I sovversivi hanno il loro quartiere malfamato nelle pieghe del pube, o nelle pelurie delle ascelle; ma dai denti, dalle belle padiglionate orecchie, nelle lisce colline dei seni, Parioli e Tibidabo, vedo sfrecciare[…]”

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CÉLINE MENGHI

legge GIORGIO MANGANELLI

“l’aria minuscoli cammelli, e uomini in turbante scuotere le minuscole braccia. Cadevano di là dal banco, verso il basso, nelle tenebre dove forse era loro consentito di tentare una vita meno improbabile e ambiziosa. Egli mi consegnò, tratta da una scatola fatta di foresta nemmeno lavorata, ma tenuta assieme con lava collosa, mi consegnò una Preziosa Rivoltella. Piccola: che egli maneggiò ne sono certo, con pinze inserite sull’indice del mignolo; mi consegnò, come un parvolo. «Le sparerai alla tempia, mentre dorme; così» e finse un gesto omicida «e di qui uscirà il buon fuoco e il duro metallo e di lì il sangue caldo e il cerebellum candido e pensoso. Ci sarà» e rise «una gran scoreggia di idee dal culo della sua testa, cui tu imponi un pòdice di tua elezione, e ne cavi una merda di anima. Le avviti un buco nella sfera» continuò «un buco eterno, che da sempre spettava di scaffalarsi nel suo teschio. Farai della sua testa un cranio, del suo cranio un teschio, e solo premendo qui. Della plaza templare farai una puerta de occidente, per la quale un tramonto fragoroso e rosso farà ingresso nella Reggia. Le inonderai il Buckingham Palace di “di cavalli infuriati, di un ferro bolscevico, di una bomba anarchica, di bandiere teppistiche, sebbene» aggiunse «tu non potrai non vedere quanto sia assurdo questo linguaggio,

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giacché le bandiere» e rise, ma solo con le cosce «le bandiere indicano sempre virtù, anzi» e agitò le grandi braccia come un predicatore smentito «Virtù, e non v’è bandiera dove v’è un uso smodato o improprio dei genitali. Ma tu userai per bandiera murale, pezze mestruali, mutande, giarrettiere usate, reggicalze, preservativi bucati, foto ingrandite di spirocheti. Ecco: tu la contaminerai di morte, le comunicherai una blenorragia di morte, col tuo membro di metallo, un membro sano ma infetto, e al suo genitale di idee verrà lo scolo, the clap, e ne uscirà una sanie gialla, spiritus efflavit, ánemos, un vento di corpo, e resterà solo il corpo, il pezzo di carne, coi suoi appendicarne di osso, quella cosa che tu vuoi, galantemente, si specchi in un rettangolo di epitaffio. Premila, finché ne sia uscito l’ultimo umidore del sale dell’anima, e resti asciutta di spirito, nudata anima, e dunque commestibile. Non l’ombelico, sede dei poteri politici, abitato dalla puttana della Storia, ma la bella mente ideografa». E scosse la mia mappa: «In alto» disse «l’omicidio passa da una testa all’altra. Dunque sia l’omicidio una miniatura nella sua testa. Mangiane il cervello, se non vuoi che sia Lei a mangiare il tuo».”


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ELEONORA NATOLI legge SIMONE WEIL

(...) In coloro che hanno subito troppi colpi, come gli schiavi, sembra morta quella parte del cuore che il male inflitto fa gridare di sgomento. Ma non lo è mai del tutto. Solo che non può più gridare. È immobile in uno stato di gemito sordo e ininterrotto. Ma anche in coloro nei quali il potere del grido è intatto, questo grido non giunge quasi mai ad esprimersi né interiormente né esteriormente con parole coerenti. Il più delle volte, le parole che cercano di tradurlo suonano completamente false. Ciò è tanto più difficile da evitare in quanto quelli che hanno più spesso occasione di sentire che gli si fa del male.

(…) Che cosa di preciso m’impedisce di cavare gli occhi a quest’uomo, se ne ho la possibilità e ciò mi diverte? Benché mi sia completamente sacro, non mi e sacro sotto ogni profilo, né da ogni punto di vista. Non mi è sacro perché le sue braccia sono lunghe, perché i suoi occhi sono celesti, perché i suoi pensieri sono forse mediocri. Né, se è duca, perché è duca. Né, se è straccivendolo, perché è straccivendolo. Non sarebbe niente di tutto questo a trattenere la mia mano. Ciò che la potrebbe trattenere, è il fatto di sapere se qualcuno gli cavasse gli occhi, avrebbe l’anima lacerata dall’ idea che gli si fa del male. C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla

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prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro. Solo il bene è sacro, e quanto è relativo al bene. (…) sono quelli che meno sanno parlare. Per esempio non c’è niente di più orribile che vedere in tribunale uno sventurato balbettare davanti a un magistrato che fa lo spiritoso in un linguaggio elegante. da Morale e Letteratura


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GIOVANNA NICOLAI legge PETER HANDKE

Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata

del tutto inatteso

non fa conto parlarne

e ogni volta per gesti di poco conto

è di per sé poco appariscente,

il brivido della durata

ma è degno di essere affidato alla scrittura:

nel chiudere con cautela una porta,

perché dovrà essere per me la cosa più importante.

nello sbucciare con cura una mela,

Dovrà essere il mio vero amore.

nel varcare con attenzione la soglia,

E io,

nel chinarmi a raccogliere un filo.

affinché da me nascano i momenti della durata

Il canto della durata è una poesia d’amore.

e diano un’espressione al mio volto rigido

Parla di un amore al primo sguardo

e mettano nel mio petto vuoto un cuore,

seguito da numerosi altri primi sguardi.

devo assolutamente esercitare

E questo amore

un anno dopo l’altro

ha la sua durata non in qualche atto,

il mio amore.

ma piuttosto in un prima e in un dopo,

Restando fedele

dove per il diverso senso del tempo di quando si ama,

a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante

il prima era anche un dopo,

impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,

e il dopo anche un prima.

sentirò poi forse

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da Canto della Durata


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NICKY NICOLAI legge JULIAN BARNES

“Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo. Non mi riferisco alle varie teorie su curvature e accelerazioni né all’eventuale esistenza di dimensioni parallele in un altrove qualsiasi. No, sto parlando del tempo comune, quotidiano, quello che orologi e cronometri ci assicurano scorra regolarmente: tic tac, tic toc. Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si ripresenta più”.

“Quanti luoghi comuni ci portiamo appresso con disinvoltura, dico bene? Ad esempio, che il ricordo corrisponda alla somma di evento più tempo trascorso. E invece funziona in modo molto più strano di così: non so più chi ha detto che il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato.”

-

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Posso chiederti una cosa? Lo fai ogni volta, - ha risposto Mi hai lasciato per me? No - ha detto - ti ho lasciato per noi. da Il Senso di Una Fine


Quel tuo amore cieco Quel tuo amore cieco che nidi neri m’aggroviglia ai capelli e farfalle quotidiane di speranza, quel sentimento che covi incurante di colate grigie o rosse che ti fa pesco non più isola alla deriva o alga smarrita che ti costringe all’orrore e alla misura che cantileni fermo nell’attesa di una metamorfosi improvvisa

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PATRIZIA OTTOLINI legge PATRIZIA OTTOLINI

Dove

Dove, piccolo uccello di poltrona, tra altopiani turchi e spume di Dervisci, dove, anima mia, conduci quei grovigli dell’essere che ti fanno nido? Posso nella distanza averti intera, senza fughe di quotidiano o tentennamenti, con la speranza di un tuo sorriso, che in una spiaggia di luce, nel piccolo cajshop del paese, ti riconduca a me, a quel sogno antico che, per tanto tempo, ha arrossato la bocca della vita

Il labirinto era un susseguirsi di quadrati di solitudine perfetti e immoli ed essa vi s’avventava dentro con occhi di buio a gran voce chiamando il Minotauro

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Arianna 2006


Come si somministra il premio letterario

Come eliminare i critici

Gli autori vengono coricati ciascuno sul suo letto, su un materasso un po’ duro, con la testa lievemente sopraelevata e un cuscinetto sotto il bacino, le gambe semiflesse, divaricate, la camicia tirata verso lo sterno, le gambe semicoperte. Gli autori dovranno respirare tranquillamente, rilasciare i muscoli, lasciar fare con serenità. Avranno tra le gambe una bacinella. Dopo un intervallo di consultazione, la giuria prende il premio letterario, ben lubrificato, l’inserisce improvvisamente in uno degli autori e lo spinge avanti con dolcezza. Il premio procede, in genere, senza difficoltà per 10-12 cm. Se si avverte una resistenza, si ritira alquanto il premio, lo si scuote leggermente e si ritorna a spingere con delicatezza, imprimendo all’autore qualche movimento di rotazione, fino alla totale premiazione. Gli altri autori possono nel frattempo rivestirsi. Dopo l’operazione, il premio letterario va accuratamente lavato, asciugato e riposto.

Per eliminare i critici dagli appartamenti conviene ungersi con scrupolo il corpo di bitume caldo prima di andare a letto, avendo cura di fare eseguire la stessa operazione agli altri membri della famiglia, moglie figli e suoceri se ancora in vita. Così unta l’intera famiglia locataria o proprietaria dell’appartamento dovrà aggirarsi per le stanze, servizi e scale dello stesso, meglio se scalza e in mutande, cantando salmi, sbattendo casseruole e comunque facendo il più rumore possibile finché tutti i critici della casa non saranno usciti dai loro nascondigli per avviarsi in cucina. I recensori intontiti vengono facilmente catturati con retine di nailon appositamente fornite in un grosso bottiglione con in fondo due dita di acido erusico finissimo per critici. Un altro sistema consiste nell’infilare un chilo di ranocchie regolarmente distanziate in un lungo filo di canapa resistente, previamente immerso nel bitume rammollito: i critici avidi si precipitano sulle ranocchie attirati dall’odore e finiscono infilzati anch’essi, con notevole risparmio di tempo e di bitume.

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ELIO PECORA legge JUAN RODOLFO WILCOCK Il nostro lettore Il nostro lettore ha più buchi che sporgenze, sta continuamente sul chi vive raramente si pulisce le unghie. Non può sopportare che lo tocchino, ma quando può tocca. Per il testo è completamente normale: si misura la febbre con un termometro, partecipa alla luce divina e ha gli arti coperti di peli. Ma quando viene la sera si può vedere il suo vero volto; è sorprendentemente a Luigi XI di Francia. Può produrre ciò che vuole e quando vuole: il suo vertice si regge sulla base. Giustamente gode di un’indennità che lo compensa del fatto che essendo uguale agli altri uomini svolge l’attività più umile di tutte: leggerci.

da Frau Teleprocu

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CARLA PETINO legge ROMUALDO FARINELLI Giustif icazione (…) Con quanto adesso sto per affermare non intendo mettere le mani avanti, ma semplicemente dichiarare, con una sincerità che non è camuffata modestia, che per quanto possa essere limitata la mia possibilità di intendere essa è pur tuttavia sufficiente per farmi valutare la limitatezza del risultato raggiunto. Se voglio mantenermi nei limiti della ragione, debbo considerare impensabile che qualcuno possa essere indotto a occuparsi criticamente di queste pagine. Lo dico perché qualsiasi giudizio, per quanto severo possa essere, apparirebbe come elogio di fronte alla poca indulgenza del mio. Comunque se l’inimmaginabile dovesse verificarsi, sappia questo futuro censore che il suo sarebbe un gesto da maramaldo. Non condivido interamente ciò che Maupassant ha detto: “ Il critico è un tipo che si mescola in faccende che non lo riguardano” o che, peggio ancora, ha scritto Voltaire: “I critici: effimeri insetti”. Né mi rifaccio a Cardarelli: “Sono rari quei critici che potrebbero sostenere un colloquio a quattr’occhi con l’autore che hanno giudicato”. Ma ho sufficienti esperienze di letture per giungere alla conclusione che davvero quel che conta e al quale aspirerei, se possedessi fiducia in quel che ho scritto, sarebbe l’approvazione di un lettore, perché è il suo linguaggio che ho cercato di adoperare.(…) da L’altalena Cronaca di un’esistenza

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ma non puoi fare a meno di essere una donna, siamo tutti destinati ad essere qualcosa, il ragno, la cuoca, l’elefante, è come se ciascuno fosse un quadro, appeso al muro in qualche galleria.

Donna che dorme di notte mi siedo sul letto e l’ascolto russare t’ho incontrata in un’autostazione e ora guardo con stupor la tua schiena bianca fino alla nausea e macchiata di lentiggini infantili mentre il lume rovescia l’insolubile dolore del mondo sul tuo sonno.

e ora il quadro si gira sulla schiena, e sopra il gomito piegato posso vedere ½ bocca, un occhio e quasi un naso. il resto di te è nascosto invisibile ma io so che sei un’opera moderna, contemporanea forse non immortale però ci siamo amati.

non posso vedere I tuoi piedi ma devo credere che sono piedini deliziosi. a chi appartieni? sei vera? penso ai fiori, animali, uccelli sembrano tutti più che buoni e così chiaramente reali.

continua a russare ti prego.

Charles Bukowski

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LUIGI PICCIRILLI legge C. BUKOWSKI e L. PICCIRILLI Periferia di acqua grigioverde tra pannelli e passanti formica arruginisce il week-end di un anno da gonfiare.

Tra una giostra che se ne va,

Si perdono molte cose in questi momenti, si torna indietro per poi fermarsi per aspettare ad una fermata gelida di capolinea.

portando via occhi di bambini giochi poche risate ricordi dentro,

Periferia solitaria di ripetitori antenne giacche di renna festosi addobbi con scarse luci.

ho un poco di affanno a ricordare ,

Periferia ad ogni angolo ferita avvilita, repressa, tracotante virilità di cellular, attenta a schedine e super-enalotti.

attraversa e si spegne

il disegno della mia nave quando sale la linea del sogno. Meraviglioso

Periferia bipbip buzzbuzz di macchinette e la Lazio e la Roma e la ola... scemo scommettiamo che ce l’ho duro…

non perdersi ma perdere tutto nel tramonto.

Periferia che mai alza la testa, Inculate abusive senza musica, dove tutto è sgassare inchiodare morire. Periferia finalmente passa l’autobus.

Luigi Piccirilli 79

Luigi Piccirilli


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GLORIA POMARDI legge RAINER MARIA RILKE

Chi se io gridassi mi udirebbe mai dalle schiere degli angeli ed anche se uno di loro al cuore

mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte presenza. Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte mi farebbe morire.

Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere degli angeli? E se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua più forte esistenza.

da Elegie Duinesi

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SILVIO RAFFO legge SILVIO RAFFO

Letterine dall ’Inferno

II(contrappasso)

IV (una stupenda cera)

(Il suicida punito)

Donne che amaste il mio gentile aspetto, il mio fine parlare e l’intelletto, fanciulle, spose, vedove e zitelle, mio garrulo corteo di pollastrelle, venite a me! Per una legge oscura, son soggetto alle norme di natura!

Del mio cadavere gli amici han detto che aveva veramente un bell’aspetto. E appena poco prima che l’inceneritore m’inghiottisse “Ti trovo in forma splendida - mi disse Franco, con viva stima. Avevo - ciò mi sia d’alcun conforto – una stupenda cera anche da morto!

I (L’ultimo show) Salve, amici! Vi scrive dall’Inferno il vostro Silvio, quella testa amena, quell’esemplare di fanciullo eterno che qualche volta invitavate a cena perché vi colorisse le serate... Per garantirvi postume risate, mi sono strangolato con il mio boa piumato. Non a teatro, proprio a casa mia la casa con le bambole e i pierrot cui vi guidava la malinconia quando non sapevate dove andare... Nell’Ade inoperoso non sarò: per il replay venitemi a trovare!

III (coup e Brace) E c’è un terzo castigo capitale nell’intervallo all’obbligo sessuale sono lo spettatore in prima fila di duecento poeti del duemila! Così, sfinito dallo strazio immenso, il mio nuovo suicidio acquista un senso.

(epitaff io) Molto prima del tempo stabilito mi lasciarono chiuso nella tomba. La mia torre d’avorio, la chiamavano I miei ammiratori concordi. Confortevole come sepoltura: ci stavo bene. Importuno varcarla. E il mio sorriso gaio confermava assurdo ogni rimorso di coscienza.

da La vita Irreale 83


Panni al vento

rosse di ruggine e dal marrone del ferro. Andando oltre, l’arco alla fine delle scale incornicia un ponticello che collega i due estremi

dell’edificio, alla sinistra di questo ponte sale l’ascensore, stretto e

alto, guardando avanti è inevitabile vedere il ponticello sovrastante Quando un amico viene a trovarmi per la prima volta mi chiede

- qual è il citofono? - questo perché quando arrivi davanti al portone e ti trovi davanti a due grandi sfilze di numeri a quattro co-

lonne l’una si resta perplessi, a dividere i due quadri citofonici un

grande portone verde, molto più grande di quanto non ci si possa aspettare veramente.

Poi arrivo io, e da questo portone apro una porticina piccola, di

che vedevamo salendo le scale. A questo punto però gli ospiti si

fermano sempre, e con lo sguardo perso si guardano intorno dal

centro di questo passaggio sospeso. Alla loro destra sventolano le

file di lenzuola colorate stese da una parte all’altra del cortile, dei piani più bassi ai più alti.

Come se fossero un intero muro di colore, contrastano e movi-

mentano lo statico grigiume delle pareti. Poi guardano a sinistra e lo spettacolo si ripete, in quella posizione ci si sente sempre stra-

quelle che non ci fai caso, così piccola che di norma, le persone,

chinano la testa per entrare e intanto devono scavalcare il resto del portone che fa da base alla porticina. A dispetto delle aspettative l’atrio minuscolo e subito bisogna fare una scelta: su per le scale, che non riesci a capire cosa c’è dove finiscono, o nel rassicurante cortile centrale dove c’è l’ascensore. Essendo solo il primo piano si va a piedi e si salgono le scale, costeggiando scritte e incisioni di tutti i tipi sull’intonaco rosso scrostato, avanzando nel tunnel

che contiene gli stretti gradini si può sbirciare sempre qualcosa di più del punto di arrivo. Prima si vede apparire un grigio soffitto

di cemento il cui colore monotono è interrotto solo delle fratture 84

namente affascinati e si rimane incantati dei movimenti dei panni ondeggianti sui lunghi fili.

Spesso uscendo sul ballatoio, magari per fumare una sigaretta,

guardandomi intorno, guardando in alto, scorgo qualcuno incan-

tato nei suoi pensieri con lo sguardo perso tra gli svolazza menti.

Magari non se ne accorge neanche dei panni, concentrato nelle sue ragnatele interne, ma sono sicuro che se non ci fossero starebbe

pensando ad altro; sono ispiratori di sogni di vittorie e di delusio-

ni. In questo palazzo vive chiunque e per qualunque motivo, non è un palazzo per ricchi e non è un palazzo che poveri è solo un edificio e la gente che lo anima viene dal Sud, dal Nord, o è sempre


GAIA RIPOSATI

legge FRANCESCO GALLO stata a Roma e magari in questo palazzo c’è nata e cresciuta come

Le realtà del ballatoio sono tante, per origini, per età, per realtà

artisti, e l’elenco sarebbe troppo lungo, alcuni sono in affitto chi

deggiano al vento, tirati da una parte all’altra dei balconi al suono

il portiere, altri vanno e vengono, sono studenti come me, operai, per qualche mese chi a tempo indeterminato in attesa della svolta. C’è questo posto non lo lascerebbe mai e chi non vede l’ora di scappare, come dice una vicina…

sociali ed economiche; ma sono tutte unite da quei panni che oncigolante delle carrucole.

Credo che sia l’immagine più rappresentativa, è per questo, è perché quando stai in piedi sul ponte e li guardi ti senti uno di loro, sei come loro, tutto qua dentro è come i panni.

“Le case sono quello che sono” - infatti sono piccole e adatte a

coppie giovani ma in alcune ci vivono famiglie di 4, 5 persone e in altre ci vive qualcuno da solo.

Tutti quelli che vivono qui hanno le loro storie, e i loro obiettivi,

chi si deve laureare nella speranza di trovare un lavoro, un domani… E chi il lavoro già lo ha e spera di vederlo diventare stabile così, magari, poi, si fanno i figli; e c’è anche chi i figli già li ha,

chi li ha piccoli di pochi mesi, e li senti piangere mentre li fanno

passeggiare sui balconi e sui ponti, in mezzo ai panni colorati, che li fanno sorridere e allungare le braccine, così si addormentano; e

chi li ha grandicelli che giocano a pallone e fanno i dispetti, allora senti le madri che li sgridano, che li chiamano perché -‘a cena se

fredda-. Senti chi parla al cellulare e racconta ai genitori dell’esa-

me... di questo o di quel professore, c’è chi rientra di notte cantando sulle note della birra e chi è triste.

È una miriade di realtà ricche di sfumature, penzolanti in balia dei venti, che ballano incerte del proprio futuro sostenute da un paio

di mollette e riscaldate dai raggi del sole. Non so se mi spiego, ma quando li guardo penso alla vita, mi metto nei panni di un len-

zuolo e mi sento ugualmente precario, ugualmente appeso al filo

dell’incertezza; ma come il lenzuolo si asciuga e diventa più leggero io mi rianimo, la malinconia passa.

Mi dico che non potrà andare avanti così per sempre, che un gior-

no le cose cambieranno e non sarò più in attesa di chissà che cosa.

Mi dico che pure il lenzuolo trova il suo posto una volta asciutto; e che, se stesso bene, raramente ne casta qualcuno… In genere viene recuperato.

Ma questa è una realtà piccola e protetta, per quanto varia, il vento non è mai troppo forte; le tempeste di sabbia africane sono solo racconti lontani.

da San Lorenzo luoghi, storie e memorie 85


Non vede nella nebbia quali mani tormentate di antenate lavorano l’argilla pastosa del suo corpo non le è neppure chiaro quando hanno mirato i bersagli gola e pancia denti occhi e capelli un piede e un seno ossa e nervi non di statua fredda come la stanno impastando per quale ulteriore foggia e per quale appuntamento. Non comprende da respiro a respiro la direzione del senso ha traversato le gioie d’amore di Venere dolce i turbamenti di Diana solitaria nel bosco le ansie di Antigone per il fratello la ritrosia di Ifigenia al sacrificio le attese nervose di Penelope a casa nulla comprende nulla sa nulla intravede è fragilissimo il suo pensare non indovina il destino come Cassandra il silenzioso allarme. Non ha voce di Sibilla ma aspetta la carezza tenue delle foglie.

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GABRIELLA SICA legge GABRIELLA SICA

Per Nadia Campana Morbida fluida Nadia d’acqua s’increspa annaspa nelle onde contrarie dopo lo schianto del ramo con le trecce nere sulle spalle gentili e gli occhi di carbone come stelo di rosa brace. 1705

Già scriveva il sonno senza materia giocando lieve a campana nei campi quadrati e grigi dell’infanzia Nadiella col tuo velario nell’azzurro per scagliare la lingua cresciuta nel cielo pieno di campane.

I Vulcani sono in Sicilia E Sud America Giudico dalla mia Geografia I Vulcani più vicini a qui Un gradino di Lava per volta Sono pronta a salire Un Cratere posso contemplare Il Vesuvio in casa.

Con le tue cinque a aperte di meraviglia a… a… a… a… a… e ancora ancora meraviglia.

da Emily e le Altre 87


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MARTINA SUOZZO legge LORENZA PIERI

Primi giorni dell’ultimo marzo del millennio. A Roma l’inverno

Come fosse un’occasione che non sarebbe tornata mai più.

me venne la solita smania da fuggiasca, di avere un orizzonte. Ma

cui avevamo quattro ricerche qualitative in corso...

era finito. Il sole, le giacche più leggere, i pollini e gli starnuti. A

restavo lì, ferma e nervosa per la mia immobilità. Poi un pomeriggio ricevetti un telegramma da Parigi.

Una cosa d’altri tempi. Diceva: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata.

Trovai il coraggio di chiedere due giorni di ferie in un momento in Da qualche mese avevo cominciato a usare l’espressione “Ho pro-

prio bisogno di staccare la spina”. Ogni volta che lo dicevo, quando finivo di pronunciare la parola “spina” e le mie colleghe annuiva-

no o chiosavano con una battuta, mi sentivo come se la spina che citavo mi si conficcasse in un fianco e le guance avvampavano di

Scappa al mare finché puoi”.

vergogna per quello che ero diventata: un’impiegata che si lamen-

Non era firmato, ma poteva avermelo mandato solo Caterina.

Il contenuto, la forma , la provenienza, la coerenza totale. Era da un pò che non ci sentivamo. La chiamai, mentendo sul fatto che

avevo colto la citazione e ringraziandola per l’originalità dell’invito, ma le dissi che davvero non potevo in quel periodo. Fatto sta che, sarà stata l’abitudine a rispondere ai comandi di Caterina o forse uno strano sesto senso, sentii l’urgenza di andare al Giglio.

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tava della mancanza di tempo. Ero come tutti, avevo disimparato a gestire le giornate, e con loro le settimane e i mesi che si erano

fatti anni in ufficio, pasti in piedi, mezz’ore a cercare parcheggio, ore piccole a parlare con gente che non aveva niente da dire...

da Isole Minori


Rita Hayworth

Marilyn Monroe

Incrocio d’irlandese con gitano andaluso. I talent scout del cinema ne fecero una rossa mediante elettrolisi sgombrandole la fronte dai capelli. Aveva naso importante e sguardo triste. La fama la raggiunse con Gilda e un verace strip-tease del braccio destro fingendo di cantare Put the blame on Mame con la voce di Anita Ellis. (Il suo scambio di schiaffoni con Glenn Ford fruttò alla Columbia milioni di dollari). Non riuscì a tenersi nessuno dei cinque mariti («vanno a letto con Gilda e si risvegliano con me»). Non ebbe nessun Oscar. Neanche la nomination. Fu Salomè, fu Carmen, fu Sadie Thompson, Nella vita reale una malata di alzheimer mal diagnosticato, creduta alcolista. (Le consigliarono di vivere in Patagonia pensando che il suo clima facesse miracoli). Arrivò in vetta senza mai spogliarsi.

Madre pazza, padre assente il suo destino era scritto nelle stelle: dai centri di accoglienza a ragazza facile, senza scalo. Da bambina sognava che era figlia di Clark Gable. (Da adolescente scoprì che aveva una sorella, Berenice Miracle, l’unica a volerle bene). Si sposò tre volte: un poliziotto, un giocatore di baseball, un intellettuale. Non molto alta (1,66) ma con molte curve: 94-58-92. A Hollywood la tinsero bionda platino (era castano rossiccia) e la operarono al naso. Cantava come gli angeli (ma non la sentivamo perché stavamo sempre a guardarle le tette). Non riuscì mai a portare a termine una gravidanza (già a 12 anni era stata violentata due volte). Negli ultimi tempi si arrese ai barbiturici e fu il giocattolo di due fratelli ricchi che mangiarono l’oliva e sputarono l’osso. Alla fine, una notte d’insonnia come tante Norma Jean aprì la porta della gabbia e volò. Chi ha trovato il cadavere racconta che aveva i pugni chiusi.

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ANTONIETTA TIBERIA legge MARIO PAOLETTI Due

Fantasticherie di un Carcerato

Sulla tortura ci sono due opinioni: quella dei torturatori e quella dei torturati.

(Carcere di La Rioja, 1976)

Come un avaro il suo oro, conto le ore che dedicherò, donna, a carezzarti; piano, molto piano, come un cieco, piega a piega e scaglia a scaglia. La tua pelle mi canterà sotto le dita la canzone della carne innamorata sarà un tripudio di ormoni, uno scandalo (sarà come mettere le ali). Dopo dormirai. Sognerai con me così sarete in due che mi amerete. A te che dormi bacerò la bocca, a te che sogni bacerò la schiena. Sarò così felice che mi darà vergogna.

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Emilio Salgari Aspirava al mestiere di pirata (o almeno di marinaio) ma dovette contentarsi di esserlo sono nella fantasia. Inventò Sandokan, la tigre della Malesia, che fece sognare milioni di adulti e di bambini. Scrisse 84 romanzi, quasi tutti best-sellers strapieni di avventure straordinarie. Fu il Verne italiano, ma senza i soldi del francese. Si suicidò a Torino (come Pavese, come Primo Levi) col suo rasoio in una collina vicino al Po. Aveva 48 anni ed era quasi cieco. Lasciò una lettera al suo editore per incolparlo dell’evento e per esigere che gli pagasse il funerale. «Questa - scrisse – è l’unica vendetta che mi hanno lasciato: spezzare la mia penna». C’è chi pensa che quello dello scrittore sfruttato fu il più rotondo dei suoi personaggi e che la verità fu molto più patetica: alcolismo, sifilide e una moglie ninfomane che non lo soppportava. (Pensando a lei aveva creato tutte le sue eroine e speciamente l’indimenticabile Perla di Labuan). La internarono in un manicomio e lì si spense a poco a poco, sognando i passati splendori. Anche due dei suoi quattro figli si suicidarono. Dicono che il punto di maggior contatto di Salgari con l’epica fu come organizzatore di corse di gatti.

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Vittorio Gassman

Cattedrali Gotiche

Padre austriaco, madre pisana. Dei due latin lovers universali che l’Italia diede al mondo era il duro, Mastroianni il tenero, I suo compatrioti lo chiamavano Il Mattatore. Il meglio di sé lo mise nel teatro: fu Kowalsky nel Tram... fu Amleto, fu Kean ma la sua popolarità la deve al cinema. Incominciò da bieco damerino in Riso Amaro e in Anna poi passò alla commedia. Fu il Bruno Cortona de Il Sorpasso, archetipo insuperabile del seduttore irresponsabile che distrugge tutto ciò che tocca. Fumatore compulsivo, bevitore elegante. Credeva che gli attori sono sopravvalutati. Diceva: «sono scatole vuote, e quanto più vuote meglio». L’arrivo della vecchiaia lo trovò impreparato e cadde in depressione. Diceva che Dio ha sbagliato a darci una vita breve e unica. «Ce ne vogliono due: una per capire e l’altra per agire». Avrebbe voluto morire sulla scena ma un anonimo infarto se lo portò via a 77 anni. Molti lo ricorderanno recitare Pavese: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi».

In tempi più ingenui queste ombrose scatole di pietra (dove si custodisce la Paura della Morte) furono un messaggio elevato alle Altezze e il simbolo di un lavoro ben fatto. Ora sono solo un cattivo affare. Sto sempre scomodo nelle cattedrali e sommerso in lugubri riflessioni. Mi disgustano i loro angoli mal puliti la luce scarsa, l’odore di rancido il silenzio compulsivo, gli organi minacciosi. Credo che delle cattedrali mi piace solo il loro fresco d’estate. Non penserei mai di cercarci un dio. Poiché l’arte non è premeditata (non è un delitto, non è un affare) gli uomini di Altamira la incontrarono senza cercarla: arrivò loro come una rivelazione, come un bisonte. Cio che ci scandalizza in Altamira è la prova inconfutabile che l’arte può nascere già perfetta. da Di oggi, Omero prende solo il f iore Traduzione di Antonietta Tiberia 93


Il controllo delle emozioni

premura non corrisposta, di una promessa non mantenuta o di

rica)

Beh, allora io preferisco restare bambina.

Red Bank,12 ottobre 2015 (Columbus day, la conquista dell’Ame-

un’amichevolezza che si svela fasulla, temporanea o utilitaristica... Preferisco restare emarginata da questo gioco collettivo del non

Dovevo toccare con mano pienamente l’educazione anglosassone

al controllo delle emozioni in favore di un dominio della logica su di esse.

Dovevo immergermi completamente, con tutti gli handicap di cui l’età mi ha dotata nella corsa a gomitate (dove tutto è lecito) per

la conquista e il mantenimento di un diritto al lavoro, per capire e rivendicare il fatto che io, di questa logica della corazza, non sono capace, non posso e non voglio fare parte.

Come potrò riuscire a offrire il mio lavoro in cambio di sostenta-

mento senza dover pagare il prezzo dell’anestesia e dell’indifferenza? Dove potrò andare? Quale comunità è la mia, dove la troverò, se

mai esiste? Io questo, ancora, non lo so. Temo che la mia vita finirà senza che io l’abbia capito.

Se essere adulti, come è diffusamente sostenuto è l’imparare a

farsi toccare dalle emozioni in cambio di riuscire ad avere un posto nella società umana.

Se il costruirsi, con l’esperienza, un’indifferenza alle ferite è il

prezzo da pagare per potercela fare entro un contesto che ha altre scale di valori, successo, potere, denaro, rispetto a quello del “tro-

varsi a vicenda”, beh, allora io non ho le capacità per pagarlo, questo prezzo.

Non è che io non voglia, è che proprio non so farlo.

Vivere parzialmente protegge, è vero, ma contemporaneamente

interrompe e nega l’esistenza di un circuito che è stato aperto da un qualunque contatto che è avvenuto.

Comprendo, e addirittura ammiro e invidio chi è capace di proteggersi, chi ha i suoi interessi rivolti sulle conquiste materiali o gode di altro cosí tanto da non sentire troppo l’assenza delle relazioni o

la ferita dei tradimenti, ma io resto comunque incapace di pagarne

reggere la frustrazione, è l’abituarsi a non farsi travolgere dalla

delusione di un cinismo funzionale, di un amore rifiutato, di una

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il prezzo, poiché al contrario, le volte in cui il circuito dare-avere

funziona, ecco che il mio contatto con le emozioni in ugual modo


SABINA VANUCCI legge SABINA VANNUCCI di gioia e di dolore, mi regala quanto per me c’è di più prezioso al

trazione.

cui rinuncia sottrarrebbe alla mia esistenza il suo stesso senso.

Non so se lei sia grata a me tanto quanto io sono grata a lei per la

mondo: momenti sublimi di passione e di entusiasmo, pienezza la Se accade un comportamento che, interrompendo il circuito da-

re-avere genera ferite emotive, non è l’aggredito che deve imparare a proteggersi controllando le proprie emozioni, non è l’aggredito

che deve mantenere un comportamento politically correct che non arrechi disturbo, ma è l’aggressore che deve essere neutralizzato. L’emozione è un sentimento sanissimo. E l’educare al ‘reggere la

frustrazione’ non è che un’altra delle armi di cui si serve l’aggressore o chiunque pretenda di dominare.

Io amo il rapporto con la natura, che offre tutta se stessa per quel che è e che, pur difendendosi, è priva di giudizio.

Non so se la natura provi sentimenti come li proviamo noi umani. totale offerta di sé che mi fa, per il suo esserci sempre. Ma nono-

stante io non sappia se lei provi o meno un sentimento per me, da

lei e dal suo silenzio, al contrario di quanto mi accade con l’umanità, io non mi sento mai ferita.

La natura non giudica, non si protegge, non ha secondi fini né rancori.

Non ha comportamenti schizoidi, derivati da vissuti disgraziati, che debbano essere compresi o da cui doversi difendere.

Lei è semplicemente quel che è. E si offre alla relazione totale.

Sia che tu lo voglia, sia che tu non voglia accorgerti di lei, lei è lí. La natura pare un trionfo del godere, è il manifesto stesso dell’espressione del sé di ogni specie, è il compimento dell’interazione

tra esse. Tutto è estremo, tutto, nel bene e nel male celebra totalmente, senza sottrarvisi, il suo divenire.

In natura non esistono circuiti interrotti, tutto si compie.

Ogni relazione avvenuta genera pienamente le sue trasformazioni negli elementi che sono entrati in contatto tra loro. Non vi è sot-

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da Diario di un’ emigrante vintage 2014-2019


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MARTA ZEICHEN legge VALENTINO ZEICHEN A Evelina, mia madre

Mandato

Dove saranno finiti la veduta marina, il secchiello e la paletta, e i granelli di sabbia che l’istantaneo prodigio tramutò in attimi fuggenti, travisandoli dal nulla in un altro nulla? Dove sarà finito l’ovale di mia madre che fu il suo volto e che il tempo ha reso medaglia? Perché non mi sfiora più con le sue labbra, dove sarà volato quel soffio che raffreddava la mia minestrina? Dove le impronte di quel lesto e disordinato sparire delle cose? In quale prigione di numeri è rinchiuso il tempo? Rispondimi! Dolore sapiente, autorità senza voce.

Per la comune sopravvivenza dite addio ai luoghi esotici, e fate solenne promessa di non rivederli mai più affinché le scie dei jet non sfregino ancora il cielo intossicando gli angeli che volano a quelle quote. Poiché vi hanno sottoposto al lavaggio del cervello maledirete l’impostura del bianco e l’indotta fobia dello sporco. Stramaledirete il bagnoschiuma lo shampoo e lo scialacquare detersivi in mare che arrossisce per pudore. Per inguaribile nostalgia cercherete invano a Gibilterra o a Tangeri, un pezzo di sapone del tipo Marsiglia.

Biasimerete solo la confusione e l’impotenza d’azione dei Verdi poiché valgono assai meno d’una maledizione, e sembrano avere un cervello più affine a quello limbico dei grandi rettili estinti, altrimenti non riesumerebbero una parentela di fossili: carbone e petrolio il cui spirito vendicativo d’anidride carbonica ci ucciderà prima dell’atomo. E in “calce” vi malediranno Le future generazioni.

da Valentino Zeichen Poesie 1963 - 2014

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ANTONIO MARZIANTONIO recita ALDA MERINI

Antonio Marziantonio Reading e Recital su Alda Merini Alla rassegna è intervenuto Antonio Marziantonio, attore, cantante e autore. Sabato 9 Marzo ha partecipato leggendo alcune divertenti e graffianti poesie di Trilussa come Er compagno scompagno, La cecala d ’oggi, L’onestà de mi’ nonna e Lo smemorato. Domenica 10 Marzo ha interpretato dal suo progetto Viaggio nella Poesia Italiana, il reading - recital su Alda Merini, spaccato di vita della grande poetessa milanese che ripercorre i momenti più importanti della sua odissea; dagli esordi letterari da “enfant prodige” degli anni’40 - attraverso l’inferno durato 14 anni nel manicomio Paolo Pini - alla rinascita che la porterà alla ribalta nazionale e addirittura alla candidatura al premio Nobel per la Letteratura. La Merini scende all’inferno, il manicomio, per poi emergere ed esplodere nella luce di una poesia maturata nel buio e quindi più potente e dirompente. Antonio Marziantonio con il suo racconto e l’interpretazione di alcune delle sue più belle poesie, come Lettere, Io non ho bisogno di denaro, Mi piace il verbo sentire, ci ha fatto rivivere il mistero rabdomantico della poetessa, dove fluttuano parole, musica, passione e senso infinito della vita che vanno a confluire in una purissima e ispirata poesia. Il tutto intervallato da alcune canzoni come The fool on the hill e Canzone per Alda Merini 99


Non ho bisogno di denaro Non ho bisogno di denaro. Ho bisogno di sentimenti Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri, di rose, dette presenze, di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue, di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti... Ho bisogno di poesia, questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi

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Quelle come me Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.

Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai,

perchè un’anima da sola è come una goccia nel deserto.

Quelle come me vorrebbero cambiare,

Quelle come me donano l’anima,

son caduti nel dimenticatoio dell’anima.

Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi,

ma il farlo comporterebbe il nascere di nuovo.

pur correndo il rischio di cadere a loro volta.

Quelle come me urlano in silenzio,

Quelle come me guardano avanti,

perchè la loro voce non si confonda con le lacrime.

anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.

Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore,

Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano,

perchè sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.

tentano di insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.

Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio

Quelle come me quando amano, amano per sempre,

non riceveranno altro che briciole.

e quando smettono d’amare è solo perchè

Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,

piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita.

purtroppo, fondano la loro esistenza.

Quelle come me inseguono un sogno

Quelle come me passano inosservate.

quello di essere amate per ciò che sono

ma sono le uniche che ti ameranno davvero.

e non per ciò si vorrebbe fossero.

Quelle come me sono le uniche che, nell’autunno della tua vita rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti e che … tu non hai mai voluto.

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Vorrei un figlio da te, che sia una spada lucente, come un grido di alta grazia, che sia pietra, che sia novello Adamo, lievito del mio sangue e che dissolva più dolcemente questa nostra sete.

Lettere Rivedo le tue lettere d’amore illuminata adesso da un distacco, senza quasi rancore. L’illusione era forte a sostenerci, ci reggevamo entrambi negli abbracci, pregando che durassero gli intenti. Ci promettemmo il sempre degli amanti, certi nei nostri spiriti divini.

Ah se t’amo! Lo grido ad ogni vento gemmando fiori da ogni stanco ramo, e fiorita son tutta e di ogni velo vò scerpando il mio lutto perché genesi sei della mia carne.

E hai potuto lasciarmi, e hai potuto intuire un’altra luce che seguitasse dopo le mie spalle.

Ma il mio cuore trafitto dall’amore ha desiderio di mondarsi vivo, e perciò, dammi un figlio delicato! Un bellissimo vergine viticcio da allacciare al mio tronco.

Mi hai resuscitato dalle scarse origini con richiami di musica divina, mi hai resa divergenza di dolore, spazio, per la tua vita di ricerca per abitarmi il tempo di un errore.

E tu, possente padre, tu olmo ricco di ogni forza antica, mieterai dolci ombre alle mie luci.

E mi hai lasciato solo le tue lettere, onde io le ribevessi nella tua assenza.

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Mi Piace il Verbo Sentire Mi piace il verbo sentire…

Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore.

Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra,

sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco. Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce

e sentirlo col cuore.

Sentire è il verbo delle emozioni,

ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente…

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EX LIBRI di MARIA GRAZIA TATA La mostra, alla Maison Musée Dorée in occasione del “Maggio dei libri” 2018, vede protagonisti volumi di diverse epoche, dimensioni e argomento, intrappolati da ragnatele di filo; l’artista vuole così rappresentare la crisi del libro come strumento di conoscenza. Allo stesso tempo, l’imprigionamento suscita nell’osservatore interesse e curiosità per l’oggetto inaccessibile, ormai escluso dal circuito dell’uso e quindi musealizzato. La ragnatela, d’altra parte, in qualità di rappresentante della spettacolare armonia geometrica della natura, è strumento che protegge e accudisce ogni libro. Il titolo dell’esposizione racchiude il dualismo profondamente contemporaneo tra il decadimento della funzione del libro, ormai ex strumento cardine dell’educazione, e la sua consacrazione, simboleggiata dal prestigio degli ex libris del passato: contrassegni di proprietà libraria di pregio. Beatrice Palazzoni

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Opere di Maria Grazia Tata

EX LIBRI: BIBLIOTECA CONTINUA 2019 (libri, cornici, filo)

EX LIBRI MAUPRAT : GEORGE SAND 2018 (libro, cornice, rame) EX LIBRI GOETHE SAEMTLIKCHE WERKE 2018 (libro, filo, plexiglass) EX LIBRI CLINICA DELL’ABBANDONO : ALDA MERINI 2018 (libro, cassetta inneschi armi, filo) EX LIBRI UN CERTO PIUMA : HENRI MICHAUX 2018 (libro, filo, legno) EX LIBRI VOCABOLARIO DELLA LINGUA ITALIANA : PETROCCHI 2018 (libro, filo, legno) EX LIBRI DUE PUNTI : WISLAWA SZYMBORSKA 2018 (libro, ferro, plexiglass) EX LIBRI PESCATORE D’ISLANDA : PIERRE LOTI 2018 (libro, ferro, filo) EX LIBRI CINQUANTACINQUE POESIE : COSTANTINOS KAVAFIS 2018 (libro, rame) EX LIBRI ENCICLOPEDIA ‘IL MILIONE’ 15 VOLUMI 2018 (libri, filo)

Le fotografie delle opere di Maria Grazia Tata sono di Juan Carlos González Santiago

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...a tutti 108


Peppe De Gregori e Antonio Idini

grazie!

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! 114


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