JUST KIDS
Aprile 2013 4,50 euro
Anno I - n. 01
Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - inD.L. conv. in conv. L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM1 S1/RM Poste italiane s.p.a. - Spedizione A.P.353/2003 - D.L. 353/2003 in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma
[MARTA SUI TUBI] [BAUSTELLE] [GIORGIO CANALI] [?ALOS] [JASPERS] [MASSIMO BUBOLA]
Thom Yorke. Fast Animals And Slow Kids. Sycamore Age. Lorenzo Capello. Decana. Libera Velo. Appino. Weird. Universal Daughters. Lilies On Mars. Sananda Maitreya. Toni Bruna. See You Downtown. Giovanni Truppi. The Fuck Yous. Rusted Pearls. COMPILATION by PROMORAMA. Ritorno a casa. Incontro notturno. Rimembranze. Gesualdo in fila per te. Following M. Burro e altri misfatti. Il cane nero. Emanuel Carnevali, l’uragano. Django unchained. Lincoln. The Master. La migliore offerta. La bottega dei suicidi. I due foscari e il trio che ammalia: Verdi, Herzog, Muti. Al giorno d’oggigiorno. Silenzio in sala o vi ammazzo. Quando il giudice saggio diede ragione ai due litiganti. Il bambino del nord. C’era una volta.
otta d o r p o t u ta a è una rivis on-line e r a li g o f s che puoi ar taceo c o t a m r o re in f r taceo a c / m o c . e acquista r .tumbl e n i z b e w tkids www.jus
SOMMARIO [Musica] INTERviste
06 |marta sui tubi di Nadia Merlo Fiorillo e Catherine 17 |BAUSTELLE di Nadia Merlo Fiorillo e Anurb Botwin 26 |giorgio canali di James Cook 32 |?Alos di Claudio Delicato 36 |Jaspers di Claudio Avella 39 |Massimo Bubola di Andrea Furlan e James Cook
recensioni
43 | Thom Yorke|Atoms for peace Amok di Thomas maspes 44 |FAST ANIMALS AND SLOW KIDS|Hybris di Antonio Asquino 45 |sycamore age|sycamore age di Grace of Three 46 |lorenzo capello|il partenzista di Luca Anzalone 47 |decana|DECANA di Andrea Serafini 48 |LIBERA VELO|Rizoma contro Albero di Nadia Merlo Fiorillo 49 |appino|il testamento di Nadia Merlo Fiorillo 50 |WEIRD|Desert love for lonely graves di Alina Dambrosio 51 |UNIVERSAL DAUGHTERS|Why hast Thou forsaken me? di Alina Dambrosio 52 |lilies on mars|dot to dot di Giulia Palummieri 53 |sananda maitreya|Return to zooAthalon di Andrea Barbaglia 54 |toni brunA|formigole di Andrea Barbaglia 55 |see you downtown|SYD di Andrea Barbaglia
recensioni delicate di Claudio Delicato 56|giovanni truppi|il mondo e’ come te lo metti in testa 57 |THE FUCK YOUS|Meat The Fuck You
suggestioni
di Andrea Furlan 58 |Rusted Pearls|The Fancy Free Roadsigns
Live report
60 |sycamore age di Grace of Three compilation in free dowload PROMORAMA
[immaginario] 62 |la dimensione eroica del microbo di Maura Esposito|Ritorno a Casa 64 |punto focale di Giulia Blasi|Incontro Notturno 66 |parola immaginata di Davide Uria|Rimembranze 68 |sommacco di Luca Palladino|Gesualdo in fila per te 69 |sommacco di Giorgio Calabresi|Following M. 70 |sommacco di Francesca Gatti Rodorigo|Burro e altri misfatti 71 |sbevacchiando pessimo di Paolo Battista|Il cane nero
vino
[POESIA] 74 ||scrap
di Cristiano Caggiula|Emanuel Carnevali, l’uragano
[CINEMA] 76 |Lo spettatore pagante
di Antonio Asquino|Django unchained |Lincoln |The Master |La migliore offerta | La bottega dei suicidi
[LIBRI] 79 |l'occhio
di Sabrina Tolve |I due foscari e il trio che ammalia: Verdi, Herzog, Muti
[STERILITA' DEL BENPENSARE] 80 |parodia della volonta’
di Edoardo Vitale|Silenzio in sala o vi ammazzo 82 |liberta’ e’ partecipazione di Claudio Avella| Quando il giudice saggio diede ragione ai due litiganti 84 |cattivi pensieri di Franco Columbu|Al giorno d’oggigiorno 85 |buononononoub di Gianluca Conte|Il bambino del nord 86 |sexon di Catherine|C’era una volta
JUST KIDS
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Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.” da “Just Kids”, Patti Smith
JUST KIDS KIDS è una rivista di musica, immagini, poesia, cinema, libri, storie, racconti. Nasce dalla voglia di raccontare le proprie passioni e la propria forma d’arte. Direttore editoriale Anurb Botwin justkids.redazione@gmail.com Responsabile musica e social network James Cook - justkids.james@gmail.com Responsabile rubriche Giorgio Calabresi - justkids.rubriche@gmail.com Responsabile distribuzione cartaceo Catherine - justkids.distribuzione@gmail.com Versione sfogliabile on-line www.issuu.com/justkidswebzine justkidswebzine.tumblr.com Facebook facebook.com/justkidswebzine Scrivono Alessandro Barbaglia, Alina Dambrosio, Andrea Barbaglia, Andrea Furlan, Andrea Serafini, Antonio Asquino, Anurb Botwin, Catherine, Claudio Avella, Claudio Delicato, Cristiano Caggiula, Daniela PeaceandLove, Davide Uria, Edoardo Vitale, Francesca Gatti Rodorigo, Franco Culumbu, Gianluca Conte, Giorgio Calabresi, Giulia Blasi, Giulia Palummieri, Giuseppe Losapio, Grace of Tree, James Cook, Luca Palladino, Maura Esposito, Nadia Merlo Fiorillo, Paolo Battista, Sabrina Tolve, Thomas Maspes Hanno collaborato a questo numero Luca Anzalone Cover by Simone Cecchetti JUST KIDS
Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538 Mensile, Anno I - n. 01 Direttore responsabile Rocco Perrone Editore Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ) 0975/841077
Stampatore DM Services S.r.l. Via di Valle Caia Km 9.900 00040 Pomezia (RM) JUST KIDS
editoriale di Anurb Botwin
“La solita webzine”, ci hanno detto.
Quando una grande testata giornalistica che parla di musica ponendosi come la vera alternativa allo starsystem, denigra il mondo delle webzine musicali con quell’aggettivo “solita”, un po’ viene da pensare che devo rivedere il concetto di insolito. E quando una grande testata giornalistica, che magari per caso ha anche un grande gruppo editoriale alle spalle, dice “noi andiamo avanti con le nostre forze”, un po’ viene da pensare che le nostre piccole forze sono davvero enormi. E quando una rivista come Just Kids, autoprodotta ed indipendente, con circa 30 persone che scrivono a titolo gratuito assecondando semplicemente la propria passione musicale e artistica, arriva a chi inaspettatamente ha saputo apprezzarla, penso che questi discorsi siano davvero nulli e l’unica cosa che mi viene in mente è la meraviglia che c’è nel vedere le persone che si appassionano alle cose. E se questo significa essere la solita webzine, ok siamo la solita webzine, fermo restando il grande rispetto per il giornalismo professionale di riviste di settore che puntano più alla qualità degli articoli proposti che ai primati nelle classifiche che definiscono il livello di interazione con i propri lettori su facebook. (Riferimenti casuali) Ma senza cercare paragoni tra una realtà a zero zeri e una realtà che ne ha svariati, semplicemente dico viva la gente che disinteressatamente scrive di quello che gli piace davvero, liberi da piani e strategie di marketing. Siamo solo dei ragazzi che, soliti o meno, cerchiamo di riempire svariate pagine di cose belle. Con l’ambizione della carta stampata.
Buona lettura!
Come Come Come Come
be my April Fool you're the only one on your rusted bike we'll break all the rules
We'll ride like writers ride Neither rich nor broke We'll race through alleyways In our tattered cloaks so Come be my April Fool Come we'll break all the rules We'll burn all of our poems Add to God's debris We'll pray to all of our saints Icons of mystery We'll tramp through the mire When our souls feel dead With laughter we'll inspire Then back to life again Come you're the only one Come be my April Fool Come come Be my April Fool We'll break all the rules (April Fool, Patti Smith)
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MARTA SUI [Musica] INTERviste
di Nadia Merlo Fiorillo e Catherine
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TUBI
[Musica] INTERviste
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oltissimi li hanno apprezzati nell’ultima edizione del Festival di Sanremo, dove hanno portato due dei pezzi del loro nuovo album, “Cinque, la luna e le spine”, confermandosi una delle band più originali dell’indie rock italiano, sia per l’impatto acustico che li caratterizza, sia per la presenza scenica impetuosa che ha reso famosi i loro live. Abbiamo scambiato due
Marta Sui Tubi
sull’ultimo chiacchiere con i disco e su molto altro ancora. Il risultato è questa intervista, che svela il giudizio dei Marta sulla loro produzione artistica e sull’attualità italiana, musicale e non.
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[Musica] INTERviste
|ph by Giulia Spinelli
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[Musica] INTERviste
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Non ci siamo ritrovati da un momento all’altro famosi, non ci hanno mai dedicato una copertina per esempio. Nessuna delle riviste italiane che si occupano di musica indipendente ci ha mai degnato di troppa attenzione, pensavano forse che nel tempo di noi non si sarebbe ricordato più nessuno. E invece siamo ancora qua.
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nizierei dalla fine con una domanda che di certo vi aspettate, così tocchiamo subito argomenti caldi e ci leviamo il pensiero: Sanremo, come, quando e perché. Con quale spirito e quali aspettative vi siete messi in gioco nell’olimpo del mainstream musicale italiano e cosa ne avete ricavato di positivo e di negativo? Sanremo è stata la settimana più bella della mia vita. Assolutamente gratificante. Chiaramente ci siamo ritrovati in un contesto a cui non eravamo abituati, noi apparteniamo a una scena molto diversa da quella di Sanremo, siamo un gruppo alternativo e indipendente e non siamo abituati ai lustrini e alle paillettes. Credo però ci siano esperienze da fare nella vita; anche se non ti metti mai la giacca e la cravatta ti capiterà di andare una volta nella vita a un matrimonio!? Alla fine ci siamo trovati molto bene, abbiamo vissuto una bellissima atmosfera. La gente, dai tecnici agli autori, a Sanremo è abbastanza rilassata, tutti ci hanno fatto sentire a nostro agio. Devo dire che abbiamo bene ponderato la scelta di candidarci o meno (a Sanremo non ti invitano, devi candidarti, mandare la canzone e aspettare di essere selezionato). Non avremmo mai partecipato alla competizione canora di Sanremo in un’altra situazione, l’abbiamo fatto quest’anno perché con Fabio Fazio alla conduzione e soprattutto con Pagani alla direzione musicale abbiamo pensato potesse essere l’edizione giusta da un punto di vista qualitativo delle scelte artistiche e infatti credo che il Sanremo di quest’anno sia stato migliore rispetto agli anni passati. Abbiamo rappresentato un po’ la musica “strana” che si fa in Italia, ma penso sia stato un bene per tutta la scena alternativa che noi quest’anno fossimo lì: ab-
biamo fatto capire che la musica non è fatta solo di canzoncine pop, che ci sono musicisti che seguono altre strade, che hanno altre idee e altri tipi di codici. Comunque a Sanremo ci sono stati i La Crus, ci sono stati gli Afterhours, i Bluvertigo, i Subsonica, i Quintorigo, insomma è bene ogni tanto che la mammina in poltrona si renda conto che c’è anche musica diversa. Tirando le somme lo rifareste o no? Probabilmente ancora non se parla, ma nelle intenzioni? Ma sì, dipende da un sacco di cose. Dipende innanzitutto da cosa di nuovo avremo da proporre e dipende dalla conduzione artistica, certo è che il contesto è importante. I Festival così come condotti negli ultimi anni non ci rappresentavano. Insomma, vedremo come andranno le cose. Per il momento non è in agenda, come dicono i politici. Riguardo invece alle due canzoni che avete scelto di cantare, abbastanza diverse tra loro, ce n’è una in cui avete creduto di più? O un’altra che avete considerato particolarmente adatta? Inizialmente abbiamo presentato solo Dispari, ci è stato detto che il pezzo era piaciuto e che serviva un’altra canzone, allora abbiamo terminato Vorrei e l’abbiamo inviata. Erano le uniche canzoni che avevamo già pronte. Diciamolo: avevamo appena iniziato a scrivere il nuovo disco. Insomma, la canzone destinata a Sanremo era Dispari...? Io in realtà mi aspettavo sarebbe passata Dispari. Forse per il refrain tipo filastrocca pensavo potesse essere più orecchiabile e invece è andata Vorrei.
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A proposito di Dispari, questa canzone è un atto d’accusa rivolto ad una prassi ormai consueta nei rapporti interpersonali: quella di menomare il contatto “reale” con gli altri, preferendo forme di interazione virtuali nei social network. Cos’è che manca di sostanziale nelle relazioni virtuali e cosa invece dovrebbe essere davvero social? La gente pensa che relazionarsi agli altri sia scrivere o mostrare le foto sui social network. Prima, l’approccio con la persona che ti piaceva consisteva nel prendere a due mani il coraggio e andare a presentarti in maniera spiritosa e originale, provando a incuriosirla. Adesso ci si presenta virtualmente attraverso una sorta di “campionario” multimediale e ostentando citazioni e pose da figo, come se tutti fossimo diventati fotomodelli e personaggi prima di essere persone. È una cosa a cui non mi abituerò mai. Va bene il progresso, va bene il cambiamento, ma le cose a volte si evolvono in modi che non ti aspetti. Il discorso del sentirsi “dispari” è riferito anche al fatto che prima, per ingannare il tempo, si prendeva in mano un libro oppure un disco, attribuendo a questi oggetti qualità quasi umane perché ti facevano compagnia e ti stavano simpatici. Adesso nel tempo libero ci mettiamo online con i nostri dispositivi e tutto si riduce a sfogliare informazioni, spiando quello che fanno gli altri. In questo modo è difficile sentirsi abbinati a qualcosa, completati. Si hanno tante occasioni, tante cose e tante persone che puoi commentare, ma non riesci ad avere con loro lo stesso rapporto che avevi con il tuo libro o con il tuo disco. Uccidi la noia, ma in sostanza la solitudine resta. È questo che ti fa sentire dispari. In “Cinque, la luna e le spine” c’è anche molto altro. Avete dichiarato in un’intervista che per tutte le fasi della lavorazione del nuovo disco sono stati impiegati solo 3 mesi. Non so se si è trattato di una scelta voluta o obbligata, ma credi che un tempo così breve abbia in qualche modo penalizzato l’album o ne siete totalmente soddisfatti? Sicuramente la possibilità di andare a Sanremo era molto ghiotta dal punto di vista promozionale e sarebbe stato un peccato se non avessimo avuto un disco pronto, per cui abbiamo accelerato i tempi, chiuso i pezzi e registrato immediatamente. Le ultime modifiche risalgono a solo una settimana prima dall’uscita nei negozi di dischi, quindi immagina la frenesia. Però mi piace questa cosa qua, è la prima volta che realizziamo un disco in così poco tempo, è la prima volta che entriamo in studio e realizziamo una roba così veloce e intensa. Mi piace che si percepisca negli arrangiamenti questo senso di urgenza e di istantaneità. Canzoni come scatti fotografici della nostra vita in un ciclo temporale così breve. Sono molto soddisfatto di questo disco. Cosa mi dici dell’uso nuovo per voi dell’elettronica? In Cinque si nota un’integrazione delle vostre sonorità elettroacustiche con quelle sintetizzate: è stato un esperimento di esclusiva innovazione o avete ritenuto che mancasse qualcosa al tipico sound dei Marta? Non trovo ci sia molta elettronica. Solo in qualche canzone forse, il re|ph by Giulia Spinelli
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sto del disco è acustico al 100%. Possiamo dire innovazione perché la produzione artistica è diversa e il produttore influenza sempre un po’ con il suo gusto musicale, naturalmente mediato dal nostro intervento e dalla nostra musica. Ci piaceva l’idea di un suono più robusto e abbiamo scelto questa direzione, il prossimo disco potrebbe essere completamente diverso. Parlando ancora di sound, ho letto un commento su di voi che in cui si parlava di “assolutamente ben fatto virtuosismo, mai invadente ma sempre indirizzato all’emozione”.
Avete dichiarato che se non riuscite a godere di una canzone, di solito la lasciate perdere. Emozione e godimento quando suonate, parlamene. Cosa significa? Noi ci divertiamo a fare musica, sia a scriverla che a suonarla sui palchi. Non ci piace fare canzoni riempitive per un disco. Magari hai 4 o 5 pezzi che funzionano e per il resto butti giù le prime cose che ti vengono in mente. Invece no, se non ci sono le canzoni non si fa il disco. Tutte le canzoni devono avere un loro perché, devono emozionarci, devono arricchire per primi noi, altrimenti non ci interessano. Ci si può mettere anche
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|ph by Giulia Spinelli [Musica] INTERviste
“Entrare nella vita di qualcuno e procurargli gioia è un privilegio importante”
tre anni a fare un disco, non importa. Il tecnicismo è relativo, non ci interessano le capriole e i giochi di prestigio con gli strumenti oppure stupire l’ascoltatore con i virtuosismi. La tecnica è importante, ma non può essere fine a se stessa. Riguardo al tour, come suonerà Cinque, la luna e le spine nei vostri prossimi live? Bhè, spero bene. Cercheremo di suonare dal vivo esattamente quello che si trova sul disco, faremo in modo che si avvicini molto. Per il resto, oltre alle canzoni di Cinque, la luna e le spine ci sarà anche un’altra
quindicina di canzoni che riepilogano un po’ il nostro percorso musicale fino a oggi. Circa due o tre pezzi per ognuno dei dischi precedenti. Qualche curiosità sugli altri brani. Vagabond home è l’unico pezzo dell’album in lingua inglese. Avete mai pensato ad un disco totalmente anglofono o ritenete che uno dei vostri punti di forza sia anche l’immediatezza delle liriche? Secondo me Vagabond home è uno dei pezzi più belli del disco, nessuno mi ha mai fatto una domanda su
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|ph by Giulia Spinelli Vagabond home. Tuttavia no, un disco totalmente in lingua inglese non credo che lo faremo mai. Questo è un pezzo che è venuto così, avevamo in testa qualche frase in inglese che suonava bene e dopo dieci anni di carriera un pezzo in inglese non è una cosa strana, anche perché tutti noi nasciamo dall’ascolto di musica anglofona. Viene quasi naturale.
fetta probabilmente tenderai ad uniformarti allo stile che va. Può succedere ci sia un artista di successo e che molti cerchino di avvicinarsi al suo stile. Secondo me non è la strada migliore, perché se sei un artista dovresti avere il tuo modo personale altrimenti sei uno che copia. Vale anche per il resto dell’arte: i pittori non sono quelli che riproducono i quadri degli altri, ma quelli che creano opere originali. Personalmente ho avuto molti punti di riferimento e anche influenze, tantissime, ma non ho mai provato a imitare nessuno. Ho cercato di creare un mio stile utilizzando la lingua italiana nel modo più creativo possibile, senza pensare troppo a individuare la linea vocale ruffiana che può girare meglio in radio.
Tre è il proscenio perfetto per le tue evidenti abilità tecniche, che ti hanno molte volte procurato il paragone con Demetrio Stratos, vuoi per l’estensione della voce, vuoi per l’utilizzo “studiato” che ne fai. Secondo te, come è possibile oggi difendersi dalla standardizzazione dell’uso vocale imposta per lo più dai talent show? Proprio rispetto alle influenze e ai punti di Dipende da quello che vuoi fare. Se vuoi fare musica riferimento, va detto che in passato avete per diventare famoso e cantare la canzone pop per- collaborato con Ruggeri per una reinterpreta-
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zione di Contessa, avete riproposto Pigro in un disco-tributo a Ivan Graziani ed è noto a tutti il vostro sodalizio con Lucio Dalla. In Cinque quanto cantautorato italiano è presente e quali sono i cantautori nei confronti dei quali vi sentite maggiormente in debito artistico? Io il cantautorato non l’ho mai ascoltato, o meglio l’ho scoperto tardi. Certamente ho una formazione musicale di tipo diverso, a vent’anni ascoltavo musica noise, metal e psycho punk, roba probabilmente inascoltabile per moltissimi dei miei coetanei. Poi crescendo ho capito che c’era anche un repertorio valido di musica italiana e ho cercato di recuperare un po’ il debito dovuto alla mia superficialità. Non conosco bene il lavoro di molti cantautori, apprezzo moltissimo per esempio i testi di De Andrè, il coraggio di Battisti, la sperimentazione di Dalla, l’impegno politico di Guccini, il genio poetico di Gaber, ma
sono tutte cose che ho ascoltato tardi. Quand’ero ragazzo, il cantautorato mi dava fastidio perché sentivo tante belle parole, ma consideravo la musica scontatissima e io invece cercavo il trasporto nel ritmo della musica. La musica non mi doveva fare stare fermo ma doveva trasmettere la rabbia e il senso di anarchia che sentivo dentro. Con il tempo naturalmente le cose cambiano, scopri il mondo, vedi come è stato descritto dagli artisti e allora capisci che hanno fatto un grandissimo lavoro. Insieme a Tania Varuni sei il fondatore di Musicraiser, piattaforma di crowdfundig interamente dedicata alla musica e divenuta in poco tempo promotrice di interessantissimi progetti realizzati da artisti italiani noti e meno noti. I Marta hanno mai pensato di usufruire di una raccolta fondi, dunque di utilizzare questo
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nuovo strumento di finanziamento che coinvolge direttamente il contributo dei fan in una produzione artistica? Al momento non abbiamo progetti in tal senso, ma non è escluso che il prossimo disco lo produrremo così, chi lo sa. Non ne abbiamo mai parlato perché non ho pensato ai Marta sui Tubi quando ho fondato il Musicraiser, ho solo creduto fosse una cosa molto utile e importante per la scena della musica indipendente Italiana. Nell’ambiente di soldi e di fondi non ce n’è più, quindi perché non rivolgersi proprio ai fan per fare uno scambio? Il fan aiuta a finanziare il cd e l’artista poi glielo regala, oppure lo inviata a cena, oppure a un concerto. È una cosa bella far partecipare i tuoi fan al tuo progetto e magari farli finire nelle note dei ringraziamenti. Se io avessi potuto fare una cosa del genere per i Radiohead o per i CCCP 20 anni fa l’avrei fatta molto volentieri, sicuramente è un metodo meritocratico. In questo contesto capitano cose molto strane, per esempio arriva un’artista come Barbara Cavaleri, bravissima cantautrice che canta canzoni in inglese, chiede un finanziamento di 1500 euro e riesce ad avere il doppio anche senza avere fan, perché magari la finanzia gente che prima non la conosceva ma l’ha ascoltata lì. Così come capita, al contrario, che artisti con 20.000 fan su facebook facciano una raccolta ma nessuno li caga. Forse perché quei “mi piace” non sono sempre autentici.
prima di fare il primo disco, l’incontro con Bugo, che senza nemmeno ascoltare le canzoni si appassionò a noi come persone e ci diede i contatti del suo produttore. Poi l’incontro con Lucio Dalla, tra gli eventi recenti. Sono bei momenti, che ti rimangono in testa e che ti fanno addormentare la sera pensando “mah, bella cosa che mi è successa nella vita!”.
Rimanendo in tema di passato e presente e citando I nostri segreti, “A chi vuole un passato presente e poi si ritrova imperfetto” cos’altro hai da dire? Qual è il modo migliore per non trovarsi imperfetti nel presente? Serve resistere alla tentazione di guardarsi troppo indietro, magari per il timore di non aver preso la strada giusta, di non aver fatto le scelte migliori per noi stessi. Per esempio nelle relazioni sentimentali, lasci una persona ma ci ripensi e senti nostalgia, tutto sommato però se è successo qualcosa e non è andata bene vuol dire che doveva succedere. Bisogna pensare a quello che non si riesce a immaginare piuttosto che a quello che si conosce già. Col passato basta, è esperienza ma deve essere considerata per quello che è. Se ti ritrovi in una fase della vita in cui il tuo passato è scollegato da quello che sei, un motivo c’è, doveva andare così, punto. Nessuno può immaginare quello che il futuro può offrire, l’unica cosa certa è che se ti metti in gioco ti diverti, se invece ti rabbui pensando a quello che potevi avere e non hai più non ti diverti e vivi solo di rimpianti, di rimorsi e di Ultimissime domande. Abbiamo iniziato con la tutto quel bagaglio di stronzate che a volte ci portiafine e quindi ci sta finire con gli inizi: tempo mo nell’anima. fa sosteneste che il vostro primo lavoro, Muscoli e Dei, vi ha dato la conferma che si può A proposito di guardare oltre, quindi, cosa cambiar vita e che la musica può diventare un avete compreso e quali conferme o cambialavoro. Se doveste definire dagli esordi all’ul- menti vi aspettate da Cinque? timo album i momenti essenziali e significativi Spero che l’album arrivi a chi ci ascolta già e a chi del vostro percorso quali sarebbero? ancora non ci conosce ma avrà voglia di scoprirci. EnNon c’è mai stato un momento in cui sono cambiate trare nella vita di qualcuno e procurargli gioia è un le cose. Non ci siamo ritrovati da un momento all’altro privilegio importante. [ ] famosi, non ci hanno mai dedicato una copertina per esempio. Nessuna delle riviste italiane che si occupano di musica indipendente ci ha mai degnato di troppa attenzione, pensavano forse che nel tempo di noi non si sarebbe ricordato più nessuno. E invece siamo ancora qua. Ci sono momenti semplici ma significativi che mi ricordo, come il primo sold out al Circolo degli Artisti a Roma. Fu straordinario e commovente capire che la gente voleva venire ai nostri concerti e cantare le nostre canzoni. Un altro momento è stato ancor
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BAUSTELLE [Musica] INTERviste
di Nadia Merlo Fiorillo e Anurb Botwin
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messi da tempo i panni di fenomeno musicale per vestire quelli
Baustelle
continuano ad essere di band di culto, i acclamati da pubblico e critica come la migliore realtà dell’indie pop italiano, sostenuti da una foltissima schiera di estimatori, alla quale si contrappone spesso quella dei loro detrattori. Con l’ ultimo lavoro discografico, Fantasma, hanno raccolto commenti entusiastici, così come critiche feroci, trasferendo in tutti i casi l’attenzione su un album dalle dimensioni estetiche imponenti.Di Fantasma, dei suoi contenuti metafisici e delle sue sonorità sinfoniche abbiamo parlato con Francesco Bianconi in questa intervista per certi versi illuminante, per altri molto intima, dalla quale emerge la visione del mondo e della vita di uno degli autori meno da superficie del nostro panorama musicale. I Baustelle ci hanno parlato del tempo, della morte, di Dio e di come oggi la musica debba non tanto occuparsi di faccende politiche, quanto tornare ad essere “politica”, nel senso più nobile del termine.
Fantasma è un disco che suona in modo solenne ponendo in primo piano l’orchestra e lasciando in secondo piano la struttura pop-rock che predominava nei dischi precedenti. Perché la scelta di un ambiente sinfonico così ricercato? Il motivo per cui l’abbiamo fatto è semplicemente perché sentivamo il bisogno di esprimere una passione che abbiamo sempre avuto. Nei Baustelle c’è sempre stata una componente passionale favorevole all’orchestrazione. Fa proprio parte dei nostri gusti personali…ci piace molto la musica pop rock molto arrangiata in cui c’è anche l’utilizzo dell’orchestra. Questa volta abbiamo deciso di sviluppare questo nostro gusto premendo l’acceleratore fino in fondo nei confronti di questa passione. È nata così l’idea di fare un disco per voci ed orchestra partendo proprio dall’orchestra piuttosto che dall’arrangiamento rock, inserendo però poi anche dei colori pop rock. Com’è stato lavorare con musicisti dalla formazione classica, così lontana dalla vostra? Lavorare con i musicisti è stato davvero molto bello e anche strano nel senso che noi abbiamo scritto le parti di orchestra prima di andare a registrare in Polonia, a Breslavia. È stato bellissimo il lavoro di arrangiamento e scrittura a cui ci siamo dedicati io ed Enrico Gabrielli. C’è stato davvero un lungo lavoro di pre-produzione e scrittura delle parti per orchestra e poi con le partiture pronte siamo andati a Breslavia, dove abbiamo trascorso due giorni e mezzo molto intensi. In Polonia
abbiamo trovato una realtà sorprendentemente positiva nell’approccio alla musica e tutti gli orchestrali - giovanissmi - erano davvero molto desiderosi di fare. È stato un bel viaggio. A proposito di Enrico Gabrielli, mi viene da fare una domanda sulla paternità del disco: quanto Fantasma è figlio dei Baustelle e quanto di Enrico Gabrielli? C’è molto Enrico Gabrielli nel disco ed ha avuto un ruolo fondamentale per Fantasma che è, appunto, molto incentrato sull’orchestra. Gli arrangiamenti orchestrali sono di Enrico con la mia collaborazione e c’è da dire che io e lui abbiamo molti gusti in comune…Si può dire che io e Gabrielli siamo davvero una coppia di fatto! Il corpo del disco ha una morfologia modellata sul paradigma della proiezione cinematografica (titoli di testa, intervallo e titoli di coda), includendo anche degli inserti strumentali. Perché questi intermezzi? Non credete di aver introdotto un formalismo estetico a cui probabilmente l’ascoltatore non è poi così tanto abituato? C’è da dire come discorso generale che non siamo più abituati a un sacco di musica e a un sacco di cose. Questo è un male del nostro paese in cui la musica è sempre più appiattita su canoni che sono sempre gli
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|ph by Michele Battilomo
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[Musica] INTERviste
stessi e devono essere sempre più uguali a se stessi. Riguardo Fantasma, il discorso degli strumentali e della componente cinematografica è stata una cosa progettata dall’inizio. Infatti, noi volevamo fare sì un disco con l’orchestra, ma un’altra cosa che avevamo pianificato era che questo disco fosse molto organico, una sorta di concept album con canzoni con lo stesso tema - il tempo - ma anche con una omogeneità formale. Questa omogeneità l’abbiamo ottenuta utilizzando l’orchestra in tutte le canzoni e dando, a tutto quanto l’oggetto sonoro, la forma di un film immaginario. Fare il disco è stato come creare una specie di tema per un film immaginario che si chiama Fantasma con stacchi strumentali e arrangiamenti diversi, come succede nelle colonne sonore. Ascoltando questo nuovo lavoro molti hanno gridato al miracolo e qualcuno lo ha definito un disco “sperimentale”. Cosa si può davvero definire “sperimentazione musicale”? Non so cosa voglia dire sperimentale. Se sperimentale significa ricercare ed uscire da strade già battute, allora la risposta è sì. Fantasma è sperimentale rispetto ai codici classici della canzonetta così come più o meno la conosciamo. Nel disco ci sono delle canzonette, ma hanno degli arrangiamenti poco comuni nelle canzonette: in questo senso è sperimentale. Senza voler dare una connotazione, io direi che la sperimentazione è meglio della non sperimentazione. Secondo me non esiste una musica sperimentale che è alta e una musica non sperimentale che è bassa o popolare. Tutto sommato trovo che Fantasma sia un disco popolare, ma in un modo a cui non siamo molto abituati. In Diorama tu dici “nel diorama il tempo non ci può far male, non c’è prima e non c’è poi”: che visione hai della temporalità e quanto fa male il tempo? Il tempo in se (sé) non fa male, sono le reazioni degli esseri umani al tempo che possono provocare dei danni, perché sono le reazioni dell’uomo alla propria inevitabile metamorfosi. Noi esseri umani abbiamo degli inevitabili passaggi di stato: nasciamo, siamo piccoli piangenti, poi iniziamo a pensare, poi invecchiamo. Il tempo in sé non fa male, il tempo è naturale. Sono le reazioni degli esseri umani ad essere dannose. Ad esempio, la più nota reazione maligna al passare del tempo che mi viene in mente adesso, è la reazione
dell’uomo nei confronti della morte o più in generale nei confronti del proprio invecchiamento biologico. Pur ruotando intorno al concetto di tempo, nel disco prevale una certa rievocazione del passato: che cosa ha motivato la tua ricerca del tempo perduto? Se hai come compitino quello di scrivere delle canzoni con il tema del tempo, è ovvio che parli anche del tempo perduto e quindi del passato. È una cosa molto standard; quando si parla del tempo nelle canzoni, inevitabilmente emerge il passato, perché il passato fa scaturire emozioni di vario genere come la nostalgia, il rimpianto. Diciamo che il passato è una forma temporale che ben si adatta al formato canzone. Se ci pensi i cantautori scrivono quasi esclusivamente del passato, è molto più difficile scrivere del futuro. È più facile scrivere del passato remoto o del passato prossimo. Il pop è pieno di passato prossimo, c’è sempre qualcuno che in un passato prossimo ti ha lasciato e quindi tu scrivi una canzone per esprimere questo grande, immenso, struggente e incolmabile dolore dimenticando il fatto che poi ne troverai un’altra subito dopo, perché sei un cantautore!!! In Futuro, invece, cantate che “il futuro desertifica la vita possibile”. Sembra che ci sia una concezione un po’ nichilistica dell’esistenza, ti ci ritrovi? Se non è così, quali sono oggi i valori ai quali, secondo Francesco Bianconi, è ancora possibile affidarsi? Io in realtà mi considero sempre di più un vero romantico, ovviamente non nel senso di uno di quelli che regala mazzi di fiori, ma nel senso letterario del termine. Quel nichilismo di cui parli, secondo me è solo apparente ed è forse solo una questione stilistica di scrittura dei testi. Poi nella realtà, come persona sono più romantico, più positivo, credo nell’amore, nel continuare ad innamorarsi, ma non solo dal punto di vista di coppia. A dispetto di quello che dissemino nei testi, mi ritrovo di più in quello che dico alla fine di Radioattività, cioè “cercare il bene nell’orrore e l’eterno nell’età” piuttosto che in altre frasi. Se faccio autoanalisi, mi considero una persona molto più positiva di come mi dipingono. Non ho valori a cui affidarmi ma sono uno che continua a lasciarsi innamorare dalle cose. Poi magari ho una visione di fondo che è pessimistica e che non riesce a trovare un senso all’esistenza, ma nonostante questo velo di fondo negativo, vivo e combatto tutti i
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giorni creandomi dei fuochi, degli appigli per andare più paura della vita? avanti. Altrimenti mi sarei già suicidato! Della vita, assolutamente, perché è in vita che si può temere la morte. Quando la morte arriva, sei morto. Hai ribadito in molte occasioni la tua distanza dal cattolicesimo e ti sei sempre dichiarato Nessuno di voi è romano ma come mai c’è una canzonon credente. Eppure, in quest’ultimo lavoro ne in romanesco nel disco? evochi ripetutamente Dio e gli dei: quale con- Quella canzone è nata perché mi piace molto la cancetto di divino impregna Fantasma, insomma zone in dialetto, non solo il romanesco, ma in generale di quale Dio parli? mi piace molto la musica folk tradizionale. Vado a riIn realtà non parlo di nessun dio. Io non credo in nes- cercarmi incisioni di musica popolare, mi piace molto. sun dio e in nessuna religione, soprattutto. Però se Però, molto sinceramente, quello era l’ultimo pezzo parli del tempo, in realtà stai parlando della vita ed rimasto da scrivere e non avevo più idea di cosa scriinevitabilmente entri in contatto con una grande pas- vere anche se esisteva già la musica e la melodia. sione degli esseri umani, ossia con la capacità di in- “Se potemo innammorà e come i passeri cantà…” ventarsi un’entità sovrumana quando si sentono male. quella canzone è piena di parole tronche. In italiano Per cui il disco cita dio in quanto parla di esseri umani le parole tronche sono sempre un problema… poiche hanno difficoltà a vivere il passare del tempo ed ché aveva già esaurito tutte le parole tronche negli evocano delle divinità. altri pezzi, in italiano mi sarebbe venuta una canzone banale con parole già molto presenti negli altri testi e Però anche la morte in realtà è un concetto più allora ho pensato di scriverla in romanesco. cristiano che pagano, e della morte si parla All’inizio ho usato il romanesco anche un po’ per molto nel disco. Secondo te com’è cambiato scherzo, poi però mi piaceva sempre di più in demo e il concetto della morte da Cristo ad oggi, ad abbiamo deciso di lasciarla così. esempio? A me non piace molto il concetto cristiano cattolico Per la tua interpretazione vocale sei stato della morte. Non mi piace la cultura che ha generato spesso assimilato a De Andrè e tu stesso sola concezione della morte come una cosa da esorciz- stieni che in Fantasma vi sono echi di Ciampi e zare a tutti i costi . Il fatto di vedere la morte come un di Gaber, tutti cantautori fortemente connotati ostacolo al “successo” è colpa della religione e della da un punto di vista politico. L’attuale cantaucultura occidentale in genere. La cultura che abbiamo torato italiano, invece, sembra concentrarsi prodotto dice che dobbiamo apparire perfetti, ci dan- più su tematiche intimistiche, che su rivendino stratagemmi per l’eternità e quindi per il contra- cazioni socio-politiche. Perché? Credi che sia rio della morte. Credo che sia la strada peggiore per un segno dei tempi? arrivare all’eternità quella di voler sembrare giovani Questo è un discorso su cui ci sarebbe da scrivere dei anche se si è vecchi. Mi piacerebbe una visione della saggi. Proprio pochi giorni fa ne parlavo con un mio morte e del passare del tempo che sia un po’ più na- amico cantautore. Eravamo nella camera ardente di turale. Mi piacerebbe che si seguissero le leggi inevi- Enzo Jannacci e dicevo che queste cose mi commuotabili della natura ed accettarle con gioia. Dovremmo vono perché vedo pochi ricambi. Muoiono i cantauvedere la morte come un semplice passaggio di stato tori della generazione del dopoguerra che avevano organico, anche se fa paura…lo so che fa paura! un approccio politico alle cose, che non significa che E poi, se tu sei credente la tua religione prevede che parlavano per slogan partitici… ma sai, loro venivadopo la morte ci sia una forma di paradiso, allora per- no da un periodo in cui l’Italia era uscita dalla guerra ché devi aver paura? Se non sei credente, invece, la ed avevano una percezione ed una sensibilità sociomorte è un istante e già nel momento in cui si compie politica molto più sentita. non c’è più niente, allora perché devi aver paura? Questo mio amico con cui facevo questo discorso è Dovremmo forse preoccuparci di quanto mortifere si- arrivato alla conclusione che quando gli esseri umani ano certe manifestazioni della vita e di quanto ci ren- soffrono, vivono guerre, crisi, carestie, pensano di più dono ottusi e poco significanti come esseri umani. e cercano di costruire delle cose anche nei prodotti culturali. Se ascolti le canzoni di quel periodo, avverti Credi che oggi ci sia più paura della morte o che dietro c’è un pensiero. Nelle epoche di benesse-
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[Musica] INTERviste
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[Musica] INTERviste
Voi non vi siete mai sottratti al gusto della citazione e anche Fantasma è pieno di citazioni sinfoniche di spessore. Siete convinti che il vostro pubblico sia abbastanza colto da poterle riconoscere e goderne come si dovrebbe? Io penso di sì, i dischi rimangono e si possono ascoltare sempre, non sono usa e getta. I dischi che durano nel tempo hanno la caratteristica di svelarsi pian piano. I dischi eterni - mi vengono in mente Sgt. Pepper’s e Pet Sounds - hanno centinaia di citazioni o rimandi extra musicali sia nei testi che nella musica. Io credo che bisogna avere il coraggio di puntare alto, soprattutto chi fa il mio mestiere non dovrebbe avere paura di osare. E poi io non le chiamerei neanche citazioni perché la musica dovrebbe essere così sempre. Il pubblico secondo me pian piano capisce. Da parte di chi fa i dischi non deve esserci un atteggiamento tra il rassegnato e il piano marketing che fa le cose in base a quello che il pubblico si aspetta. È musica, è arte e osare significa considerare eccome il proprio pubblico! Credo che il pubblico sia molto più intelligente di come lo si definisce, magari è solo un po’ impigrito. Ma io apprezzo tanto chi osa e chi prova a ricercare. [ ]
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JUST KIDS
re - come quella che sta finendo esattamente in questo momento - si producono dei manufatti di maggiore spensieratezza e forse un po’ meno intellettuali e più leggeri. In questa teoria del mio amico forse c’è del vero. Personalmente credo che le canzoni debbano essere politiche sempre, a me piacciono quelle che sono così. Le canzoni, anche se pop, dovrebbero affrontare temi con un approccio politico, da governo della polis. I cantautori francesi, anche se scrivono canzoni d’amore, sono politici. “Ne me quitte pas” di Jacques Brel è una canzone che parla di un uomo che implora alla propria amata di non andarsene, ma le parole che usa, come le mette in discorso, l’arrangiamento, il modo di porsi sul palco, era tutto estremamente politico. Ecco questo si è un po’ perso, non ti so dire bene perché, ma magari si ritornerà anche a questo tipo di canzoni. Anche perché sarebbe ora di trovare nuovi modelli del presente.
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|ph by Michele Battilomo
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GIOrgio canali [Musica] INTERviste
di James Cook
C Giorgio
uore anarchico, irriverente, dissacratore, icona di un rock passionale e rabbioso, refrattario a qualsiasi compromesso,
Canali
non è un artista facile da approcciare. Abbiamo avuto l'occasione di incontrarlo prima della sua infuocata esibizione al Circolone di Legnano e ne è uscito un ritratto inaspettato. Decisamente disponibile, a tratti quasi dolce, è stata davvero una gran bella scoperta percepire che, quella scorza da duro, in realtà "protegge" un'anima sensibile, disposta a pagare qualsiasi prezzo pur di rimanere sempre e comunque Libera.
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|ph by Starfooker
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[Musica] INTERviste
H
ai fama di essere sempre molto combattivo e spesso incazzato. Cosa ti rilassa e ti fa stare bene? So più esattamente cosa mi fa incazzare: il tg2 costume e società, i dibattiti politici in tv, le cose che ci vogliono far credere… anche se ormai non mi fanno più incazzare perché non guardo la tv da almeno seisette anni. In fondo, mi rilassa davvero un sorriso la mattina, quando ti svegli e hai dormito con qualcuno, un sorriso è fighissimo. Poi, tutto il resto, facciamo finta che esista fino a un certo punto… Che musica ascolta Giorgio Canali, quando non lavora? Non ascolto musica, mai! Se proprio lo faccio è per riscoprire cose vecchissime, che avevo cacciato in un angolo del cervello. C’è questa opportunità bellissima che è diventato youtube, una biblioteca gigantesca di suoni e canzoni. Da quando, in qualche modo, è stato regolamento introducendo il pagamento di un forfait alle grosse case discografiche, si può pubblicare qualsiasi cosa. Così, ti puoi permettere di ascoltare tutto ciò che ti viene in mente e che avevi perso di vista. Fino a due anni fa, ad esempio, era impossibile trovare brani completi di Bob Dylan su youtube, adesso invece è pieno. Ogni tanto, mi capita di ripensare a qualcosa che ascoltavo a 16 anni e allora mi metto a “indagare”. Bene o male, con il computer in mano, ci sono nato, per me è un attrezzo normalissimo, per le ricerche lo utilizzo dagli albori del web. Ho letto infatti che sei molto appassionato di internet... Mi piace molto la possibilità di condividere, dribblando tutto quello che è il grosso sistema di sfruttamento da parte di pochi, della musica di ancora meno. Di fatto si può bypassare quello che è il sistema della musica in mano alle multinazionali. Queste ultime, stanno piano piano morendo, tra un po’, penso, non ci saranno più…
Poi è chiaro, bisogna avere coraggio e voglia di mettercisi in prima persona. Ci sono parecchi artisti e personaggi pubblici che si trincerano dietro la loro faccia, ma, in realtà, delegano ad altri. Io, bene o male, cerco di continuare a gestire i rapporti personalmente, si tratta di opportunità fantastiche. Quando finisce il concerto, con un bicchiere in mano, mi metto subito in mezzo alle persone, non mi nascondo mai in camerino. Non lo facevo nemmeno in situazioni più importanti e potenzialmente anche pericolose come poteva essere ai tempi dei CSI o PGR. Io sono sempre in mezzo alla gente e questa scelta, in certe occasioni, ha scatenato qualche problema. Capita di incontrare chi non la sente come una possibilità di scambio, vivendola, al contrario, come un’idolatria violenta. Ad esempio, mi è successo di essere preso e strattonato, sembrava volessero portarsi via un pezzo di me, trattandomi come una reliquia, mentre ero soltanto il chitarrista dei CSI o dei PGR. In quel momento, avessero beccato Ferretti, probabilmente ne avrebbero fatto un’eucarestia… Pur non guardando la Tv da anni, ho letto che sei un esperto di serie americane. Ce n’è una davvero imperdibile? Si le scarico illegalmente, sono iscritto ad un paio di siti di file sharing, dove, con pochi euro al mese, hai accesso a quello che altri pagano. Quindi, quando qualcuno scarica un pezzo mio gratis non mi lamento, anzi sono contento, perché io faccio altrettanto. Mi piace un sacco guardare le serie in lingua originale, ci sono alcuni siti che si occupano anche di sottotitolarle, senza scopo di lucro. Secondo me, il cinema sta morendo, anche perché i migliori sceneggiatori, in America, sono tutti impegnati in questo genere. Ci sono storie fantastiche come Breaking Bad, della AMC, una rete via cavo americana. Racconta di un professore universitario di chimica, che scopre di avere un cancro. Per pagarsi le cure e, allo stesso tempo, lasciare dei soldi alla sua famiglia, fa una scelta estrema: comincia a produrre della metanfetamina, diventando un grosso spacciatore e trafficante. Ci sono dei momenti di alta scrittura cinematografica. Lo stesso Tarantino, dopo aver pescato per tanto nel cinema degli anni ‘70, al momento si sta ispirando molto a queste serie.
Come vivi internet e le infinite possibilità che offre? Ogni giorno, dedico molto tempo ai contatti che seguono su facebook le mie pagine. Mi piace un sacco, mi accorgo che funziona molto più di qualsiasi altra modalità. Instauri un rapporto diretto con la gente, tanto che è quasi come averla sotto il palco quando Cosa ne pensi di Tarantino? stai suonando e cantando. Non mi dispiace affatto come regista. Django UnchaiC’è uno scambio evidente di pensieri e idee, è bello…. ned è fantastico, un film che mi è piaciuto tantissimo
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ed è anche un grosso scherzo. Sono quei capolavori strani che non puoi chiamare tali ,perché ci senti dietro una notevole presa per il culo di tutto, una miriade di citazioni… Hai parlato di rivoluzione in termini di spaccare tutto o stare a casa. Visto l’attuale situazione italiana, risultati elettorali compresi, cosa facciamo: rimaniamo ancora a casa o è il momento di agire? Direi, soprattutto, di stare a casa. Penso che, nella baraonda attuale, c’è un grosso complice, che è il movimento 5 stelle. Non risolverà niente, però serve ad accelerare uno stato di disastro che è necessario… questo sistema non può, non deve rimanere in piedi. Poi i grossi mostri rimangono ben saldi nelle loro posizioni. Abbiamo ancora tutto il potere in mano a pochissimi. La grande finanza, che domina il mondo, scommette alla cazzo in borsa quasi senza essere tassata, non potrà essere così sempre. Arriverà una specie di rigetto verso questa situazione, i 5 stelle o chi per loro, magari, un giorno, riusciranno a tassare pesantemente anche questi poteri, così che “il gioco” cominci a perdere di attrattiva. Io, in ogni caso, sono un disertore, non vado a votare quasi mai, l’ho fatto 2 volte negli ultimi 30 anni e mi sono sentito un idiota. No, non voglio essere complice, non mi interessa… Storicamente movimenti popolari hanno fatto rivoluzioni populiste. Nel 1789 in Francia era populismo puro, ma credo il mondo sia migliorato dopo quella cosa lì. Qualcosa è successo, anche se poi è arrivato Napoleone ed è andata ancora peggio. Penso anche all’Unione Sovietica del 1917, alla stessa rivoluzione persiana negli anni ’70, con Khomeini che appena arrivato era una figata, Il problema serio è sempre cosa si instaura dopo… Come definiresti il momento attuale in Italia dal punto di vista artistico musicale? Viviamo in un mondo che sta cercando di sglobalizzarsi, ma, allo stesso tempo, la globalizzazione delle idee fa si che a New York o a Istambul, si suoni più o meno la stessa musica. E’ bello, è un mondo di musica…. Poi, è naturale, certi mondi propongono cose completamente diverse, che forse non riuscirò mai ad apprezzare e ad amare. A dire il vero, della musica non mi interessa un cazzo, mi interessano le parole, i messaggi. E’ chiaro, se ci sono testi intelligenti, densi e profondi, qualcosa che mi emoziona in tutto quello che c’è dietro, allora è perfetto.
E cosa ne pensi di come viene proposta la musica in tv? Talent, Sanremo, etc. In realtà, questi argomenti, sono concetti che per me, praticamente, non esistono, come se parlassimo di asparagi. Ti interessa se parliamo di asparagi? A me no, mi piace mangiarli ma non è che mi metto a discutere di come si producono. Fermo restando che mi sembra uno scandalo andare a Sanremo. Se hai voglia di misurarti con un branco di cocainomani sfigati lo fai… C’è quel detto famoso che si sente ripetere da anni : “Sanremo è Sanremo”, come il papa è il papa. Non è che puoi chiedergli di dire: “mettetevi il preservativo domani”, il papa è il papa, Sanremo è Sanremo. Non ti piace ritornare sul passato, preferisci sempre guardare avanti... Devo rimangiarmi anche questo di concetto, ogni tanto trovarmi con gli amici mi piace. Avevo giurato che non avrei mai più suonato insieme agli altri ex. Invece, quest’estate, probabilmente ci vedremo per fare porcherie insieme: io, Massimo (Zamboni), Gianni (Maroccolo), forse anche Francesco (Magnelli). I tempi cambiano, le persone cambiano. Gianni per esempio è una persona tendenzialmente diversa. Io l’ho frequentato ultimamente perché, come nell’88-89-90 ero il fonico dei Litfiba dal vivo, nella reunion ho di nuovo questo compito. Quando mi è stato chiesto se avevo voglia di fare parte di questa specie di revival, ho accettato. Poi mi hanno rubato il batterista, quindi non posso andare in giro con i Rossofuoco quando lui suona con loro… Come vorresti essere ricordato? (ammesso che tu abbia il desiderio di essere ricordato) Il fatto principale è che sono immortale, sarò io che ricorderò gli altri… Dopo tanti anni nella musica, quanta è la passione e quanto il lavoro? No, il lavoro non c’entra nulla, io non ci campo di musica. Se non fosse per gli ammortizzatori sociali che ho, ovvero una mamma e una sorella molto disponibili, oltre ad amici che ogni tanto mi fanno dei prestiti a fondo perduto, non ci camperei proprio a fare Giorgio Canali. Sono spendaccione, nel senso che bevo e fumo tanto, però il lavoro non c’è. Forse se volessi lavorare di più e divertirmi di meno avrei la possibilità di viverci. So di essere un cattivo esempio, però io sono una cicala, anche se abbastanza intelligente. Quando ti rendi conto che vivere da formica significa fare sacri-
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|ph by Starfooker
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fici e basta, ti chiedi: perché dovrei? Mi sono fatto un Eravamo proprio insieme ieri sera… nodo al pisello, sono sicuro di non avere figli in giro e Stai scrivendo dei pezzi con lei? nemmeno voglio averne, quindi, per chi...? Stiamo scrivendo un sacco di materiale, Io, Lei, Vittoria (Burattini) dei Massimo Volume alla batteria, e Steve In futuro ti vedi più su un palco o in sala di Dal Col che partecipa con noi spesso e volentieri. registrazione a produrre? Lei canta e scrive benissimo, cose che io non riuscirei In sala di registrazione mi rompo i coglioni. Mi tocca, mai a tirar fuori perché ha una sensibilità ancora più perché comunque quando produco qualcosa è sem- incredibile della mia, che sono già abbastanza femmipre con degli amici e con loro ci sto bene, però vorrei na sotto quel punto di vista. che i dischi si facessero da soli. Mi piacerebbe entrare Forse, lei è fin troppo uomo, però, alla fine, è una in sala ed uscirne subito con il disco pronto, per suo- delle persone che sono più felice di aver incontrato narlo, cantarlo, provarlo. nella mia vita. Il palco, per me, è la dimensione più divertente ed La cosa buffa è che abbiamo diversi amici in comune. appagante, sia fisicamente che mentalmente. Tutti mi dicevano che avrei dovuto conoscerla e a lei Lo sguardo della gente di fronte a te, che capisce esat- dicevano lo stesso di me. Ci siamo scoperti praticatamente quello che stai cantando, è bello... Notevole mente fratelli, fratellissimi. quando si instaura una sensazione così! Comunque i palchi e i locali piccoli sono sempre molto migliori degli C’è qualche altra voce femminile che ti incuspazi grandi, dove non riesci ad instaurare al meglio riosisce? questo tipo di scambio. No, le voci femminili mi stanno sul cazzo. Mi piace Patti Smith, mi piace P.J. Harvey, Angela (Baraldi), mi piaceC’è posto per l’amore e il romanticismo nella va da matti Nico. Un’altra che però esce da questo tipo tua vita? di timbro e sonorità, ed ha la mia età, è Lisa Germano, Sai che è uscita una mia biografia nel 2011 e l’auto- la cantante delle mie ninna nanne. Il 7 aprile sarò a re, Samuele (Zamuner) è qui in sala stasera perché Marostica a vederla. Lei ha pubblicato un disco nel si occupa di noi. Dopo tre anni passati a inseguirmi ’94 che si intitola “Geek the girl”, considerato dalle più e a rompermi i coglioni perché rispondessi alle sue importanti testate di musica mondiali, come uno dei domande, siamo diventati amici. Una condizione a cui 10 migliori album degli anni ’90. Roba da farci sesso ho tenuto molto è il non rivelargli nulla di quella che è continuamente e anche addormentarsi. Lei è diversa la mia vita sentimentale. Infatti le persone davvero im- dalla tipologia di cantanti donne che preferisco, però portanti della mia vita (e sono state parecchie), sono scrive talmente bene… [ ] rimaste tutte malissimo, perché di loro non si parla. E’ l’unica forma di pudore che ho. Non vorrei mai mettere in mezzo una persona che per me conta tanto. Meglio evitare che, magari per una semplice una parola andata di traverso, questo possa succedere. Quindi c’è spazio per qualcuno che non ti faccia solo sanguinare? C’è una canzone, anche bruttina (però fantastica nel contenuto), di Les Rita Mitsuko, un gruppo francese degli anni ‘80, che dice: Les histoires d’amour finissent mal en général, le storie d’amore finiscono male in generale. E di eccezioni che confermano la regola ce ne sono pochissime. Anche perché poi, alla fine, quelle che non finiscono, terminano in un decesso, quindi… Con Angela Baraldi, hai qualche progetto imminente?
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?ALos [Musica] INTERviste
di Claudio Delicato
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e non avete mai vagato in un ospedale psichiatrico abbandonato completamente vestiti in latex mentre ex pazienti deturpano brutalmente Barbie immergendole nell’acido muriatico, è probabile che non abbiate mai sentito parlare di Stefania
?Alos
Pedretti, in arte , forse la queer con il record italiano di lunghezza di capelli. Quella di ?Alos è un’arte a trecentosessanta gradi che spazia dalla pittura alla moda con un particolare riguardo per la musica; oltre ai numerosi progetti in gruppo (OvO, Allun), Stefania ha una solida carriera da solista alle spalle e ha appena pubblicato “Endimione” (recensito da me in Just Kids # 3) in collaborazione con Xabier Iriondo, un altro che di follia se ne intende. Vi proponiamo quest’intervista.
B
uonasera, Signorina ?Alos. Cominciamo con una domanda sicuramente troppo idiota perché qualcuno non te l’abbia già fatta: come mai quel punto interrogativo prima del nome? Ha un significato particolare o volevi solo incasinarci le tag di iTunes? Buona sera a te, signor Delicato. Questa domanda invece me la fanno in pochissimi. No, non volevo incasinarti la vita e la scelta del punto interrogativo ha un motivo molto semplice: “Alos” significa “sola” al contrario. Fin dall’inizio, però, ero sola fisicamente sul palco, ma con contributi sonori di altre persone ed ero sicura di volere coinvolgere altri musicisti nella realizzazione dei pezzi per i miei album successivi, così ho aggiunto il punto di domanda. In un’epoca in cui i dischi si fanno dando fin troppa attenzione ai gusti del pubblico, “Endimione” rappresenta una piacevole eccezione: un album “verticale” che rifiuta ogni logica di mercato. C’è spazio per progetti del genere in Italia anche per chi non ha un’onorata carriera alle spalle oppure avere un nome
nel campo musicale (come te e Iriondo) è un fattore indispensabile per fare musica in completa indipendenza? Grazie per l’osservazione e bellissimo quesito. Personalmente penso che non ci sia spazio per questo tipo di approccio alla musica, e non c’è mai stato: ce lo siamo creato sgomitando. Avere, come scrivi tu, “un’onorata carriera” aiuta di certo, soprattutto in questi tempi strani per la musica “altra”, ma rimane ugualmente molto difficile. Comunque io credo e spero che, continuando a sgomitare, ci potrà essere spazio anche per progetti più giovani e nuovi. Basta volerlo! “Endimione” è un episodio isolato o dobbiamo aspettarcene altri? Se sì, continuerà il sodalizio con Iriondo o il progetto sarà allargato anche ad altri musicisti? Endimione è nato dal sodalizio di me e Xabier Iriondo dopo aver realizzato un primo 7’’. Direi che quasi sicuramente continuerà il sodalizio; ci siamo trovati benissimo insieme, ma non so dirti ora se rimarrà un duo o si aprirà ad altri, chissà.
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[Musica] INTERviste
Per quanto riguarda strettamente ?Alos, ho sempre avuto guest speciali nei miei album e anche dal vivo: per esempio nella mia performance “Terra” collaboro con una ballerina di Butoh, quindi direi che potete aspettarvi sempre un’Alos con il punto interrogativo. A proposito, com’è stato lavorare con Xabier e in che misura ognuno di voi ha contribuito alla realizzazione del disco nelle sue varie componenti (musica, liriche, arrangiamenti, catering)? Ognuno ha contribuito a un singolo aspetto o è stato un lavoro di squadra su tutto? Per dirne una, anche tu ti sei armata di martello e scalpello e ti sei messa a costruire
strumenti con lui? Fai veramente delle domande mirate ma anche divertenti, grazie, è molto raro! Collaborare con Xabier è ed è stata un’esperienza veramente stimolante e di crescita personale. Ti risponderei che “Endimione” è frutto di un lavoro di squadra super orizzontale, ognuno ha contribuito portando, condividendo e fondendo le idee, il sapere e il proprio stile molto personale di suonare. “Endimione” è veramente un’unione di più energie perché il progetto non coinvolge solo me e Xabier ma, fin dal primo 7’’, comprende la collaborazione artistica di Valentina Chiappini: anche lei è parte della ricerca, creazione e realizzazione sia del primo 7’’ che di “Endimione”.
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[Musica] INTERviste
Parliamo degli altri tuoi progetti musicali: Allun, OvO, più naturalmente la tua carriera solista. Ti senti più a tuo agio quando sei in sinergia con altri musicisti o da sola? Quanti vantaggi dà la cooperazione nel comporre, a scapito della libertà che si ha quando si scrive da soli? Te lo chiedo perché da quello che ho letto mi sembra che ?Alos sia il frutto di un percorso di vita a tratti tormentato e comunque molto personale, quindi sono curioso di sapere quanto sia difficile amalgamarlo con altre prospettive artistiche. Io sono sempre a mio agio, adoro suonare da sola ma amo anche farlo con altri musicisti. Non sento un differente grado di libertà nel suonare da sola o con altri: è semplicemente avere più gruppi/progetti, più modi differenti per esprimere se stessi e la propria musica. Con le Allun sono alcuni anni che non suoniamo dal vivo, ma io e Natalia continuiamo a collaborare, è lei la fotografa e la grafica di tutti i dischi di ?Alos ed è lei che ha realizzato le foto e il video di Endimione. OvO è OvO! Il bello in OvO è che io porto un’idea, Bruno un’altra – frutto di nostri personali ascolti e interessi a volte opposti – e unendole creiamo i nostri folli pezzi. Amo veramente come componiamo insieme, mi è un po’ difficile da spiegare perché la scrittura non segue una logica, ma una conoscenza profonda l’uno dell’altra e un’empatia totale. ?Alos è la mia parte artistica, il frutto di ragionamenti e di ricerche in un determinato momento della mia vita, per questo è molto personale. Tutte queste cose vengono trasformate in musica o performance. Non lo trovo difficile da amalgamare con gli altri progetti, piuttosto è complicato amalgamarlo con il mondo… ahahah!
con i piedi, la comunità virtuale creata da Tom Anderson era un punto di aggregazione che tutti spulciavano quando volevano ascoltare i gruppi meno conosciuti. Ora SoundCloud è un po’ spartano e non ci si trova tutto, BandCamp non è così diffuso, RockNow! non esiste perché me lo sono appena inventato. Praticamente la musica si ascolta solo in qualità infima su YouTube e la cura della proposta estetica è diventata nulla, essendo tutte queste piattaforme standardizzate. Come reagisci al fatto che quest’ampollosa premessa lasciasse pensare che alla fine ci fosse una domanda che poi non è arrivata? (In realtà voglio solo sapere che ne
Musica, fashion, arte, performance: sei il classico tipo di artista che la sezione musica di Repubblica definisce “poliedrico”. In quale veste ti trovi più a tuo agio? Non dirmi “tutte” o ti mando un poke su Facebook. Sono un soggetto multidisciplinare. Amo, per istinto e desiderio di conoscenza, molte cose e cerco di fondere insieme arti che vengono definite con un nome differente ma fanno parte della stessa cosa. Ti piace come ho aggirato la parola “tutte”? Da quando è morto MySpace mi sembra che nel web non esista più una valida piattaforma per le band. Per quanto fosse programmato
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[Musica] INTERviste
pensi o darti un’idea per diventare il prossimo Mark Zuckerberg.) Verissimo!!! Io l’ho risolta – non so se con risultati positivi – creando tramite blog i siti di ?Alos e OvO, e integrando e facendo incrociare le notizie, le novità e gli ascolti fra tutti i network… lavorone! Ora un musicista deve avere mille account. Io cerco di essere libera o meno dipendente possibile da internet, ma attualmente non è facile per nulla. Internet è il mezzo più efficace per l’autopromozione. Myspace nel suo orrore era veramente un ottimo strumento per noi musicisti. Attualmente mi sta ancora soddisfacendo anche Facebook. Per quanto riguarda la tua riflessione sull’ascolto… quanto hai ragione!!!
Ormai si bada all’apparenza e non al pezzo e spessissimo non lo si ascolta neanche tutto. Personalmente sono poco contemporanea, continuo ad amare un buon suono e l’oggetto fra le mani. Proprio per questo compro principalmente vinili e i miei ultimi album sono solo in vinile (“Era” aveva anche un codice per essere anche scaricato) con una grande cura dell’estetica. Dal 2006 al 2011 hai vissuto a Berlino, forse uno degli ambienti più fertili per i performer, con un pubblico bendisposto nei confronti di chi osa. Pensi che questa strada si stia spianando o si spianerà anche in Italia? E se no, perché cacchio te ne sei andata da lì? L’Italia non è così male come si pensa. La strada si sta spianando sicuramente o forse è già spianata da anni ma in pochi se ne accorgono. Berlino è fantastica e molto aperta come tutte le capitali, ma per il mio stile – cioè qualcosa che non entra in un genere preciso – è pessima. Il pubblico come lo descrivi tu non c’è a Berlino come non c’è qui in Italia, l’ho trovato per ora solo negli USA e credo che in Europa sia sempre più raro. Ho vissuto lì per un po’ perché mi piace viaggiare e cambiare spesso il luogo dove vivo. Ora sto abitando a Ravenna, una città che, sinceramente, trovo più stimolante di Berlino; ma è un pensiero e una costatazione personale. In Italia ci piace essere pro o contro, quindi permettimi una domanda banale: che ne pensi di MusicRaiser? Dunque, premetto che non sapevo di cosa mi stessi parlando e sono andata a cercarlo su internet. Non conoscevo questo MusicRaiser, ma sapevo già da anni di altri siti simili. È una metodologia usata già da molto tempo nell’arte e nel cinema indipendente e mi era stata consigliata anni fa per supportare un tour OvO. Quindi direi che sono super pro… perché no? Ora che le etichette, le agenzie, lo stato e in generale gli organi “istituzionali” non supportano più economicamente la musica, chi vuole continuare a creare e muoversi ha un modo autonomo per essere supportato. È anche questo un modo per continuare il proprio lavoro. http://youtu.be/5tr5ptnUoDE Non sono riuscita a guardare tutto il video del tuo link, ho una connessione troppo lenta per utilizzare YouTube, mi dispiace. Non mi ispira poi molto, cosa sarebbe? [ ]
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jaspers [Musica] INTERviste
di Claudio Avella
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[Musica] INTERviste
Jaspers
(nome che fa riferimento chiaro allo psichiatra I Karl Jaspers) sono appena sbarcati sulla scena musicale italiana con un disco di esordio, Mondocomio (edizioni Talking Cat), che riflette perfettamente l'atmosfera al limite della follia creata nei loro live. Ci siamo incontrati un pomeriggio all'Ostello Bello di Milano e di fronte a un buon bicchiere di vino abbiamo fatto una piacevolissima chiacchierata.
È
una fredda e uggiosa serata di gennaio, intristito dalla precarietà del contesto italiano (precarietà di cosa? Del lavoro, dell’economia, della politica?...no no niente di tutto ciò...robe più serie: la precarietà del panorama musicale italiano) mi reco in uno dei locali più in voga, più trendy, più “in” tra i milanesi per la musica dal vivo. Il Magnolia. Entro e dopo aver ordinato una cassa di birre insieme al mio compagno di sbronze mi metto tranquillo davanti al palco ad osservare le band che si susseguono una dietro l’altra. Qualche band più interessante, qualcuna meno, come sempre nelle serate in cui si alternano circa ottantadue gruppi sul palco. Ad un certo punto vedo sei pazzi vestiti in maniera quantomeno eccentrica salire sul palco. Due cantanti, una chitarra, un basso, una batteria e una tastiera, il solito, insomma. Eppure fanno un gran casino! Un mix di suoni rock, elettronici, vocoder, tempi dispari e urli degni di un paziente di un ospedale psichiatrico. Sarà stata la birra, sarà stata la botta sonora, non lo so...un mix di entrambe le cose, ma decido che un’intervista non gliela toglie nessuno.
si può classificare facilmente: le vostre sonorità sono complesse e variegate con numerosissime influenze. Almeno questa è l'impressione che ho avuto io. Leggendo la vostra biografia mi sono chiesto che ruolo abbiano avuto nella vostra crescita musicale il CPM( Centro Professione Musica, scuola di musica fondata da Franco Mussida a Milano n.d.r.), Mussida, D'Autorio? Insomma, nomi piuttosto importanti. Tra l'altro provenienti dal mondo del progressive rock...vi sentite influenzati dal progressive rock? Quali sono le vostre influenze musicali? Diciamo che i ruoli di Franco e di Dino D'Autorio, più che renderci più progressive, hanno “sprogressivizzato” quello che già c'era. Ci hanno reso un po' più umanamente comprensibili. Per quanto riguarda le nostre influenze, ognuno di noi ascolta tantissima musica, quindi è difficile dire quali siano le influenze. Per quanto riguarda i nomi importanti, mi piacerebbe aggiungere che come si sa nella musica, come in tutte le altre cose, non si smette mai di imparare. Noi abNella vostra biografia raccontate di essere biamo avuto l'opportunità di crescere e di imparare nati nel 2009 con un progetto piuttosto di- stando al fianco di persone di questo livello, che ci verso da quello che sono i Jaspers oggi (nella hanno aiutato tanto. loro biografia c'è scritto che il progetto è nato come progetto di musica pop). Ecco, chi sono Tra l'altro voi vi siete conosciuti al CPM, mi i Jaspers oggi? avete detto. Quindi studiate tutti al CPM... Dunque, la domanda che ci fai ce la fanno un po' tutti Sì. In realtà abbiamo già finito. Ci siamo incontrati per perché nella biografia abbiamo scritto questa cosa, caso, nei corridoi. Quasi per gioco. ma in realtà l'atmosfera pop durò due minuti, dopodiché ci siamo stancati e da allora siamo diventati i I Jaspers non sono solo un gruppo meramenJaspers di adesso. te musicale. non vi limitate certo a suonare. Portate in scena un vero e proprio spettacolo. Quindi che evoluzione state avendo adesso, Quando vi ho visti la prima volta in live al Manon starete tornando al pop dei primi due mi- gnolia a gennaio, è stato proprio questo che nuti? mi ha incuriosito. Allora vi chiedo di nuovo: Assolutamente no!!! chi sono i Jaspers? Che cosa vi accomuna a Karl Jaspers? Infatti musicalmente siete un gruppo che non Diciamo che noi, suonando, siamo sempre stati un po' JK | 37
[Musica] INTERviste
pazzerelli. Quindi ci è venuto naturale unire la musica alla teatralità. Non ci basta solo suonare. Quindi dal vivo ci divertiamo un sacco a fare spettacoli...divertenti per l'appunto. Per quanto riguarda Jaspers: noi ci ispiriamo molto alla malattia e alla psichiatria. Come si vede nei personaggi che incarniamo nel progetto. Come mai questo interesse per la psichiatria e la malattia? Mah...a me ha sempre affascinato molto (parla il chitarrista Eros, ndr). Come nascono i vostri testi? Vi sparate un sacco di droghe e poi fate un brain storming? Leggete libri di psichiatria e mettete insieme le conversazioni tra pazienti e medici? Tutto quello che hai detto, meno gli acidi o cose sintetiche. Ritornando un po' al discorso che facevate prima sullo “sprogressizzarvi”. Tra i vostri pezzi, ne spunta uno abbastanza diverso dagli altri: una ballata (sempre in Jasprs style), Palla di Neve. Com'è nato questo pezzo. Cosa ha scaturito in voi? Come ha cambiato il vostro modo di fare musica? Innanzitutto noi abbiamo iniziato con un'dea abbastanza prog. Neanche prog. Con l'idea, diciamo, di fare quello che ci piace di più insieme. Mettiamola così. Poi abbiamo avuto la grande fortuna di trovare Roberto Galli, che si è preso cura di noi, diventando anche il nostro manager. Lui, che è una grande persona, ci ha spronato a vedere anche il nostro lato romantico, di cui prima non avevamo la consapevolezza. Con il suo aiuto abbiamo capito che potevamo fare anche qualcosa di romantico. E poi ci ha anche fatto capire che il mercato, per così dire, richiede anche una gamma di sonorità abbastanza tranquilla, quadrata, delicata. Una volta lui ha usato quest'immagine: al posto di buttare giù le porte, si può bussare. Non sempre bisogna essere irruenti con la musica, ma ogni tanto anche, chiedere il permesso e cercare di entrare in un altro modo. Non con una sonorità aggressiva, ma più delicata. La sfida più difficile è decidere di scrivere una canzone che può piacere, diciamo, a più persone, ma che deve piacere prima a noi. La difficoltà sta nel fatto che è una cosa che non facciamo mai. Dobbiamo fare una cosa che ci piace e che non facciamo mai! È lì che credo stia la sfida di noi musicisti: sempre rinnovarsi, comunque attendendosi
all'orecchio popolare. Vedo che questa domanda è quella che vi ha stimolato di più. Quindi immagino che significhi che state evolvendo nel vostro modo di scrivere roba nuova. Sì, infatti nei pezzi che stiamo componendo adesso, prendiamo sempre spunto da quello che piace a noi, nel suono, nelle linee vocali, ecc. Però vogliamo anche aiutare un poco il pubblico a volerci bene. Stiamo cercando quel tipo di suono e quelle parti ritmiche che possano comprendere anche loro. Stiamo cercando di sintetizzare quello che siamo: siamo tante cose. Quindi. cerchiamo di sintetizzare al meglio per poi proporci. Perché fare musica implica comunque mandare dei messaggi. I nostri messaggi sono tanti. Mi riferisco alla domanda di prima sullo spettacolo che portiamo in scena: c'è un concept dietro. Un concept cui fa riferimento anche il nome dell'album, Mondocomio. Scimmiottiamo i comportamenti quotidiani che, purtroppo, molti di noi sono costretti a fare e che a noi sembrano follia. Ad esempio timbrare il cartellino alle sette. Ovviamente bisogna farlo per vivere, e non vogliamo criticarlo, però a noi sembra assurdo che una persona debba fare sei ore di traffico al giorno. Anche se tutti siamo costretti a farlo. Quindi è questo che noi cerchiamo di portare al nostro pubblico anche attraverso il vestiario. Chi è pazzo? Noi che ci vestiamo in questo modo? Oppure tutte queste persone alienate dalla società o dal lavoro o da qualsiasi altra cosa? Ragazzi, voi cosa fate nella vita, oltre a fare musica? Cerchiamo di vivere. Facciamo diversi lavoretti: c'è chi insegna...diciamo che cerchiamo più di sopravvivere. Il nostro obiettivo è fare i musicisti...con qualche lavoretto di contorno per ora....puntiamo in alto! Spulciando sul web ho trovato anche un servizio del TG1 in cui veniva raccontata la vostra esperienza con i carcerati: avete suonato in un carcere davanti a detenuti che fanno parte di un programma di reinserimento. Com'è stata l'esperienza con i carcerati? Com'è nata l'iniziativa? È continuata nel tempo? C'è una puntualizzazione da fare, nel senso che in realtà non abbiamo suonato davanti ai carcerati. Abbiamo suonato per la cooperativa che dà lavoro ai carcerati per il reinserimento. L'esperienza è stata bella, positiva. Non c'è stato un seguito...speriamo ci sarà. []
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[Musica] INTERviste
|ph by Andrea Furlan
MASSIMO BUBOLA di Andrea Furlan e James Cook
La poesia e la bellezza potranno sconfiggere i tempi bui che
Massimo Bubola
stiamo vivendo! ne è convinto. Nonostante tutto. “In alto i cuori”, l’ultimo album del cantautore veronese, punta il dito contro i mali che affliggono la società e si chiude con un messaggio di speranza rivolto agli uomini di buona volontà. Augura ai giovani di avere un po’ di infinito negli occhi e dei buoni ricordi. Prima del concerto che ha tenuto al Teatro Condominio di Gallarate, Massimo ci ha accolto nel suo camerino, insieme ad una buona bottiglia di vino, e la musica è stata lo spunto per parlare anche di letteratura, sogni e ideali. Un incontro davvero stimolante con uno degli autori che sa meglio raccontare storie in forma di canzoni...
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In alto i cuori” per tua stessa definizione è un album di instant-songs. Una di esse assume in questi giorni un’attualità e un significato particolari. “Analogico-Digitale” è scritta a quattro mani con Beppe Grillo, la persona che ha raccolto e capito meglio degli altri il forte disagio che stanno vivendo gli italiani. Cosa ne pensi del suo exploit elettorale? Abbiamo scritto alcune canzoni parecchi anni fa, poi
questa l’ho ripresa perché mi piace molto. C’è un’evidente contrapposizione tra il mondo contadino e quello tecnologico -virtuale. In realtà lo scrittore di canzoni sono io, con Grillo ho avuto dei colloqui esplicativi. Bisognerebbe chiedere a coloro che non prevedevano questa elezione. Senz’altro l’Italia è un paese molto impoverito sia culturalmente, che economicamente ma, soprattutto, moralmente. Qui si accettano situazioni che in qualsiasi altro stato civile non sarebbero
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[Musica] INTERviste
tollerate. Siamo una nazione in cui si ruba troppo, soprattutto nell’ambito della “cosa pubblica”, il che, è un reato gravissimo. Comunque, al di là fredde valutazioni politiche, abbiamo scelto una ventata di pulizia ed onestà. Quando parli di questo valore diventi di moda nel nostro paese. L’album, pur denunciando con forza il male dei nostri tempi, si chiude con un bellissimo messaggio di speranza, un appello che ha i toni di una preghiera. Quindi secondo te qualcosa si può salvare di questi tempi? Io ho una cultura storica, questo però è un paese dove di storia si parla pochissimo. E’uno stato che si è formato in maniera un po’ strana. Una parte (quella di origine borbonica del regno delle due Sicilie) ha avuto un percorso che arriva dal feudalesimo, con le baronie e i duchi, che, nelle loro terre, facevano il bello e il cattivo tempo. Poi c’è una porzione (dal nord Italia alla Toscana) che ha avuto una crescita di tipo europeo, attraverso la rivoluzione borghese. Corporazioni, liberi comuni sotto l’egida imperiale, però legati all’europa, al sacro romano impero. Infine c’è una parte, legata al regno pontificio, che ha fatto un po’ da cuscinetto tra queste due Italie. Una nazione, la nostra, che si è composta in maniera subitanea ma con storie e culture molto variegate... Quelli che parlano di razze sono dei sottosviluppati mentali, non è una questione di razze in questo paese, ma di culture diverse e di rapporti differenti con il governo centrale. La repubblica veneta, ad esempio, era un’avanguardia, funzionava bene, con un’oligarchia aristocratica. Come la Lombardia, ha sempre mantenuto un buon rapporto con lo stato, perché abituata ad osservare le regole. C’è una parte d’Italia che non ha mai coltivato questo buon rapporto, ma non per colpa sua. Ogni cent’anni cambiavano i governanti e questi tendevano essenzialmente a derubarli, più che a reinvestire… “Al capolinea dei sogni” registra la disillusione di una generazione che aveva sperato che il mondo cambiasse e si scontra invece con una realtà diversa. Cosa avrebbe potuto fare di più per consegnare una società migliore ai giovani? Mentre inseguivamo le utopie, i sogni di cambiamento della metà degli anni ’70, nel periodo in cui lavoravo al mio primo disco e poi a “Rimini” (di Fabrizio
De Andrè), sono morti in un breve spazio di tempo due papi, la società, sinceramente, era abbastanza in subbuglio. Era un momento in cui credevi che variassero certi equilibri, che in realtà non sono cambiati. Però eravamo persone che hanno creduto in certe battaglie, condotte per ottenere un mondo più giusto. Sarà anche utopia, se poi le battaglie le abbiamo perse, però le abbiamo combattute! Non mi appartiene la cultura dei vincenti, ho sempre sposato quella dei perdenti. Da mio padre ai miei professori, io mi sento molto più Ettore che Achille, non disprezzo i perdenti. Poi si è creata la cultura del vip, mentre nel mondo contadino meno dai nell’occhio meglio è (che è anche la mia idea). In “Al capolinea dei sogni” parlo di una persona che ha lottato ed ha “superato ogni giorno una sconfitta in un paese di sciocchi”. In effetti, questo è un paese che negli anni 80-90, con il dilagare di una sottocultura televisiva si è molto impoverito, finendo col considerare nemica la cultura. Tutto quello che ha contenuto e spessore ha subito emarginazioni. Basti pensare nella musica a Guccini, a Dylan che, nelle radio network, non vengono trasmessi. Noi subiamo una vera discriminazione in patria e questo è molto grave, senza parlare della tv. Io credo in questo paese perché sono convinto che la storia viva di corsi e ricorsi. Quando nacque il movimento francescano per esempio (parliamo del XII secolo), era un momento storico molto grave, in cui si vendevano le cariche religiose, c’era la simonia. Qual è il tuo rapporto con il tempo che passa? Hai ancora dei sogni? I sogni non scadono come il latte e quindi, anche se come studente sono fuori corso, come sognatore non mi sento affatto di esserlo. Si vive di sogni e anche di obiettivi, poi non è detto che uno li raggiunga sempre, almeno io non ho quest’ambizione. Se segui un percorso devi avere in mente un punto di arrivo, pur non essendo detto che tu ce la faccia. Quando cammini in montagna l’importante è sapere dove vuoi arrivare, avere un ideale… Lanci un duro attacco alla televisione, responsabile dell’appiattimento morale e ideale dei tempi che stiamo vivendo. Come poter restituire “un po’ di infinito negli occhi” di chi (penso soprattutto ai giovani) si è lasciato plagiare e manipolare dai “finti profeti profondi”? I ragazzi oggi subiscono una pressione da parte del marketing che noi non abbiamo patito. Io ho una figlia
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[Musica] INTERviste
di 18 anni. Lei si veste solo con quelle tre o quattro marche, mentre io portavo le giacche e le scarpe di mio cugino più grande. Noi non subivamo pressioni, ci vestivamo come decideva mamma. Questo a volte mi intristisce, ma bisogna reagire avendo “un po’ di infinito negli occhi e dei buoni ricordi”. Io li ho avuti e questo auguro anche alle nuove generazioni… L’alternativa a questo appiattimento potrebbe essere la rete? Dove ognuno può andare a cercarsi quello che vuole? Secondo me la rete funziona un po’ da passaparola, è come andare in una grande piazza affollata con le chiacchiere di tutti. Uuna volta c’erano i mercati. Io penso che sia bello anche stare con se stessi, magari leggendo un libro. Oggi si vive con la paura della solitudine. La gente va nei centri commerciali, sempre con il telefonino, terrorizzata dall’idea di rimanere sola. Io penso che ci sia una buona alternativa: restare a casa, buttarsi sul letto e leggersi un bel libro. Leggere rimane ancora oggi il più forte esercizio mentale, la più efficace ginnastica per il cuore, i sogni e l’intelletto. La lettura è importante. La rete è l’aperitivo, a base di un po’ di chiacchere e informazioni… Cosa ne pensi di come viene proposta la musica in tv, penso ai talent show… Dei talent show non penso niente. Sono davvero esterrefatto al pensiero che un ragazzo debba intraprendere un percorso di quel genere. Una volta dalla provincia andavi a suonare in città. Cercavi contatti e l’ascolto da parte del direttore artistico di una casa discografica come è capitato a me, a De Andrè, a tanti altri. Costruire un artista in laboratorio è sempre una cosa pericolosa. Se qualcuno suona dal vivo capisci che impatto ha sulla gente, se è un buon trasmettitore, se ha carisma. La discografia italiana, soprattutto quella un po’ terzomondista, vuole costruire in laboratorio, mentre nel mondo anglosassone muovono i loro culi di pietra e vanno in giro a vedere la gente dal vivo, la dimensione che permette di capire tante più cose.
deve anche vivere, insomma fa le sue scelte. Io seguo il motto evangelico: non giudicare per non essere giudicato. Cosa ne pensi della attuale scena artistica in italia? Io non la conosco, onestamente, e non mi interessa. So poco, se c’è qualcosa di interessante, magari mi arriva o me la segnala qualcuno. Mi sembra che i ragazzi debbano crescere con dei riferimenti, dei modelli. Tanti pescano fuori, ma questo è fondamentalmente un paese pop. Io ho creduto nella letteratura che è quella del rock, che non è solo musica, penso a Sam Peckinpah, a Paul Auster… Io ho scelto una corrente artistica, come può essere il surrealismo, l’impressionismo. Ho scelto quella che attingeva nella musica popolare, nel folk, nel blues, le componenti più importanti del rock. L’origine del folk è stata spesso europea, (Irlanda, Scozia, Inghilterra), poi, con l’immigrazione, si è creata una nuova poetica, è arrivato un po’ anche quello di matrice italiana. Si è creata una sorta di evoluzione, o meglio di nuova proposta. La parola evoluzione per l’arte non la userei, l’arte non si può evolvere. Credo che uno dei vantaggi della globalizzazione sia che oggi puoi ascoltare un ragazzo scozzese, irlandese o spagnolo come ascolti un italiano. Sono stato in Messico a fare un disco con i Barnetti Bros. Ricordo che lì a 12 anni suonano e a 14 anni decidono: dal country, al rock, all’heavy metal scelgono lo strumento più adatto per suonare il genere che amano. Da noi funziona che si vendono molto le chitarre generaliste con le quali fai benino un po’ tutto e un po’ male ogni singola cosa. Io che sono un collezionista so che ogni chitarra crea un tipo di musica diversa. Qui non esiste questa cultura, togliamo Gallarate, il Buscadero, Carù, nel resto d’Italia c’è poco… Oggi fai tutto e niente allo stesso tempo, come un giocatore di calcio che, ricoprendo tutti i ruoli, alla fine non riesce bene in nulla. Ho cominciato suonando gli Stones, i Deep Purple, i Led Zeppelin, gli Uriah Heep, poi la mia musica si è evoluta. L’ultima tappa è il country. Perfezione dei suoni, bilanciamenti, più in la non puoi andare. Devi saper suonare, se non sei bravo si vede subito, mentre con tanti altri generi puoi permetterti di camuffare le tue qualità. Io faccio tex mex, faccio folk, però il country... Anche la parte country degli Stones (Faraway Eyes, Sweet Virginia) è rappresentata da canzoni che, nel tempo, sono sempre più belle.
Credo tu conosca molto bene Mauro Pagani. Come valuti il suo apporto a Sanremo? No, non ho visto niente di Sanremo, ho sempre lavorato e, onestamente, non mi interessa molto. Sono ambienti che non conosco, non so se lui ne aveva la gestione totale… Non posso giudicare dei colleghi, degli amici, la gente L’esperienza tex mex con i Chupadero a noi è
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[Musica] INTERviste
piaciuta moltissimo… E’ un’esperienza americana fatta con due miei seguaci italiani, due bravi cantautori. Uno eccellente, ad esempio, è Massimiliano Larocca, cantore e rocker che racconta molto bene delle storie. Nei Chupadero ha scritto “Il brigante Tiburzi”, secondo me un grande brano. Oggi sai c’è una differenza: la parte narrativa siamo noi, che siamo in grado di raccontare storie attraverso le canzoni. Rappresentiamo un po’ gli eredi della poesia antica, quella che risale ai tempi di Omero, in cui si cantavano le storie. A volte ho tenuto dei seminari in università spiegando ai ragazzi che quando inizi a scrivere devi riuscire a ridurre. Ad esempio “Dino Campana” è un mio brano in cui, da un romanzo di Sebastiano Vassalli di 160 pagine, ho prodotto sette strofe. E’ una super riduzione, una sintesi. Poi la canzone ha una parte di non detto talmente vasta che ognuno la riempie di se. Per questo ci si affeziona alle canzoni, perché diventano tue. Questa in realtà è una citazione di Borges, dice che la letteratura breve ha molta parte di non detto, quindi ognuno può utilizzare la sua immaginazione. Soltanto la poesia può sconfiggere i tempi bui con la bellezza? La bellezza trionferà. Penso che ci sia negli uomini un senso di armonia interiore, anche se la cultura televisiva la sta cancellando. La bellezza è una specie di etica, ciò che è bello è buono. Io ho cercato la bellezza e credo che questo ti renda forte dentro. Non ho mai inseguito il mercato o i facili contesti, non ho mai leccato il culo a nessuno. Ci tengo a dirlo, perché nella mia categoria siamo un’esile minoranza. Addirittura, anche lavorando con De Andrè ho sempre litigato, molto onestamente. La cultura del litigio e della contrapposizione è importante. Oggi credo che l’unica forma di amore e amicizia sia essere veri mantenendo il coraggio di confrontarsi e parlarsi chiaramente.
storia sarebbe già morta. Parlare della “strage degli innocenti”, un mio tema ricorrente, (penso a “Un angelo in meno“, sulla strage di Casalecchio sul Reno, ma anche a “Il fiume Sand Creek” che tratta di un massacro), mettere in primo piano i più deboli e anche i femminicidi, ormai così frequenti, credo sia un impegno civile. Oggi, anche la malavita in certi casi non rispetta più le regole, una volta non uccideva i bambini. In certi frangenti addirittura era l’ultima che le rispettava, anche quando il mondo cosiddetto civile ormai non lo faceva più. Abbiamo avuto un presidente del consiglio, per 14 anni sugli ultimi venti, che giudica normale fare apprezzamenti pesanti su una donna, sul suo culo. L’unico presidente che si è permesso questo ed altro, ad esempio racimolare fanciulle. Cose che trent’anni fa erano impensabili. Penso a quella povera donna, madre di famiglia, che subisce un mobbing psicologico, un sopruso molto grave. Ma io non parlo di politica, non sono né di destra né di sinistra, cerco di guardare le cose dall’alto e da sotto. Se non vedi da sotto non capisci, perché rischi di essere scollato dalla realtà. Un’altra canzone che ho scritto in cui si osserva dal punto di vista del più debole nella catena sociale è “canto del servo pastore”: protagonista un giovane che non ha nemmeno le sue pecore di proprietà. Non avrà mai la possibilità in futuro di diventare ricco, di sposarsi, di avere una casa. Lui vive emarginato, fin dall’adolescenza, una vita che fa piangere lacrime amare… [ ]
Per quanto riguarda il brano e il video “hanno sparato a un angelo” non hai avuto il timore che qualcuno potesse accusarti di strumentalizzazione per l’utilizzo di un fatto di cronaca con al centro un bambino? No, perché purtroppo non ne parla più nessuno. L’assassinio è accaduto il 4 gennaio 2012, dopo il 15, già si era smesso di parlarne. Anzi, dovrebbero darmi una medaglia, perché, riagganciandomi al discorso dell’epica, la canzone ha la forza del racconto collettivo che al contempo salva la memoria, nei giornali la
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[Musica] recensioni
Thom Yorke Atoms for peace Amok (XL Recordings, 2013) di Thomas Maspes
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ono molti anni ormai che mi dedico alla lettura delle recensioni musicali. I critici, si sa, amano creare definizioni ed etichette per descrivere un artista o un particolare movimento musicale. Verso la fine degli anni ’60 coniarono il termine “supergruppo”. Queste superband altro non erano che formazioni create da vari musicisti già affermati che, in forza di una vera e propria affinità elettiva, decidevano di lavorare insieme per dar libero sfogo a quella parte della loro creatività che nella band d’origine non riusciva o non poteva trovare una via di compiuta realizzazione. Thom Yorke, lo sanno praticamente tutti, è il cantante dei Radiohead. Non voglio qui dilungarmi nel tessere inutili lodi a quella che probabilmente è la più grande band degli ultimi 20 anni. E, comunque, se non avete mai ascoltato nessuna canzone di questa ineguagliabile band, quasi sicuramente non starete leggendo questa recensione. A sette anni di distanza dal suo primo lavoro come solista, Yorke decide di abbandonare nuovamente i suoi compagni di viaggio abituali, per incidere delle canzoni in compagnia di amici che l’hanno voluto affiancare in questa sua nuova avventura. Si tratta di nomi altisonanti e molto conosciuti nel panorama musicale mondiale. Il primo sicuramente è Flea, il dotatissimo bassista dei Red Hot Chili Peppers. Della partita poi fanno anche parte Nigel Godrich storico produttore dei Radiohead che qui passa dai tasti del mixer direttamente a quelli delle tastiere, e Joey Waronker già dietro i tamburi di una band che di nome fa R.E.M.. Completa l’organico Mauro Refosco, percussionista brasiliano collaboratore, fra gli altri, anche di David Byrne.
Quello che si è sempre scritto su questi “supergruppi” è che il risultato finale dei loro progetti è spesso inferiore alla somma del talento dei singoli membri che lo compongono. Anche nel caso degli Atoms For Peace potremmo dire che tale affermazione risulta essere valida. Soprattutto per un motivo: il disco in questione rispecchia quasi totalmente l’anima del suo ispiratore, cioè quella di Thom Yorke. Il suo modo di cantare, la scrittura nervosa dei brani, l’uso massiccio di elettronica, altro non sono che il marchio di fabbrica del cantante inglese. Del basso funky di Flea non vi è praticamente alcuna traccia. E questo probabilmente dimostra anche la grande intesa che si è creata fra questi musicisti: tutti si sono messi al servizio della musica, cercando di limitare al massimo il proprio ego. Il disco si apre in modo scoppiettante con il pezzo “Before your very eyes”: ritmica ossessiva e falsetto classico ed inconfondibile di Yorke. In questo nuovo lavoro tutta l’ammirazione che il leader dei Radiohead nutre per un’artista come Apparat, esce prepotentemente allo scoperto. Non vi è alcun brano che emerga in modo netto fra i nove che compongono il disco e, ad essere sinceri, la cosa non mi pare sia del tutto negativa. Yorke tesse la sua tela con una precisione quasi maniacale, rendendoci prigionieri senza la consapevolezza di esserlo. Canzone dopo canzone si rimane come ipnotizzati e straordinariamente trasportati in una dimensione del sentire parallela alla realtà, dove anche il silenzio ha un ritmo e le parole ti si appiccicano alla pelle come tatuaggi di cui solo tu conosci il vero significato. Sale ora la curiosità di sentirli in concerto, per capire se l’impatto del suono dal vivo riuscirà a rendere i brani ancora più coinvolgenti, magari puntando un po’ meno sull’elettronica dando un po’ più spazio al calore degli strumenti tradizionali. [ ]
THOM YORKE - ATOMS FOR PEACE 01. Before Your Very Eyes 02. Default 03. Ingenue 04. Dropped 05. Unless 06. Stuck Together Pieces 07. Judge Jury And Executioner 08. Reverse Running 09. Amok
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[Musica] recensioni
FAST ANIMALS AND SLOW KIDS Hybris
(Woodworm Records/To Lose La Track) di Antonio Asquino
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uarantatré minuti a battere il piede ed agitare le braccia (con qualche pausa per fumare lo ammetto), questo è quello che ho fatto durante l’ascolto di “Hybris”, seconda fatica dei perugini Fast Animals And Slow Kids e ritengo che sia la base imprescindibile per capire se un disco ti è piaciuto o no, poi su questo possiamo costruire tutti i discorsi e le analisi che vogliamo ma se un disco arriva contemporaneamente agli arti inferiori e superiori diretto ed immediato, vuol dire che prima è passato da cuore e cervello e ha fatto centro. L’impatto di queste undici tracce è indiscutibile cosi’ come lo è la qualità della proposta musicale della band, tra chitarre sature, ritmiche solidissime, costruzioni sonore impreziosite dalla presenza di archi e fiati, urla sincere, testi personali e universali allo stesso tempo, i FAASK realizzano un gran disco inchiodato al presente, lo stesso presente che nelle vite di chi ha dai diciotto ai quarantanni oggi si dilata fino ad inglobare passato e futuro senza soluzione di continuità, in tutta la sua urgenza. Rispetto ai lavori passati (l’ep “Questo è un cioccolatino” e il primo album “Cavalli”) questo “Hybris” gode di un piglio sicuramente più cupo e maturo pur non rinunciando all’esuberanza rumorosa che ha finora contraddistinto il gruppo, portatore di sano approccio stradaiolo alla Replacements mirabilmente alimentato dall’alternative rock degli anni ‘90 e dalla freschezza del punk in salsa hardcore. Un arpeggio di chitarra su di un tappeto d’organo aprono brillantemente il disco con la bella e sfaccettata “Un pasto al giorno”, inizio perfetto, dove impeto, alternanza di tono e arrangiamenti contribuiscono a creare l’atmosfera ideale e sono un ottimo assaggio di quello che seguirà, “Fammi doman-
de” si lancia su territori smaccatamente rock’n’roll e “Combattere l’incertezza” dimostra tutta la perizia del gruppo nel coniugare irruenza ed epica con un sapiente utilizzo degli ottoni. La quarta traccia è “Dove sei”, uno dei brani più riusciti, dove un testo sofferto si staglia su base ritmica surf che si fa incalzante fino a condurre all’ottimo finale e le sue distorsioni. Segue il primo singolo “A cosa ci serve”, brano non particolarmente memorabile ma il livello si rialza immediatamente con “Farse” e i suoi riff tra hard e stoner che sfociano nell’ottima melodia del ritornello. “Maria Antonietta” vira su territori più punk mentre “Troia” vive di ottimi stop & go che diventano sarabanda di percussioni,fiati ed elettricità nel gran finale. “Calce” è da lodare, innanzitutto per il suo testo, condivisibile al cento per cento e poi per l’arrangiamento bello e originale ora trattenuto ora esplosivo. “Canzone per un abete, parte II” è una superba fanfara rock incalzante e travolgente e “Treno” chiude splendidamente il disco tra suggestioni anni ‘90 e accelerazioni, fino alla coda strumentale costruita su archi che si dissolvono sullo stesso organo posto all’inizio del lavoro che chiude perfettamente il cerchio e l’album. “Hybris” è un gran disco, da ascoltare per l’ottima fattura della musica che contiene e per l’istantanea sincera e realista che rappresenta, fotografando un gruppo in piena maturazione che ha tutte le carte in regola per regalarci ancora musica di alto livello. [ ]
FAST ANIMALS AND SLOW KIDS - HYBRIS 1. Un pasto al giorno 2. Fammi domande 3. Combattere per l’incertezza 4. Dove sei 5. A cosa ci serve 6. Farse 7. Maria Antonietta 8. Troia 9. Calce 10. Canzone per un abete, parte II 11. Treno
JK | 44
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sYCAMORE AGE Sycamore Age (Santeria, 2012) di Grace of Tree
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vete presente quella sensazione galvanizzante che accompagna la scoperta di un disco portentoso e la frenesia di riviverlo con stupore rinnovato ogni benedetta volta? O quella testa che, all’ennesimo ascolto, si scuote dicendo “non è possibile”, mentre l’irrefrenabile frenesia di scovare ogni informazione vi fa gridare al miracolo, scoprendo che sono, sorprendentemente, italiani? Ecco, io l’ho provata con i Sycamore Age. Constatare, ad un anno di distanza dall’uscita dell’album, che sia appena iniziata la sua distribuzione in Europa, grazie alla Rough Trade, è solo una conferma che questi talenti riescono a trovare più facilmente riscontro al’estero che in Italia. Credo sia il caso di riscoprirli un po’ prima che ci vengano “rubati” e, magari, di approfittare del tour ancora in corso, per prendere contatto con la loro musica. Il gruppo, costituito da ben sette aretini Doc, nasce dal sodalizio artistico di Stefano Santoni (produttore) con Andrea Chimenti e Davide Andreoni. Successivamente cresce, nel passaggio alla dimensione live, inglobando nella formazione altri talentuosi polistrumentisti come Giovanni Ferretti, Samuel Angus Mc Gehee, Nicola Mondani e Franco Pratesi. Dev’essere difficile, infatti, riuscire a traslare nei concerti un’intensa opera rock come quella vissuta nel loro disco d’esordio, che, sembra voler reinventare la definizione di rock tribale del terzo millennio. In effetti il termine “definizione” è quanto di più lontano dalle suggestioni della loro musica che, al contrario, sbugiarda ogni confine spazio-temporale. Lascia l’ascoltatore immerso in una dimensione indefinita, in bilico tra le fiamme di un vulcano in eruzione e quelle purificatrici di un cielo che sanguina. Se sognate, nostalgici, la suggestione psi-
chedelica del miglior rock-prog degli anni ’70, unito al calore etno-folk delle sonorità magrebino-balcaniche, ma anche all’irruenza selvaggia di darkeggianti suoni ancestrali, che sfumino persino nel pop-rock più malinconico e lacerante, eccovi accontentati. E pensate che avrò sicuramente dimenticato altri ingredienti importanti, che conferiscono alla sonorità del gruppo la spezialità accesa della loro ambiziosa e magica ricetta di musica senza tempo. Non a caso la traduzione letterale del loro nome - “Era del sicomoro”- rimanda, da una parte, ad un albero sempreverde che sembra abbattere le barriere fisiche, riuscendo a crescere nelle terre più lontane - dal nord America all’Africa, al Medioriente - e, dall’altra, ad una variegata simbologia di segni magici: dal legno utilizzato per i sarcofagi, alle divinità egiziane, ai richiami addirittura evangelici, come nella storia di Zaccheo. Amore e morte, dunque, in linea con la più classica mitologia greca, ma anche musica vissuta come ponte metafisico verso l’assoluto o l’immortalità. Non a caso la loro ricerca si traduce anche in una rappresentazione visiva dei contenuti attraverso l’artwork della copertina dell’album: un caleidoscopico rosone di farfalle disegnato dallo stesso Stefano Santoni, su ispirazione dichiarata di uno dei più controversi ed importanti artisti visivi contemporanei, Damien Hirst. Con i Sycamore nulla sembra lasciato al caso, tutto, al contempo, appare immediato e dirompente. Con il loro innegabile talento hanno folgorato il direttore del Popkomm che li ha invitati a suonare presto in Europa. Finalmente, con questo esordio oltre confine, esporteremo musica italiana a livelli di eccellenza. [ ]
SYCAMORE AGE - SYCAMORE AGE 01. Binding Moon 02. At The Biggest Tree 03. Dark And Pretty Part Two 04. My Bifid Sirens 05. Romance 06. Heavy Branches 07. How To Hunt A Giant Butterfly 08. Dark And Pretty 09. Happy!!! 10. Astonished Birds 11. Kelly!!! 12. Tears And Fire
JK | 45
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LORENZO CAPELLO Il partenzista
(OrangeHomeRecords, 2012) di Luca Anzalone
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uardando la copertina del cd, il titolo e lo stile grafico, nonché l’aspetto del soggetto in primo piano nella foto, all’inizio verrebbe da pensare di trovarsi di fronte alla nuova fatica di un cantautore “alternativo”, più che a un disco del genere. Già, ma qual’è il genere del disco? Sicuramente possiamo parlare di Jazz, anche se molti sono i tentativi, più o meno riusciti, di contaminazione. Per dirla con le parole di Lorenzo Capello, leader del progetto, batterista e principale compositore di questo quintetto per lo più acustico, si tratta di: “un disco che è jazz come sound, come idea improvvisativa e come ambienti armonico-melodici, ma che è anche di più in quanto contenitore di tutte le musiche, e affini, che mi sono sempre piaciute: dai polizieschi all’improvvisazione libera, dalla musica irlandese al teatro, dalla ballad alla clownerie”. Il gruppo è composto da giovani e validi musicisti che si sono conosciuti nel periodo 2008-2010 sui “banchi” del Siena Jazz InJaM (International Jazz Master), nella fattispecie Antonio Gallucci ai sassofoni, Francesco Di Giulio al trombone, Lorenzo Paesani al pianoforte e Fender Rhodes, Dino Cerruti al contrabbasso e basso elettrico, e il già citato Capello alla batteria. Tutti aspiranti “partenzisti”. Il “partenzista”, nella filosofia di Capello, rappresenta il contrario dell’arrivista. L’arrivista ha come unico obiettivo l’arrivare, appunto, alla propria meta, al proprio scopo, costi quel che costi...il fine giustifica i mezzi. Per il partenzista invece, l’importante è il viaggio, il percorso...e la partenza in particolare. Per cui sono forse i mezzi (di trasporto?) che giustificano i fini. E i mezzi che hanno a disposizione questi musicisti, se
non proprio potenti, sono almeno elastici e flessibili... Il gruppo ha un’ottimo sound di insieme, e dimostra di comprendere appieno la musica del leader, che vive di molti cambi di ritmo e di atmosfere. Le composizioni del batterista sono interessanti e avvincenti, e risultano anche molto orecchiabili senza essere banali. Anche lo stile strumentale del quintetto risulta fresco e ben misurato negli equilibri interni. Tutti i brani, dal titolo evocativo e accompagnati da un breve commento o spiegazione nel booklet interno, sono a firma Capello, tranne “Burma Shave” di Tom Waits (idolo dichiarato del nostro) e “The Auld Triangle” dei Dubliners. Nel brano finale “Il Partenzista”, che fa venire alla mente i Quintorigo col loro “Alle Spalle” presente su “Grigio”, all’organico si aggiungono Massimiliano Caretta alla voce recitante ed Enrico Di Bella alla seconda batteria. Un disco frizzante, divertente, “spettinato”, vario, ben suonato e concepito...ha però il difetto, a mio avviso, di essere troppo infarcito di citazioni, anche letterali, di arrangiamenti famosi dei grandi del jazz (Mingus in primis) ma non solo, ad esempio la ripetizione, ad un certo punto un po’ noiosa della celeberrima “America” dal West Side Story di Bernstein. Difetto minore, un po’ scolastico ma tutto sommato ben compensato dal sincero entusiasmo che pervade le performance e dalla qualità più che discreta del materiale musicale. Da ascoltare. [ ]
LORENZO CAPELLO - IL PARTENZISTA 01. Martin mystère vs doctor alzheimer 02. The auld triangle 03. Il circo di fine anno 04. Lo zucchero filato 05. Everybody’s drug 06. E’ arrivato il 26 del mese 07. Burma shave 08. Passato prossimo, futuro possibile 09. Deseo. temor. 10. Il partenzista
JK | 46
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decana Decana
(Autoproduzione, 2013) di Andrea Serafini
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e si pensa al rock italiano indipendente come a un serbatoio che deve essere di continuo rabboccato questa opera prima dal titolo omonimo di Decana, nuovo progetto di Sarah Fornito e Cecilia Bernardi, già fondatrici di Diva Scarlet (il cui album d’esordio Apparenze è uscito per la Mescal nel 2004), è sicuramente utile alla causa. Un lavoro che esce con la “benedizione” di Umberto Maria Giardini, anche lui amante dei cambiamenti di pelle, produttore e seconda voce nel brano “Come mi vuoi tu?” Già dall’intro della prima delle nove tracce del disco,. Una promessa inattesa, ci si accorge che il progetto Decana non rappresenta solo un mero cambio di nomenclatura ma segna evidentemente uno nuovo scatto in avanti delle due musiciste emiliane in quanto a maturità di suono e a efficacia delle soluzioni adottate. Impressione questa che viene confermata continuando l’ascolto dell’album la cui cifra stilistica è quella di un rock – alternative italiano che oscilla tra riff e ritmi dal sapore delle pietanze del Teatro degli Orrori al netto della componente noise (Una promessa inattesa, Domani cambio idea, Corro) a ballate rock dalle tinte dark come il brano cantato insieme a UMG Come mi vuoi tu? e la bellissima “Tutto cambia”. La prima dall’atmosfera inquieta e dal ritmo cadenzato chiude con una travolgente coda ripetuta “a loop” in cui le due voci si alternano a formare una rabbiosa fuga tipica del fu Moltheni. La seconda, invece, dalle sonorità stile Afterhours e perché no dei conterranei Massimo Volume, parte sottovoce per esplodere in un connubio potente di chitarre basso e batteria in cui si innesta una linea melodica davvero efficace che esprime al meglio l’intenzione del brano, le cui liriche, tra l’altro, sono particolarmente ispirate.
Suona invece abbastanza scontato il brano strumentale “Nel sesso si è tutti uguali e diversi” come anche la successiva “Come in un brutto film”, che nonostante il bell’inizio potente e saturo con un cantato con voce “inscatolata” alla Glory Box, si perde nel prosieguo con una melodia che risulta eccessivamente macchinosa. Di bellezza cristallina senza se e senza ma, è poi la penultima traccia dal titolo Niente da dire, in cui emerge la notevole vena autoriale di Decana. Un gioiellino perfettamente incastonato nel contesto dell’album di cui mantiene le intenzioni, riproponendole a distorsioni spente. Ma non è ancora finita come diceva un punk emiliano d’altri tempi, il brano che segna l’epilogo dell’album, Corro, è un pugno allo stomaco di chitarre graffianti, sezione ritmica potente e incalzante, e, improvvisi arresti e fughe come in una vera e propria corsa verso qualcosa da cui si viene attratti ma di cui allo stesso tempo si ha paura. Infine, per quanto riguarda le liriche, si potrebbe dire che la strada per una poetica originale è ancora all’inizio, ma si sa, coniugare dinamiche e fraseggi rock con testi significativi sia sul piano estetico che contenutistico è un impresa che riesce solo a pochi, e tuttavia le Nostre in alcuni brani sembrano avvicinarsi all’obiettivo (“Niente da dire”, “Tutto cambia”). Insomma, quello che abbiamo di fronte è tutto sommato un bel disco di rock alternative italiano, che pur non brillando per originalità è sicuramente ben fatto, efficace, genuino e diretto, ma soprattutto menefreghista rispetto alle ultime tendenze modaiole dell’indie rock nostrano, e anche solo per questo coraggioso. La speranza è che nel prossio lavoro le Nostre osino di più, provando a percorrere anche sentieri più bui e tortuosi che non siano già stati battuti prima (facile a dirsi difficile a farsi). In ogni caso, una cosa è certa, dopo aver ascoltato dall’inizio alla fine Decana si può andare a dormire con la consapevolezza che il rock italiano ha ricevuto una nuova piccola e allo stesso tempo essenziale dose di linfa vitale. [ ] DECANA - DECANA 01. Una promessa inattesa 02. Domani cambio idea 03. Come mi vuoi tu 04. Tutto cambia 05. Nel sesso si è tutti uguali e diversi 06. Come in un brutto film 07. Posso chiamarti? 08. Niente da dire 09. Corro
JK | 47
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LIBERA VELO Rizoma contro Albero
(Octopus Records/Audioglobe, 2013) di Nadia Merlo Fiorillo
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’è un principio della logica classica che non ammette la coesistenza di due aspetti contraddittori, considerando sterile ogni forma paradossale. E c’è una prospettiva, invece, che riesce a cogliere barlumi di verità nella coincidentia oppositorum. Ebbene, Libera Velo è un esempio di artista ossimorica straordinariamente autentica e fertile e il suo secondo disco, Rizoma contro Albero, lo afferma in modo eloquente. Ascoltare questo lavoro discografico – che segue Riffa, album con cui la cantautrice napoletana ha esordito nel 2007 – è come entrare a passo lieve in un aderente caleidoscopio, nel quale si susseguono impertinenza e garbo, confidenzialità e insofferenza, ludici ammiccamenti e malinconiche ritrosie. Tutto, ogni volta, custodito nella presa di un canto medicamentoso, veicolo e movenza di una femminilità dichiaratamente consapevole. Perché questo disco è femmina, dall’inizio alla fine. Rizoma contro Albero incrocia soul, blues, psichedelia, rumors e spunti di jazz, permettendo a Libera Velo di rielaborare in maniera personalissima il tenue languore di Cristina Donà, la cazzimma del gesto vocale della migliore Loredana Bertè, così come l’eleganza stizzosa e tribale di Teresa De Sio, arrivando a rievocare la cristallina corposità interpretativa di Billie Holiday, senza mai far scadere la sua singolare timbrica in appiattimenti mimetici. Le 10 tracce dell’album si aggrovigliano esse stesse rizomaticamente, in un reticolato che non impone gerarchie, se non quelle dettate dal gusto di chi di volta in volta le ascolta. È così che il quasi minuetto folk di Puca può convivere col pop ancestrale di Memo bizzarra o con il blues swingato della cover di Jimmy’s
blues o ancora con quel carillon immerso in un clima fantasmatico che è Demiurga. Episodi particolarmente suggestivi i duetti che arricchiscono Rizoma contro Albero: Con te me la prendo – ballad scontrosa in cui le voci di Libera Velo e Dario Sansone (Foja) si fondono in una consonanza empatica e crepuscolare – e The wise child, meravigliosa nella sua minimale purezza acustica, intarsiata dalla ruvida soavità vocale di Pietro de Cristoforo (Songs for Ulan). Ma non sono queste le uniche collaborazioni intervenute a dare corpo al disco, che vanta la presenza di Renato Minale e Giuseppe Fontanella dei 24 Grana, Sacha Ricci dei 99 Posse, Gnut e Ciro Riccardi degli Slivovitz. Sospese su un’aria da incantesimo o immerse in rivendicazioni esistenziali generate da un mai sopito spirito antagonista sono le liriche, che si esprimono nell’audacia di un “femminismo” lucido ed attuale, sempre entusiasta e coerente. “Mordimi pure, tanto resterò dura”: è questa l’indole di Libera Velo, adamantina come tutto il suo disco. [ ]
LIBERA VELO - RIZOMA CONTRO ALBERO 01. Puca 02. Memo bizzarra 03. Con te me la prendo 04. Questo mio essere brillante e di fiducia piena 05. Il Punctum 06. The wise child 07. Jimmy’s blues 08. Demiurga 09. Mi piace il suo vestito 10. Zenzero 6
JK | 48
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APPINO Il testamento
(2013 La Tempesta/Universal) di Nadia Merlo Fiorillo
A
lza il tiro Appino e lo alza su di sé, con un esordio autobiografico che lo esilia per 14 brani dal seminato degli Zen Circus e lo affonda nelle sabbie mobili di un’intimità dichiaratamente esposta
al pubblico cospetto. Se stavolta di confessioni personali si tratta, esse restano pur sempre il conclamato cancro di una generazione lacerata tra i miraggi narcisistici della società dello spettacolo e l’omologazione culturale di un provincialismo più che imborghesito, cifra invariabile di periferie urbane e di scenari rurali o metropolitani. Ma in questo lavoro solista, Appino inveisce a partire dal suo budello esistenziale, sollevandosi su un ego straziato e sbraitato in 14 storie di ordinaria verità. Non si può certo dire che Il Testamento sia un disco delimitabile in un solo genere musicale, sbrogliandosi tra pop, folk, aculei rock, spilli di elettronica e sfuriate punk, sebbene la nota predominante e di merito resti l’indice insistito su un mood cantautorale incisivo e per niente sprovveduto, sorretto dalla sezione ritmica del Teatro degli Orrori (Franz Valente e Giulio Ragno Favero) e in qualche occasione dal violino di Rodrigo D’Erasmo. Quello che probabilmente non si riesce a perdonare ad Appino è una certa interpretazione, troppo ricalcata – volens nolens – sui cliché vocali di Lindo Ferretti, di un Godano degli esordi (Solo gli stronzi muoiono) o di Rino Gaetano (La festa della liberazione), mentre talvolta il cantato assume un’evidente analogia melodica con Dalla (Godi), che distoglie dalla sua destrezza immaginifica di cantastorie. L’eccezione, perché di questo si tratta se si confronta Il Testamento con gran parte dei dischi di molti songwriters dell’indie nostrano, è tutta nelle liriche, a
partire da quella della title track. Ispirata al suicidio di Monicelli, Il Testamento è un vero e proprio manifesto di libertà, che in versi dalla metrica calibrata e in un linguaggio orfano di fronzoli retorici rivendica l’assolutezza dell’arbitrio umano, sia esso decisione della morte o, ancor più, autonoma scelta di vivere e di amare. E la libertà è tema anche di quello che risulta il pezzo liricamente più riuscito di tutto l’album, La festa della liberazione, che, seppure sia un calco preciso di Desolation Row di Dylan, vanta uno dei testi poeticamente più crudi e realistici dell’intero disco, ma di rara ed estrema bellezza. Tutto il resto vagola tra rassegnazione e smarrimenti, famiglia e colpe, miserie esistentive e mostruosità umane, echeggiate ora in una filastrocca dark, ora in una Marsigliese schizofrenica e sguaiata o in un richiamo al Django tarantiniano, messo in musica da Morricone. Appino è un vero talento, lontano anni luce da finzioni, da pose o da onanismi pseudocerebrali e questo esordio lo conferma in maniera decisiva. A potergli dare un voto, sarebbe un 8. Senza alcuna remora e senza alcun ripensamento. [ ]
APPINO - IL TESTAMENTO 01. Il Testamento 02. Che il lupo cattivo vegli su di te 03. Passaporto 04. Specchio dell’anima 05. Fuoco! 06. La festa della liberazione 07. Questione d’orario 08. Fiume padre 09. Solo gli stronzi muoiono 10. I giorni della merla 11. Tre ponti 12. Godi (adesso che puoi) 13. Schizofrenia 14. 1983
JK | 49
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WEIRD Desert love for lonely graves (Autoprodotto, 2013) di Alina Dambrosio
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Desert love for lonely graves “, album d’esordio dei Weird è’ un fluire, una nebbia di pensieri, a tratti laceranti, è il fumo avvolgente, un sound sporco che per pochi minuti si ammorbidisce. Il vortice dei riverberi è un tuffo nell’intimità: luce soffusa, ombre sfocate. Nelle le 7 tracce ritroviamo sonorità “Ethereal ”, anche grazie alle atmosfere create dalle chitarre e dalla voce a volte sussurrata. Caratteristiche musicali prettamente d’oltreoceano, invece siamo a Roma, loro sono un trio, Marco Barzetti (Vocal/Guitar), Massimiliano Pecci (Drums), Matteo D’Argenio (Bass). L’album si apre con un grido che si espande, un grido lamentoso, ma pur sempre una liberazione (Dark was the sky, cold was the rain) ed è così che si proteggono i Weird dagli insulti insopportabili del mondo alla deriva. Il loro è un viaggio amniotico verso il ricordo, si mantengono in vita attraverso le melodie che li hanno generati, sospinti dalle onde fosche e impalpabili delle loro chitarre aeree, dalla propulsione di bassi circolari, dall’eco delle loro percezioni. Si potrebbe parlare di derivatismo, ma è piuttosto un’esperienza che dal passato riecheggia nel futuro. La voce di Marco Barzetti, intrisa di un latente malumore alla Slowdive, ricorda a tratti Tom York. “Desert love for a lonely graves” è un melting pot: dalla newwave più gotica (Echo & The Lullaby), si abbandona alle correnti di un dream-psych alla Mercury Rev (a New Beginning), si apre a fugaci suggestioni postpunk (Desert Love), cavalca un’ aggressiva delicatezza come solo i Galaxie 500 sapevano fare (The Moan), per poi reimmegersi in un lungo finale, allontanandosi dal vuoto del mondo che l’ha generata, avvicinandosi alle distorsioni di quelle percezioni sempre più vicine,
sporgendosi nel pensiero fino a toccarle, per poi dissolversi. [ ]
WEIRD - HYBRIS 01. Dark Was The Sky, Cold Was The Rain 02. Echo & The Lullaby 03. A New Beginning 04. Desert Love 05. The Moan 06. Sundive 07. Druggirl
JK | 50
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UNIVERSAL DAUGHTERS Why hast Thou forsaken me? (Santeria/ Audioglobe, 2013) di Alina Dambrosio
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ualche mese fa Marco Fasolo, Jennifer Gentle, ci aveva anticipato l’uscita di un progetto di ampio respiro internazionale. Ad aprile, infatti, uscirà per Santeria/ Audioglobe (mentre la distribuzione europea sarà curata da Rough Trade) “Why hast Thou forsaken me?”, esordio delle Universal Daughters, nuovo progetto di studio prodotto e capitanato proprio da Marco. Non si tratta di un semplice album, è una raccolta di cover di brani anglo-americani, che spaziano da oscuri gospel anni Venti per arrivare sino a Big Star e Suicide, facendo tappa per generi diversi come R&B ( “It’s your voodoo working”) e persino il music hall. Mi piacerebbe definirlo un tesoro di voci e di grandi artisti. Un filo lega i tredici pezzi molto diversi tra loro, questo filo è la raffinatezza, anche per pezzi più duri (come “I Hear the voice”, che vede la collaborazione di Alan Vega dei Suicide) oltre a un ben più importante e nobile scopo: i proventi infatti andranno alla Città della Speranza, organizzazione attiva nella cura di bambini gravemente ammalati. Ogni pezzo è quasi fine a se stesso, non anacronistico, non in discordanza, nonostante la diversità dei generi e delle voci. “Is there all there is ?” tra il cantato e il recitato di Stan Ridgway ci catapulta nei cafè parigini degli anni 20, ma dopo soli tre minuti tutta un’ altra situazione, un’altra epoca. Ritroviamo il fondatore dei Virgin Prunes, Gavin Friday, che messo da parte il post punk, sussurra “Kangaroo” dei This Mortail Coin, in una versione più intimista, per poi lasciare il palcoscenico a Lisa Germano, fluttuante in “Midnight, the stars and you”. E’ una sfida, si rischia molto facendo una raccolta di cover, di questo livello poi! E’ uno spul-
ciare nella storia della musica, cercando perle rare (Mother dei Pink Floyd tra tutte) , è un rischio, perché sono facili i paragoni, nonostante gli eccelsi nomi che troviamo a interpretarli (Steve Wynn, Mick Collins dei Dirtbombs, Jarvis Cocker, e il leggendario cantante soul Swamp Dogg, per citarne solo alcuni) e i musicisti che hanno collaborato (Verdena, Alessandro Stefana, Alessio Gastaldello e Maurizio Boldrin dei Mamuthones, svariati membri degli Slumberwood, ai quali va aggiunto l’aiuto di Pino Donaggio), ma a volte i rischi vanno corsi, perché buttarsi non fa sempre male, anzi in questo caso si rispolverano capolavori, vivificati da una nuova luce, senza mai dimenticare l’origine. Grandi artisti che reinterpretano pietre miliari, niente di più riuscito. [ ]
UNIVERSAL DAUGHTERS - WHY HAST THOU FORSAKEN ME? 01. The Clock ( Feat. Swamp Dogg) 02. Psycho (Feat. Steve Wynn) 03. Mother 04. Midnight, The Stars and You (Feat. Lisa Germano) 05. Kangaroo (Feat. Gavin Friday) 06. It’s Your Voodoo Working (Feat. Mick Collins) 07. Is There All There Is? (Feat. Stan Ridgway) 08. I Hear Voices (Feat. Alan Vega) 09. I Am Born To Preach The Gospel (Feat. Chris Robinson) 10. Hong Kong Blues (Feat. Baby Dee) 11. For The Last Time We’ll Pray 12. First Of May (Feat. Jarvis Cocker) 13. Cheree (Feat. Mark Arm)
JK | 51
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LILIES ON MARS Dot to dot (Elsewhere Factory, 2013 ) di Giulia Palummieri
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ome puri e candidi gigli tornano tra le lande del nostro Pianeta le Lilies on Mars, due promettenti ragazze sarde con base a Londra ora al terzo lavoro in studio. Non aspettatevi però che i vostri sensi funzionino come di consueto, perché questi sono sì i fiori conosciuti dal nostro immaginario collettivo, ma figli di coltivazioni aliene e, pertanto, anche le più basilari proprietà diventeranno fonte di nuove scoperte. Profumi, colori, volumi tra le mani, tutto assume quindi un nuovo corso facendo così dell’avventura il diktat di quest’ultima produzione più consapevole della via da intraprendere e solida sui suoi passi. Abbandonati quindi in parte i voli di impronta alternative-rock capaci di infondere al sound un retrogusto derivativo poco edificante, le Lilies incantano ora con gli aspetti più intimi dell’elettronica, ritrovandosi a cingere l’ascoltatore in un’atmosfera sintetica e allo stesso tempo sanguigna dalla quale difficilmente troverà scampo. Avvolgente fino al punto di far cambiare colore al nostro volto tale contesto infatti delinea la trama di un mondo onirico, sfocandone non solo i bordi tra le note per lasciarne immutata la sensazione di cullante smarrimento ma, giocando con un certo piacere masochista, fa in modo di non far sentire la necessità di una via di fuga. Dando maggiore spazio ai momenti sognanti non solo viene meno l’attitudine al caos che spesso faceva capolino nel precedente lavoro, ma si sviluppa una buona correlazione tra i lati reconditi dell’animo delle L.O.M. e i propri interlocutori. Ogni barriera pertanto viene abbattuta e ci si sente in prima persona parte
integrante di “Dot to Dot”, il quale non solo cambia a seconda degli umori con cui ci si approccia, ma diventa altresì un confidente prezioso per i nostri segreti. Dilatazioni shoegaze, voci ipnotiche, noise siderale, dream pop meditativo, misticismi e quant’altro alternano scenari dai toni prettamente lividi a quelli luminosi aumentando il senso di turbamento dei suoi abitanti fino a farli scontrare con le somme delle diverse sensazioni. Non a caso qui le suggestioni giocano ruoli precisi facendo virare il sound, mediante la sperimentazione, verso una tattile forma di astrattismo in cui anche la modulazione degli elementi vocali diventa parte integrante di questo magma sonoro. Passando in rassegna ogni traccia però si nota come non tutti gli episodi siano all’altezza di elogi sfociando a volte in una ripetitività accentuata capace di funzionare nell’insieme ma di far stridere l’eterogeneità mettendo a confronto i singoli episodi. Questi aspetti tuttavia possono legarsi semplicemente a delle piccole scosse di assestamento idonee a turbare ancora l’andamento del Lilies-percorso. In ogni caso tutto ciò non distoglie l’attenzione in maniera invalidante e di conseguenza le buone speranze su questo duo poi divenuto trio e tornato duo non possono che alimentarsi nuovamente. Ci vide bene Battiato fin dai tempi dell’esordio, ora non resta che fare anche a voi la vostra parte. [ ]
LILIES ON MARS - DOT TO DOT 01. See You Sun 02. Dream of Bees 03. SIDE ABCDE 04. No Way 05. Entre-Temps 06. Oceanic Landscape 07. Interval 08. Impossible Child 09. So Far Dear America 10. Interval 2
Giulia Palummieri è anche qui: JK | 52 newsofthepost .blogspot.it
[Musica] recensioni
Not Right; penetrano la brezza zepsananda maitreya She’s peliana di Hurricane Me & You e carezzano di Free To Be. La particolarissiReturn to zooathalon lamacoralità e calda voce di Sananda sa toccare le
(Treehouse Publishing, 2013 ) di Andrea Barbaglia
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ealizzato secondo una ormai usuale tradizione in quattro sessioni che abbracciano questa volta un arco di tempo compreso tra il febbraio e il dicembre del 2012, il ritorno all’attività discografica per Sananda Maitreya prende oggi la forma di un lungo concept album incentrato sulle dinamiche intercorse nella quotidianità dello Zooathalon, realtà di livello altro, parallela al mondo razionale così come sperimentato attraverso i nostri sensi, e capace di rinnovare con la stessa freschezza compositiva i fasti del precedente THE SPHINX, rivelatorio masterpiece dell’artista americano da diversi lustri residente a Milano. Protagonisti principali di questa nuova opera rock a 360 gradi scritta, arrangiata, prodotta e suonata dal solo artista americano sono le figure chiave dello scienziato Robert Taylor Zippenhaus e del direttore d’orchestra Ruggiero Tommaso Zepperelli, soggetti, individualità lontane fra loro, ma unite da un obiettivo comune, da una missione, l’unica possibile, che germoglierà dentro loro e che si rivelerà capace di realizzarli completamente: mettere nuovamente piede a Zooathalon. Maitreya si appresta perciò a ridisegnare mondi e universi coincidenti fatti di accordi e corrispondenze, ricorrendo a un largo uso di tutta quella musica che è suo e nostro bagaglio culturale. Gli amati anni Settanta si annunciano così in multiformi espressioni: sono fonte primigenia tanto per i ritmi dell’Africa nera proposti da Brimstone Follies quanto per le eleganti atmosfere suggerite dalle chitarre wah wah di DFM (Don’t Follow Me), potenziale singolo seducente e ondivago, e Just Go Easy. Si insinuano tra le spigolose note di Dancing With Mr. Nostalgia e Tequila Mockingbird qualche istante prima di esplodere dirompenti nell’amore bollente cantato in
corde giuste nelle interpretazioni di Where Do Teardrops Fall? e Ornella Or Nothing, inaspettato tributo alla nostra Ornella Muti, urlando tutto il disagio interiore in Save Me. C’è spazio per gli Stones di Brian Jones (Walk Away (Ghost Song)), per gli Who (Kangaroo) e i territori desertici del New Mexico (Albuquerque). Dopo le rocambolesche avventure del possibile alter ego Stagger Lee la quadratura del cerchio si completa con l’ottima Return To Zooathalon. In chiusura ecco infine l’omaggio all’antica amica Whitney celebrata in maniera raccolta dal delicato strumentale per solo pianoforte The Last Train To Houston. Sananda non manca certo di aggiungere tasselli preziosi nella costruzione della sua sempre più luminosa e pacificata carriera. Il ritorno a Zooathalon non è così un ritorno a quel passato che non può tornare, ma l’indicazione di un equilibrio musicale vivo che nella sua complessa semplicità è fedele ritratto delle sue aspirazioni. Un nuovo, ulteriore, sereno approdo. Il prezzo del biglietto è imposto dall’impegno nel viaggio.“The more you try to escape, the deeper you go into it.” [ ]
SANANDA MAITREYA - RETURN TO ZOOATHALON 01. Brimstone Follies 02. DFM (Don’t Follow Me) 03. Save Me 04. Dancing With Mr. Nostalgia 05. Stagger Lee - Part 1 06. Stagger Lee - Part 2 07. Ornella Or Nothing 08. Where Do Teardrops Fall? 09. Albuquerque 10. Camel 11. Mr. Gruberschnickel 12. Just Go Easy 13. Tequila Mockingbird 14. She’s Not Right 15. Return To Zooathalon 16. Walk Away (Ghost Song) 17. Hurricane Me & You 18. If I Go Away 19. Free To Be 20. Kangaroo 21. D.H.S. 22. The Last Train To Houston
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[Musica] recensioni
TONI BRUNA Formigole (Niegazowana, 2013 ) di Andrea Barbaglia
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C’è un filo rosso che unisce chi non si è mai conosciuto, che ci lega a qualcuno che forse incontreremo domani. C’è un filo rosso che guida e incrocia i nostri destini e ci porta ad amare a prima vista lo sconosciuto che è nella nostra vita da sempre”. Così la scrittrice irlandese Josephine Hart nel suo romanzo di maggior successo Il Danno, bestseller internazionale di inizio anni ‘90 raccontato nella finzione cinematografica dall’indimenticabile cineasta francese Louis Malle in uno dei suoi ultimi lavori per il grande schermo. Riflessioni semplici e lineari che a ben vedere chi vive di Musica spesso si trova a realizzare in perfetta solitudine prima che, in un secondo tempo, vengano condivise da più parti. Il disco di Toni Bruna è uno dei tantissimi esempi concreti in tal senso. È la piccola pietra preziosa intagliata con cura e passione da mani esperte; la gemma rara recuperata e lavorata per la gioia del suo oculato possessore in una piccola bottega artigianale, lontano dagli occhi avidi prima ancora che indiscreti di chi non saprebbe come valorizzarla. FORMIGOLE è appunto quel filo rosso di cui sopra, capace dunque di unire e catturare l’interesse dei più attenti nel cui novero, da tempo, si è rivelato esserci quel chitarrista visionario che risponde al nome di Gionata Mirai il quale, non a caso, si troverà a dire a riguardo: “C’è un cantautore triestino molto figo, si chiama Toni Bruna...; a lui non frega niente di essere famoso, ma ha fatto un disco molto bello, uno dei pochi che ascolto attualmente senza premere “skip”.” Già. Toni Bruna. Un nome in mezzo a tanti. Un nome comune che rivela però in soli 37 minuti una bellezza agrodolce unica, pura e incontaminata. Partendo dalle proprie radici, dalla propria terra, dalla sua storia e
dalla sua lingua, qui rivoluzionario strumento unico di comunicazione. Ricordando con una chitarra carioca e alcuni inserti di tromba affidati a Massimo Tunin gli esuli istriani in esilio più o meno volontario del rione Baiamonti; avanzando con movenze sudamericane a piccoli passi tra i Pai De La Luce nel tentativo di sfuggire alla Nera Signora; narrando con indicibile leggerezza e forza descrittiva i miracoli pagani del Cristo De Geso, l’accidia mai passiva della Gente Che No Ghe Frega De Gnente e l’atmosfera accogliente e famigliare di Una Bela Casa, rifugio peccatorum e tomba della libertà insieme. Nell’emozionante e commovente folk-rock drakiano di Picar si pongono le basi per la successiva Santantonio, smisurata preghiera animale densa di sofferente pathos caposseliano e tensione emotiva, costruita su un epico arpeggio ipnotico. Tesounasanta è arricchita dall’ennesimo fraseggio chitarristico mentre l’atmosfera campestre di Serbitoli sintetizza umori notturni e intime malinconie simili alle paure terrene della title track. Questo è il mondo di Toni Bruna. È i racconti contadini fra sacro e profano. È il Carso e la storia millenaria che lo accompagna. È le sue contraddizioni. È i bagliori della notte. È l’Enrosadira. Fotogrammi. Istantanee. Flash dai freddi colori pastello. Che colpiscono e abbagliano. Quasi accecano, talmente sono puri e incontaminati. Una primissima tiratura autoprodotta del cd venne resa disponibile anni fa solo nella zona di Trieste. Ora tocca all’Italia. Allargati gli orizzonti la vita e il passato scorrono inarrestabili. Legàti. Inscindibili. [ ]
TONI BRUNA - FORMIGOLE 01. Baiamonti 02. Cristo de geso 03. Formigole 04. Gente che no ghe frega de gnente 05. Pai de la luce 06. Picar 07. Santantonio 08. Serbitoli 09. Tesounasanta 10. Una bela casa
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[Musica] recensioni
see you downtown SYD (Etnagigante 2013 ) di Andrea Barbaglia
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e l’electroclash, l’industrial e le contaminazioni tra rock e digitale con un sospetto di funk sono pane per i vostri denti SYD è la next best thing capace di deliziare anche i palati più esigenti. Una proposta tutta italiana, dalle indubbie potenzialità mondiali già ben sviluppate in questo esordio fulminante. Noto in precedenza con il nickname di John Lui, Marco Pettinato consolida il recente rapporto con Etnagigante sviluppando la sua idea di musica totale. Al suo fianco Roy Paci e Marco Trentacoste per una miscela esplosiva capace di non porsi limiti se non quelli fisici dell’oggetto cd. I rimandi sono principalmente d’Oltremanica e d’Oltreoceano, ma la melodia, stratificata sotto decibel e linee elettroniche, c’è ed è tutta italiana. Calda. Vitale. Forse è anche per questo che SEE YOU DOWNTON funziona così bene, proponendo una via alternativa, personale, capace di affiancarsi, affrancandosi, a quanto fatto da personaggi del calibro di Trent Reznor e Martin Gore; nomi fino a qualche anno fa impossibili anche solo da avvicinare per un progetto italiano. Ci sono così i Nine Inch Nails riletti secondo il gusto new wave dei primissimi Duran Duran nell’anthematico inno artificiale Broken Generation; si viene travolti dall’onda d’urto sollevata dal treno in corsa targato Apollo 440 di Stop To Rush mentre avanzano strisciando le ossessioni di I Hold You prima di aprirsi ad un refrein che pare proveniere dal Giardino del Suono di Chris Cornell e Kim Thayil; seppur mutuato dal Dave Gahan di ULTRA. Memore dell’esperienza in sala di produzione accanto agli Emoglobe e ai Mallory Switch, forte di quella consumata sui palchi con i mai dimenticati Deasonika e ampiamente appoggiato dal titolare del progetto SYD, Trentacoste spinge violente-
mente sul tasto dei bits (la torbida frenesia chimica di To The Deeper Space è uno degli esempi più lampanti), mantenendo tutto quel fascino dark che la band di Max Zanotti era in grado di sprigionare accanto ad un voluminoso muro di suono ancora oggi insuperato. Non un passo falso negli oltre 50 minuti di foga musicale. Every Grain ha il santino di Mike Patton per benedirla così come How Many Reasons guarda ai lavori di Rob Zombie pur viaggiando su binari rock più convenzionali. Eppure all’interno di questa opera prima non mancano l’ossessivo trip hop dei Massive Attack più oscuri e quello del Tricky più luciferino. Just For A While riesuma i ritmi febbrili della club culture per trascinarsi liquida e digitale sui dancefloor di mezzo mondo prima di stupire con l’impennata rock del finale. Frozen mescola a sorpresa il blues della West Coast alla pece mansoniana per un potenziale singolo à-la Death in Vegas. Compressi e dilatati i Chemical Brothers non potevano certo mancare e il loro spirito anima la devastante Trip To Miami posta giusto un passo prima della fine. Spettacolare, e non poteva essere altrimenti, la chiusura ai limiti dell’electroclash affidata alla frenetica Sinner, vellutato proiettile adrenalinico sparato a tradimento. Gran lavoro davvero; una ventata di energia trasversale capace di attraversare lo Stivale prima di scuotere i cinque continenti. Con attitudine e classe. [ ]
SEE YOU DOWNTOWN - SYD 01. Stop To Rush 02. I Hold You 03. Broken Generation 04. How Many Reasons 05. Every Grain 06. Just For A While 07. Frozen 08. Killing Depression 09. To The Deeper Space 10. Trip To Miami 11. Sinner
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[Musica] recensioni delicate
GIOVANNI TRUPPI Il mondo è come te lo metti in testa (Miracoli/Jaba Jaba Music, 2013) di Claudio Delicato
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rendete “Indiscipline” dei King Crimson, aggiungete una spolverata di Officina della Camomilla, amalgamate il tutto con un qualsiasi pezzo di Vasco Brondi e rendetevi conto di aver in questo modo distrutto uno dei dischi più belli della storia della musica. Per cercare di riprendervi dal senso di colpa mettete infine su “Il mondo è come te lo metti in testa” di Giovanni Truppi, vi assicuro che funzionerà. ‘Sto giovane cantautore campano mi fa simpatia perché dà l’impressione di essere uno di quelli che hanno concepito gran parte del proprio album d’esordio sul lettino dello psicologo: quattordici pezzi completamente fuori di testa, senza il minimo rispetto per la metrica, la dizione, il missaggio, la forma-canzone e in alcuni casi persino l’intonazione. Eppure il disco suona vero, sincero e incomprensibilmente coerente nel suo essere fuori da ogni canone. Per intenderci, se la musica fosse la planimetria di una casa, “Il mondo è come te lo metti in testa” sarebbe il ripostiglio delle scope. Giovanni Truppi è il classico personaggio che quando lo incontri a una festa ti chiedi “ma chi è ‘sto coglione?” e dopo una mezz’ora sorprendi la tua ragazza mentre gli fa un Canta Tu al cesso completamente cosparsa di marmellata di visciole: a una prima, disattenta impressione non capisci se è senza speranza o se è un genio, ma al terzo pezzo capisci che la sua ironia, per quanto sia demenziale e sgangherata, è personale e sincera. So che il paragone può sembrare azzardato, e infatti prendetelo con le pinze – specie in relazione alla tecnica musicale e agli arrangiamenti – ma Giovanni Truppi è forse l’unico artista che mi fa venire in mente Elio e le Storie Tese senza sfigurare troppo al confronto.
Ma “Il mondo è come te lo metti in testa” non è solo scanzonata ironia: c’è qualcosa di più, una sorridente malinconia di fondo che esce con maggiore forza proprio perché presentata in maniera leggera. I momenti più piacevoli sono a mio parere “Ti voglio bene Sabino”, “Cambio sesso per un po’” e “Come una cacca secca”, oltre alla bella ballata “Amici nello spazio”. Il missaggio lo-fi è forse l’unica cosa trendy di un disco che ha il pregio di non ispirarsi palesemente a nessun artista o filone preciso: c’è un po’ di Bugo, del già citato Elio, ci sono senza dubbio tantissime tavolette del cesso lasciate alzate, ma il disco di Giovanni Truppi è un gioiellino unico nel suo genere. Ascoltate “Il mondo è come te lo metti in testa” per un semplice motivo: Giovanni Truppi è uno che ha un sacco di cose intelligenti da dire e per questo è adorabilmente disordinato, confusionario e divertente. []
GIOVANNI TRUPPI - IL MONDO E’ COME TE LO METTI IN TESTA 01. Il mondo è come te lo metti in testa 02. Ti voglio bene Sabino 03. Cambio sesso per un po’ 04. La domenica 05. Quante volte 06. Come una cacca secca 07. Giovinastro 08. Ti ammazzo 09. Amici nello spazio 10. I Cinesi 11. Nessuno 12. 19 gennaio 13. La lotta contro la paura
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[Musica] recensioni delicate
THE FUCK YOUS Meat The Fuck Yous (Autoproduzione, 2012) di Claudio Delicato
H
o la fortuna di conoscere – anche se solo virtualmente – la mente del progetto The Fuck Yous: Simone Storci, in arte Livefast, è infatti un popolare blogger che nei post usa un numero di parole raramente superiore al pur altissimo pagerank del suo sito (5). Alla luce di ciò è quindi evidente che il primo aspetto a cui ho dato attenzione siano i testi, che si confermano in linea con lo stile che contraddistingue il blog di Livefast: ironia cinica, pungente e scanzonata, arricchita peraltro dal fatto che Simone ha una padronanza dell’inglese fuori dal comune, in un panorama in cui il modello più fortunato cui si rifanno i gruppi che cantano in questa lingua è Flanagan. I testi sono appunto il vero aspetto vincente di un gruppo che non teme di sentirsi ridicolo né di offendere nessuno cantando liriche come “all that Geena likes to do is sucking dicks” o intitolando un proprio pezzo “The right to marry a goat”. Dal punto di vista musicale “Meat The Fuck Yous” non è certo il prodotto più innovativo della storia, ma dà l’idea di essere un disco spontaneo, sincero, di pancia: l’album di chi ha il grunge nella tasca dietro dei pantaloni, un approccio alla Tre Allegri Ragazzi Morti ma con molte meno magliette tarocche dei Nirvana con lo smiley. L’esordio dei Fuck Yous in questo senso fa tenerezza perché pare in tutto e per tutto realizzato esattamente come è stato pensato. Prodigi dell’autoproduzione? È possibile. Gli episodi più felici sono di certo l’opening track, “The ballad of Lindsay Lohan” e “Don’t paya”, una sorta di “Territorial pissings” ambientata in provincia di Modena e con il gnocco fritto al posto del burro di arachidi. Il missaggio è abbastanza sudato e una menzione
particolare merita sicuramente l’artwork dell’eterno Astutillo Smeriglia, eccellente blogger, regista, qualcosaltrista e amico (virtuale e non) del leader della band. Per finire, il disco si può scaricare gratuitamente dal sito dei Fuck Yous (thefuckyous.wordpress.com), per la gioia degli ascoltatori più fricchettoni. Ci sarebbero tanti modi possibili per concludere questa recensione, ma le parole più efficaci vengono senza dubbio proprio da un post dello stesso Livefast: “L’importante è produrre arte che sia fruibile in guisa di pugnetta: breve, solitaria, piacevole e immediatamente dimenticata. Non dico che le altre forme d’arte – quelle lunghe, comunitarie, dolorose e a lungo ricordate – siano meno rispettabili, soltanto che non le pratico e dunque non posso dirne nulla”. [ ]
THE FUCK YOUS - MEAT THE FUCK YOUS 01. Geena (queen of the backyard) 02. Don’t paya 03. King of rock 04. Killers & then die 05. Alide 06. All is relative (but The Fuck Yous) 07. The right to marry a goat (Saint Dalmés) 08. Any other title 09. Smart riot 10. No shoes 11. The ballad of Lindsay Lohan 12. Swastika shaved pussy
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[Musica] suggestioni
Rusted Pearls&The Fancy Free Roadsigns (Autoprodotto, 2012) di Andrea Furlan
L
a vecchia scuola del rock continua a mantenere intatto il suo fascino anche per le nuove leve di musicisti che ad essa si riferiscono come punto di riferimento e guida spirituale. La lezione di Alman Brothers, Lynyrd Skynyrd fino ai più recenti Black Crowes non è passata inosservata nel profondo nord-est, alla periferia estrema dell’impero, la terra d’origine dei già affermati W.I.N.D., il power-trio da una decina d’anni paladino italiano dell’hard blues. Questa volta a raccogliere il testimone sono i Rusted Pearls & The Fancy Free, la band di quattro ragazzi di Udine che da qui gettano un ponte ideale verso il profondo sud degli States. Dario Snidaro (chitarra e voce), Andrea Mauro (chitarra), Massimo Mattiussi (batteria) e Marco Fabro (basso) hanno nel cuore il sothern rock, quell’affascinante miscela di rock, blues e soul coniugata con la laziness caratteristica delle terre bagnate dal Mississippi. Il biglietto da visita del quartetto è Roadsigns, un EP di sei tracce che suona grezzo ed energico come fosse registrato dal vivo. I primi due brani, Free e Roadsigns and white lines dicono già tutto tutto degli intenti del gruppo, tempi veloci e chitarre in resta, dure il giusto che si intrecciano solo. Chilly girl ammorbidisce i toni verso una rock ballad dalle tendenze melodiche introdotta da un arpeggio di chitarra e accompagnata dal piano di Alberto Pezzetta. Home rialza il tasso energetico con una forte carica elettrica a sottolineare il riuscito refrain. Chiudono il disco i due episodi migliori, Rusted pearls, una ballatona che trasuda spirito southern da tuti i pori, a cominciare dalla voce roca e indolende di Snidaro per arrivare alle chitarre distor-
te che accendono con grinta il finale, e Precious, con l’hammond di Pezzetta e le backing vocals di Sarah Del Medico ad arricchire il sound e a trasformare il brano in una corsa avvincente lungo le strade percorse dai già citati Black Crowes. I Rusted Pearls partono con il piede giusto, il loro esordio possiede le caratteristiche necessarie per attirare l’attenzione di quanti credono ancora nel rock sanguigno e stradaiolo che senza troppi fronzoli va dritto al bersaglio. Sono giovani ed hanno l’attitudine giusta verso un genere intramontabile. Se questo è solo l’inizio, possiamo ben sperare nel futuro di questi ragazzi. Intanto Roadsigns ha fissato le coordinate di un percorso che, visti i presupposti, ci auguriamo continui spedito verso nuovi traguardi. [ ]
RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE - ROADSIGNS 01. Free 02. Roadsigns and white lines 03. Chilly girl 04. Home 05. Rusted pearls 06. Precious
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JUST KIDS compilation by
TACK AT WHELM
MOUSTACHE PRAWN BISCUITS
FAST ANIMALS AND SLOW KIDS HYBRIS
ANDREA CARBONI DUE []
LORENZO LAMBIASE LUPI E VERGINI
UMBERTO MARIA GIARDINI LA DIETA DELL’IMPERATRICE
SYCAMORE AGE SYCAMORE AGE
MOLOTOY THE LOW COST EXPERIENCE
free downloaD TRACKLIST
VANITY OCCULT YOU
01. Tack At - Thousand Yard Stare (Wiskey tango foxtrot) 02. Moustache Prawn - Aeroplane 03. Fast Animals And Slow Kids - A Cosa Ci Serve 04. Andrea Carboni - Lento 05. Lorenzo Lambiase - La grande rivolta 06. Umberto Maria Giardini - Quasi Nirvana 07. Sycamore Age - Binding Moon 08. Molotoy - Holymount In The Rain 09. Vanity - Ghosts 10. Versailles - Ma Dov’è la Severità
www.promorama.it justkidswebzine.tumblr.com
VERSAILLES 1963-1991
[musica] live report
sycamore age Live report, Roma di Grace of Tree
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a storia dell’Angelo Mai è quella di un laboratorio artistico, crocevia di numerose iniziative culturali ad ampio raggio, che, nel corso del tempo, ha subito numerosi “sballottamenti” pur di salvaguardare la natura indipendente delle iniziative artistco-culturali più interessanti della città capitolina. Immersa nel verde, a due passi dal suggestivo scenario delle terme di Caracalla, la “Repubblica dei desideri” (come si sono ribattezzati) è oramai un punto di riferimento per chi crea o ricerca ottima musica, sempre all’insegna di qualità e sperimentazione. Quale migliore cornice, dunque, per accogliere un gruppo come i Sycamore Age?! Il live non è da meno del disco. Rilascia una sensazione selvaggia di sonorità colte, create da un gruppo che, esplorato già tutto con sapienza, ha voluto dimenticarlo in una rivisitazione esaltante che parte dalle origini, per approdare al futuro che incombe. Roba destabilizzante per un’amante dei toni pastello come me! La dichiarazione di intenti parte, non a caso, dalle note metalliche, distorte e allucinate di “My bifid sirens”, lasciando sul palco il posto d’onore centrale proprio alla grancassa che, nello spiegarsi del concerto, assorbirà e restituirà la furia espressiva dei nostri Sicomori. Fluttuando tra le fronde sospese di un ruscello cupo e misterioso, veniamo traghettati in una palude melmosa in cui risuona avvolgente “Dark and pretty part two”. Finalmente, poi, approdiamo su una terra polverosa, in cui si compie una danza pagana intorno al sicomoro, al suono di “At the biggest tree”, accompagnata dal nostro battito di mani. Siamo partiti per un viaggio ipnotico che, dalle viscere della terra, ci riconduce verso una luna ammaliante e affascinante, che detiene il segreto non svelato delle cose. Un po’ come nel mito delle caverne, in “Binding moon” sentiamo riecheggiare i suoni delle catene che avvolgono l’uomo, in una marcia angosciante nell’oscurità, mentre sul muro si disegnano ombre, fantasmi e illusioni. La verità è lì fuori, scandita da vibrazioni lunari, oltre il limite dell’incoscienza, solo la musica può abbattere quel muro. Qualcosa, o qualcuno, di inatteso, ci aspetta. L’emozionante comparsa sulla terra di una
nuova creatura silvana, dipinta nell’attesissima “Heavy brenches”, ci accompagna in quel punto preciso in cui “sorrow meets pleasure”, attraverso la voce lacerante di Francesco Chimenti. Il viaggio, poi, prosegue tra le contraddizioni elettroacustiche di “Kelly”, la corale e ispirata “Dark and pretty” e il battito vorticoso ed incessante di ali di farfalle in ”How to hunt a giant butterfly”. Durante il live i ragazzi si muovono lungo immaginarie linee geometriche disegnate sul palco scambiandosi gli strumenti, così come la furia, l’ispirazione e la complicità. Credo di aver visto più strumenti su quel palco che nella mia intera vita, immersa com’ero tra clarinetto turco, rana, cembalino, campanaccio, bouzouki e la splendida tromba tibetana, che conclude la prima parte del concerto con “Romance”. Gli artisti, acclamatissimi, dopo una breve attesa, rientrano regalandoci la splendida “Tears and fire”, poi un inedito, concludendo la performance live con quell’immenso sospiro corale di “Astonished birds” che, in un’illusione quasi circense di suoni e colori, ci accompagna verso l’uscita, mentre, ad uno ad uno, salutiamo ogni singola emozione lasciata sugli spalti. Sembra quasi di doversi affrancare da un’allucinazione collettiva dopo aver assistito ad una preghiera pagana in un rito di magia bianca. Non so quanto sia durato esattamente il concerto, forse giusto il tempo di uno sbalzo sensoriale tra passato e futuro, so già che sarà difficile venirne fuori. Dal futuro intendo. Il viaggio continua anche se...”there’s a (binding) moon asking me to stay..” [ ]
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[Musica] live report
|ph by Giulia Razzauti
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la dimensione eroica del microbo di Maura Esposito
Ritorno a casa
Il tram tossisce solo ogni 14 minuti. Attendo il mio trasporto sotto il sole che trasfigura, dentro la grazia di dio per poche sorsate aromatiche. Fuori per tutto il resto del tempo. Sono gli strati compressi di queste pietre millenarie che abbronzano sotto il sole in questo pazzo universo diviso in due, essere di roccia che si calcifica comprimendosi in centimetri cubi di sforzo e durezza, amore e odio. Penso a tutte le rabbie e i motti e le sommosse, dinamo che sibilano urgenti per pochi istanti di luce fioca, una stella lontana, un buco nero. Questa strada che odora di cucine ingorde mentre torno a casa a ripararmi dagli occhi del vostro dio, con gli spiccioli che ridacchiano nelle mie tasche, e pretendono di insegnarmi me.
Per le opere di Maura Esposito ladimensioneeroicadelmicrobo.blogspot.it
[immaginario] la dimensione eroica del microbo
|pic by Maura Esposito
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PUNTO FOCALE di Giulia Blasi
Incontro Notturno
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umo Nel tuo poco vedere cullami. Lasciami dormire In un sonno disturbato Da un sogno troppo vivido; Mi lascerò introdurre da te ai personaggi e intanto la libagione sarà celebrata. Sento della musica ora E smetto di fare quello che faccio. Mi alzo dal letto con Gli occhi ancora chiusi Riesco a vedere meglio La mutazione notturna non è mai Arrivata con più dolcezza. Vedo la mia coda E mi accarezzo il pelo con la lingua Molto forte ed acre il mio odore Ho ricordi confusi Solo qualche residuo vegetale Sembra parlami di ciò che è stato, Un seme mai visto prima Ha scavato e preso posto in mezzo Agli occhi ancora chiusi. Incisa, scavata Continuo a camminare Mentre i contorni della percezione
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[immaginario] punto focale
“The Longest Compassing”, G. Blasi, 2012, 73x43 cm, Oil and Acrylic on Canvas JK | 65
|pic by Davide Uria
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ParolA immaginata
[immaginario] parola immaginata
di Davide Uria
Rimembranze icordi avvizziti
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luminose rimembranze
si muovono nella mente. impeti disorganici stille interiori fracassi dissonanti sfocature ingiallite. ricordi miseri lembi di eternitĂ brutalmente scampano, scivolano via
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sOMMACCO
è Luca Palladino, Giorgio Calabresi, Francesca Gatto Rodorigo
Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.
GESUALDO IN FILA PER TE di Luca Palladino
A
Gesualdo, che se ne sta comodamente in fila ad aspettare il suo turno, gli hanno consegnato un numero: Gesualdo lo conserva gelosamente e capita che ogni tanto lo guarda, più per verificarne l’integrità che per controllare a che punto sia la fila. Gesualdo, che rifiuta ogni minima distrazione per non farsi trovare impreparato quando arriverà il suo turno, scaccia i suoi pensieri, e per farlo si aiuta con le mani. Gesualdo ha finito per attirare su di sé gli sguardi indiscreti delle persone in fila come lui; sguardi assassini dell’inusuale, sguardi che non accettano la diversità così come non si accetta che un fiume scorri libero. La sala d’aspetto non può accettare che Gesualdo cavalchi l’onda dei propri pensieri senza freni perché non riconosce la libertà come una possibilità. La sala d’aspetto, con tutti i suoi occhi, finisce per opprimere Gesualdo, il quale non capisce esattamente cosa stia succedendo dentro tutti quelli occhi così invadenti. Il Gesualdo si fa pensieroso, la sua mente viene cosparsa di pensieri prepotenti come può essere prepotente la nutella sul pane, su per giù. Egli, tutto spalmato di pensieri, distratto da essi, sgualcisce il proprio numero irrimediabilmente. Alla vista del numero d’attesa spiegazzato Gesualdo soffre con due F, perché la sofferenza è sempre doppia mica come l’amore, a meno che non si commetta un errore di svista ma questa è un’altra storia. In mezzo a tutta quella sofferenza, repentinamente, una voce, insensibile e dall’inflessione stridula, esce dagli altoparlanti e chiama ripetutamente il numero assegnato a Gesualdo: “104, il 104, tocca al 104. C’è il 104? Ultima chiamata per il 104!”. Ma Gesualdo non sa che tocca a lui perché non percepisce più l’esterno, cosicché egli perde il suo turno e la fila e per oggi non riuscirà a provare quella sensazione strana che si ha quando “tocca a te”, quando si è davanti a ciò che si è lungamente atteso. “Tutto codesto non è possibile!”, dice una voce fuori |ph by Genova Città Digitale
campo. Purtuttavia le convenzioni hanno deciso che lo è, hanno deciso che io tu noi siamo nella sala d’attesa ad osservare Gesualdo con occhi indiscreti. Occhi che lo feriscono come si fa con una vocale quando la si elide per abitudine, o perché si crede sia un errore non eliderla. Occhi che lo investono nella sua intima nudità e nella sua pura libertà e nella sua mera amenità e nella sua epifania. Deh, il Gesualdo, nel mezzo della sala d’aspetto ad assecondare i suoi pensieri, apparentemente catturato. Il fiume trova sempre un pertugio e nessun uomo potrà arrestarlo completamente. L’acquiescenza non è del fiume, l’acquiescenza non appartiene a Gesualdo perché Gesualdo è un fiume: sillogisticamente, correntemente, potentissimamente, fondamentalmente, profondamente, totalmente. [ ]
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[immaginario] sommacco
FOLLOWING M. di Giorgio Calabresi
I
l Nostro (lo chiameremo così perché nessuno, nemmeno il narratore, ricorda più il suo nome) decise di diventare Michael il giorno in cui il vero Michael morì. La notizia gli arrivò all’improvviso mentre viaggiava confuso tra la folla sul metrò. Un bisbiglìo sempre più fitto saltò di bocca in bocca tra i corpi stipati nel vagone nell’ora di punta, propagandosi più in alto del rumore di ferraglia, sincronizzando in un attimo le attenzioni di tutte quelle teste su un unico pensiero. Il Nostro era straniero in quel paese, non capiva bene la lingua locale ma la forza d’urto di quella notizia non necessitava di traduzioni. A dire il vero non era mai stato un fan di Michael, si potrebbe perfino dire che non aveva nemmeno una delle sue hit inserita nella sua playlist personale, quella che ascoltava ossessivamente la sera prima di dormire o mentre preprarava da mangiare. Ad impressionarlo infatti non fu il suo dispiacere ma quello degli altri, in pochi minuti vide centinaia di estranei intorno a lui iniziare a parlarsi, a cercare conforto uno nello sguardo dell’altro quasi a voler scongiurare l’ineluttabile. Riemerse dalle scale della stazione come a mettere distanza tra se e l’allucinazione del mondo sotterraneo, accellerò verso l’aria tra la folla che avanzava lenta e stordita e trovò la triste conferma che anche in superficie lo strato iniziale di stupore stava inesorabilmente aprendosi sopra un vuoto profondo e sconosciuto. Osservò la gente del suo quartiere ritrovarsi in strada davanti ai portoni, fuori dai negozi, vecchi e bambini, uomini e donne, tutti come ipnotizzati a ripetere la semplice e terribile litania: Michael is dead, we love you Michael. Fermo a metà strada tra invidia e ammirazione il Nostro per la prima volta in vita sua sentì di poter far parte di qualcosa. Davanti ai suoi occhi increduli vedeva
prendere forma la risposta alle mille domande rimaste irrisolte nella sua testa. Lui che non aveva amici né nemici, non amava e non era amato, che si sentiva invisibile e temeva di scivolare via in silenzio senza lasciar traccia, senza che nessuno si accorgesse della sua assenza, capì in quel preciso momento che quella poteva essere l’occasione che aspettava da tempo. Raschiò tutto il coraggio che poteva trovare dentro di sè: cambiò il suo nome, modificò il taglio dei capelli, scelse nuovi vestiti, alterò la voce e corresse il suo modo di muoversi e camminare. Solo quando la sua trasformazione in Micheal fu completa si sentì finalmente al sicuro. La gente adesso gli sorrideva e gli dimostrava affetto, i bambini gli chiedevano una foto insieme e tutti erano gentili con lui. Michael vive, we love you Michael. Per nutrirsi di tutto questo si ostinava a passare in strada la maggior quantità di tempo possibile. Alla sera però quando rientrava a casa e smetteva gli abiti di scena, si liberava del cappello a falde larghe e dagli occhiali specchiati, solo allora, mentre si detergeva il viso dal trucco, l’eco dell’uomo che fu riemergeva in lontanza come un flebile richiamo dal profondo, ma tutto durava solo un attimo e poi svaniva di nuovo. In breve tempo del Nostro vecchio non rimase più nulla, neanche un ricordo, proprio come lui aveva sempre temuto. [ ]
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[immaginario] Sommacco
|ph by Nothing is ever the same
BURRO E ALTRI MISFATTI di Francesca Gatti Rodorigo
P
edro Juan era seduto sul cornicione scalcinato della sua terrazza scalcinata al sesto piano dell’ Avana. Con le gambe che ciondolavano fumava un sigaro che gli durava ormai da 3 mesi. La canicola lo affaticava, ma non più dei discorsi di Annarella che filosofeggiava sul cibo mentre Pedro attendeva il primo pasto della giornata. Distratto dall’odore del rum che saliva dall’impasto di patate dolci, non badava troppo alle teorie culinarie cui Annarella si era data nonostante il razionamento che li affamava da tempo. A un colpo di frusta dato alle patate e al rivolo di rum che quasi evaporava per il caldo, seguivano 10 parole sulle virtù dei cereali e sulla letalità del burro. Quel burro Pedro Juan lo aveva rubato il mattino stesso durante una spedizione nelle campagne fuori l’Avana. Era partito di buon mattino, nonostante la notte insonne e la labirintite che lo faceva barcollare come un vecchio ubriaco senza nemmeno aver buttato giù un sorso di niente. Aveva passato in rassegna tutte le case dei contadini impigriti dalla mancanza di sementi senza trovare nulla di commestibile da comprare, con in mano i pochi dollari rimediati dalla vendita di una moneta commemorativa a un turista bianco. Finalmente trovò un allevatore distratto e decise di rubare un pezzo di burro da portare alla sua Annarella, generalmente contenta di poter fare un dolce profumato e gustoso in quel periodo di grandi amarezze.
Gli spiccioli che aveva se li tenne per il viaggio di ritorno. Tornato a casa offrì il bottino alla sua donna con soddisfazione, sentendosi l’erede di un’intera specie. Lei lo scansò con fare inorridito, tirandosi fuori dalla complicità che un tempo li aveva uniti. Niente più burro d’ora in poi, e non c’è necessità o razionamento che tenga. Pedro Juan è quello di “Trilogia sporca dell’Avana” di Pedro Juan Gutiérrez. Annarella è sempre Annarella. [ ]
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SOMMACCO è anche qui: sommacco.wordpress.com
sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista
IL CANE NERO
C
orricorri…cazzocorricor- come una blatta s’intonava al coloriiiiiiiiiii, urlavo a Giulio per re scuro degli occhi piccoli e lucidi. mettergli il pepe al culo. Un Cazzocazzocazzo nun je la faccio cane nero che sembrava uscito più, frignava Giulio con i denti del da un film dell’orrore galoppava ringhiante dietro di noi, a un passo da noi, con la bava svolazzante, gli occhi rossi e la lingua penzolante doppia come una bistecca. Proprio quella che sognava il cagnaccio una volta afferrate le nostre chiappe: bistecca d’homo sapiens con contorno d’unghie e denti. Giulio stava per scoppiare, grassoccio com’era, pieno di strani peli sul mento che non erano come quelli di una barba o di un pizzetto, ma peli lunghi un centimetro, isolati, con una loro dignità, e poco più su, sulla guancia destra, un neo neromarrone grosso |pic by Paolo Battista JK | 71
cagnaccio a un pelo dal suo culo, e anch’io mi sforzavo di non mollare, non potevamo fermarci anche perchè davanti a noi, a poco più di venti metri, c’era la nostra salvezza, almeno apparentemente, una vecchia baracca abbandonata alle spalle di via di Acqua Bulicante dove Giulio nascondeva la sua mercanzia. Il problema era che Giulio non era mai stato in buoni rapporti con il suo vicino, un vecchio dalla barba folta che tempo prima faceva il bidello. Poi un giorno aveva picchiato un ragazzino di dodici anni perché il ragazzino in uno sfogo adolescenziale lo aveva mandato a cagare e lui, il vecchio, l’aveva colpito
[immaginario] sbevacchiando pessimo vino così forte che il ragazzino era finito all’ospedale con una contusione alla spalla. Corriccorri…cisiamoquasi, gli strillavo sforzandomi di non perdere il passo ma anch’io avevo paura, una paura fottuta di finire tra le grosse mascelle di quel cazzo di mostro a quattro zampe che ringhiava e correva slinguazzando il vento freddo di dicembre. Ci siamo ci siamo, e aprii la porta cercando subito di tirarla tutta per far passare Giulio senza intoppi e richiudere non appena fosse entrato. Il cagnaccio però fu abbastanza veloce da infilare la sua testaccia dura, e mentre io cercavo di spingere la porta per tenere il resto del corpo fuori, Giulio fuori di testa, iniziò a bastonarlo sul cranio con una pala arrugginita che aveva nascosta nella baracca. Vecchio ‘nfame…vecchio ‘nfame fracico, urlava Giulio pensando al vecchio matto che non aveva avuto scrupoli nel tirarci il cagnaccio contro; ma se lo pijo l’ammazzo, l’ammazzo!, e con la pala stretta tra le mani continuava a picchiare duro sulla testaccia ancora più dura di Rex. Se chiama pure Rex com’er cane sbiro de li miei cojoni…pijate questa, e PAM PAM, ma il cagnaccio non ci pensava proprio a mollare la presa e del vecchio non si vedeva neanche l’ombra. Forse era nascosto lì da quache parte, ghignando come un fottuto bastardo, aspettando di vedere la nostra fine come un fottuto bastardo, con la sua barba nera e i suoi occhi di ghiaccio, le sue mani callose e il suo corpo tozzo, e quindi non era il caso di sperare nel suo aiuto. Odiava Giulio, non sopportava i suoi loschi traffici e odiava tutti gli ubriaconi e falliti che portava nella sua baracca, odiava i tossici e gli spacciatori, odiava i neri e i pakistani, odiava mamme
e bambini, odiava se stesso probabilmente, ma non credo avesse mai avuto voglia di psicanalizzarsi. Amava solo il suo cane Rex, la sua vecchia casa e la solitudine. Non voleva vedere nessuno da quelle parti, e chiunque passava doveva vedersela con il suo cazzo di cagnaccio. Dopo lo scandalo del ragazzino il vecchio aveva deciso di ritirarsi dalla società, e l‘unica volta che l’avevo incontrato in giro per il quartiere parlava con il suo cane, i capelli scompigliati e lerci, i vestiti sporchi, magari venuto alla scoperto solo per trovare qualcosa da mangiare. Non doveva passarsela molto bene ma non aveva mai dato fastidio a nessuno; sì insomma ad incontrarli di notte sulla strada lui e il suo cane potevano farti venire un infarto, ma in fondo fino a quel momento per me era sempre stato un uomo con una cane come tanti altri. Chiaramente tutt’altra storia se ti avventuravi dalle sue parti, e per andare da Giulio si doveva per forza passare davanti alla sua baracca malamente recintata con bidoni e gomme e transenne rubate al comune e rifiuti di ogni tipo. Ormai erano più di sei mesi che Giulio aveva trovato quella specie di rifugio, che poi era solo un cubo di mattoni senza tetto poco lontano dalla strada, dove sia la porta che la finestra erano chiuse con delle assi di legno grezzo che gli davano malamente l’aspetto di una casa; dentro c’erano degli attrezzi da lavoro lasciati lì ad arruginirsi e che una volta Giulio usava per lavorare, un tavolo con una gamba più corta sistemata con un mattone avanzato, un cartoccio di vino scadente sempre appoggiato sopra al tavolo con la gamba più corta, una poltrona distrutta che in qualche modo Giulio era riuscito a trascinarsi fin là e usava anche per dormire, un ripiano fatto con JK | 72
cassette della frutta, alcuni portacandele rubati da Ming nel caso la notte gli venisse voglia di leggere ( solo romanzi di fantascienza ), una torcia arancione bella grande e un tappeto rosa che aveva preso in prestito dall’ingresso di un albergo di terz’ordine dalle parti di Termini. PAMPAMPAPAPAPAM, ma niente; cagnacciodemmerda, sputava Giulio, ed anch’io che iniziavo a stancarmi, le braccia mi dolevano, le gambe iniziavano a cedere, avevo bisogno di bere un goccio di vino per darmi la carica ma non potevo assolutamente mollare la porta. Avevo sempre amato i cani ma quello che avevamo davanti incastrato con la testa nella porta non era un cane, era un mostro infernale pronto a fare incetta delle nostre ossa, e almeno fino a quando Rex non avesse deciso di cedere non potevo assolutamente mollare la presa. Tra l’altro dovevo pisciare ma non mi azzardavo neanche a pensarlo il mio povero fratello fuori di lì, con quel cane rabbioso che poteva staccarmelo con un solo morso. Cazzo fai qualcosa, urlavo io verso Giulio più stanco e sfatto di me, ma Giulio non sapeva cos’altro fare, non riusciva a crederci, neanche dopo tutte quelle botte quel cagnaccio infernale voleva saperne di mollarci; era ancora aggrappato alle nostre chiappe, continuava a ringhiare e Giulio continuava a ripetere: t’ammazzot’ammazzot’ammazzo, ma in fondo non credevo dicesse sul serio. Poi aveva mollato la pala e al suo posto aveva afferrato un piccone mezzo spuntito sporco di cemento. Sentii come un tonfo sordo seguito da un tragico miagolio. Il sangue schizzò sui nostri volti sudati e il piccone era ficcato nella testa di Rex, proprio sopra gli occhi, che si erano rivoltati all’indietro mostran-
[immaginario] sbevacchiando pessimo vino
do il resto della sclera iniettata di sangue. Che cazzo hai fatto?, dissi spaventato ed eccitato allo stesso tempo ma Giulio si era tirato il piccone sulla spalla e acceso una sigaretta e con la pianta del piede aveva spinto fuori la carcassa nera del cane. Quello che dovevo…sto fijo de satana c’avrebbe ammazzato…lo sai nnno!, ma proprio in quel momento sentimmo un colpo di fucile esplodere a pochi metri dalla baracca. Cazz’è stato?, frignai io adesso realmente inorridito. Dev’esse quer matto…me sa che s’è accorto der cane, qua se mette male! Cazzocazzocazzo, continuavo a frignare tenendo bassa la testa; poi vidi il cartoccio di vino che pisciava liquido rosso dal tavolo e scivolando per terra come un serpente aprii la bocca per non sprecare tutto quel ben di dio. Anche Giulio aveva la gola secca ed anche Giulio strisciando come un rettile arrivò alla fontanella di vino che colava come quella di una statua del centro. Intanto il vecchio continuava a sparare pistolettate contro la baracca anche se ancora non eravamo riusciti a capire da dove venivano gli spari, ancora non s’era fatto vedere e la sera iniziava a calare e io dovevo ancora pisciare e il vecchio continuava a fare fuoco sulla facciata della baracca tenendosi ben nascosto e la luna acida puntellava il tavolo ormai inzuppato di pessimo vino. Dobbiamo fare qualcosa, sparai poi cercando di avvicinarmi alla finestra per dare uno sguardo. In giro non si vedeva nessuno, solo qualche albero e ombre mosse e cespugli mossi dal vento e la casa del vecchio matto sulla destra era illuminata da una flebile luce mossa che però non mostrava nessuno.
Anche Giulio era arrivato alla porta strisciando nuovamente come un verme per dare un’occhiata in giro e capire il da farsi. Davanti alla baracca non c’era più il cadavere di Rex e una scia di sangue si allungava fino alla casa del vecchio. Ormai s’era fatto tardi, notte fonda, e la mia vescica stava per esplodere, presi una bottiglia di plastica vuota e le infilai dentro il cazzo, questa era fatta! Si trattava solo d’uscire da quel buco ma ogni volta che provavamo ad aprire la porta un proiettile si schiantava a pochi metri da noi. MA DOV’E’? CAZZO, DOV’E’?, urlai stanco e affamato, E’ UN FANTASMA DEL CAZZO, e sempre restando a testa bassa continuavo a guardare dalla finestra per percepire un movimento, un guizzo, un’ombra, qualcosa che mi facesse dire: adesso, andiamo, è il momento! Lo stesso era se provavamo ad uscire dalla finestra, un colpo si schiantava a pochi metri da noi o chissà proprio sopra la nostra testa. Decidemmo di restarcene dentro tutta la notte, facendo turni di guardia: due ore ciascuno. Quando il sole invernale fece capolino tra le insenature delle tavole usate per coprire la porta erano quasi le otto del mattino. Aprii lentamente e nessuno sparo si udì all’orizzonte. Misi la testa fuori, con Giulio appollaiato dietro di me come una gallina. Stringeva tra le mani il piccone con cui aveva ucciso il cane ma stranamente non c’era una goccia di sangue. Anche la scia che credevamo di aver visto non c’era più, svanita, solo terriccio e malerba. Tirai un sospiro di sollievo pensando che il vecchio aveva deciso di mollare la presa. In quello stesso istante passò di lì un postino per la consegna delle missive nella zona. Stirandomi le spalle gli chiesi del vecchio bidel-
lo che viveva nella baracca affianco alla nostra, se lo conosceva, se per caso l’aveva visto in giro. Il postino però ritirando la faccia in una smorfia contorta fece: ma chi, il vecchio matto? Eh si, quer pezzodemmrda, quer matto der vecchio bidello, sottolineò Giulio inferocito e stanco dopo una notte da incubo come quella che avevamo appena passato. Ma perché non lo sapete? Cosa dovremmo sapere? Il vecchio è morto più di due mesi fa, farfugliò il Postino, e aggiunse: sbranato dal suo stesso cane. Non gli dava da mangiare e una notte quel cazzo di cagnaccio nero ha iniziato a spolpagli le viscere. Si dice che sia morto così, nella notte, e si dice che il cane sia sparito, nessuno ne sa niente. Salutammo il postino, chiaramente senza raccontargli nulla, probabilmente ci avrebbe preso per pazzi se l’avessimo fatto, e restammo ancora qualche istante a fissarci increduli e scarichi. Dopo quella notte Giulio decise di abbandonare quella vecchia baracca e portare i suoi traffici altrove. Del cane non sentimmo più parlare, e neanche del vecchio, ma il dubbio del fantasma ci perseguitò per parecchi mesi ancora. Sapevamo bene quello che avevamo visto oppure era stato solo frutto della nostra fantasia? o magari era stata colpa del vino che avevamo in corpo? Non riuscimmo mai a scoprirlo! Da quel giorno però ogni volta che incrocio un grosso cane nero mi tremano le gambe, e tutto solo per aver accompagnato un amico che voleva un po’ di compagnia per i suoi traffici. [ ]
Paolo Battista è anche qui: issuu.com/pasticherivista JK | 73 paolobattista.wordpress.com
|scrap di Cristiano Caggiula
|pic by Elisa Serio JK | 74
[poesia] |scrap
EMANUEL CARNEVALI, L’URAGANO
A
stento citato nei libri di letteratura, è un visionario italiano, espatriato in America il 17 marzo 1914 e tornato in Italia nel 1922 a causa della sua malattia. Un poeta che ci giunge setacciato da una lingua lontana, oltreoceano, “Voglio disturbare l’America”, scrisse e fu così. ”Il Primo Dio” è una sorta di romanzo autobiografico, un cui l’autore racconta la sua vita da Firenze a New York, da New York alla sua malattia, una vita disordinata, all’insegna della sopravvivenza e della povertà che consuma le ossa. “Il Primo Dio” è un documento storico, perfetto connubio tra la vita, la poesia e la storia. È difficile identificare romanzo un’opera ricca di verità, dove non c’è finzione e la poesia sfiora le mani ad ogni pagina: si sente l’odore putrido di una New York che cresce sulle spalle di migliaia di emigrati, l’umidità di qualche appartamentino tirato su con il cartone, la fame, l’amore per la letteratura, la solitudine, la follia, la disperazione e le cicche raccattate per strada. Emanuel Carnevali raggiunge la verità assoluta, la comprensione di un mondo vuoto e affamato di poesia “gettata in pasto ai cani” [1]! Intrattiene numerose amicizie e rapporti epistolari con i personaggi più influenti dell’epoca, come Benedetto Croce, William Carlos Williams o Ezra Pound, quest’ultimo cita per la prima volta Carnevali in un’intervista sul Corriere della Sera. Nelle sue “critiche”, vi è grande devozione e ammirazione nei confronti di Rimbaud, nonché figura ispiratrice assieme a Walt Whitman: “Rimbaud è, in me, una preghiera a cose più belle di me, le cose prive di vita, le cose prive di coscienza, belle” [2]. Fortunatamente è grazie alla concessione di Maria Pia Carnevali che oggi possiamo leggere un capolavoro del genere. Nell’edizione edita da Adelphi (la prima edizione 1978 e seconda 1994) è presente una buona parte della sue produzioni, ovvero il romanzo, le poesie scelte, tre racconti, scritti critici e tre testimonianze, ma non saranno mai soddisfacenti. Una volta letto ne vorrete ancora, e rimarrete infastiditi dalla sua assenza nei libri di storia della letteratura italiana, non per un problema storico, ma per un problema educativo nei confronti delle generazioni che verranno. Carnevali l’uragano, investe l’America rifiutandole il colpo di grazia e l’Italia ne accoglie la morte. [ ]
”Io sono incerto come un ramo curvo di salice che fa cenni dall’acqua. Ammiro il diavolo perché lascia a metà le cose. Ammiro Dio perché finisce tutto.” [3] ”Il domani sarà bello, perché il domani sorge dal lago.” [4] ”E voi snob, maledetti stupidi, ricordate che anche voi state sudando” [5]
[1], [2], [3], 4], [5] Il primo dio, a cura di Maria Pia Carnevali, con un saggio di Luigi Ballerini, Milano: Adelphi, 1978 e 1994.
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lo spettatore pagante di Antonio Asquino
DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino
“
Django Unchained” è il film più “facile” di Tarantino e il “facile” è riferito a lui non al film in generale (per quanto sia un più che accettabile intrattenimento). L’impressione è che il regista si sia limitato al compitino poco impegnativo perché perfettamente nelle sue corde, muovendosi su terreni che gli sono arcinoti al punto che che
se non si conoscesse la storia del cinema sembrerebbero stati scoperti proprio da lui, citazionismo, postmodernismo, ironia, sparatorie, esplosioni, grandi dialoghi e bei personaggi uguali a tanti altri suoi personaggi che a loro volta sono uguali ai personaggi di migliaia di altri film. Ora non vorrei però che si fraintendesse, il film è ben fatto e anche piacevole per quanto forse un po’ troppo lungo, il punto è che soprattutto nella scrittura manca un po’ di inventiva e coraggio (quello che invece ha reso “Le Iene”, “Bastardi Senza Gloria” e “Jackie Brown” i veri capolavori di Tarantino), qui Tarantino sembra quasi accomodarsi e inserire il pilota automatico per realizzare un film che sembra un “best of” dei più noti spaghetti western con un pizzico di sangue e questione razziale in più. L’unica novità è il personaggio interpretato dall’eccelso Christoph Waltz che tratteggia mirabilmente uno dei pochi
LINCOLN di Steven Spielberg
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crucchi veramente e integralmente simpatici della storia del cinema. Menzioni d’onore vanno riservate anche alle interpretazioni di Leonardo Di Caprio (vero motore del film con Waltz) e Samuel L. Jackson talmente bravi da eclissare un po’ il pur adeguatoJamie Foxx (in teoria protagonista). Scene memorabili e divertenti ce ne sono molte (quella del Ku Klux Clan su tutte), mentre senza dubbio la cosa peggiore del film è la colonna sonora, questa si’ postmoderna nel senso deteriore con canzoni inadatte e inutilmente ammiccanti, citazioni del tema principale di un altro film dove “Django” si fonde con “Trinità” che a sua volta si rifaceva a Morricone che morse il gatto che si mangiò il topo e cosi’ via e a questo proposito una citazione che più negativa non si può la merita la canzone del maestro cantata da Elisa, un pugno in un occhio stucchevole e inascoltabile, pessima scelta. [ ]
S
enza girarci troppo intorno diciamo subito che questo film è una porcheria noiosa e improponibile, ovviamente conoscendo il regista (uno che fondamentalmente di film davvero validi ne ha fatti due o tre se vogliamo essere buoni) non ci aspettavamo molto di più del solito polpettone patriottico
[cinema] lo spettatore pagante
hollywoodiano, dove personaggi caratterizzati in modo elementare semplificano, con slancio drammatico, lezioni base di educazione civica per bambini non particolarmente svegli, i soliti film adattissimi a far passare due ore in pace agli insegnanti che non hanno voglia di lavorare in classe insomma. Il guaio è che è molto peggio, perché in questo orrore di pellicola, la sagra del polpettone hollywoodiano si fonde mirabilmente con quello napoletano stile sceneggiata in due momenti di rara e inarrivabile bruttezza, due diverbi dove, un altrimenti irreprensibile Lincoln, il cui massimo momento enfatico è sbattere una mano sul tavolo (sce-
na ovviamente inserita nel trailer), si trasforma in Mario Merola per rimettere in riga moglie e figlio. Evidentemente si voleva dare uno slancio di azione in un film in cui il settanta per cento del tempo si passa a guardare gente seduta che parla e un venti per cento a guardarla mentre parla in piedi, il resto sono personaggi a stento bidimensionali, tratteggiati malissimo, che ci raccontano una storia arcinota senza lasciarci nulla su cui riflettere, senza aggiungerci nulla di nuovo, nel modo più piatto, noioso ed elementare possibile. Dal punto di vista visivo il film è inesistente malgrado i pochi secondi iniziali dove si intravede un accenno di
battaglia, i dialoghi sono, appunto, la lezioncina di educazione civica buona per lo spettatore medio di “Porta a Porta” e la sceneggiatura è scolastica nel senso peggiore. Salveremmo Daniel Day Lewis che reciterebbe bene anche le pagine gialle ma purtroppo (e questa però è tutta colpa mia) il film l’ho visto in italiano quindi invece del buon Daniel mi sono beccato l’onnipresente Favino in uno dei suoi doppiaggi più pecorecci e inadeguati. Le uniche cosa sorprendenti del film sono: notare come stia invecchiando male James Spader e come sia ridicolo Tommy Lee Jones con la parrucca. [ ]
THE MASTER di Paul Thomas Anderson
C
ronaca di un capolavoro annunciato e mancato (e di parecchio anche) , questo è un film difficilissimo da giudicare e su cui sarà impossibile avere uniformità di giudizio, se da un lato si può sottolineare dal punto di vista visivo una spiccata capacità nella messa in scena che però dall’autore di tante meraviglie cinemato-
grafiche (“Boogie Nights”,“Ubriaco D’Amore” e “Il Petroliere” su tutte) è davvero il minimo che ci si possa aspettare, dall’altro non si può non evidenziare una sciatteria imprevista, clamorosa e inspiegabile nella scrittura e una confusione enorme di significanti e significati che è quello che rimane del film. Bisogna dire che i due protagonisti, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, sono bravissimi, il problema è che interpretano personaggi scritti male e stereotipati, per niente approfonditi. Se invece l’intento del regista è solo quello di mostrare il vuoto pneumatico, la tendenza all’omologazione, l’ipocrisia e la mancanza di personalità che sono insite di base nell’ottanta per cento del genere umano, il bersaglio potrebbe sembrare anche, in parte, centrato ma se si pensa che con un soggetto del genere, un regista come Anderson avrebbe potuto realizzare uno dei film più belli e definitivi di sempre è facile JK | 77
capire l’inevitabile delusione per queste due ore piatte in cui si gira intorno a un argomento che viene solo blandamente sfiorato e si cade continuamente nei buchi di sceneggiatura senza uscirne mai. Una grandissima (e facilissima) occasione mancata e non si capisce se è più per mancanza di coraggio o più per carenza di idee. [ ]
[cinema] lo spettatore pagante
LA MIGLIORE OFFERTA di Giuseppe Tornatore
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uesto è senza dubbio il film migliore di quelli che trattiamo questo mese, una pellicola che trasuda stile e maestria in ogni inquadratura, un ottimo thriller metafisico e concettuale, costruito sullo spazio più che sul tempo e rafforzato dagli intramontabili discorsi
su arte e amore, croce e delizia del genere umano da che l’uomo ne ha memoria. Tra citazioni cinematografiche e miscugli di tono e genere, Tornatore ammicca al noir con un eleganza quasi impensabile se si ricordano certe pellicole tendenti al nazionalpopolare più televisivo come il sopravvalutatissimo “Nuovo Cinema Paradiso” per non parlare di “Malena” e “Baaria”, qui il richiamo sembra invece al suo film più riuscito “Una Pura Formalità” a testimonianza che il respiro internazionale è indispensabile se si vuole superare l’impasse sconfortante del cinema italiano attuale solo che bisogna conoscere il cinema e saperlo interpretare e proporre cosa che il regista qui fa otti-
mamente pur rispolverando vecchi adagi come l’archetipo del vecchio solitario e misantropo che per la prima volta si apre alle persone e al “bello del mondo” pagandone le conseguenze. Recitato benissimo da un grande Geoffrey Rush, coadiuvato ottimamente da Jim Sturgess e soprattutto da Donald Sutherland che è sempre un piacere rivedere in scena, “La Migliore Offerta” è un saggio di cinema riuscito al cento per cento, visivamente arricchito da piacevolissimi movimenti di macchina (dolly e carrelli per la precisione), una bella fotografia e sceneggiato e montato magistralmente (gli ultimi venti minuti sono un piccolo miracolo in questo senso). [ ]
LA BOTTEGA DEI SUICIDI di Patrice Leconte
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olto rumore per nulla. Accompagnato dalle polemiche della censura ignorante e bacchettona è uscito con qualche difficoltà di distribuzione questo film d’animazione in 2D che nelle sale italiane è stato vietato ai minori con questa motivazione (riporto le testuali parole per farvi capire il livello becero della commissione):”la leggerezza con cui è trattato il tema e la facilità d’esecuzione, con
forti rischi di emulazione da parte di un pubblico più giovane, quali gli adolescenti che attraversano un’età critica. Per di più la rappresentazione sotto forma di cartone animato costituisce un veicolo che agevola nel pubblico più giovane la penetrazione di tale messaggio pericoloso”, ergo: se il giovane italiano vede un cartone animato che parla di suicidi siccome è idiota dalla nascita e privo di personalità, JK | 78
morire gli sembrerà un’esperienza cosi’ fantastica e semplice che la prima cosa che farà uscito dal cinema sarà andare ad ammazzarsi. Di fronte a cotanta saggezza cosa aggiungere se non che come al solito ci facciamo la figura dei peracottai e che chi giudica queste cose è talmente ignorante e retrograda da far tremare le ginocchia? In realtà ogni allarmismo sarebbe fuori luogo in generale ma soprattutto per questo film ed è proprio questo il problema, se da un punto di vista stilistico i disegni sono assolutamente convincenti, dal punto di vista contenutistico quello che poteva essere un eccellente saggio di humor nero risulta invece un banalissimo, debole, inno alla vita, elementare nei suoi personaggi privi di mordente, i suoi dialoghi semplicistici e le solite inutili canzoncine che sono la piaga di ogni film d’animazione che (non) si rispetti. [ ]
[libri] L'occhio
L'occhio di Sabrina Tolve
Odio solo, ed odio atroce in quell'anime si serra: sanguinosa, orrenda guerra da costor mi si farà. Ma dei Foscari, una voce vien tuonandomi nel core: forza contro il lor rigore l'innocenza ti darà. (I due Foscari, atto I, scena VI)
I DUE FOSCARI E IL TRIO CHE AMMALIA: VERDI, HERZOG, MUTI
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redo che nel corso della mia vita io abbia accumulato, tutto sommato, pochi rimpianti. Uno dei rimpianti che mi porterò dietro, però, è aver mancato alla messa in scena di una delle pietre miliari di Verdi: I due Foscari. Eppure, non è solo aver mancato a una messa in scena. Il teatro è fatto di repliche, sebbene quel che ami sia la magia dell’unicità della rappresentazione. Mai nessuna è uguale all’altra. Ancora, non sto parlando di quel che rimpiangerò. Verdi, sì. Muti, anche. Uno dei più grandi direttori d’orchestra che abbiamo. No, in realtà quello che mi prostra, senza possibilità di redenzione, è la regia di Werner Herzog. Quest’opera non è solo una pietra miliare dell’esperienza verdiana. Quest’opera è una pietra miliare della storia del teatro d’opera. E, maggiormente, del Teatro dell’Opera di Roma, dov’è stato rappresentato, dal 6 al 16 marzo. Immagino ci sia gente che non conosce affatto quest’opera e per la quale, finora, pare che io abbia solo blaterato. No, invero. E ora, gente, vi spiego il perché. C’è da dire una cosa: I due Foscari nasce a Roma. La prima rappresentazione risale al 3 novembre del 1844, al Teatro Argentina. Contrariamente all’esecuzione, l’azione si svolge nel 1457 a Venezia. Jacopo Foscari, figlio del Doge Francesco, è accusato di duplice omicidio. Già esiliato per il reato, ritorna a Venezia dove viene arrestato ancora e dalla quale verrà nuovamente esiliato. Mentre è in attesa di giudizio, ha una visione, un triste presagio. Tanto che moglie e padre andranno da lui a comunicargli la sentenza e quindi l’esilio a Creta. Quando ormai Jacopo è già partito, a Francesco giunge una lettera che discolpa il figlio Jacopo. Nell’apice della felicità del padre per la presa di coscienza dell’innocenza del figlio, ecco che Lucrezia, moglie di Jacopo, annuncia al suocero la morte del giovane, causata dall’estremo dolore. Ma è un attimo. Ecco che il Doge, padre di un esiliato, viene sfiduciato e fatto dimettere. All’elezione del nuovo Doge, anche Francesco muore, di dolore. Il libretto, di Francesco Maria Piave, accoglie una sintesi della trama, prima del vero e proprio testo in cui sono delineati i personaggi, già costruiti nella musica stessa di Verdi attraverrso la scelta degli strumenti. Altra particolarità dell’opera, oltre alla cupezza e alla solitudine della prigione, l’ingiustizia che prevale e ha la mano della Legge. Dalle immagini si può assolutamente credere che Werner Herzog – che già collaborò con Muti per La donna del lago di Rossini e il Fidelio di Beethoven – abbia voluto rendere tutta l’iconografia del potere, dal Leone alato ai ritratti ducali, le bifore dei palazzi su Canal Grande e le tristi prigioni. La Repubblica della Serenissima appare così maggiormente contraddittoria, divisa dalle faide interne della politica. Se Muti è il Direttore che permette a qualsiasi cosa diriga di diventare Meraviglia, la collaborazione di Herzog fa di quest’opera, poco nota ai più, un’esecuzione splendida, degna delle rappresentazioni più importanti dell’opera lirica. [ ] JK | 79
[sterilita’ del benpensare] cattivi pensieri
parodia della volonta' di Edoardo Vitale
SILENZIO IN SALA O VI AMMAZZO
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i certo è colpa mia, in gran parte. Voglio dire: spararmi un cinema al sabato sera, spettacolo delle venti in punto. Tutt’altro che una bella trovata, in effetti. Anzi, equivale ad un suicidio, per me, che sono un sociopatico di merda. Se c’è una cosa che la misantropia mi ha insegnato più di ogni altra è che non posso aspettarmi né progressi né benevolenza da parte delle altre persone. C’è solo da cavarsela con le proprie forze, ergo: starne alla larga. Starne alla larga il più possibile. Perché loro non cambieranno mai. E del resto neppure io. Preciso che il mio non è stato affatto un esperimento sociale, né una terapia d’urto o un tentativo di riconciliazione con il mondo. Bensì pura e semplice distrazione. Insomma, ho abbassato la guardia. Ironia della sorte, una volta tanto, sono arrivato in largo anticipo sull’orario di inizio della proiezione. Tanto da essere il primo a sedermi in sala, cosa che non accadeva dai tempi della gita a teatro con la scuola elementare. Quei maestri bastardi ci facevano arrivare lì ore ed ore prima dello spettacolo e cazzo tutt’oggi non capisco ancora il perché. Ad ogni modo è stata una tortura vederli arrivare in massa, uno dopo l’altro, prepotentemente attorno a me. Senza sosta. Coppie di tutti i tipi e di tutte le età, chiassose comitive, famiglie. C’erano persino loro, la
peggior categoria: il trio di amiche trentenni scapole ed inacidite che hanno deciso di passare una “serata tranquilla” (e anche agli apici del loro impegno culturale, aggiungo), senza rinunciare al tacco a spillo e alla gomma da masticare, naturalmente. Mentre mi asserragliavano, sempre più vicini, cercavo di ridurre la mia già esigua stazza fisica al minimo, rannicchiandomi dentro la giacca a cui era stato persino sottratta la poltrona di appoggio, tanto era piena la sala. Non c’erano vie di fuga. Ero in trappola. Al secondo trailer volevo scappare via, in preda ad una crisi isterica. Di quelle che ogni tanto mi prendono: non mi sento più la faccia, mi è impossibile muovere fluidamente le gambe, parlo come uno che si è morso la lingua e le orecchie vanno fuori uso impedendomi di udire nitidamente. Ordinaria amministrazione. Mi agito e mi dimeno sul seggiolino extra small i cui appositi contenitori sono violentati dalle bibite altrui in entrambi i lati, non posso poggiare gli avanbracci, non posso distendere le gambe. Il chiacchiericcio di sottofondo è incessante, eppure sento nitidamente lo scricchiolio di ogni singolo pop corn masticato, i respiri affannati e tutti i nasi deformi ed otturati alle mie spalle. Distinguo chiaramente il cigolio della carta di qualche snack aperto lentamente nell’illusione di far meno rumore, ma producendo solo
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[sterilita’ del benpensare] parodia della volonta' un’agonia più lunga. Il tintinnio di borselli e monetine, il fruscio dei giacconi, la zip delle borse, il pacchetto di fazzoletti, la vibrazione dei cellulari. E poi migliaia e migliaia di starnuti e colpi di tosse. Uno ogni 2,8 secondi. Scandiscono il ritmo dub della mia agonia. Ho i conati di vomito, sono immerso in una gabbia antigienica, la sciarpa stretta attorno al mio naso non filtrerà mai abbastanza tutti i germi che vengono continuamente immessi in questa scatola del terrore. C’è persino l’avanguardista munito di sigaretta elettrica: penoso esempio di ostentazione modaiola di una dipendenza, aggravata dal fatto che il film non è neppure iniziato e fino a dieci minuti fa si era tutti all’aria aperta liberi di fumare, Cristo santo. Il prezzo di un biglietto del cinema aumenta talmente tanto ed in fretta che quello dietro a me in fila al botteghino lo ha pagato 5 euro in più. Un po’ è anche per rispetto nei confronti delle mie tasche che decido di non andare via, pensando che una volta iniziato il film, tutti saranno presi dalla trama ed io potrò ucciderli o quantomeno vedere il film in santa pace. Dopo aver sferrato all’ennesima potenza un paio di “SHHH!!” micidiali alla prima sillaba pronunciata durante gli inutili titoli iniziali, tengo la situazione sotto controllo. C’è solo un’anomalia che emerge lentamente: la vecchia sessantenne dietro di me. Soffre di quella patologia che spinge a spiegare ad alta voce ogni evento del film, sebbene sia palese e sotto gli occhi di tutti ciò che sta accadendo. Non poteva farne a meno. Non che io non glielo abbia fatto notare puntualmente. Ad ogni scena commentava con un “ecco qui”, “hai capito?”, “hai visto che roba?” e quando non era questo narrava con tono saputello cose come: “eh, l’ha ammazzata!” (mentre il personaggio A accoltellava insistentemente il personaggio B) e via discorrendo. Come se non lo vedessimo tutti signora cazzo! Dopo aver tentato di tapparle la bocca con una serie infinita di lamentele cadute nel vuoto sbuffando e schiarendomi la voce sempre più “intensamente”, perdo la pazienza e mi volto: “Signora grazie per le sue lucide e tempestive spiegazioni ad ogni singolo evento del film, ma miseriaccia balorda mi ha davvero rotto i coglioni, io non ho richiesto una cazzo di guida. QUALCUNO IN SALA HA RICHIESTO UNA GUIDA ULTRASESSANTENNE, CON I CAPELLI TINTI DI BIONDO PAGLIA, UNA LURIDA PELLICCIA ED ALMENO UNA DECINA DI SPRUZZATE DI PROFUMO IN ECCESSO?!? PERCHE’ IO NO! CAZZO IO PROPRIO NOOOOOO!!!!!”
inveisco contro la stronza nei cui occhi leggo tutto il più infimo e borghese sbigottimento. Nel bene o nel male deve essere stata qualcosa come l’emozione più intensa della sua vita. Questa storia assumerebbe toni molto più interessanti e divertenti se si scoprisse che la tipa contro cui ho gridato i miei frustrati improperi avesse accompagnato, non so, il suo figlio cieco per la prima volta al cinema o amenità simili. Ma invece no. Nessun colpo di scena. Si trattava solo di una stronza che non riusciva a tapparsi la bocca a causa del suo irrefrenabile bisogno di controllo, persino sugli avvenimenti di un insulso e schifosissimo film. Per fortuna ho messo le cose in chiaro ed ha taciuto per la restante ora e venti minuti. Così ho finito di vedere il film, sono tornato a casa, mi sono lavato quattro volte le mani e mi sono messo a dormire. [ ]
Edoardo Vitale scrive racconti e poesie con un piede nella realtà ed uno nello sconforto causato da essa stessa.
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Ed è anche qui: www.concimalatesta.it
LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE di Claudio Avella
QUANDO IL GIUDICE SAGGIO DIEDE RAGIONE AI DUE LITIGANTI
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n giorno due litiganti vennero portati di fronte a un giudice saggio. Il giudice ascoltò il primo litigante e poi gli disse: “Hai ragione”. Poi ascoltò il secondo litigante e gli disse: “Hai ragione”. A quel punto dal pubblico qualcuno esclamò “Non possono avere ragione entrambi!”. Il giudice rispose ancora una volta: “Hai ragione anche tu!”. Questa storia è l’incipit del libro di Marianella Sclavi “Arte di ascoltare e mondi possibili”. Una semplice storiellina che ci ricorda che non sempre si può dividere il mondo in bianco e nero. Le controversie sono ovunque, dalle assemblee di condominio, in cui non si è d’accordo sul colore delle tende da montare sui balconi, a quelle più complicate, come la scelta delle tecnologie e dei luoghi per lo smaltimento dei rifiuti in un territorio. Nella mia ricerca bibliografica mi sono imbattuto in un bellissimo libro di Iolanda Romano, fondatrice della società Avventura Urbana di Torino che si occupa di progettazione partecipata delle politiche pubbliche. Il libro, “Cosa fare come fare”, racconta in maniera semplice cos’è e cosa non è la partecipazione. Racconta i vantaggi e i limiti della progettazione partecipata attraverso tantissimi esempi ed esperienze dirette e in-
dirette dell’autrice. Mi piacerebbe oggi parlare, prendendo spunto proprio dalle esperienze raccontate nel libro, dei metodi usati per affrontare i conflitti. Nel precedente articolo sulla partecipazione (Just Kids #04) ho raccontato la storia del bilancio partecipato della città di Porto Alegre, mostrando che esistono realmente dei processi decisionali partecipati che possono funzionare. Esistono anche altre forme di processo ed altri strumenti per il confronto pubblico. Mi riferisco ai processi deliberativi, ovvero processi di confronto e riflessione basati sul dialogo informato. Ad esempio le citizen’s jury negli USA, le cellule di pianificazione in Germania, le consensus conference in Danimarca. Tutti questi strumenti, per quanto diversi negli obiettivi che si propongono, hanno in comune due principi: devono essere rappresentativi di tutti gli orientamenti relativi a una determinata tematica o dibattito e prevedono la presenza di facilitatori. Questi strumenti non servono a prendere una decisione, ma ad orientare i decisori tenendo conto dei punti di vista di cittadini con interessi diversi. Ad esempio le consensus conferences in Danimarca, vengono utilizzate dal governo al fine di orientarsi nelle JK | 82
decisioni di tipo etico, come quelle riguardanti gli Ogm.. Il loro più grande limite è quello di non includere nel processo deliberativo i portatori di forti interessi, come le lobby. Anche per questo i risultati delle discussioni non hanno grande influenza sulle decisioni. Al contrario degli strumenti appena elencati, il consensus building, è uno strumento che è fortemente orientato alla decisione e all’inclusione degli interessi forti. Lo strumento è stato sviluppato negli USA da Larry Susskind all’MIT, a fine degli anni ottanta nell’ambito delle tecniche di risoluzione dei conflitti. In particolare il consensus building è uno strumento utile alla mediazione dei conflitti per costruire scelte condivise. Questo strumento è stato utilizzato in casi molto diversi tra loro: la riscrittura dello statuto di una città afflitta da un alto tasso di corruzione, la bonifica di un deposito di scorie nucleari, la definizione di quali specie tutelare nelle foreste canadesi, nel quale erano contrapposti gli interessi delle imprese del legname e gli ambientalisti, ecc... Lo strumento si è rivelato molto efficace, al punto che negli anni novanta è stato normato con una legge che ne prevede l’uso da parte del governo federale per scrive-
[sterilita’ del benpensare] liberta' e' partecipazione re regolamenti attuativi per leggi controverse. L’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente statunitense la utilizza spesso per i conflitti in campo ambientale. Anche in Italia è stata utilizzata, ad esempio nel processo per l’inceneritore e la discarica di Torino. La cosa interessante di questo strumento sta sicuramente nel modo in cui gli attori vengono fatti interagire: al fine del raggiungimento del risultato gli attori coinvolti devono accettare di partecipare, concordare l’obiettivo del processo e definire insieme un sistema di regole all’interno del quale muoversi durante le fasi del processo. Durante il processo vengono seguiti alcuni passi: per prima cosa i facilitatori e i mediatori svolgono un’indagine approfondita sugli interessi in gioco e sui punti di vista di tutti gli attori. In questo modo viene redatto un documento che viene inviato a tutti gli attori insieme all’invito a partecipare al tavolo. Il singolo portatore di interesse si troverà spiazzato nel vedere che il proprio interesse è ben rappresentato al fianco di quello di tutti gli altri. Questo spiazzamento rende la partecipazione al processo conveniente ai suoi occhi. Una volta che il tavolo è stato convocato, gli attori stabiliscono le regole per il lavoro comune. Le regole non vengono calate dall’alto, ma vengono scelte dagli attori in maniera condivisa, così che nessuno possa sentirsi in svantaggio. La grande forza di questo strumento sta, poi, nella ricerca dei punti di condivisione, piuttosto che di una mediazione sui pomi della discordia. Mi ha colpito
molto, personalmente, la storia della mediazione tra ufficiali della polizia e membri delle gang dei sobborghi di una città statunitense. La mediatrice chiese ai partecipanti di parlare della violenza. Il risultato sorprendente fu che i membri delle gang iniziarono a vedere nei poliziotti delle persone che temevano per le loro vite. Questa cosa li spiazzò a tal punto che da quel momento in poi poliziotti e membri delle gang iniziarono a dialogare. Avevano scoperto di avere qualcosa in comune. Insomma questo strumento si basa sull’allargamento dello spazio della condivisione piuttosto che restringere quello delle controversie. In seguito si passa all’esplorazione dello spazio della mediazione sviluppando la base scientifica condivisa e scegliendo dei criteri comuni a tutti, con i quali argomentare le proprie preferenze. Infine si può cercare un accordo di mutuo interesse. Ad esempio, nella controversia sull’uso della foresta canadese, l’accordo di mutuo interesse è stato trovato, rivalutando le mappe delle aree protette, incrociandole con i dati sulle specie arboree vulnerabili, quindi redigendo nuove mappe. I gruppi ambientalisti erano soddisfatti per aver ottenuto la protezione delle specie più vulnerabili in maniera efficace e le imprese del legname per aver ottenuto di poter continuare la propria attività. Ovviamente anche questo strumento non è privo di problemi e difetti. Il più grande sta sicuramente nella possibilità che non ci siano portatori di interesse che trovino conveniente cercare dei punti di contatto con la contro-
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parte. L’altro grande pericolo è il danno che potrebbe procurare la mancanza di volontà politica da parte dei decisori, nel caso non tenessero conto dei risultati del processo, sulla credibilità del dialogo come alternativa. Una bella scommessa...ma forse ne vale la pena. [ ]
[sterilita’ del benpensare] cattivi pensieri
cattivi pensieri di Franco Culumbu
Alcune righe sull'oggi scritte ieri per un eventuale domani
AL GIORNO D’OGGIGIORNO
Volevo scrivere un articolo sulla dittatura dell’ego e sul narcisismo patologico contemporanei. Sull’egotismo: “atteggiamento psicologico (diverso dall’amor proprio e dall’egoismo) che consiste nel culto di sé e nel compiacimento narcisistico e raffinato della propria persona e delle proprie qualità” (cit. Treccani). Che oggi una messa in piega ha il valore commerciale di tre copie di Madame Bovary più un cofanetto de La Traviata (e dicendolo ammetto di preferire la messa in piega). Volevo evidenziare il fatto che le nuove generazioni del nostro Paese, a ruota del gruppo di testa anglo-americano, stanno inconsapevolmente mutando la natura dei sistemi sociali in cui vivono (e non dico che sia necessariamente un male), facendo lentamente passare la nostra eterogenea e ingessatissima Italia da un aggregato di nuclei familiari e clientelari (diciamo un insieme di collettivi di parenti, amici, compagni di classe etc.) a un insieme di individualità individualiste. Volevo parlare dei costumi cosiddetti “moderni”, della solitudine e dell’instabilità generata dai nuovi stili di vita ma anche dei potenziali inespressi che in passato non avremmo mai potuto tirar fuori (see also: possibile alta frequenze di sbronze senza particolari rischi di emarginazione sociale). Volevo scrivere qualcosa sull’evoluzione di quel fenomeno delle società post-cristiane che si potrebbe definire “controllo sociale”, cioè quell’insieme di autolimitazioni, vincoli e suggestioni indotte che ci costringono a vestirci bene e a vergognarci di aver limonato con un cesso (una sorta di radicalizzazione sociologica dell’evoluzionismo). Volevo sfatare il mito del “bisogna fare più esperienze possibili perché è un bene per me”, per almeno tre ragioni: (i)sarebbe carino prendere almeno in considerazione che quello che è un bene per te non necessariamente lo è per gli altri;(ii) un’esperienza ti scivola semplicemente addosso se non la
rielabori e la trasformi in apprendimento, o almeno in un aneddoto da raccontare; (iii) inseguire la sirena dell’iperattivismo non è che un modo di sfuggire a noi stessi (ci sta bene una massima di JLBorges: “Ho viaggiato i sette mari, ma ho trovato soltanto la monotonia di me stesso”). Volevo accennare ad alcune delle molteplici e multidisciplinari implicazioni di questi cambiamenti, tipo al ruolo in ascesa libera di quello sfuggente totem chiamato CV - questo sconosciuto fino a pochi lustri or sono. Volevo strappare un po’ di facile interesse affrontando il tema della liberazione integrale dei costumi sessuali e del suo lato oscuro – ad esempio la parallela liberazione integrale della pornografia sul web e il conseguente allontanamento tra il sesso vero e le corrispondenti aspettative teoriche deviate (a tal proposito consiglierei Shame, un gran bel film sulle degenerazioni generate da noia e pornografia). Volevo parlare delle arti visuali che da almeno mezzo secolo ipertrofizzano l’io dell’artista e la sua presunta ricchezza di sfumature, data per scontata da chiunque vi si cimenti. Volevo fare una noterella moralista sui matrimoni tardivi, sull’età media degli sposi stabilizzatasi su quei dieci anni in più dell’Italia di ieri e della Svezia di oggi, sul tasso di natalità (immigrati esclusi) ai minimi mondiali. Volevo riaccendere la speranza col fatto che, quando nel 2018 o giù di lì torneremo a crescere, saremmo un Paese diverso e per certi versi migliore di quello di prima della crisi. Ma poi mi giro e dei riflessi bruni mi illuminano il viso ricordandomi che c’è un tiepido sole pomeridiano fuori della finestra, senza contare che sono già in ritardo per un appuntamento e comincio anche ad avere fame, e non posso far altro che constatare che alla fine, con tutti questi “volevo”, il mio articolo (o equivalente) l’ho già scritto tutto. [ ]
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franco.culumbu@gmail.com
[sterilita’ del benpensare] buononononoub
BUONONONONOUB di Gianluca Conte
IL BAMBINO DEL NORD
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redo di incarnare molto bene la leggenda secondo cui a Torino non c’è nessuno che sia davvero di Torino. Io ci sono nato, ci son cresciuto e spero di morirci ma, allo stesso tempo, sento così forte in me le radici del sud. Sì, perché quelle estati passate in un paesino della provincia di Foggia mi hanno formato più dell’asilo. Al posto delle suore dei simpaticissimi scugnizzi pieni di lividi e storie da raccontare, al posto delle aule profumate di pulito e tempera, la strada. Perché il vero bambino della città del Nord non sa cosa significa giocare col pallone in discesa, arrampicarsi sugli alberi, correre tra i rovi, lanciarsi dai muretti, giocare sulla strada, cadere, sbucciarsi le ginocchia e rialzarsi più agguerrito di prima. Perché il vero bambino del Nord non ha imparato a gestire l’ansia del dover contenere l’aggressività del bullo del paese che ti minaccia di dartele di santa ragione perché hai guardato la ragazzina che potrebbe diventare quella che gli darà il primo bacio. Perché il vero bambino del Nord non ha mai giocato una partita di calcetto al Sud, in cui ogni partita è come una finale mondiale e non ci si può distrarre mai, bisogna giocare coi muscoli e col cuore, perché in una partita di calcetto al Sud si possono anche rompere delle amicizie e rovinare la reputazione. Perché il vero bambino del Nord non è mai stato così a stretto contatto con cani randagi e non gli è mai andato vicino l’ubriacone ad urlargli con il massimo dell’accento intimidatorio che quella zona è sua. Mi ricordo un’estate lontana. Con gli amici del tempo avevamo preso l’abitudine di passarci una bici distrutta, senza freni e pedali d’occasione. Un mio amico si fece un giro e cadde rovinosamente alla fine di una discesa. Per inciso quel paese è fatto di sole salite e
discese. Era il mio turno e non potevo rifiutarmi. Mi trovai sul corso principale del paese a velocità folle e non avevo molte opzioni. Continuare dritto verso questo corso che ad un certo punto sarebbe diventato una discesa ripidissima, buttarmi per terra lì all’istante oppure tentare il numero: curva a tutta velocità a sinistra verso la piazza del paese. Scelsi la terza, curvone a velocità della luce, cercai di frenare un po’ col piede, sentii la suola della scarpa che chiedeva pietà. Adrenalina all’ennesima potenza, le tempie che battevano peggio dell’hardcore, assoluta apnea. La gente mi guardava un po’ con ammirazione, un po’ con disprezzo; se fossi caduto mi sarei sfracellato, se avessi beccato qualcuno l’avrei sfracellato. Un attimo e mi trovai all’interno della piazza con l’inerzia di quella folle curva che stava finendo. Sospiro di sollievo, la tensione che cominciava pian piano a scendere ai livelli di una persona normale. Avevo superato la prova del nove. Quel giorno capii che potevo fidarmi di me stesso, del mio intuito e del mio sangue freddo. Non avrei mai fatto una cosa del genere sulle strade del Nord. [ ]
Gianluca Conte è Mezzafemmina ed è anche qui: JK | 85 www.mezzafemmina.it
sex on di Catherine
C’ERA UNA VOLTA... #evisseropersempreinconclusiecontenti #mailreturnedtosender #disturbitripolari
30 minuti dopo RE: Sì, però (…). No, niente però. Sì! 20 minuti dopo RE: Che bello! E per questa interessante catena di causa-effetto ti ci sono voluti trenta minuti mio caro? SOLO trenta minuti? Mi concedi un’analisi? Prima un “Sì” di decisione apparentemente ferma. Quindi una virgola di probabile aggiunta. Poi un “però” di annunciata riserva. Poi una parentesi tonda di arte formale scritta. Poi tre puntini di indicibile varietà di pensieri. Poi disciplina a sufficienza per chiudere la parentesi e contenere l’anonimo tumulto. Quindi, un punto conservatore che, nel pieno del caos interiore, mantenga l’ordine esteriore. Poi, di colpo, il “no” caparbio di un rifiuto apparentemente categorico. Di nuovo una virgola di imminente completamento. Poi il “niente” di un rifiuto senza se e senza ma. Quindi un altro “però”, uno in fuga, un però che è lì solo per far vedere che è rimasto solo. Tutti dubbi ipotizzati, nessun dubbio espresso. Alla fine c’è un coraggioso “sì” accompagnato da un ostinato punto esclamativo. Sintetizzando di nuovo: “Sì, però (…). No, niente però. Sì!”. Ma che pomposo rondò della tua volubilità. Che affascinante canto alternato delle tue decisioni in sospeso. Quest’uomo sa benissimo di non sapere cosa vuole. E intende comunicare questo suo sapere solo e soltanto alla persona interessata. Il tutto in trenta ridicoli minuti. Geniale! Caro, è per questo che hai studiato psicolinguistica. (La settima onda, Daniel Glattauer) JK | 86
[sterilita’ del benpensare] sex on Ciao, come state? Io lo ammetto, non saprei. Voi lo sapreste dire? È un attacco decisamente inopportuno, lo so, ma la mia è stata solo una prova per avere la conferma che un discorso, un’email, un articolo, un saggio breve, la lista della spesa o l’elenco improbabile degli uomini e delle donne con cui siamo stati non dovrebbero cominciare domandando come stai. Salutare e mostrare un fuggiasco interesse per l’altrui benessere è un modo di iniziare universalmente condiviso tanto quanto razionalmente inutile. Ma come si risponde a un come stai? A) bene B) male C) così così Ok, però: trattasi di risposte a scelta multipla vuote esattamente come la domanda. Probabilmente l’80% degli interlocutori dirà “bene” di default per evitare successive invadenti domande di approfondimento. Il 20% che invece sceglierà una delle altre due risposte ha evidentemente voglia di ammorbare il prossimo con il racconto delle sue sventure e, poiché gli è stato chiesto, si sentirà moralmente in diritto di farlo. A un’attenta analisi, tra l’altro, una domanda del genere dovrebbe mettere in crisi come poche altre e scatenare un fermento di interrogativi esistenziali che nemmeno tenendo un teschio in mano. Come se a un certo punto dal niente qualcuno ci chiedesse quanto lontani ci sentiamo da noi stessi e quanto pesa quello che non abbiamo. Non mi sembrano esattamente quesiti per i quali sia possibile avere una risposta facile e pronta, come dire sono le diciotto e trenta oppure al cinema stasera danno l’ultimo di Almodóvar. Insomma, iniziare una conversazione informandosi sull’orario o sul programma delle sale cinematografiche in zona sarebbe un esordio senza convenevoli ma almeno funzionale a un obiettivo, non paralizzante come chiedere a brucia pelo se ci si sente soddisfatti della vita. Gli inizi meritano rispetto. God save gli inizi fatti bene. Chi ben comincia eccetera eccetera. Gli inizi hanno così senso che certe volte continuare per vedere come va a finire potrebbe persino essere superfluo. All’inizio le idee possono essere confuse, ma poco male sarà il trionfo della curiosità. Se una cosa inizia vuol dire che è qualcosa di nuovo, come si possono sottovalutare l’entusiasmo della sperimentazione, la sensazione ottimista di non sapere già tutto e l’illusione di essere ancora vergini. Gli inizi vanno trattati bene. Un inizio che rimane un inizio, in definitiva, non finisce mai. Vuoi mettere il fascino dell’irrisolto e delle storie sospese? Vivere di inizi è un’idea geniale. Il mio inizio, in questa occasione (prima di iniziare a
improvvisare disquisendo sugli inizi), sarebbe dovuto essere una domanda apparentemente più impegnativa ma relativamente più coerente di domandare come stai. Era questa: chi ha detto che scrivere è più semplice? Adesso, per esempio, sono a secco di argomenti e pure di inventiva. Gli argomenti di solito o ce li hai o te li inventi, io al momento non dispongo di nessuna delle due possibilità. Ho soltanto una serie di cose da dire che a quanto pare non hanno nessuna intenzione di uscire allo scoperto, confuse tra i meandri di una mente ormai abituata al diversamente equilibrato. È così che ultimamente i miei discorsi si snodano e si dimenano dentro la testa per poi concludersi ad alta voce solo con un lapidario e sintetico “insomma…”, che tira le somme di qualcosa senza né capo né coda. Rigorosamente con tre puntini sospensivi al seguito. Perfetto, l’incipit è abbondantemente andato. E tutto questo ve l’ho raccontato un po’ perché mi serviva un incipit e un po’ per mettere le mani avanti circa il livello qualitativo di quanto scriverò da adesso in poi. Ammonendovi come al solito sulla sua probabile insensatezza, liberandovi dal dovere di proseguire con la lettura e impegnandomi affinché il discorso sia più breve di come sono abituata a fare. Perché mi perdo nelle parole e mi complico i periodi divagando liberamente su concetti che capisco solo io, dicono. Perché la prendo troppo sul personale favorendo la perdita di attenzione e di interesse del potenziale prossimo lettore, sostengono. È proprio così, ne prendo atto e continuo a divagare. Perché non so cosa scrivere e nemmeno per chi scrivere, quindi nel dubbio rido e bevo un prosecco (e poi un altro, e poi un altro). Ritornando alla beneamata scrittura, ci sono situazioni nella storia di ciascuno in cui nemmeno lei può farci niente. Situazioni in cui si è così rincretiniti da fare un uso smisurato di smile e punteggiatura invece di comunicare contenuto. Situazioni in cui si sprecano interpretazioni analizzando la costruzione di una frase. Situazioni in cui si ricorre alle parole scritte tentando di preservare la distanza, nonostante scrivere in realtà potrebbe avvicinare. Situazioni in cui si continuano a vergare email mai inviate, per dire cose impossibili da dire e che per questo non saranno mai lette. Anche se mi dissocio dall’esserne in grado, credo che queste situazioni vadano in qualche modo affrontate. Perché complicare relazioni semplici e semplificare limiti affettivi complessi è un atteggiamento da disadattati. Per quanto mi riguarda, in ogni caso, ho deciso
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[sterilita’ del benpensare] sex on di arrendermi e fondare un comitato a favore della constatazione arresa delle email mai inviate e delle soluzioni mai trovate. Prima della ritirata però, vorrei candidare una serie di altre domande come sostitute del pericoloso come stai: saremo mai pronti per la normalità? E innanzi tutto, l’oggetto del discorso esiste? Ha un significato? È una condizione auspicabile? Situazioni lineari, ma non per questo meno interessanti. Comportamenti sensati, ma non per questo troppo prevedibili. Si tende ad associare la normalità alla noia, invece forse la normalità è rassicurante. Potrebbe anche essere definita un modo furbo di stare al mondo e di incontrare il prossimo. Mettiamo in conto però che la normalità esistesse, dovrebbe esistere anche gente abbastanza normale da accorgersene. E qui le cose si complicano. In quanto presidente del comitato delle soluzioni inconcludenti, propongo dunque una scappatoia alternativa che esime dalla necessità di interrogarsi su una questione urgente: la normalità è di certo esistita, prima di estinguersi irrimediabilmente. Per questo motivo è completamente inutile andare a cercarla tra le cose normali come comprare una pianta, pranzare in una trattoria con le tovaglie a quadri o semplicemente bagnarsi se piove. La normalità forse è nelle cose, ma quasi mai è nelle persone. Conviene mettersi il cervello in pace e al massimo inventarne un’altra. Una normalità che annulli e sostituisca la precedente, ma che in qualche modo magari la ricordi. Piccoli spazi di reinventata normalità. Mi sembra un buon progetto, il piano c’è. La voglia di normalità pure, è innegabile. Arriva prima o poi un momento nella vita in cui a forza di ripetere “io sto bene e va tutto bene” si perde completamente il senso di quello che si sta dicendo. I più avveduti, fortunatamente per loro dotati di un serbatoio di paranoie che non somiglia al labirinto di Cnosso, scelgono di continuare a ribadire a se stessi il concetto così che gli attimi di rischiosa presa di coscienza possano essere superati con un ancora più perentorio “io sto bene e va tutto bene!”. Poi, però, ci sono anche i Teseo del caso che invece di farsi Arianna all’aria aperta, si avventurano in quel glorioso labirinto con tutta l’intenzione di ritrovarsi. Con tanto di feroce Minotauro dietro l’angolo e senza portarsi dietro nemmeno quel veramente poco confortante gomitolo. La già citata affermazione, in un altro determinato momento della vita, vince come superpremio anche un punto interrogativo a fine frase: “ ma io sto bene e va tutto bene?”. Da lì in poi è un continuo maneggia-
re con i giri di parole, invertendo posizioni e aggiungendo complementi per trovare significati. Ecco che l’enunciato originario inizia a subire violenze lessicali della peggiore specie: “io NON sto bene, ma va tutto bene…CREDO”, oppure: “io sto bene, cioè RESPIRO, ma potrebbe andare MEGLIO e certo pure PEGGIO”, oppure ancora: “io sto bene, MA CHI SONO IO? E chi sono gli altri due dei quali ogni tanto sento le voci? Bisogno impellente di normalità, oltre che voglia di normalità, a volte. Ma io non c’entro, non prendetevela con me, io mi limito a scriverlo, io non ho fatto niente. Non sono io, sono gli altri. Tanti noi stessi che vogliono avere ragione. Diverse personalità, diverse prospettive, diversi desideri. Rimpianti, rimorsi, sliding doors, vorrei ma non posso. Mentre uno sta vivendo la sua vita, nessuno si fa i fatti suoi e gli altri centomila vivono la loro vita parallelamente. Peccato ci sia una sola persona in carne e ossa che per avvicinarsi a una qualsiasi idea di normalità nel frattempo dovrebbe riuscire a fare bene il suo lavoro, seguire un corso di lindy hop, pagare l’affitto e le bollette con serenità, preparare il tiramisù al proprio uomo, trovare il coraggio di avere un uomo a cui eventualmente preparare un tiramisù. Nel frattempo, mentre le multiple polarità litigano tra loro, si dovrebbe anche avere voglia di ridere insieme alla propria donna, comprarsi una bici, apprezzare un divano, leggere un libro, scrivere un libro, godersi un massaggio, inventarsi una rivista, coltivare un progetto, coltivare un orto, dormire per almeno 6 ore di seguito. Mentre siamo impegnati a capirci qualcosa, potremmo persino trovare il tempo di prendere e partire. Valutando a posteriori l’opzione di tornare più felici, oppure essere felici di non tornare più. Casi umani. Ognuno ha le sue manie, ognuno ha le sue preferenze, ognuno ha le sue debolezze, ognuno ha i suoi conflitti, ognuno ha il suo passato e le sue esistenze di scorta. Potremmo pensarci come disarmati personaggi tragicomici a tratti divertenti, a tratti divertiti, a tratti in preda al panico. Gente comune fuori di testa, insomma… Casi della vita. Scenari possibili, ma quel tram alla fine l’abbiamo perso o l’abbiamo preso in fronte? È una questione di scelte. La parola rassegnazione però non la conosco, vado a cercarla sul dizionario solo per poi strappare la pagina (come se un link potesse essere strappato). Casi che cambiano. Dovremmo stare più attenti alle decisioni di un attimo perché alcune volte sono solo
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[sterilita’ del benpensare] sex on le uniche che riusciamo a prendere. Per ogni bar che chiude c’è un’agenzia immobiliare che apre al suo posto, e possiamo essere certi che ripassando lì davanti avremo sempre voglia di prendere un ultimo caffè. Non saremo mai veramente pronti per la normalità, vorrebbe dire rimanere per troppo tempo vicini a noi stessi e si sa che la convivenza stressa. Non saremo mai pronti per il ragionevole quanto sconsiderato salto da affascinante a reale. Non saremo mai pronti per non cedere alla tentazione di cancellare il finale. Malgrado la mia resistenza a finire le cose, questo
pezzo esige di essere concluso. Potrei dire: “ciao, a presto!”, funziona, definitivo ma non troppo. Invece scelgo di abbandonare la nave con la famosissima metafora della pallina, coniata da mia madre durante uno dei suoi ultimi tentativi di redenzione telefonica: “sei come una pallina che rimbalza e che nessuno sa dove si fermerà”, mi disse. Ebbene, essenzialmente siamo tutti palline. Un risoluto punto e si rimbalza a capo. [ ]
PS. Esempio di emailmaiinviata. object: nessun oggetto (e ancora meno significato). ma quindi ti sei innamorato? ce l’hai fatta o no? la mia è una crisi esistenziale. stavolta è vero. tu non c'entri (naturalmente), infatti non so perché lo sto dicendo a te. non c'entra nemmeno il fatto che tu ti sia innamorato o meno. non c'entra proprio per niente l'essere innamorati. in ogni caso, la mia è una crisi esistenziale, riflessiva e interrogativa del tipo "ma dove sto andando?", e soprattutto "questo è il mio posto?", ma ancora di più "dove voglio andare?", e se pure sapessi dove voglio andare "veramente posso scegliere?". insomma la mia è una crisi generale che riguarda l'esistenza vera o presunta della normalità. io non sono normalissima, ma nemmeno matta (anche se da questa email potresti dedurre di sì, anche perché tu in effetti NON sei il vero destinatario di questa email, e non sei nemmeno quello giusto, però sei lì e io te la mando come se fosse davvero destinata a te). scrivo di impulso come faccio sempre in seguito a una crisi dovuta a un pensiero conturbante: ho un po' voglia di normalità. visto che ci sei e tuo malgrado stai leggendo (senza averlo scelto e senza nemmeno essere davvero il destinatario di questa email), lo chiedo anche a te: hai un po’ voglia di normalità ogni tanto? ti è mai capitato? non è un'indagine sociologica e nemmeno un'intervista per il mio prossimo articolo, anche se quello che dirai potrà essere usato contro di te e probabilmente lo ritroverai scritto da qualche parte. comunque sia non esiste il rischio che lo ritroverai scritto da qualche parte, perché è credibile che questa email non sarà mai inviata. e anche se per sbaglio il mio dito e la mia follia dovessero scivolare sul tasto invio, è ancora più credibile che non risponderai mai. mica sei matto, tu. JK | 89
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