JUST KIDS #15

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JUST KIDS rivista indipendente di musica e arte

Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM - Anno II - n. 09 - 2,00 euro

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[STEARICA]

[VERDENA] [WEIRD.] [THE MONKEY WEATHER] [BOBO RONDELLI] [GIOVANNI TRUPPI] [DANIELE CELONA] [TOMMASO DI GIULIO]

Stearica . Verdena . Weird. The Monkey Weather . Bobo Rondelli . Giovanni Truppi . Daniele Celona . Tommaso Di Giulio . Skin Graft Records 1994-2001 . Up Jamped The Devil . Non C’è Peggior Alieno Dell’essere Umano Humandroid, Di Neill Blomkamp, 2015 . Una Settimana Di Bontà Di Max Ernst . Elogio Della Figlia Di Cane . Direzione Del Vento, Favorevole E Contraria Due Lacrime Da Bere . Suonatore D'autobus Capitolo 6 . Chambers - La Guerra Dei Trentanni


JUST KIDS

rivista indipendente di musica e arte

Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.” da “Just Kids”, Patti Smith

Direttore Editoriale Anurb Botwin | direzione@justkidsmagazine.it Responsabile Musica Simona Strano | musica@justkidsmagazine.it Responsabile Web Claudio Delicato | web@justkidsmagazine.it Responsabile Commerciale Alessandro Buda | commerciale@justkidsmagazine.it Website www.justkidsmagazine.it Social Network facebook.com/justkidswebzine twitter.com/justkidswebzine Scrivono Alessandro Barbaglia, Andrea Barbaglia, Alina Dambrosio, Angela Giorgi, Anurb Botwin, Carlo Martinelli, Clara Todaro, Claudio Delicato, Daniele Aureli, Edoardo Vitale, Fabrizio Morando, Francesca Amodio, Francesca Vantaggiato, Francesco Capocci, Gaia Caffio, Giovanni Romano, Giacomo Lamborizio, Luca Palladino, Marco Taddei, Maura Esposito, Paolo Battista, Skandergeb, Viviana Boccardi. Fotografi Luca Carlino, Enrico Ocirne Piccirillo, Michele Battilomo, Davide Visca, Noemi Teti, Betty Bryce, Alessio Jacona. Editore Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ) Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538

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SOMMARIO [Musica] 04 | STEARICA di Fabrizio Morando 14 | verdena di Alina Dambrosio 18| WEIRD. di Anurb Botwin 22| the monkey weather di Francesca Vantaggiato 26 | bobo rondelli di Clara Todaro e Francesca Amodio 28 | giovanni truppi di Giovanni Romano 34| daniele celona di Clara Todaro 36 | tommaso di giulio di Francesca Amodio 40 | indiepedia di Fabrizio Morando|Skin Graft Records 1994-2001 44 | MUSICOMIX di Gianpiero Chionna | Up Jamped the devil [cinema] 50 | webziners di Giacomo Lamborizio | Non c’è peggior alieno dell’essere umano Humandroid, di Neill Blomkamp, 2015 [teatro - libri] 56| ruba questo libro di Marco Taddei | Una settimana di bontà di Max Ernst [ILLUSTRAZIONI] 57 | LA DIMENSIONE EROICA DEL MICROBO di Maura Esposito|Elogio della Figlia di Cane [immaginario] 58 | troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci | Direzione del vento, favorevole e contraria [storie] 60| sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista | Due lacrime da bere 62| suonatore d'autobus di Carlo Martinelli | Capitolo 6 ---contenuti speciali [recensioni a fumetti] a cura di gianpiero chionna 23| chambers - la guerra dei trentanni

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[Musica] INTERviste

stearica di Fabrizio Morando Sono stato trasportato in un’altra dimensione. Finalmente. Dopo aver ascoltato in anteprima l’ultimo lavoro in studio degli STEARICA “Fertile”. Finalmente perché oramai vivo di retrò, tranne che in alcuni momenti nei quali mi accorgo del talento, quello vero, quello in via di estinzione da un decennio a questa parte. Incontro Francesco, polistrumentista di questo piccolo gioiello, e capisco subito che tra di noi è scattata un’intesa immediata. L’intervista è scivolata via gradevole e piena di contenuti forti e intensi, in piena linea con lo spirito rivoluzionario della band torinese.

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[Musica] INTERviste

| ph by Luca Saini

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[Musica] INTERviste

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artiamo dal titolo: il Nilo che inonda le terre e ritirandosi le lascia fertili, come una rivoluzione che dopo la guerra dona al paese nuova linfa. Cosa che avrebbe dovuto fare la primavera Araba, e il movimento degli indignados in Spagna. Quale è stata secondo te la vera grande vittoria di questi movimenti? E poi, quanto “Fertile” è stato influenzato da queste iniziative popolari e in che modo? Ci sono due diverse risposte che potrei darti perché due sono le fasi succedutesi in appena una manciata di anni. Quando abbiamo iniziato a concepire questo disco ci siamo ritrovati letteralmente immersi nel mezzo di un potente flusso di energia che circondava il Mediterraneo: dalla Peninsula iberica, lungo le coste Nordafricane, sino al Medio Oriente; ovunque c’era voglia di cambiamento, di ribaltare schemi e forzare gabbie, e soprattutto nella regione della Mezzaluna Fertile si urlava nel nome di Tahrir = Libertà. La scintilla nel comporre ‘Fertile’ ha - più o meno consapevolmente – preso fuoco nel 2011, quando siamo stati invitati a suonare al Primavera Sound. Siamo rimasti a Barcellona diversi giorni e abbiamo vissuto in diretta la bellezza di un paese che si stava risvegliando. Fu una sorpresa se consideri che i media nostrani non avevano ancora proferito parola riguardo gli Indignados e noi ci ritrovammo ad esser parte di qualcosa di importante e in qualche modo (anche) nostro. Una volta rientrati a casa cominciammo le session da cui è nato questo album, abbiamo suonato davvero tanto in quei mesi e ogni giorno, prima di rinchiuderci nel nostro antro, siamo stati bombardati dalle immagini di quelle piazze, travolti da fotogrammi filtrati dall’occhio dei media occidentali. ‘Fertile’ ha risentito molto di quell’energia e ha preso le fattezze di una creatura vitale e sanguigna. Quella era la fase in cui tutto sembrava possibile e speravamo che il mondo stesse cambiando per davvero. La Storia, però, insegna che il potere non resta mai immobile limitandosi a guardare. A conti fatti non so se ci sia stata una vera vittoria, se non per il fatto che le persone hanno ritrovato JK | 6

| ph by Luca Saini


[Musica] INTERviste

le persone e insieme hanno vissuto per l’insieme. Tuttavia si è scoperchiato il vaso di Pandora o, se preferisci, chi ha liberato il Genio della Lampada ne ha perso il controllo. Anche il vostro suono dirompente, impetuoso, ha l’aspetto di una rivolta. So che lavorate molto di improvvisazione proprio per rendere in musica l’istinto primordiale di ribellione, e solo alla fine ricucite gli elaborati in forma disco. Quanto è complessa questa seconda fase, ovvero rendere producibile un insieme di idee lunga svariati minuti? L’improvvisazione è il gioco che ci diverte sin dall’inizio della nostra storia e ci sorprende ancora a distanza di quasi diciotto anni, ebbene quest’anno la nostra creatura diventa maggiorenne! Tra me Davide e Luca c’è un legame musicale talmente forte da riuscire a godere appieno di questa fase della scrittura: già perché il paradosso è che l’improvvisazione per noi è un momento di scrittura comune, tanto quanto la fase (non necessariamente successiva) in cui strutturiamo le neonate idee. Questo è il momento in cui solitamente si parano davanti a noi infiniti scenari e il gioco si fa a tratti ossessivo, ma è pur sempre un bel gioco e la magia continua in tour, quando siamo capaci di stravolgere nuovamente la materia e plasmarla come ci pare sul momento. Torino ha da sempre avuto una scena underground notevole. Più che mai i vostri dischi trasudano di scenari tipici del capoluogo piemontese, tra l’industriale e il gotico, passando inesorabilmente tra le atmosfere occulte evocate dalle strade e i murazzi avvolti dalle nebbie invernali del mattino. Prima di parlare delle vostre collaborazioni internazionali, quali sono le realtà locali che vi hanno influenzato o semplicemente che ascoltate di più? Come giudicate complessivamente la scena musicale di Torino? Non sei la prima persona a segnalare un legame tra il nostro suono e la nostra città, a dirla tutta

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noi tre non ne abbiamo consapevolezza ma credo sia indubbio il fatto che Torino abbia un’energia palpabile e chiunque crei qualcosa all’ombra della Mole ne resti inevitabilmente influenzato. Ognuno dei tre dischi che abbiamo registrato è stato influenzato in qualche modo dai luoghi in cui abbiamo lavorato: ‘Oltre’ è stato arrangiato in estate sulle colline sabaude, l’idea di ‘STEARICA invade ACID MOTHERS TEMPLE’ è nata nel corso di un tour europeo per poi essere “catturata” nelle nebbiose campagne del pavese ed

debitori nell’attitudine.

infine ‘Fertile’ è cresciuto con lo sguardo rivolto a Oriente e i piedi radicati tra le Alpi e il Mediterraneo. Se poi vogliamo parlare di scena torinese, la sola che riconosco come tale è quella hardcore nata e cresciuta in quegli squat che per primi ci hanno permesso di salire sul palco e verso i quali resteremo sempre

sentire”. Quanto c’è di vero in questa linea filosofica dentro Fertile e in tutta la vostra musica? Vi sentite solo dei mezzi, oppure il processo creativo di un artista è in grado di produrre qualcosa di assolutamente mai esistito? Makoto ha sinceramente sviluppato la sua ricerca in questa direzione, basta vederlo

Hai citato gli Acid Mothers Temple e a questo punto ho una domandona per te: Kawabata Makoto rappresenta l’anima di questa band nipponica, con la quale avete lungamente collaborato. Makoto ha detto: “La musica, per me, non è né una cosa che creo, né una forma di auto-espressione. Tutti i tipi di suoni esistono già intorno a noi, e il mio lavoro consiste solo nel raccoglierli, e suonarli in modo che la gente li possa | ph by Cecilia Diaz

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uando abbiamo iniziato a concepire questo disco ci siamo ritrovati letteralmente immersi nel mezzo di un potente flusso di energia che circondava il Mediterraneo: dalla Peninsula iberica, lungo le coste Nordafricane, sino al Medio Oriente; ovunque c’era voglia di cambiamento, di ribaltare schemi e forzare gabbie, e soprattutto nella regione della Mezzaluna Fertile si urlava nel nome di Tahrir = Libertà.

all’opera quando crea, non c’è dubbio. Nel nostro caso penso sia il rapporto viscerale tra le persone coinvolte a partorire questa musica. C’entra indubbiamente il quando, mentre del dove abbiamo appena parlato: tutto ciò può influenzare gli stati d’animo di ognuno di noi e questi poi s’incontrano/scontrano una volta imbracciati gli strumenti traducendosi in quello che hai ascoltato. ‘Fertile’ è saturo e potente come il periodo in cui è nato, ricordo che uscivamo turbati dalle prove in cui prendeva forma. Detto questo non credo rappresenti qualcosa di inedito, anzi penso sia in qualche modo primitivo e scavi affondo disegnando le nostre radici. Quando e cosa avete assorbito attraverso ben 32 concerti insieme a loro? E quanto pensi che gli AMT abbiano assorbito da voi? In realtà con gli AMT abbiamo suonato insieme circa 60 date perché dopo il primo tour a cui ti riferisci ne è seguito un secondo

per promuovere quel disco (‘STEARICA invade ACID MOTHERS TEMPLE & The Melting Paraiso U.F.O. – n.d.r.) che fotografa il rapporto nato tra di noi. Come scrivevamo nelle rispettive lingue all’interno del gatefold di quel vinile, entrambi i gruppi hanno “invaso” un pezzo di storia gli uni degli altri e credimi se ti dico che siamo diventati una vera famiglia. Io ho adorato i Girls Against Boys che tuttora reputo una delle figure chiave nel panorama post-hardcore di Washington, e invidio la vostra collaborazione con Scott McCloud! Scott ha detto che siete quasi maniacali nell’attenzione al dettaglio… strano in una band che fa dell’improvvisazione la sua maggiore fonte di ispirazione: dove sta l’inghippo? Forse nella ricerca dei suoni oppure in fase di postproduzione? Sono curioso… Quel che noti forse è il controsenso che anima STEARICA ma questo è il nostro linguaggio, è la nostra identità. Curo JK | 9


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personalmente la produzione dei nostri lavori sin dal primo album e debbo ammettere che m’incanto per i dettagli e cerco di esaltarli o alle volte li nascondo come un tesoro. Una volta messi a sistema tutti e tre, questo tratto si esalta ulteriormente e diventiamo sin maniacali: Scott ci ha preso in pieno ma del resto è un fratello, ci conosce decisamente bene! Ci sono brani in particolare che spiegano meglio delle parole e penso alle due tracce finali Amreeka e Shah Mat – in arabo rispettivamente “America” e “Il Re è morto/Scacco Matto”: due emisferi distinti eppure gemelli, l’uno costruito e curato nel tempo e l’altro nato immediatamente

dopo, di getto quasi fosse una liberazione. In Fertile confluiscono ritmiche, suoni, stili e linguaggi differenti. Avrei non poche difficoltà a dare loro una collocazione, un’etichetta. E in egual modo trovare metriche di paragone. Vi sentite davvero liberi da vincoli compositivi? Chi sono per voi “veri” riferimenti, anche passati, che hanno influenzato i vostri lavori? Ci sentiamo liberi di fare quel che vogliamo e lo abbiamo sempre fatto. Abbiamo presto varcato le vicine Alpi e se in qualche modo c’è stata commistione con qualcuno o

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uesto è il momento in cui solitamente si parano davanti a noi infiniti scenari e il gioco si fa a tratti ossessivo, ma è pur sempre un bel gioco e la magia continua in tour, quando siamo capaci di stravolgere nuovamente la materia e plasmarla come ci pare sul momento.

qualcosa, sicuramente questa ha preso vita in tour. Abbiamo condiviso palchi e vita vissuta con gruppi eccezionali e ognuno ci ha insegnato qualcosa: band con linguaggi anche molto diversi dal nostro (o dai nostri, come dici tu), dalle quali non necessariamente abbiamo assorbito sul piano prettamente musicale, alle volte la semplice condivisione umana basta a influenzare il suono. Per dirti: c’è molta umanità nella musica di band come AMT o Nomeansno, e in quel che suoniamo noi ci mettiamo molto di quel che siamo umanamente.

| ph by Luca Saini

Quando ci siamo organizzati per l’incontro, mi hai detto che per te anche le ore notturne vanno bene. In una tua recente intervista inoltre leggo: “… il nostro suono è frutto di anni trascorsi suonando negli scantinati sino a notte fonda… abbiamo imparato a suonare con una moltitudine di strumenti acustici, elettrici o elettronici”. Cos’è la notte per voi? Un modo per rintracciare la vostra quiete JK | 11

cosmica e sentirvi davvero liberi? Anche stavolta, come vedi, ho chiesto un appuntamento notturno per l’intervista! La notte ci nasconde dal resto del mondo e siamo particolarmente isolati nel posto in cui componiamo: pensa che nelle stanze adiacenti vivono dei rifugiati politici. Insomma mi spiace squassare la visione cosmica, ma essenzialmente la notte incarna la preziosa fase in cui ci riprendiamo il nostro tempo e, mentre scaviamo occhiaie, facciamo quel che più amiamo al mondo. Parliamo di un’altra collaborazione, quella con Ryan Patterson dei Coliseum, voce in NUR. I Coliseum impiantano da sempre un sound volutamente prepotente e irrispettoso, ma assolutamente (auto)ironico. Ho letto da qualche parte che assistere ad una loro performance è come uscire dall’inferno con il sorriso sulle labbra. Anche voi vorreste approcciare i concerti con tale piglio estremo? Che importanza ha per voi suonare live i vostri


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stearica

dischi? I Coliseum dal vivo spaccano, hombre! Di quella formazione con cui suonammo anni fa in Francia è rimasto solo Ryan ma confido che siano ancora devastanti e quel che hai appena riportato fa ben sperare. Quella sera a Lilles fu indimenticabile sin dal legame sincero che nacque nel corso della cena e successivamente seguì nei concerti sanguinari di tutte e tre le band in cartellone (noi eravamo in tour europeo con i canadesi Lullabye Arkestra): mi ricordo che Davide sfondò prima il rullante e poi il pedale della cassa e i Coliseum rimasero piacevolmente stupiti dal nostro impatto. Quindi per rispondere alla tua domanda il live è essenziale per gli STEARICA e ogni nostro concerto punta a spostare l’orizzonte degli spettatori per intraprendere un intenso viaggio. La copertina di Fertile è del giovane artista albanese Moisi Guga. In una recente critica, leggo che l’artista mira ad una rappresentazione di un luogo che sa perfettamente cosa è e cosa vuole essere e che, pur nel suo costante modificarsi, è eterno, è prima e dopo di noi. Cazzo quanto è vicino alle parole di Kawabata Makoto! Sembra che il vostro ecosistema abbia davvero un ciclo finito, chiuso, autoconsistente. E’ davvero cosi? Come è nata la collaborazione con Moisi? Un ecosistema fatto di persone che amiamo e stimiamo sinceramente. Moisi è un giovanotto albanese arrivato in Italia nell’adolescenza: la sua Arte riporta un bagaglio di esperienze di vita vissuta che lo rendono personale e autentico, nonché incredibilmente vicino all’immaginario di questo lavoro. Ricordo che la prima volta in cui m’imbattei nei suoi disegni, m’innamorai istantaneamente del suo tratto: denso e scuro come la trama dell’album che stava prendendo forma. Fertile. [ ]

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verdena di Alina Dambrosio

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i è appena conclusa la prima parte del tour. Com’è andata? Come vi sembra che il pubblico abbia recepito questo nuovo album? La tournée è andata da dio. Credo che non abbiamo mai fatto un tour con un riscontro così grosso. Ci sono delle cose che si ripetono nella nostra storia, ad esempio vedere dei pubblici nuovi. Qualcuno rimane, qualcun altro si allontana, ma c’è sempre una bella “calca”. In generale mi sembra che ci sia una bella risposta. Tutto bello, direi.

Durante i live avete una line-up arricchita. Siete in quattro con la presenza di Giuseppe Chiara. A questo proposito so un aneddoto sul reclutamento del vostro turnista. Com’è andata esattamente? Non volevamo mettere in giro la voce che i Verdena cercassero un musicista, perché avrebbe attirato un po’ cani e porci. Volevamo giusto vedere se in giro ci fossero dei chitarristi (cantanti e tastieristi) bravi e abbiamo messo un annuncio su internet con i nostri gusti musicali, come qualsiasi gruppo. Pian piano

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Il sold out per i Verdena non [Musica] sorprendono. Non più ormai. Una bandINTERviste che è sempre alla meticolosa ricerca del sound, tutto il resto viene dopo. Questa particolare attenzione mista a un flusso, che sembra non fermarsi, ha portato ad Endkadenz, un album profondamente diverso da Wow. Sembra che si ritorni alla spontaneità del passato, all’istantaneità della jam con una consapevolezza nuova della propria sfaccettata identità. D’altronde non sono necessarie troppe costruzioni quando la musica parla il suo linguaggio. Si potrebbero pronunciare parole, ma poi rileggendo le mie dichiarazioni non le trovo mai adeguate e quindi non saprei come rispondere a questa domanda. Indefinibile, quindi. Come quasi tutti gli ultimi nostri dischi. Diventiamo sempre più indefinibili. Si potrebbe dire che Endekadenz sia una compilation, fatta con cura, di tanti generi legati di sicuro al rock. Sembra un disco dalle molte letture o meglio si scoprono le varie sfumature dopo averlo assaporato più volte. Com’è avvenuta la gestazione? Principalmente abbiamo jammato per un anno intero, scrivendo tutti i giorni dei riff, delle idee di ritornello, di strofa. A quel punto avevamo un bel po’ di pezzi, ma veramente tanti, e abbiamo deciso di provarli praticamente tutti per vedere i primi pezzi che sarebbero usciti naturalmente, senza troppi ragionamenti. Quelli, secondo noi, sarebbero poi stati i pezzi giusti. Volevamo qualcosa che fosse istintivo, immediato. Durante la registrazione li abbiamo riempiti di ogni genere di suono, che arricchiscono il tutto. Non sono suoni alti di volume, ma ci sono. Ecco perché non balzano subito all’orecchio, ma magari è necessario un po’ più di ascolto. sono arrivate telefonate di gente che sapeva far le tre cose. Lui è stato quello che era più simile a noi, musicalmente parlando. Questo tour segue la pubblicazione del vostro nuovo album, Endkadenz, uscito lo scorso 27 gennaio. Già dal titolo sembra un album tutt’altro che facile. Si sono già date molte definizioni e opinioni, ma i Verdena come lo descriverebbero? L’ho descritto in diversi modi, ma è difficile descrivere un disco così variegato. È praticamente indescrivibile.

Qualche anno fa ci siamo incontrati in occasione del tour con i Jennifer Gentle e mi avevi detto che eravate già al 30% del lavoro e avreste voluto finirlo in fretta e allora non avevate toccato ancora il piano digitale o strumenti acustici, dimostrazione del fatto che il disco si delineava estremamente diverso da Wow. Durante la lavorazione, poi, avete comprato un piano. Cosa è successo nel mentre? Ah sì? Non avevamo ancora nessun pezzo acustico? Si sono rotti anche dei macchinari in sala prove e ci son voluti mesi per ripararli. Gente che spacca tutto. A parte questo, nel mentre abbiamo scritto nuovi

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pezzi, che secondo me avremmo scritto comunque. Si dà la colpa al piano, anzi il merito. Data la percentuale sotto il 50% significa che era necessaria ancora un bel po’ di musica da scrivere. Mi dispiace di averti detto che saremmo usciti presto. Sono sempre molto positivo su quello che facciamo e spero di far sempre tutto alla svelta, quindi in qualsiasi momento mi vedi, ti dirò:” Sì, tra poco siamo pronti.” Quanto è importante l’isolamento durante il processo creativo? Non abbiamo avuto altre esperienze. Non vedo alternative a parte isolarci quando scriviamo. Il posto in cui viviamo è davvero lontano da tutto. Non ci può essere nient’altro che la musica ed è l’unica cosa che ci interessa. Quest’anno ci hanno proposto addirittura di andar a scrivere a New York per un mese: ci davano uno studio a Manattah, ma, a parte per la paura degli aerei, abbiamo rifiutato perché eravamo presi da un flusso. Forse la prossima volta dovremmo andare direttamente a New York e vedere se entriamo nel flusso, altrimenti trascorreremo il tempo a far aperitivi in centro.

verdena

Uscirà il volume due prima dell’estate. Avevate materiale per 12 album da 33 brani ciascuno, quindi avete già materiale per i prossimi album? Scherzi a parte, volevate fare una compilation scegliendo i brani che vi piacevano di più tra i 26 a disposizione. Vi hanno bloccato dicendo che era poco commerciabile, ed ecco i due volumi. Con quale criterio avete diviso i pezzi nei due album? Abbiamo fatto la scaletta in tre giorni e io in realtà non me ne sono occupato, perché non avevo tempo. Stavo finendo gli ultimi mastering ed eravamo agli sgoccioli. Roby e Luca hanno diviso equamente i brani nei due dischi, quindi distribuzione di un po’ di bmp, distorsioni e riff in uno e un tot nell’altro. Anche se, ascoltando entrambi i dischi, secondo me sono diversi. Il filo conduttore dei due dischi è il suono che tiene insieme il tutto. Essere editi da una major non vi blocca un po’ in fatto di scelte? Non vi sentite un po’ in gabbia? No, sin dalla nostra nascita siamo con una major. Abbiamo sempre messo le mani avanti, della serie “Se ci volete, ci prendete per quelli che siamo”. Se ci fossimo sentiti limitati, saremmo potuti andar via. Ci hanno lasciati abbastanza liberi, tranne per la divisione dei due album. Con il senno di poi questa loro scelta non è nemmeno poi tanto sbagliata, perché poi sarebbe stato molto lungo da ascoltare. Bisogna aspettare l’uscita del volume 2 per capire bene questa decisione, è come se fosse ancora in grembo. C’è sempre di più una spasmodica attesa ad ogni album. Vivete un po’ questa pressione? Quando siamo in studio questa cosa non ci preoccupa, quando completiamo il tutto e annunciamo l’uscita su Fb sentiamo un po’ di pressioni, più che altro perché speriamo che piaccia. Pensiamo un cose un po’ infantili. JK | 16


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In alcuni pezzi quest’album mi riporta a Requiem, ascoltando altri penso di sbagliarmi. Mi confonde. Avete sperimentato a livello di sound? C’è stato un nuovo modo di approcciarsi? L’approccio alla composizione è sempre quello, semplicemente con gli anni degeneriamo. Vogliamo delle sfumature più forti, ragioniamo molto sugli arrangiamenti. La forma canzone non ci convince più. Ci sembra una cosa strasentita e raramente la tiriamo in ballo. In questo disco ci son poche situazioni che si ripetono e anche in questo caso l’istintività ha fatto il suo. Anche la confusione, in qualche modo, è voluta. Se usiamo ad esempio l’elettronica, lo facciamo in modo un po’ strano: non facciamo griglie, non usiamo il computer, ma usiamo dei loop a pedale. Siamo più vicini ai Butthole Surfers, a un’elettronica inizio anni ‘80. Dicevi che la forma canzone vi ha un po’ stancati. C’è anche una decostruzione dei testi? I testi sono un mondo completamente a parte. I testi si adattano alla musica: una volta scritta la musica, ci mettiamo a lavorare sui testi. Ci ragioniamo sempre di più già a partire da “Il suicidio dei samurai”. A livello di testi, per questo disco, c’è stata la gestazione più lunga. Negli anni ho capito che il testo si sposa bene con la musica, a livello di atmosfera che evoca, non tanto a livello di significato. Il testo è un vestito.

| ph by Michele Battilomo

Vi siete mai posti come obiettivo, quando componete un nuovo album, il superamento rispetto a quello precedente? O ciò non vi preoccupa? Istintivamente ciò che ci sembra già fatto lo scartiamo, di solito siamo molto naturali. Non ci sono preconcetti, non pensiamo a niente. Questa volta più flusso di coscienza del solito, soprattutto rispetto a Wow che era stato fatto in studio. Questo è un disco comporto in tre, senza che nessuno portasse idee individuali. [ ]

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weird. di Anurb Botwin

A poche settimane dall’uscita del loro nuovissimo disco, A long period of blindness (Lady Sometimes Records, 2015)abbiamo incontrato i Weird.(scritto rigorosamente col punto alla fine), trio capitolino tra noise, psichedelia e shoegaze. La band, dopo la festa di presentazione a Le Mura a Roma è ora impegnata in un tour nazionale che li porterà, fino a fine maggio, in tutta Italia. Li incontro tra un concerto e l’altro per parlare della loro nuova opera in studio A Long Period of Blindness e per cercare di capire le particolarità del loro sound riverberato e curato al millesimo, oltre che della loro politica musicale. JK | 18


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Long Period of Blindness è la vostra seconda opera in studio: quanto c’è nel vostro nuovo lavoro del vostro primo album, Desert Love for Lonely Graves (2013)? Personalmente li vedo come il buio e la luce in fondo al tunnel. Giovanni (G): Sì, non è un’interpretazione sbagliata. Sicuramente un album è frutto di un particolare periodo di noi come persone e di noi come gruppo. Da questo punto di vista Desert Love for Lonely Graves è più oscuro, claustrofobico, anche pesante sotto certi aspetti, quindi “buio” rende bene. A Long Period of Blindness invece si apre di più, è più chiaro, vuole buttarsi più verso l’esteriore. Tuttavia manteniamo sempre certi stilemi caratteristici nostri, specialmente nelle sonorità. Anche compositivamente parlando ci sono delle differenze: il primo album è stato composto quasi totalmente al piano, mentre A Long Period of Blindness interamente alla chitarra, utilizzando anche accordature diverse e non molto convenzionali. Inoltre c’è stata anche un evoluzione tecnica, perché il primo album è stato assolutamente registrato e prodotto da Marco (Barzetti, voce e chitarra ndr), che aveva scritto e arrangiato praticamente da solo tutto, laddove invece nel secondo abbiamo arrangiato tutti insieme e c’è stato un maggior lavoro di gruppo. Importante è stato inoltre il fatto che ci siamo avvalsi dell’importante e sapiente aiuto di Marco Compagnucci (batterista dei Mary in June, ndr) che ci ha messo del suo. Un aiuto molto prezioso. Per fare più chiarezza: traducete i due album in immagini. Marco (M): Alla fine il discorso sempre lì ricade: in Desert love for lonely graves si alternano due immagini: quella di paesaggi nebbiosi e di stanze claustrofobiche. Il grigiore che si vede all’esterno si riflette in un senso di vuoto interiore che caratterizza le storie dei personaggi rappresentati come delle presenze/assenze. Invece A Long Period of Blindness si protende verso un’apertura, nell’immagine di una giornata uggiosa ferita da uno spiraglio di luce tiepida che compare solo a tratti. Rispetto al precedente è un disco caratterizzato da “landscapes”: spazi più ampi, chiari e luminosi, su cui lo sguardo tende a fissarsi, alla ricerca di una risoluzione, una vera e propria “uscita” che non si concretizza mai veramente. Avete dichiarato più volte di quanto la vostra musica prenda spunto dai sogni. Ma come nasce

esattamente una vostra canzone? G: I sogni sono fondamentali più che altro per le immagini che riusciamo a trasmettere tramite i nostri suoni e per le ispirazioni che ci danno, sia nelle armonie che nei testi. La cosa più importante per noi sono le musiche, le sequenze di accordi, i tipi di distorsioni, la quantità di riverbero. La scrittura parte da Marco, poi tutti insieme, tramite jam, improvvisazioni e altro, lavoriamo alle strutture, all’arrangiamento, e alla rifinitura del suono. Altre volte i pezzi sono proprio nati durante le improvvisazioni: tendiamo a registrare i nostri deliri e poi andiamo a ripescare quello che reputiamo valido approfondendolo sino a quando la forma che gli abbiamo dato non ci piace. Poi il passaggio successivo sono i testi che comunque assecondano la melodia. Insomma, arriviamo in studio con le idee molto chiare. Poi c’è la fase del missaggio, dove mettiamo a posto tutte le virgole sul suono, ed è un lavoro lacrime e sangue. Infatti ora parliamo dei testi: noto che più che seguire un vero e proprio filo, una storia, spesso delle volte ci troviamo di fronte a immagini in sequenza, difficilmente traducibili con chiarezza - o comunque di liberissima interpretazione. M: In effetti è un vero e proprio flusso di coscienza onirico. Lascia all’ascoltatore la possibilità di interpretare a suo piacimento il testo, secondo il proprio vissuto e la propria psiche. Allo stesso tempo sviluppo le parole non con l’intento di raccontare una storia, ma in relazione alla qualità del loro suono ed agli stati d’animo ad esso connessi. Voglio chiedervi di parlarmi di un brano, nello specifico di “Widow”... M: Widow è davvero particolare, ha un testo lunghissimo rispetto agli altri, con una struttura in continuo cambiamento poiché strofe e ritornelli non si ripetono mai. Il testo è stato scritto dopo la melodia dall’unione di vari sogni che mi parevano richiamare le atmosfere della canzone. Che dire, è indubbiamente un testo ermetico che gira intorno al dialogo/scontro tra un protagonista maschile “vittima” di una figura femminile dai tratti quasi demoniaci. Come una vedova nera che anche se morente tenta ancora di risucchiargli la vita, contemporaneamente vittima anche lei del suo stesso passato. Per quel che riguarda la voce invece? Riverberata,

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molto dentro, appare e scompare, quando la dinamica sale diventa poco chiara. G: Questa è indubbiamente una delle nostre caratteristiche peculiari, anzi, nel primo disco la voce era ancora meno percepibile, completamente affogata tra le chitarre. In questo invece abbiamo deciso di farla uscire di più, anche perché le melodie ci piacciono veramente tanto. Ovviamente è proprio lo shoegaze che è così, anche se poi varia a seconda delle mille forme che ha preso. Non è che noi abbiamo il desiderio di identificarci in un genere particolare. Non ci vogliamo etichettare in un certo modo, tuttavia, è innegabile che tutti i generi di musica e gruppi che ruotano intorno allo shoegaze e che poi alla fine ci hanno influenzato, non possono avere una voce che svetta e spicca sopra gli altri. Poi quando entra il nostro lato noise con le botte distorte, allora chiaramente la voce è ancora più dispersa. L’ultimo pezzo di Infinite Decay è proprio esemplificativo di quello che diciamo: sale la dinamica e la voce è letteralmente dentro, abbiamo voluto fare in modo che piano piano finisse sempre più dentro, come uno strumento ulteriore. Ci abbiamo lavorato molto a quel pezzo di canzone, ma ne siamo molto soddisfatti. Riassumendo in una frase: la voce è usato a mo’ di strumento, non come viene usata di norma

weird.

Che poi questi “sogni” siamo sicuri non siano incubi? O c’è poca chiarezza anche lì? M: Direi di sì. Sono più sbilanciati verso l’incubo perché le immagini sono nettamente più forti, nitide e simboliche. La chiarezza non è una mia priorità.

per tutti e tre ha significato e significa tanto, ci siamo cresciuti. Praticamente li adoriamo. Difficilmente accadrà, ma se dovesse avvenire sarebbe una cosa semplicemente fantastica suonare con loro. Così come adoriamo, come dicevamo prima, gli Have a nice life, che sono fondamentali per comprendere i nostri album e proprio il concetto di chi siamo noi Weird. e come ci siamo evoluti. Però, per l’appunto, non fanno live, Infine gli Slowdive, è stato bello vederli live a Padova l’anno scorso e sono stati essenziali nella genesi del nostro sound. Come si vedono i Weird nel futuro prossimo? Il futuro prossimo lo vorremmo sul palco. Alla fine è il nostro primo tour serio, perché al precedente disco eravamo molto piccoli per girare fuori (eta media oggi 21 anni , ndr), quindi l’obiettivo è sicuramente suonare il più possibile. Non disdegneremmo delle puntate extra italiane che sicuramente dovremo fare se vogliamo evolverci ulteriormente. Riteniamo di esser infatti esportabili, e ci adopereremo affinché si riesca a fare nel minor tempo possibile. Intanto però siamo molto contenti che i download del nostro nuovo disco “A Long Period of Blindness” sono molto elevati (in free download sul bandcamp dei Weird, ndr). Siamo fermamente convinti della necessità di far arrivare la musica a più persone possibili e quindi siamo ben lieti di mettere il digitale a disposizione gratuitamente. E poi magari continueremo a girare per suonare e ci si potrà vedere live. [ ]

Serie di domande di repertorio: un concerto che vi siete persi o che avreste voluto vedere? G: Penso che su questo siamo paradossalmente banali: un qualsiasi concerto dei Beatles o dei Pink Floyd, anche perché alla fine siamo talmente fissati che se vogliamo vederci un concerto ce lo andiamo a vedere, praticamente abbiamo visto live quasi tutti i gruppi più importanti per noi. Quindi per rispondere ci rimangono solo i concerti impossibili. Ti avrei detto Tame Impala, ma abbiamo scoperto da pochissimo che verranno a Roma quest’estate, e sicuro ci andremo. Sicuramente però un concerto che vorremmo vedere è quello degli Have a nice life, ma loro non fanno live, quindi non si può fare niente. Domanda di repertorio numero due: tre artisti con cui vorreste suonare: I Verdena, senza ombra di dubbio. Un gruppo che JK | 20



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the monkey weather di Francesca Vantaggiato | ph Noemi Teti Stavolta siamo andate fino a Domodossola per intervistare i The Monkey Weather, che in italiano significa “tempo da lupi”, proprio quello che abbiamo trovato quando siamo arrivate. Jolly Hooker (chitarra/voce), Paul Deckard (basso/voce) e Miki The Rooster (batteria) ci attendevano infreddoliti. Ci hanno portate all’Osteria di via Briona, luogo del loro battesimo live prima dell’uscita di due album, dell’apertura dei concerti di Kasabian, Skunk Anansie, The Vaccines e prima di finire su MTV New Generation con i video di Sara wants to dance e Sometimes. Sembra che il loro motto “never for money, always for love” gli abbia portato fortuna. JK | 22


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T

he Hodja’s Hook è il vostro secondo album dopo Apple Meaning. Quand’è che avete capito che era ora di fare un nuovo disco? Paul (P): È stato un mix di esigenze tra il dover fare qualcosa di nuovo perché ne avevamo voglia e l’effettiva necessità di proporre roba nuova per non scomparire. Puoi fare il fatidico periodo di pausa in cui sparisci e crei il famoso appetito - che se sei i Verdena te lo puoi permettere o se sei i Blur puoi fare 12 anni senza pubblicare un disco – oppure, se sei i The Monkey Weather, magari dopo un anno e mezzo un altro disco deve uscire! Quanto tempo avete lavorato su The Hodja’s Hook? P: Da Marzo a Settembre. Siamo andati in studio a ottobre. La nostra etichetta (Ammonia Records) nella persona di Kappa (Alfredo Cappello) ci spinge sempre a fare uno step in più rispetto al lavoro precedente. Apple Meaning è nato di botto, in dieci giorni, lo abbiamo registrato come lo abbiamo provato. Il passo successivo era ragionarci di più. Quindi passare da dieci giorni ad un po’ di mesi per noi è stata una cosa incredibile! Questo cambiamento è evidente: il secondo disco è più complesso e ragionato. Mi sembra che The Hodja’s Hook sia tutto giocato sul conflitto tra opposti: inizia con Let’s stay up tonight, canzone positiva e di presa bene, poi passa ad I hate you che è un brano pesissimo e poi arriva Sometimes, delicata ma graffiante. Ho trovato un continuo giocare con gioia/tristezza, odio/amore che in Apple Meaning non esisteva neanche lontanamente. P: Si, Apple Meaning è stato tipo “Eeeh, ciao bambini!!!” J: Beh, significa che la comunicazione ha funzionato, perché è andata proprio così. Il primo era più istintivo. Infatti riascoltandolo, l’album è più variopinto, mentre all’ultimo abbiamo cercato di dare un colore più omogeneo. Olly (Oliviero Olly Oliva, produttore e arrangiatore di The Hodja’s Hook) ci fa: ”Questi pezzi dobbiamo tutti renderli fratello e sorella”. L’idea quindi è stata quella di dare un suono univoco all’album. L’unica cosa che si differenzia nella stesura è la situazione figurativa: Apple Meaning era più personale, mentre The Hodja’s Hook è stato più una descrizione di quello che vedevo. Ci sono pochissimi riferimenti a situazioni personali, qui ogni pezzo è come fosse una foto di un momento. Come se tu vedessi un quadro

e provassi a descriverlo. Ad esempio, Sleeping Town - che parla di queste bellissima città - è un quadro, non c’è un riferimento personale; Carl è un altro tentativo di descrizione; Purple Tree anche. Morning e Sometimes possono essere più personali, ma per il resto è soltanto guardare fuori dalla finestra e cercare di descrivere quello che vedo. Ci sono delle canzoni che vi sono risultate più difficili di altre? J: Per Apple Meaning no, è andata tipo “buona la prima”. Per The Hodja’s Hook c’è stata Morning! L’ho scritta io ma non ho ancora capito che cazzo ho fatto! Ci sono delle canzoni che quando arrivano sono premature, non riesci a gestirle. Mi viene in mente Blak Hole Box, che non abbiamo mai fatto girare tanto dopo l’uscita del disco. È un pezzo completo e bellissimo, l’unico che abbiamo scritto a quattro mani, ma poi non siamo mai riusciti a riprodurre in maniera convincente. Mi sono domandata perché in Apple Meaning, che è un disco allegro e di stampo beatlesiano con coretti e tanto amore, ad un certo punto saltasse fuori una canzone di denuncia contro la tv come Black Hole Box. Non è anacronistico scrivere un pezzo del genere nel 2015? Al giorno d’oggi, la tv è ancora quel buco nero di cui parlate nel vostro pezzo? J: Mettiamo la televisione nel mondo della musica: ha rovinato tutto, è stata devastante. Ha cominciato con Amici e con i reality. La gente si è creduta brava come per incanto, siamo diventati tutti bravi e tutti allo stesso modo, questo ha annientato la cultura musicale. Una volta c’era la scoperta del nuovo, della band o dell’influenza nuova, adesso invece ti fanno credere che Marco Fragola è bravo, che è quello che ti devi ascoltare e devi andare al suo concerto. Il talent dovrebbe essere considerato come punto di partenza, invece è visto come punto di arrivo: dopo quello sei arrivato e non fai più un cazzo! A mio parere, l’alternativa ai talent è suonare il più possibile live. Voi, ad esempio, siete sempre in giro a suonare. Lo fate per i soldi, vero? P: Non suoniamo tanto quanto vorremmo, purtroppo! Io mando svariate mail al giorno per cercare delle serate, ma il vero problema è il reperimento dei live. L’angoscia più totale di una band è questa: trovare una situazione accettabile in cui suonare e non essere l’ultima carta da giocare prima del latino americano! I

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the monkey weather

locali che funzionano sono quelli in cui la gente ci va a prescindere da chi ci sia a suonare, perché sa che quel locale fa una proposta di un certo livello, con una certa qualità e costanza. Quelli sono i posti in cui è bello andare a suonare. J: I soldi sono una cosa relativa. Abbiamo la fortuna di avere tutti e tre un lavoro e ciò ci permette di fare delle scelte mirate. Ci limita anche, perché se sei dipendente non puoi dire “la settimana prossima non vengo perché vado a suonare in Inghilterra” perché il datore ti dice “ecco non venire neanche la settimana dopo già che ci sei”. Il lavoro ci permette di investire e di non andare in giro per soldi. Quello che abbiamo scelto di fare ultimamente è trovare una situazione che ci valorizzasse, un locale il cui proprietario ti fa sedere, ti saluta, ti fa mangiare, ti procura un fonico. Ci sono delle situazioni che non mi stimolano più. Vado lì felice di suonare e poi è come vedere la cosa più bella che hai violentata. Paradossalmente diventa mortificante. Parliamo invece dei concerti che vi hanno resi più soddisfatti. Immagino che suonare allo Sziget Festival sia stato emozionante! M: Per lo Sziget è stato più che altro l’emozione di essere lì in quel momento, abbiamo avuto difficoltà perché era pomeriggio e c’erano tipo 40 gradi! Però a suonare ci siamo divertiti parecchio, il pubblico ha pogato con Sara wants to dance! P: Il punto più bello è quando, dopo un po’ di date, ti trovi le persone sotto il palco che cantano le tue canzoni. Quando abbiamo suonato all’E sta bì (locale in provincia di Verbania, ndr) c’erano persone venute apposta per sentirci suonare. E lì dici: “ È valsa la pena di mandarci affanculo in sala prove!”. Anche a Roma coi Kasabian o a Gallipoli con gli Skunk Anansie!

al nostro amico Maury Wood (cantante degli Electric 69) chiedendogli qualche dritta. Lui lo ha ascoltato e ci ha ammazzato. Lì ho pensato che non ne avremmo fatto più niente. Poi però abbiamo pensato a ciò che ci ha detto, abbiamo aggiustato l’album e lui stesso ha riconosciuto il nostro successo. Quindi se la critica mi smuove qualcosa vuol dire che è fondata e l’accetto. Ho portato con me l’ultima copia di Rolling Stone intitolata “Le 100 facce della musica italiana”. Mi piacerebbe commentarla insieme. Come mai, secondo voi, i The Monkey Weather non sono tra le 100 facce di Rolling Stone o non ci sono le altre mille nuove band italiane emergenti? J: Secondo me doveva esserci molta meno gente! Noi e gli altri non ci siamo perché ti hanno fatto credere che quella roba lì va e te l’ha fatto credere la televisione, come dicevamo prima. Rolling Stone ha fatto una fotografia di quello che è la musica in Italia adesso, ed è reale. Ci sono loro al posto nostro perché non siamo stati capaci di spazzarli via. È colpa nostra, perché non abbiamo avuto la capacità di mandarli in pensione. M: In Inghilterra, invece, penso che la situazione per i giovani band emergenti sia diversa: gli Arctic Monkeys, per esempio, hanno fatto il primo tour che non erano ancora maggiorenni, erano accompagnati dai genitori! L’ultimo concerto a cui siete stati? M: Di recente abbiamo visto i Black Beat Movement ad Arona, gli Octopus, i Giuda ed Elton Novara. [ ]

Secondo voi, per una band, è meglio avere o non avere un profilo Facebook? M: Per un musicista meglio non averlo, perché te che suoni non devi essere condizionato da quello che vedi, dalle visualizzazioni, dal coinvolgimento della gente. Di questo se ne deve occupare l’ufficio stampa o chi deve promuovere il gruppo, altrimenti te la vivi male. P: Non sono d’accordo. Tu devi essere in prima linea, sennò stai a casa e nessuno farà mai niente per te. Se te vuoi comunicare qualcosa ti devi esporre. Vi sono arrivate parecchie critiche, magari da colleghi musicisti? Come avete reagito? J: Quando è uscito Apple Meaning, abbiamo dato il cd JK | 24


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BOBO RONDELLI di Clara Todaro e Francesca Amodio

Un allegro giullare che non ha più voglia di fare progetti. Così si presenta Bobo Rondelli, desideroso di salutare ogni nuovo giorno con una leggerezza simile al carnevale. “Come i Carnevali” è proprio il suo nuovo album dove, con l’ironia che lo contraddistingue, recupera un poeta dimenticato del panorama novecentesco italiano: Emanuel Carnevali, che egli definisce un precursore di Calvino, un genio assoluto, “il primo Dio” per davvero. L’irriverente ed eclettico cantautore livornese, città tanto cara al suo cuore quindi alla sua musica, si racconta in questa chiacchierata che come al solito è senza filtri, perché spontaneità, poesia e veracità sono le parole chiave per entrare nel mondo di questo prezioso artista. Magari con un buon bicchiere di rosso a farci compagnia.

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ecentemente ti abbiamo visto come ospite musicale nella trasmissione “Gazebo”: com’è suonare in televisione? Beh, faccio continuamente errori! Perché comunque avverto un po’ la tensione della diretta, poi Gazebo è una trasmissione seguitissima quindi sono consapevole di essere visto da moltissima gente… È una trasmissione, tra l’altro, “sempre sul pezzo”, come si suol dire, quindi quasi sempre capita che io venga avvertito pochissimo tempo prima riguardo ai pezzi che devo eseguire, di conseguenza c’è pochissimo tempo per prepararli e spesso molta improvvisazione, ma in realtà è proprio questo il bello. Nel 2009 esce “L’uomo che aveva picchiato la testa”, film su di te diretto da Paolo Virzì… Di solito film di questo genere escono quasi sempre postumi, che effetto ti ha fatto? Non l’ho visto, quindi direi nessuno! Perché se ti stai troppo a guardare, o meglio, se guardi troppo come ti vedono gli altri, poi finisci per convincerti che sei quella cosa lì, che sei come gli altri ti vedono. Mi piace vivere con me stesso, diciamo così, per cui vidi il documentario di sfuggita, senza approfondire troppo. Mi rendo conto che potrebbe risultare un atteggiamento egocentrico da parte mia, ma non è questo, il fatto è che rivedermi è proprio un qualcosa che mi fa soffrire… Quindi non lo faccio solo per rendermi conto che, in un certo senso, quello lì non sono io. Nel 2010 esce il tuo primo libro, “Compagni di sangue”: ti cimenterai ancora nell’attività di scrittore? Mah, già chiamarlo “libro” è un parolone, nel senso che è una raccolta di brevi aforismi scritti tra un bicchiere di vino e l’altro… Io scrivo poesie, ma lo faccio quando mi viene, quando ne ho voglia: non mi piace che anche questa cosa diventi un impegno, un dovere. Per me l’impegno serio è il canto, anzi, tentare di far canzoni, più che altro. Canti spesso della tua amata Livorno e conservi la tua inflessione toscana… Consideri ciò un limite o un bel valore aggiunto? In genere a secondo di dove mi trovo cambio accento (scherza e recita in una serie di inflessioni regionali, n.d.r.). A parte lo scherzo, è giusto che la mia inflessione resti… Se non parliamo più la nostra lingua, la terra scoppia! Purtroppo, grazie a trasmissioni assurde, la terra sta per vomitare gli uomini! Il tuo ultimo album, “Come i Carnevali”, prodotto da Filippo Gatti, rimanda a un poeta e scrittore novecentesco italiano, Emanuel Carnevali. In passato già i Massimo Volume gli dedicarono una canzone e i Movie Star Junkies musicarono una sua poesia. Come

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mai secondo te questo autore, sconosciuto ai più, ha esercitato questo fascino sui musicisti? Perché Carnevali era uno che dava fastidio già nella sua epoca, che letto oggi sembra uno scrittore contemporaneo. Un indagatore dei vizi e delle virtù di tutti, preti e suore compresi, uno che partì ragazzino per l’America senza sapere una sillaba di inglese, lingua che imparò dalle scritte delle insegne pubblicitarie. Uno molto legato a quel fascino americano che spesso un musicista, specie se cantautore, subisce… Leggere Carnevali oggi è come leggere un moderno John Fante, o un Bukowski, insomma, una personalità decisamente accattivante, un precursore della Beat Generation.

Who anche quando non li ascoltava nessuno. Forse questo mi ha salvato. Prendendo in prestito le parole di Roberto Kunstler, potremmo dire del tuo album: “questo è lo stile Gaber che interpreta…” Carnevali! Oltre a lui però tu ricordi tanti altri poeti, scrittori, cantanti e attori; quindi gli artisti saranno pure inutili, ma citarli può essere molto utile… Beh, li cito apposta! Sono molto contento che - visto che per buona parte parlo di Carnevali - subito dopo l’uscita del disco le copie di Carnevali siano finite… Io sono un tramite per parlare di un genio esistito e abbandonato da tutto e tutti. Nell’ultimo

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’ideale è comunque stare in pantofole e poi uscire per andare in osteria!”

L’album conferma una tua predisposizione a dare risalto a personaggi, per così dire, “minori”, il che fa pensare al concetto di notorietà. Che ne pensi della notorietà che si acquisisce oggi attraverso il piccolo schermo, in riferimento ai giovani musicisti emergenti? Mi viene in mente Shakespeare quando diceva “tanto rumore per nulla”. Mi proposero anche di fare il giudice ad “X Factor”, ma è roba che io non guardo perciò rifiutai. Una volta la musica partiva dalla vera contestazione giovanile, dalla rabbia, dai pub, dalle bettole, c’era il vero punk, quello che non a caso io considero come “l’ultima buona musica”. Probabilmente c’è anche il fatto che io non sono più giovane quindi sono anche abbastanza distante dal mondo di talent e affini, ma l’impressione che ho io è che ne vengano fuori prodotti direttamente inscatolati ad arte dalle industrie discografiche, senza anima. Per quanto mi riguarda posso solo dire che ringrazio il me ragazzo che, secco rachitico e pieno di brufoli, è cresciuto ascoltando i Beatles, i Rolling Stones e gli JK | 28

brano parlo del maestro Goldszmit, un grande pedagogo che nel ghetto di Varsavia si occupava di salvare bambini dall’eccidio nazista. Poi quando partì la deportazione vera e propria lui scelse di accompagnare tutti i bambini che aveva in orfanotrofio al campo di concentramento. Pur potendo salvarsi, dato che aveva una certa influenza come pedagogo rinomato, lui scelse di andare fino in fondo al suo progetto di poeta assoluto. Alla fine poeta è «colui che fa» - Franco Loi, un poeta mio amico, mi disse che in greco significa proprio questo – e fare qualcosa dando corpo e anima è al di sopra di qualsiasi parola scritta o cantata… Molto meno “inutile” ecco! In “Autorizza papà” scrivi «non sono un padre normale, prendimi per quello che sono». È l’unico brano molto personale dell’album e sembra un po’ la tua risposta al dilemma di Ugo su come affrontare l’esistenza, se in pantofole o in un’osteria… Sembra che in


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qualche modo tu abbia fatto la tua scelta, no? No, l’ideale è comunque stare in pantofole e poi uscire per andare in osteria! Fare tutt’e due insomma, però è difficilissimo. Spesso quando vai troppo in osteria poi le pantofole te le tirano dietro! Questa è una canzone divertente sul rapporto tra me e mio figlio perché io a volte sono contrario al fatto che il padre debba essere l’autorità. Io sono quello che sono e voglio essere amato anche per – tra virgolette – il goliardico, buffone che sono e mi piace innanzitutto condividerlo con mio figlio. Ovviamente restando sempre padre, cioè colui che lo protegge e gli dice cosa non deve fare, ma mai cosa deve fare. Perciò una condivisione di amicizia profonda col proprio figlio non è sbagliata. Bisogna instradarli, ma per cosa?! Ecco, questo mi sto chiedendo… In questo mondo devastato, secondo me, la torcia più grande – e quello che un figlio vuol sentire – è l’amore: quando un figlio sa che il padre si butterebbe in un rogo per lui, è già sufficiente. Poi sorridere insieme è un grande passo. Così io vedo l’educazione, che è una parola che non mi piace… Meglio “scambio educativo” tra colui che è venuto prima e colui che è venuto dopo.

gente, basta saperle raccontare bene. Anche l’utopia può sembrare un concetto inutile, ma nessuno pensa a quanto sia importante l’utilità di sognare. Secondo me, se finisce l’utopia l’uomo rischia molto. [ ]

In Carnevali dici “siamo noi i più inutili dell’inutile”: da dove nasce questo senso di impotenza degli artisti? In realtà il concetto di inutilità è lì inteso come trionfo, in quanto è una cosa che nella mia carriera, soprattutto agli inizi, mi è stata detta più volte e da più persone, dalla mamma alla moglie, soprattutto nei periodi in cui con la musica non concludevo nulla. Allora mi si diceva che ero inutile, ma perlomeno ne avevo la piena consapevolezza, che è già tanto. Quello di raccontare storie è un concetto ambiguo perché di primo acchito sembra una cosa inutile, per l’appunto, e invece le storie sono utili a moltissima JK | 29

bobo rondelli

Per “Cielo e terra”, “Qualche volta sogno” e “La statale cosmica” hai collaborato con Francesco Bianconi. Com’è stato questo lavoro a quattro mani? È stato un incontro casuale, tramite un amico. Lui era mio estimatore, io suo estimatore e ci siamo trovati. Poi a volte hai delle crisi creative e hai bisogno di un interlocutore. Così lui ha orchestrato e arrangiato due brani, ha finito in tutto e per tutto una frase che io avevo iniziato, che è nel singolo Cielo e terra. Poi non sta a me giudicare, pare che alla gente piaccia e ne sono contento.


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GIOVANNI TRUPPI di Giovanni Romano Pigneto. Bar Rosi. Ultimo avamposto della zona pedonale del quartiere. Vicino ci sono i lavori della metro, il ponte sulla ferrovia e tutto quel fascino decadente che emana la zona. Sia io che Giovanni Truppi (uno dei rari casi di omonimia che abbia incontrato nella mia vita), siamo in ritardo. Ma tanto sappiamo entrambi come funziona Roma i pomeriggi dei giorni feriali: se ti metti in macchina non sai bene quando ne esci. Non parlo del parcheggio perché forse quella è un’impresa ancor più titanica. Alla fine per fortuna arriviamo entrambi puntuali nel ritardo. Ci sediamo, prendiamo una cosa e iniziamo a parlare un po’ del più e del meno prima di iniziare un bel discorso sul suo ultimo lavoro, omonimo “Giovanni Truppi” (Woodworm/Audioglobe, 2015). Questo, all’incirca, è quello che ci siamo detti.

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Q

ualche giorno è passato dalla data romana di presentazione in casa del disco all’Init. Come la ricordi a posteriori? Sono stato molto contento, una sala piena di persone, stracolma, oltre cinquecento. Devo dire che è stato veramente molto emozionante. Mi è capitato di suonare davanti a numeri così elevati, o anche di più, ma quelli erano venuti appositamente per me. E’ stato veramente forte, il primo quarto d’ora veramente complicato da gestire. Le prime tre-quattro canzoni mi tremava la gamba, come ai vecchi tempi. Ad un certo punto ho detto: “cretino! Divertiti! Sei qui per questo”, e così mi sono sciolto. Anche Napoli è andata così bene. Ma globalmente tutte le date del tour stanno andando in maniera molto soddisfacente.

Giusto è vero, alla fine tu hai avuto due date “in casa”. Ma sei arrivato a Roma per studi, no? Che impostazione ti hanno dato? Me ne volevo andare da Napoli, e sono venuto a studiare all’Università della Musica. Questo prima che nei conservatori venisse introdotto lo studio della musica moderna: allora ci stavano queste scuole molto valide con maestri bravissimi. Ora l’università che ho frequentato io ha chiuso, però, per intenderci, è tipo il corrispondente del moderno Saint Louis. Le prime cose che ho studiato sono state il pianoforte e la classica, poi, crescendo ho iniziato a fare pop rock e, con lo studio del canto mi sono avvicinato molto al jazz. Per qualche anno sono stato molto dentro al Jazz, ma comunque non è stato il mio primo approccio musicale. Rispetto ai precedenti lavori, Cosa è cambiato a livello organizzativo, logistico, o comunicativo? Non so se te ne sei accorto, ma c’è comunque molto hype intorno a te ora… Io non riesco ad avvertire il polso della gente, però ora ho un booking grosso (Locusta ndr), un management, un etichetta forte che lavora bene (Woodworm), un ufficio stampa più grande. Insomma, c’è un forte entourage e cio produce, i risultati si vedono. La macchina funziona meglio. A maggior ragione anche io ho delle aspettative di crescita non indifferenti, dati anche questi presupposti. La squadra è importante, e si forma piano piano col passare del tempo. Invece se dovessi vedere dentro di te, dove pensi di essere cresciuto sia musicalmente che come

persona? Insomma: in cosa ti sei evoluto e in cosa pensi di dover ancora migliorare? Interessante…uno dei cambiamenti più grandi è senza dubbio affidare maggiormente cose e situazioni alle persone e fidarsi delle persone stesse che, appunto, formano la squadra di cui ti parlavo poc’anzi. Ad esempio con Marco Buccelli, il produttore artistico, lavoriamo insieme da dieci anni, però la fiducia è cresciuta sempre più con l’andare del tempo. E poi anche il prendere più sul serio quello che fai. Se ci pensi è molto difficile quando sei agli inizi pensare che stai facendo un lavoro. Se stai un giorno intero a scrivere stai in realtà lavorando. Veramente, è difficile realizzarlo. Per quanto riguarda il crescere devo dire che siccome lo vedo come un percorso, è importante mantenere un atteggiamento continuativo all’interno dello stesso. Quello ti permette di maturare ulteriormente. Non mi devo fermare. Lavorare, insomma. Altra cosa diversa è stata la scrittura dei pezzi. Qua sicuramente è stata più fluida dei dischi precedenti, è avvenuta tutta in un anno, e prima non era mai successo. E in fase di registrazione invece che rapporto avete avuto tu e Marco? Sugli arrangiamenti ha molto lavorato Marco, ma, paradossalmente, le parti di batteria, pure se le ha registrate lui che è batterista, sono prevalentemente scritte da me. Marco vive a New York e gli mandavo i pezzi molto spesso con le batterie già suonate. Lui ha aggiunto tutte le batterie elettroniche. Se chiedi ad un batterista qualsiasi che ne pensa delle parti di batteria, ti dirà che le cose non sono molto “batteristiche”, tant’è che infatti alla fine le ritmiche seguono molto il riff principale della canzone.” Il titolo dell’album: omonimia può significare tante cose: magari perché vuoi tornare all’origine. Io penso invece che tu lo abbia chiamato così perché invece ti rappresenta parecchio. O almeno tanto da poter dire “sì, questo sono io. Spesso mi dicono “l’hai fatto perché è più biografico”. In realtà non è così, ma dal punto di vista autoriale è più come dici tu, cioè, rappresentativo, ecco. Io sono questo. Ma me ne sono accorto a posteriori, riguardandolo. Non è un disco che arriva immediatamente, ma pian piano che lo senti entra dentro. Io ci ho visto della filosofia, dei discorsi esistenziali e simili, ma tutto espresso in maniera colloquiale

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e vicina alla gente. Questo è per me uno dei punti forti del disco. Non penso solo a “Conversazione con Marco sui destini dell’umanità”, ma anche a “Tutto l’universo” e a “Lettera a Papa Francesco I”. Trovo molto affascinante proprio la capacità di andare a disquisire di cose così importanti dal punto di vista di una semplice chiacchierata tra amici. Eh infatti per “Tutto l’universo” sono proprio partito pensando di fare una canzone che facesse un parallelo tra la storia dell’umanità e la storia di una singola persona. Era proprio un progetto, non capita spesso di avere un’idea razionale non creativa alla base della canzone. Può essere anche uno degli aspetti in cui mi sono evoluto di cui parlavamo poco fa. Invece “Conversazione” mi è venuto abbastanza fluida. I temi erano tutti fatti e idee su cui ragionavo autonomamente come persona, da solo, con amici. Ad un certo punto ho provato a metterli in un flusso di coscienza. C’è stato un momento in cui mi sono messo ed ho scritto tanto, come se parlassi con un’altra persona. Quello è stato il corpo grosso. Poi, chiaramente, ho limato. I temi scelti sono alcuni che mi stavano a cuore e di cui penso, pur non essendo uno scienziato, di poter parlare. Ce ne stanno anche altri di cui parlerò poi, di cui però ad oggi non mi sento abbastanza informato.”

giovanni truppi

“Stai andando bene Giovanni” invece è una cosa che ti dici o che ti hanno detto? Figurati che anche io mi chiamo Giovanni, quindi mi sono divertito parecchio quando l’ho vista. Anche se a me non lo dicono proprio (detto ridendo ndr). In realtà è una cosa che mi hanno detto. Paradossalmente l’ho tirata giù al pianoforte e poi ho riportato il riff sulla chitarra iniziando a cantarci sopra. Il testo era esattamente quello. Alla fine è molto raro che cambi un testo dopo che l’ho cantato una prima volta e mi soddisfi. In molte di queste canzoni c’è un tono infantile, per il modo in cui parli o per certe frase. Ad esempio “perché la pipì si sente di più quando ti avvicini al bagno”, ma anche ad altre. Voluto o è uscito così? Non sei il primo che me lo fa notare. Ma io mi esprimo anche così nel quotidiano. Quello che cerco di fare nei testi è di inserire un qualcosa che utilizzerei anche in una conversazione, onde evitare di apparire artificioso. Per esempio queste frasi le potremmo dire entrambi in una conversazione. Forse più che “infantile”, l’aggettivo più giusto è “naturale”, perché due amici in una conversazione potrebbero usare questa terminologia e anche questo tono. Fa parte di quel discorso di sincerità che molti hanno ritrovato nell’album.” Una cosa molto bella è la produzione, molto vera e sporca. Il disco è vivo, non suona artificioso. Direi perfettamente legato a quello che poi le canzoni vogliono trasmettere. Pensa che mi pareva, rispetto all’altro disco, di fare il disco di Beyoncè (risate, ndr). Infatti mi prendevano in giro mentre io ero stupito di quanta roba mettessimo negli arrangiamenti. Che poi alla JK | 32


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fine in realtà anche questo è un disco abbastanza minimale. Ma sai com’è, io venivo da un disco chitarra e batteria…” Trovo inoltre che proprio questa veridicità che promana dall’album faccia sì che tu, nel tuo approccio live, potresti anche permetterti di fare degli errori. Sembra una fesseria, però siccome è umanità quella che trasmetti, l’errore nel tuo live sarebbe anche una componente del gioco che, paradossalmente, non stonerebbe. Non che tu lo debba fare, chiaramente! Ho capito quello che vuoi dire, e so che è in senso buono, però, pur essendo una visione romantica tieni conto che se uno fosse vero e spontaneo senza aver un background, sarebbe completamente diverso. Non dico meglio o peggio, semplicemente diverso e forse meno congeniale rispetto a quello che mi sento di fare. D’altronde quello che faccio è al contempo la parte di me che voglio trasmettere, asseconda il mio essere naturale, quindi non ci penso troppo. Il disco è comunque molto recitato. Da dove arriva questo lato quasi “attoriale”? Col teatro ho avuto dei rapporti sporadici, ma non da attore, da musicista. Penso invece che l’aver fatto un periodo abbastanza lungo a Roma dove ho suonato in piccoli posti voce e chitarra ha fatto sì che sviluppassi un certo tipo di interazione con il pubblico. Se la gente sta ad un metro dal palco non ti ci puoi rapportare come fanno gli U2. E, anzi, penso che questo disco abbia un approccio meno teatrale del precedente. Un pezzo come “Lettera a Papa Francesco I” rende di più suonato all’Init con la sala piena, che in un posto più intimo con poche persone. Poi, ovviamente, la suono ovunque, ma se devo pensare alla dimensione ideale dove il pezzo può esplicare tutti gli effetti, è più da contesti grandi. Altri invece sono sempre adatti ad una dimensione più piccola. Ora giri con una band, sicuramente è più facile per te farlo. Prima già lo facevi o è una novità e le cose sono cambiate? Già da prima giravo in due con un batterista, ma molto spesso, non tanto per scelta, quanto per necessità, sono andato a suonare da solo. Non soltanto per una faccenda di spese, ma anche di luoghi. A prescindere dal cachet non è scontato che trovi un posto adatto per la batteria: automaticamente il concerto, anche se in due, diventava più aggressivo. Un impatto diverso e anche decibel più elevati. Dimmi la verità, stai già lavorando a cose nuove? Ho pochissime cose. Anzi, sto iniziando a pensare che mi sono preso anche troppa pausa. Mi devo mettere a lavorare. [ ]

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DANIELE CELONA di Clara Todaro

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Portavoce della minoritaria filosofia dei “pochi ma buoni”, Daniele Celona scrive e compone musica per l’urgenza di mettere le proprie idee nero su bianco. Il rock di “Amantide Alantide” parte dai soliloqui degli sfoghi intimi per poi specchiarsi nell’eco di un’invettiva molto condivisibile. Con ricercatezza, ma senza leziosità, affabula storie di vita contemporanea in questo nuovo album, col quale riconferma la sua personale identità artistica attraverso l’amore per la lingua italiana e per la Musica.

D

aniele, partiamo da Amantide Atlantide, anzi dalla sigla in copertina: una A dritta – quella di Amantide – e una A rovesciata – quella di Atlantide – iscritte dentro un cerchio, quello, compiuto, del tuo album che si apre proprio con la prima A e si chiude con la seconda. Da dove e perché è nato questo titolo? Beh lo avevo deciso già prima di chiudere completamente. A posteriori Atlantide è diventato anche il titolo di un brano. Come in Fiori e demoni, qui il titolo del disco è il cerchio esterno, metafora di una società che rischia di sprofondare sotto il peso di uno sviluppo non sostenibile, soprattutto al livello ambientale. Amantide invece siamo noi con i nostri rapporti assolutamente imperfetti - l’amore per il partner, per l’amico o il collega di lavoro - insomma in generale il nostro sguazzare affannato nel contesto sociale attuale. Metto la lente di ingrandimento sulla difficoltà di indossare delle maschere portando più ruoli in giro e cercare di arrivare a fine mese. I tuoi sono testi importanti su temi che vanno dalla riflessione sui rapporti affettivi in Amantide all’ambientalismo in Sud Ovest (che ha anticipato l’album). Quello che emerge in generale è un certo impegno civile e politico, che c’era anche in Fiori e demoni, ma forse qui è più esplicito già nei titoli dei brani. Diciamo che Fiori e demoni era un po’ più eclettico perché c’era qualche sorriso amaro in più, penso ai ritmi un po’ più solari di L’alabastro di Agnese o Lo straniero. Questo disco invece è tutto più oscuro e i temi trattati sono di denuncia, di invettiva. In realtà il mio stato d’animo è sempre lo stesso: se riesco a

dire una cosa, scrivendola nero su bianco, mi sento meno inerme, meno inerte! È come dire “okay vengo preso a pugni da quello che vedo in giro, dalle esperienze che vivo, da quello che mi arriva dai media, però quantomeno in qualche modo reagisco!” Poi succede che questa sorta di sfogo allo specchio diventi canzone e allora - soprattutto se la metti in un disco e la porti in giro - viene interpretata come impegno da parte mia. In realtà io non ho mai un intento predicatorio però – anche dai dialoghi che ho poi sotto palco – vedo che il mio “stare meglio dicendo le cose” si traduce in uno “stare meglio collettivo” (per quanto sia possibile). In testi come Politique, Precarion o La colpa – primo singolo estratto – la rabbia e la disillusione sembrano parlare a una generazione che farebbe meglio a scrollarsi di dosso una certa patina di apatia e uscire fuori dal tunnel dell’abulia. Quando gridi “Corri cazzo!” o “potresti avere dentro un fuoco da fare invidia all’inferno” usi parole incisive che, tra l’altro, si accompagnano bene ai momenti del tuo rock più duro. Testi e musica si sposano perfettamente, dando una voce all’indignazione e all’album un sapore amaro. Come fai per ricercare questi effetti? Assolutamente sì, questa sorta di incitamento alla reazione è un attacco al vittimismo. Cerco di farlo in un modo che non sottintenda rassegnazione ma speranza. Per quanto riguarda l’associazione con la parte strumentale, c’è un percorso di studi classici che mi porto ancora dietro e fa scaturire naturalmente questo scambio di movimenti. Ogni tanto viene preso come un esercizio di stile per

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[Musica] INTERviste

fare il difficile a tutti i costi, ma sarei finto a fare qualcos’altro solo per rendere il pezzo più omogeneo ai canoni radiofonici. Ricerco queste altalene anche con la voce, con cui tento di avere più colori da usare a seconda dei casi: quando il messaggio è più forte e lo strumentale entra pieno, anche il cantato va più verso il rauco o il gridato e, viceversa, il farsetto va per i momenti più dilatati, più caldi; il soffuso, ancora di più, quando magari c’è un’assenza di strumentale. Tutto questo dà vita alla sfera un po’ articolata che tu hai definito prima.

daniele celona

Ecco, sempre a proposito della parte musicale, so che tu stesso hai curato gli arrangiamenti in maniera quasi maniacale... Qual è nella tua idea di perfezione – alla quale sicuramente aspiri, come qualsiasi artista che voglia dare il massimo – l’elemento che non deve mai mancare a un album? Molto banalmente credo che non debba mai mancare la sincerità. Qualsiasi autore che attenda alla propria opera deve avere la libertà di fare esattamente quello che gli passa per la testa. Se questa bontà di scrittura c’è, tutto quello che è più artificiale e artificioso viene di conseguenza. Per quanto riguarda gli arrangiamenti è noto a chi mi conosce – tipo i Nadàr Solo - che io sono il classico “pistino” fastidioso. D’altro canto è pure vero che io non ho potuto ancora fare un disco (e qui rimane la natura maniacale) esattamente come volessi. Questo alla fine nel nostro ambito asfittico è dovuto anche alla mancanza di tempi e di mezzi, ma, considerando quelli che avevo, sono molto soddisfatto. Dall’uscita del primo disco sono passati quasi tre anni. Cosa è successo nel frattempo? Hai avuto qualche particolare ispirazione durante la scrittura di testi e musica? In realtà l’opera di scrittura è stata molto continua negli ultimi due anni. Con Fiori e demoni partivo dopo un periodo in cui mi ero rintanato in casa, scottato dalle brutte esperienze avute con la discografia, mi ero detto “sapete che c’è? Me li tengo per me e andate al diavolo!”. Rispetto a quella partenza da zero, per Amantide Atlantide, le cose sono cambiate: alcuni dei miei maestri - come Paolo Benvegnù, Umberto Maria Giardini e Pierpaolo Capovilla - sono diventati dei colleghi. Avere il loro plauso mi ha fatto capire che forse non ero poi sulla strada sbagliata; quindi ho affrontato questo disco con un po’ più di serenità,

anche se è una sfida ogni volta. Dal punto di vista economico, anche questo poi è un album autoprodotto. Mi sono concesso giusto qualche lusso: le batterie in studio registrate su nastro, i mix fatti senza dubbio in maniera giusta però le chitarre le abbiamo fatte tutte a casa, quindi io e Fede dei Nadàr Solo ci siamo ingegnati per fare qualcosa che riuscisse a renderle comunque personali. Hai parlato di alcune collaborazioni - appunto i Nadàr Solo – poi c’è Levante che duetta con te in Atlantide, il sodalizio con Pierpaolo Capovilla, col quale hai lavorato per il brano Obtorto collo... Ti hanno influenzato o ispirato in qualche modo? L’ispirazione no, non credo, però bisogna fare un distinguo: con i Nadàr, Levante e Bianco si tratta proprio di un humus comune, con Pierpaolo invece non c’è questa condivisione. Poi nel cantautorato credo sia giocoforza cercare la giusta formula per avere un testo di senso compiuto che mantenga la musicalità. Per fare questo, alcuni di noi stanno stringendo la metrica, stanno lavorando col parlato. Io soprattutto cerco di stare al confine tra spoken word, recitato e cantato in senso stretto. È una ricerca difficile, quasi alchemica, se non chimica, per dosare i singoli componenti. La tua cura per i testi raffinati, con parole di un lessico spesso ricercato, potrebbe spiegare perché stai anche scrivendo un romanzo. È vero o solo una voce? Sì, rimarrà un’opera incompiuta perché non ho proprio tempo da dedicargli. Poi non c’è da parte mia l’aspettativa di uno sbocco professionale in tal senso, è anche questa un po’ un’esigenza personale di raccontare storie. Io amo l’italiano, anche quello vetusto e desueto mi piace utilizzarlo nel quotidiano. In Johannes ad esempio ho utilizzato l’escamotage del seduttore di un paio di secoli fa proprio per poter ricorrere a quel tipo di linguaggio così vecchio. Nel mio piccolo cerco di preservare la lingua italiana utilizzando anche congiuntivi che normalmente striderebbero o potrebbero sembrare non musicali. In questo Benvegnù è un maestro: fa risultare musicale una frase come “tungsteno ed aria” che solo a pronunciarla sembra dura come una frase tedesca... Quindi sì, una ricerca che è un bel gioco di tetris rispetto all’inglese. In una fase storica difficile per la musica queste sono tutte scelte artistiche che sicuramente

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[Musica] INTERviste

non pagano in termini quantitativi di pubblico e successo, ma sono spesso indice di maggiore qualità. È come dire “io resto fedele alla mia linea”? Beh non avrei altro modo di fare musica. Ti dico che prima di Fiori e demoni vivevo male il fatto di avere del materiale buono da parte e di non riuscire ad avere uno sbocco. Quindi la riconosco - quando la vedo negli occhi dei ragazzini di adesso - la rabbia verso quello che è più vicino al mainstream o al pop. Io me ne frego nel senso che quello che tu scrivi è l’unica cosa che nessuno ti può togliere e in quella dimensione tu sei pressoché invincibile. Ad esempio, quando a fine concerto un ragazzino mi viene a parlare del testo di Johannes, io capisco che non ho fatto quel brano per niente. Non è certo qualcosa che possa prendere il grosso pubblico, ma io non sono così sicuro che il materiale mio – come quello degli Albedo, di Martino, di Bianco, dei Nadàr – sia un materiale che sotto una spinta promozionale seria non potrebbe avere un appeal di largo consumo. Se incontro ragazzini come quello, io la speranza la mantengo!

ca mentre Atlantide è assolutamente autobiografica - pensa che all’inizio mi si spezzava la voce – poi quando piacque a Levante il fatto che avessimo deciso di cantarla insieme fu una sorta di sollievo. Avevo una spalla con cui fare quella operazione e mi permetteva di prenderne un po’ le distanze. Dal punto di vista musicale, credo che Amantide sia un pezzo artisticamente superiore mentre Atlantide è probabilmente l’unico pezzo più radiofonico del disco (anche se non so se riusciremo mai a farlo uscire). Quindi stanno alla pari: da un lato c’è un po’ più di artistico, dall’altra un po’ più di personale. [ ]

Tu sei di Torino, una città abbastanza attiva per fermento musicale. Qualche giorno fa sei capitato sul palco del Folk Fest romano. Ecco per artisti tutt’altro che mainstream quanto sono importanti eventi che mettono insieme realtà eterogenee ma simili, pescando in realtà cittadine diverse tra loro? Sì, sono importanti ad esempio gli eventi in cui un’etichetta presenta i suoi progetti. La notte della tempesta è emblematica in tal senso, ma anche le serate di Woodworm o Garrincha. La mia partecipazione al Folk Fest è stata assolutamente strana ed estemporanea: all’interno del contest correlato “Torino canta Torino” un ragazzo ha reinterpretato la mia Atlantide al piano così ho pensato di omaggiarlo accompagnandolo sulla sua versione. Tra l’altro quella sera in cartellone c’erano anche tanti amici: Roberto Angelini e Pier Cortese, Galapaghost (questo bravissimo cantautore texano che è sotto un’etichetta italiana, con cui ha suonato anche Fede dei Nadàr). Questo come il Reset Festival di Torino sono realtà che stanno cercando di fare rete parlandosi anche da punti diversi dell’Italia. Un’ultima domanda: Amantide/Atlantide, se dovessi scegliere?! Eh, è dura! Amantide è un po’ meno autobiografiJK | 37


[Musica] INTERviste

tommaso di giulio di Francesca Amodio Tommaso Di Giulio,

giovane e brillante cantautore romano, torna con un disco, “L’ora solare”, che oltre ad essere un contenitore più che godibile di storie che raccontano i sentimenti atavici, come l’amore, la rabbia, la solitudine, l’inconscio, è un prezioso scrigno di emozioni messe magistralmente in musica da un artista che ha smesso praticamente subito di essere una promessa, passando direttamente a rappresentare una confortante certezza del panorama cantautorale giovanile italiano. Tinte più fosche colorano il secondo lavoro di Di Giulio, che dopo l’apprezzatissimo disco d’esordio “Per fortuna dormo poco”, col suo mix di particolare carisma, grazia ed eleganza, stavolta fa emergere la sua vena sfacciatamente rock ‘n’ roll, impreziosita da una schiera di illustri collaborazioni che altro non fanno che dar lustro ad un disco che, nell’ascoltatore, genera un turbinio dei sentimenti più disparati. C’è posto per tutti, tranne che per uno: l’indifferenza.

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[Musica] INTERviste

I

l tuo ultimo disco, “L’ora solare” è un disco decisamente corale, collettivo – vi hanno preso parte più di cinquanta musicisti, tra cui l’élite della scuola romana e non solo, da Roberto Angelini a Gabriele Lazzarotti, da Giorgio Baldi a Ilaria Graziano e Francesco Forni – ma allo stesso tempo è anche un disco molto intimo, forse anche più del tuo disco d’esordio. Tu sei autore di tutti i tuoi testi e delle musiche: com’è stato affidare una “propria creatura” ad altri musicisti ed ottenere il risultato che ti eri prefisso? E’ stato come affidare i propri bambini ad una babysitter, per poi però rimanere lì presenti invece di andare via. In questo disco ho fortemente voluto la co-produzione artistica di Francesco Forni, con il quale l’approccio di lavoro al disco è stato molto bello, sereno, mirato fondamentalmente all’essenzialità, se pensi al fatto che prima di metterci a lavorare concretamente io e lui abbiamo semplicemente parlato del disco, abbiamo dialogato per circa due mesi. Poi siamo entrati in questo clima che definirei “ansiosozen”, e rappresentando lui la componente zen e io quella ansiosa, abbiamo iniziato quest’avventura. Con molto garbo, Francesco mi ha spinto a cercare ogni singolo suono col maggior nitore per ogni singola espressione; tutto questo però è avvenuto con estrema calma: nonostante questo sia un disco molto più estremo, aggressivo, arrabbiato rispetto al mio primo, paradossalmente è stato realizzato nella più totale tranquillità e rilassatezza, in un anno e mezzo, in confronto ai soli venti giorni di realizzazione che ci sono voluti per “Per fortuna dormo poco”. Inoltre la cosa fantastica è stata che io non ho imposto ai miei ospiti nessun brano, ma ho detto loro di scegliere di collaborare a quello che preferivano e in cui magari si rivedevano di più, e neanche a farlo apposta ognuno ha scelto il pezzo che avevo pensato per lui/lei: è stato così per Ilaria Graziano, per Enrico Gabrielli, per Giorgio Baldi come per gli altri, quindi anche questa è stata una bellissima soddisfazione. Non si è trattato di “featuring”, ma più di “mettiamoci tutti insieme a suonare e vediamo che succede”: io al massimo lanciavo delle suggestioni, che i musicisti coglievano e su cui lavoravano poi da sé. Ne è uscito un lavoro di cui sono altamente fiero e soddisfatto. Nel tuo disco precedente, “Per fortuna dormo poco”, canti: “non canto il disagio, né metto in rima il sociale”; questo rimanda ironicamente al tuo modo, in realtà solo in apparenza leggero,

di scrittura testuale, che in effetti poi ne “L’ora solare” vede un cambiamento in questo senso. Com’è cambiato negli anni il tuo approccio alla scrittura? Io penso che quando si cantano tematiche pesanti la leggerezza sia in realtà una chiave d’accesso, non uno schermo attraverso cui celarsi o un escamotage per stemperare i toni. Secondo me è il contrario, un approccio testuale leggero permette di far penetrare meglio sottopelle determinati messaggi, paradossalmente ritengo che la leggerezza dia modo di esprimere i concetti in maniera più densa, offrendo più piani di lettura a chi ascolta. In un brano del disco dico che bisogna guardarsi bene dalle canzoni cosiddette “a senso unico”, che molte platee, anche vastissime, cantano a voce spiegata; trovo sterile e fine a sé stesso questo sloganismo che anche ultimamente dilaga in moltissime nuove realtà musicali, più o meno “alte”. Io nel mio piccolo cerco di coniugare un’accessibilità musicale che ricerco profondamente, fino a quella testuale che non scada però mai nel testo “troppo facile” che non dà poi la possibilità a chi ascolta di frugare tra le righe, e non a caso mi piace usare il verbo “frugare” proprio perché è come quando si mette una mano in un sacco e si deve cercare di capire cosa c’è, azionando quindi altri strumenti al di là del tatto. Penso sia un po’ questa la concezione di forma canzone a cui sono arrivato allo stato attuale. Come la prenderai se in futuro qualcuno dovesse etichettare un tuo disco come quello della famigerata “maturità artistica”? Esiste la maturità artistica per un musicista? La prenderò bene, perché tra le tante etichette inutili che si sono inventati i giornalisti nel corso degli anni, questa secondo me è una delle poche che abbia un senso. Io in realtà la vedo in modo un po’ più ampio, nel senso che ritengo che esitano svariate maturità artistiche: nel mio caso, il mio secondo disco è, per così dire, “diversamente” maturo rispetto al primo per tutta una serie di ragioni, artistiche – che rimandano quindi alle differenze di composizione, al cambiamento di toni, decisamente più scuri rispetto all’altro - ma anche personali, nel senso che se il primo è stato un disco “color pastello” e questo decisamente non lo è, ciò è dovuto ad un percorso di crescita e maturazione anche personale, senza tralasciare il fatto che sono stati scritti in due momenti assolutamente opposti della mia vita, più statico durante la scrittura del mio primo lavoro e iper dinamico per quanto riguarda

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[Musica] INTERviste

quest’ultimo. Se “Per fortuna dormo poco” partiva dal cervello e arrivava al cuore, “L’ora solare” parte dal cuore e scende fino allo stomaco ed oltre.

tommaso di giulio

Lo studio, per così dire, “accademico” della musica, quello svolto nelle scuole o al Conservatorio, è un incentivo o un deterrente per la creatività secondo te? Non è facile rispondere, quello che penso però è che alcune volte, perlomeno in Italia, un certo modo di approcciare l’Accademia tende a chiudere determinate cose potenzialmente molto aperte e creative in torri d’avorio sempre più alte, quindi per quanto mi riguarda è una cosa in controtendenza con ciò che faccio io con la musica. Pensa che io da piccolo volevo fare il professore, mestiere non così diverso da quello della rockstar, perché in entrambi i lavori devi convincere la gente a starti a sentire, devi saper comunicare qualcosa e devi amare profondamente quello che fai perché altrimenti si vede. Pertanto io penso che lo studio accademico della musica funzioni nel momento in cui si riesce a mantenere viva, allo stesso tempo, una curiosità non settaria e a “sporcarsi” il più possibile. Il tuo è un modo di scrivere molto spesso “cinematografico”, alla Bianconi dei Baustelle, mi verrebbe da dire. Non a caso so che scrivi anche di cinema… In che modo il cinema influenza la tua musica? Non a caso scrivo di cinema e non a caso mi piace moltissimo Bianconi, ti ringrazio per il paragone! Il cinema per me è una passione complementare alla musica, moltissime canzoni le ho scritte proprio guardando film; a me capita di abbandonarmi completamente davanti ad un film, ed è in quel momento che concetti o idee musicali, che magari fino a quel momento viaggiavano confusi nella mia testa, si riavvicinano come cellule e acquistano senso, prende vita un impulso nuovo che, se colto al momento giusto, si trasforma in un testo, in una melodia, in un giro d’accordi. Il pubblico che ti segue nei live è assolutamente trasversale, si va dagli adolescenti fino ad un pubblico molto più adulto. C’è una tipologia di pubblico a cui non ti interessa di “arrivare”? Sicuramente quella fetta di persone che non hanno una minima passione per la ricerca e che per gli ascolti musicali si affidano solo ed esclusivamente ad un unico canale di diffusione, come ad esempio il

talent. Molta gente purtroppo è talmente disabituata all’ascolto volontario, ricercato, curioso, che spesso segue un artista o una band per pura assuefazione, perché magari il suddetto viene sparato ottanta volte al giorno in radio o in tv, e quindi quello diventa un ascolto che sei portato a fare per induzione, per così dire, cosa che ahinoi può succedere un po’ a tutti. A me fondamentalmente interessa un pubblico che sia curioso. In Universo Ora Zero, che vede l’illustre collaborazione di Enrico Gabrielli, canti: “vorrei darmi più risposte, ma da solo non c’è gusto e non sono capace”; in effetti nei tuoi testi parli poco di solitudine, non sei certo il musicista maledetto che va tanto di moda oggi, quello che canta solo di depressione, disagio e sconforto cosmico! E’ vero, anche se in realtà parlo di solitudine ma nelle mie canzoni più che altro parlo di come io la contrasti, perché è un qualcosa che mi spaventa profondamente. Non perché io non riesca a stare bene con me stesso, anzi, sono un tipo piuttosto solitario, ma perché fondamentalmente penso che sia vero che se un albero cade da solo nella foresta allora non è mai caduto; credo che qualsiasi esperienza sia vana nel momento in cui non è condivisa, mediata o messa in discussione dall’altro, che poi è un po’ quello che faccio quando suono dal vivo le mie canzoni, mettendomi a nudo e condividendole col pubblico. Questo è il modo che mi riesce meglio e attraverso cui riesco a vincere la solitudine. Una collaborazione impossibile che ti sarebbe piaciuto fare e una che invece ti auguri? Tra le impossibili ce ne sono tante, ti dico il primo nome che mi viene in mente che è quello di Frank Zappa; per quanto riguarda le possibili, se ti dico David Bowie in pratica è come se avessi risposto ancora alla prima domanda, quindi ti dico Franco Battiato. Del tuo disco hanno detto: “un disco autentico e sentimentale, mai scontato o sulla falsariga di qualcosa di già ascoltato” (fonte: Rock. it). Se dovessi autorecensirti tu, quali sono i tre aggettivi che descrivono al meglio “L’ora solare”? Apolide, irrequieto e rosso. [ ]

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[musica] indiepedia

indiepedia di Fabrizio Morando

“S

Skin Graft Records 1994 - 2001

kin Graft è sostanzialmente una casa editrice di fumetti che ogni tanto produce qualche disco”. Con queste parole Mark Fisher etichetta la sua creatura nata nel 1986 con la collaborazione dell’amico Rob Syers, nella Chicago effervescente e colta di quei anni intensi e pieni di energia creativa. Skin Graft Comix #1, la prima uscita editoriale del marchio, è partorita in quel periodo come un lavoro artigianale di copisteria che i due amici hanno messo insieme ai tempi del liceo. Il gruppo dei Dazzling Killmen, innamorati a prima vista dei forti timbri punkrock del fumetto, chiese a Mark di produrre alcune strisce per un sette pollici che avrebbe rappresentato l’esordio della noise-band locale, e da lì è nata la vera anima dell’etichetta, quella ibrida tra il disegno e la musica. L’etichetta è in gran parte responsabile nella contestualizzazione del cosiddetto genere Now Wave, una versione aggiornata del più famoso No Wave nato alla fine degli anni 1970 / primi anni 1980. Skin Graft ha quindi pubblicato i lavori di numerose band locali e internazionali indirizzate a questo genere poco popolare, molte delle quali hanno mostrato un atteggiamento irriverente verso la musica, e per deformazione professionale spudoratamente visivo e visionario: è molto facile trovare i pupilli di Mark Fisher e Rob Syers su di un palco indossando costumi stravaganti o con i volti ricoperti di vernice. L’intento era proprio confondere la realtà con la finzione, la

forma fumetto appunto. Tra le molte band che hanno registrato per l’etichetta nomiamo gli stessi Dazzling Killmen, i Brise-Glace (con Jim O’Rourke), Cheer-Accident, Zeek Sheck, i Chinese Stars, i mostri sacri che sono attualmente icone di culto noise come Flying Luttenbachers e Lake Of Dracula, e gli immortali Colossamite, Shorty e US Maple. In linea con le origini del marchio, molte uscite discografiche (in particolare 7 “dischi e LP) hanno incluso mini fumetti come inserti. L’etichetta ha utilizzato anche imballaggi non tradizionali con alcuni dei loro prodotti di punta: le copie in vinile dei primi album dei U.S. Maple sono stati confezionati in fogli di metallo, e nel 1998 un EP senza titolo dei Colossamite è stato abbinato un frisbee 5 pollici di vari colori, uno dei quali è in bella esposizione, con orgoglio, nella mia libreria. Ancora adesso i due cattivi ragazzi che nel frattempo hanno messo famiglia in Europa sono ancora fermamente attaccati all’appartenenza della produzione musicale agli oggetti fisici e si appoggiano ai canali di distribuzione virtuali sui social controvoglia, e solo per necessità di sopravvivenza. Dal 1994 al 1998, e nel 2002, la Skin Graft ha curato le prelibate OOPS Fest, con molte delle sue band presenti, trasudanti di manifestazioni collaterali e vari stili di performance art basate sull’improvvisazione, a dimostrare che l’etichetta vive di varie forme artistiche e non solo di aspetti legati alla musica e

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[MUSICA] INDIEPedia

all’editoria. # Arab on radar - Ascolto Consigliato: Yaweh on the Highway (2001) Questa è roba dannatamente hardcore, cazzo. Non sapevo di questa band e l’ho scoperta solo molto tempo dopo la loro scomparsa, e danno il mondo per non avermi saputo indicare prima la strada verso questa meraviglia. Io non credo di aver sentito mai altro gruppo che suona in modo cosi bizzarro un insieme di generi che vanno dal noise-rock ad un depravato hip-hop arrangiato con toni molto, ma molto retro. Che accadrebbe se Germs, Captain Beefheart and the Magic Band, Beastie Boys ed una versione acida degli Eels fossero in qualche modo fusi in una stessa entità? Accadrebbe che questo arabo sopra al radar tagli continuamente orecchie e cervelli con un machete senza dare a te, vittima consapevole, il tempo di prendere coscienza e correre finalmente in ospedale. La sfida qui è che il tutto tenda quasi all’inascoltabile, la qual cosa se ci pensate è davvero eccitante: bisogna retrocedere ad un istinto di animale per arrivare ad apprezzare questo contrabbasso distorto e paranoico e queste chitarre che potrebbero esistere o non esistere, a seconda della prospettiva con la quale si guarda e si ascolta. Ultraterreni. # Dazzling killmen – Ascolto Consigliato: Face of collapse (1994) È difficile credere che questo disco abbia più di 20 anni, e cosa ancora più sorprendente è che si trovi ancora una spanna sopra una moltitudine di band “mathy-rock” noiosamente tecniche che sono sorte come la gramigna da una decina di anni a questa parte. Questa meraviglia accade quando alcuni studenti con orientamento jazz che sapevano molto a proposito di improvvisazione riuscirono ad affrontare lo spettro post-rock reso noto da artisti del calibro di Blind idiot Dio e Slint ed esorcizzarlo con una vena hardcore, sviluppando una miscela che appare ancora oggi attuale e innovativa. Le chitarre con forte spinta free jazz e contaminate di vero rock progressivo sono sapientemente dirette da quel genio di Blake Flemming, noto ai posteri

come il di lì a poco batterista dei Mars Volta. Le canzoni di questo disco sono selvagge, ma intrise di un’energia folle e grezza che solo questi ragazzi di Chicago hanno saputo manipolare con tale abile maestria. La loro musica è intensa e spaventosamente frenetica: raccoglie la tecnica di una band prog rock seminale come i King Crimson per poi trasportarla con sapienza verso territori desertici e caldi propri di gruppi di impronta più moderna come i Dillenger escape plan oppure i Don Cabellero. Le voci in questo disco sembrano essere gridate da un internato: si può quasi percepire il suo sudore e il suo sputare bile misto a salivazione, gettato in giro per lo studio come innaffiatoio farebbe in un prato inglese. Face Of Collapse è un golem inarrestabile che ti afferra per la gola e si rifiuta di lasciarti andare fino a quando ti abbia svuotato di ogni goccia di sangue e di ogni organo interno. Spaventosi. # U.S. Maple - Ascolto Consigliato: Long Hair in Three Stages (1995) Al primo ascolto di questo album, alcuni pensieri mi vennero in mente: “Tutto questo può essere permesso in un disco? Cavolo forse si è rotto qualcosa nel mio stereo... o aspetta… sono fottutamente ubriaco, ecco!”. Questa sound machine arrancante e destrutturata pareva aver rotto tutte le regole di quello che ho creduto essere il blues. Nulla era percepito come melodico, non c’era lirica e schemi armonici, i ritmi erano di traverso e senza senso, tutto sembrava solo accadere. Rock’n’roll smontato e riavvitato alla cazzo di cane, oltre ogni concetto di buon senso. Questo è il brevetto U.S. Maple, brevetto che eleva questo album a icona; assolutamente essenziale per qualunque collezione discografica del genere. Magic job e The state is bad rappresentano i veri momenti salienti del disco: la prima ad esempio è il paradosso di Zenone in musica, con una linea di power-bass che ricorda Goat dei Jesus Lizard ma poi diluita in parti di chitarra che sembrano suonare come “Il volo del calabrone” di Korsakov. Dallo stordimento iniziale in pochi minuti mi ritrovai a ballare come un deficiente completo nel mio salotto: avevo scovato l’essenza del genio. Il buon vecchio Al Johnson è dotato di una spavalderia disarmante, disperdendo sillabe dalla sua bocca nel modo più indecifrabile possibile, a definire quasi una nuova forma di canto, essenziale e minimale.

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[musica] indiepedia

I chitarristi Mark Shippy e Todd Rittmann irrorano il tutto con un meshing impeccabile tra controllo del tempo e armoniche: le strutture ritmiche sono tagliate e incollate nei punti più difficili, evidenziando un talento immenso e davvero non convenzionale. L’esecuzione è perfetta e viene condotta in modo naturale, quasi in nonchalance. Un album straordinario, un susseguirsi di riff alieni in una (de)struttura musicale che alfine è poesia. Primo album di una band che metterà a dura prova i canoni della forma canzone. Eterni. # Melt banana - Ascolto Consigliato: Scratch or Stitch (1996) I Melt Banana di Tokyo rappresentano l’industrial-terrorist-Dada-rock YIN contrapposto al sound hippieexperimental YANG dei Boredoms, un attacco bellico di tamburi punked-out, slap di basso, strilli di chitarre selvagge, un cantato acuto che suona come se fosse urlato da una bambina di sette anni con un grave problema neurologico. Cominciando con l’assalto di un serial killer armato di martello pneumatico (Plot in a pot) il disco si dipana attraverso 22 canzoni in circa altrettanti minuti. Scratch or Stitch mantiene costantemente un volume a manovella e una velocità di 200 km\h, senza lasciare che questa lucida follia si plachi neanche per un fottuto secondo. Va tutto bene però, perché Yasuko O., Agata, Rika e Sudoh sono musicisti provetti e la loro performance è davvero impressionante, se si pensa che ogni loro scardinata esplosione noisy è al 100% intenzionale, anche quando su primi passi sembri una trasandata improvvisazione. Spesso paragonati alla scena noise-rock di Providence come i Lightning Bolt o i Sightings, i Melt Banana li vedo molto più simili ad un Frank Zappa nato al tempo del punkabbestia dalla relazione tra Syd Vicious e Nancy Spungen. Li ascolto quando sono depresso o quando ho una forte spinta verso il sado-masochismo, alzo a palla lo stereo e mi lascio trapanare. Melt-Banana. Perfetto.

arrivando comunque a servire a tavola un ensable di piatti al limite della perfezione, come direbbe il nostro chef preferito Joe Bastianich. Le portate comunque non sono molto variegate: rumori di primo, rumori di secondo e altri rumori di contorno e dessert. Assolutamente raccomandato per le persone che sono annoiate con il rock e vogliono “qualcosa di forte”. Decisamente non consigliato ai cardiopatici e in linea generale a chiunque abbia malattie di carattere nervoso, sempre se non voglia spendere il sudato cedolino in medici e strizzacervelli. La band in questo disco è totalmente diversa dalle line-up precedenti (con l’eccezione del leader indiscusso Weasel Walter) e anche la musica prende una piega insolita dai lavori che hanno preceduto: qui si ci strugge con un metal / grindcore-imbevuto e mescolato alla “Luttenbachers” maniera in un monolite no wave. Le tracce di questo album - e sono solo su due, come le corna di satana - sono scritte e interpretate dallo stesso Walter e dal polistrumentista Bill Pisarri. Si tratta di un disco magico e incredibile, uno dei migliori titoli del genere. E come Mr. James Brown in persona avrebbe detto: “They’re good ‘cause they don’t hesitate!”. Buon Ascolto a tutti. [ ]

# The Flying luttembachers - Ascolto Consigliato: Revenge of the flying luttembachers (1996) Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di questi ragazzi? Se la risposta è no, non avete idea di cosa vi siete persi. I Flying luttembachers possono distruggere in voi ogni concetto di musica o di armonia JK | 44


[MUSICA] INDIEPedia

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[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

MUSICOMIX Recensioni a fumetti a cura di Gianpiero Chionna

UP JUMPED THE DEVIL

Quando si parla di Robert Johnson si parla di uno dei piu’ grandi chitarristi della storia della musica, l’uomo che ha rivouzionò lo stile del blues e gli donò una nuova anima... perdendo la sua. Questa è la storia dell’artista maledetto che vendette l’anima al diavolo.

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[cinema] WEBZINERS

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Non c’è peggior alieno dell’essere umano

Humandroid, di Neill Blomkamp (2015) di Giacomo Lamborizio

a prima sensazione di fronte all’apertura di Humandroid è quella di un deja-vu. Neill Blomkamp sembra citarsi mentre cala lo spettatore nel fluire delle breaking news, così come aveva fatto per il suo straordinario esordio District 9. La fantascienza si mostra normalizzata e mediatizzata, il prossimo futuro è già arrivato e non è poi così straordinario. Siamo di nuovo a Johannesburg, una metropoli violenta, in guerra con i suoi emarginati (questa volta umani, ma non così diversi dagli alieni in apartheid del Distretto 9). La guerra è condotta da poliziotti androidi, macchine perfette costruite da una multinazionale. Ma nel seno della struttura cova il dissidio filosofico tra il progettista (Dev Patel) che vorrebbe dare ai suoi droidi la coscienza, e l’ingegnere-soldato (Hugh Jackman) che lavora per consegnare all’uomo l’estensione robotica perfetta. Blomkamp lavora con il luogo comune e mette i suoi spettatori nella scomoda posizione di vederlo rovesciato specularmente. Quanta fantascienza abbiamo negli occhi sui pericoli dell’intelligenza artificiale, a cominciare dalla saga di Terminator? Ma eccoci rapidamente parteggiare per Chappie, il droide-bambino che cresce e impara, e la sua, a tratti esilarante, educazione criminale – i “genitori” sono interpretati da Yo-Landi e Ninja dei

Die Antwoord, cui non si deve aggiungere né nomi né costumi per renderli credibili (anti)eroi da cinema post-apocalittico. Da A.I. a Terminator, da Robocop a 1997 - Fuga da New York fino appunto a District 9: il regista lavora per sintesi e sincretismi, rovescia e ribalta, ironizza e insieme prova a commuovere. Non c’è nessuna invenzione decisiva nelle peripezie di Chappie per salvare la sua “famiglia” e vincere i limiti del suo corpo imperfetto – anche la sua batteria, come la nostra, è destinata a spegnersi, per sempre? – ma c’è facilità e felicità narrativa, umanità, ottima regia e sorprendente empatia, inattesa proprio perché tanto graduale quanto inarrestabile. In fondo Blomkamp, immaginando nuovi protagonisti “alieni”, sottolinea le ambiguità, le abissali potenzialità negative dell’essere umano, che come in Distric 9 anche in Humandroid si conferma l’alieno più spaventoso. [ ]

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Il bistrot in riva al mare Cibi naturali, vegetariani e artigianali accompagnati da musica fresca...!

Il Giardinetto

offre uno spazio all’aperto dove riunirsi sotto l’ombra di pitosfori,circondati da fiori.

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[libri] ruba questo libro

ruba questo libro di Marco Taddei

U

na montagna di arte è stata eretta, nei secoli, per celebrare la violenza, quel misterioso istinto dell’uomo di far del male a sé stesso o ai suoi simili. C’è stato Sofocle, Euripide, c’è stato Shakespeare, Hieronymus Bosch, Francisco Goya, oggi ci sono i fratelli Chapman, c’è Godzilla, Tarantino, Takeshi Miike. C’è stato anche Andre Breton, che all’inizio del secolo scorso, affermava: “L’azione surrealista più semplice consiste nel riversarsi nelle strade, con le pistole in pugno, e sparare a caso in mezzo alla folla, il più possibile”. Un’affermazione presa fin troppo alla

wild things che attingevano direttamente agli umori totalitari di un Europa sull’orlo del Secondo Grande Macello Mondiale. Niente in confronto al giorno d’oggi, alla violenza priva di timidezza dei nostri mass media manipolatori: decapitazioni, pire umane, snuff movie patinatissimi trasmessi dai vari califatti islamici, vengono poi ritrasmessi dai social network dell’occidente crociato in un festino goliardico di atti affannati, pornografici, cannibali defraudati della loro valenza rivoluzionaria giacché gli occhi di chi li osserva sono animati (è un eufemismo) da spiriti assuefatti alla putrefazione,

Una settimana di bontà di Max Er nst

(Adelphi, 2007)

lettera di questi tempi a Parigi, dove Max Ernst, acuto surrealista, visse a stretto contatto con l’ipocrisia borghese di un ambiente rachitico contro cui il suo vivace intelletto doveva costantemente grattugiarsi a sangue. Era il 1929 e tutto andava alla grande. Una Settimana di Bontà, sette giorni come quelli che fecero la Creazione, è un libro che non si legge, senza testo, composto da sole immagini. Tra queste pagine la crudeltà scorre silente e misteriosa, e proprio per questo sgorga arricchita di una sensuale magia, che rende i soggetti vivi di un peccato originale sotterraneo. Scompare, per inconsce alchimie, la regola secolare della trama, la prigione della narrazione in un sol colpo viene spazzata via. Un libro d’arte, o una fanzine d’autore se preferite, colma di violenza, simulata grazie ai prodigi adesivi del collage, che incolla piani, sequenze, campi e controcampi, rifilati a mano con forbici e forbicine, di romanzi d’appendice, paccottiglia illustrata di età vittoriana, almanacchi, opere di Gustav Dorè e chi più ne ha più ne metta. Max Ernst, durante un bel viaggio nelle campagne di Parma nel 1934, in tre settimane, compose a briglia sciolta le effigi di un presepio selvaggio e dissacrato, antropomorfe e bestiali, diaboliche e serafiche,

legati a doppio filo dal blando benessere dei loro divani, dei loro supermercati, dei loro parcheggi riservati, dei loro stilemi di vita. Occhi vitrei, che non sono più veicolo di ascensione o depravazione, occhi che non sono più nemmeno organi visivi. Forse proprio un buon collage di una dama che vola con ali di pipistrello in un alba capovolta, potrebbe rappresentare il collirio elettrico che risveglierà lo sguardo irrigidito della moltitudine affamata di estasi. Nel volume oltre a La Settimana di Bontà si possono trovare anche gli altri impareggiabili esperimenti visivi di Max Ernst, quali La Donna 100 Teste (amabilissima storia dove l’alto è il basso e il basso è ancora più basso) e Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo (cosa succede se un convento entra a pennello dentro un manicomio?). Di grande formato e di lubrica consistenza. Oplà, oplà, all’acquisto! [ ]

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la dimensione eroica del microbo testo e illustrazione di Maura Esposito

www.behance.net/mauramagenta

Elogio della Figlia di Cane

Dici che guizza sul tuo vello E svola nato fitto di sogni Ne afferra uno tra in fondo permane la mia brama Baciavo morso fine Un morso misterioso, certo bocca [ ] JK | 57

il tuo fresco incari denti di luce, lĂ sulla mia mano quel dovuto a una divina


[IMMAGINARIO] TROPPO TARDI PER GLI ONESTI

troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci | 2ue

Direzione del vento, favorevole e contraria. da una nodo (1,852 km/h) in memoria di Willy l’Orbo musica consigliata: Richie Havens - Freedom bevanda: bicchiere di acqua salata (senza ghiaccio)

N

ord sud Sud 10 gradi ovest. Ancora dritto, ancora dritto. Non fermarsi per nessun motivo. Tempo di crociera: non calcolabile. Previsioni meteo: sereno variabile con raffiche improvvise. Quasi arrivati? No. Eterno viaggio. Ancora dritti Coprirsi gli occhi con una mano, per proteggersi dal sole. Eccomi al centro. Intorno a me solo acqua. Blu Azzurro, celeste, blu notte, quasi nero. Una linea, in fondo. Dritta. Sembra disegnata, sembra fatta con un pennarello e un righello. Precisa e lunghissima. chi sarà stato a farla? E dove avrà trovato un righello così lungo? Una donna, un seno Lei e i suoi capelli Io e i miei pensieri impuri. Impuri come l’acqua di un mare sporcato da idee nere come il petrolio. Vado, spiego le vele ma non spiego a nessuno il perché della mia partenza. Che poi non è una partenza. Io non parto. Sono già partito. Io continuo. Io continuo. Io continuo, proseguo. Stop. Solo questo. Considerando la velocità del vento e la distanza percorsa in 35 anni di scelte, oggi devo andare verso nord per avvicinarmi un po’ più a lei. La mia ancora di salvataggio, colei che mi fa andare senza chiedermi dove. E’ il mio punto di partenza e il continuo arrivo. Siamo due pesci che si mordono la coda e si confondono nel mare. Si confondono, come due c_m_____t_ JK | 58


[IMMAGINARIO] TROPPO TARDI PER GLI ONESTI

(animale di 10 lettere che cambia colore) La vita è una barca a remi. Rimaniamo a galla, quasi immobili e per andare bisogna darsi da fare. Avere spalle larghe e forza sulle braccia, per spostarsi di qualche domani, per fare dei passi avanti. Spalle larghe per attraversare fiumi e rimettere in sesto la barca rovesciata. E ripartire. E ripartire. E ripartire. Senza ripetersi. Lei è con me, svestita di bianco, scioglie i capelli. Con il vento contrario e dunque favorevole andiamo avanti. E lei è sempre un passo prima del mio. E mi ritrovo a seguire le sue orme. E mi ritrovo ad inseguire così, la dea bendata. E non lasciarla mai scappare, la L___r_à ( 7 lettere: capacità del soggetto di agire, o non agire, senza costrizioni o impedimenti esterni). [ ]

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[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista

pic by

Teresa Sarno

Due lacrime da bere

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S

ara se ne sta davanti al Tilt con il suo bicchierino di sambuca cercando di sviare il discorso intavolato col suo nuovo amichetto. Ho appena finito di tatuarmi una boccetta di veleno sulla mano e adesso ho solo voglia di ubriacarmi e cancellare tutti i dissapori di questi ultimi giorni con una bella bottiglia di glen grant; e magari, dopo qualche bicchiere, rompere la testa allo stronzo che ci prova con la mia donna. Così dopo il secondo cicchetto mi avvicino per importunarli e scambiare poche battute da copione. “ E lui chi cazzo è? “ esplodo stringendo i denti come un mastino, “ dovete per forza farlo qui? “ I due si guardano, mi guardano, guardano un po’ da per tutto facendo finta di non capire, ma hanno capito tutto, ed io, inkazzato e alcolizzato, ne sono la prova. “ Levati dal cazzo “ gli dico, “ lascia stare la mia donna. “ Il tipo, capelli rasati, camicia a quadri e jeans stretto, si ammutolisce e abbassa le testa; poi mi guarda di striscio per capire che intenzioni ho, ma quando Sara si allontana per prendere da bere ed evitare un’altra scenata del cazzo, mi avvicino ad un dito dalla sua faccia da stronzo e lo fisso nelle palle degli occhi come una bestia braccata. “ Stavamo solo parlando “ mi fa alzando un poco la testa. “ Ma che mi prendi per coglione? “ gli faccio quasi preda del demonio, e poi: “ vorrei proprio romperti quella faccia di cazzo che hai! “, restando fermo sempre ad un dito


[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

dalla sua faccia, teso come una corda, aspettando una sua pur minima reazione che mi permetta di sfogare queste terribili due settimane del cazzo, dove con Sara abbiamo deciso di prenderci una pausa e dove non c’è stronzo che non voglia infilarsi tra le sue magrissime cosce. Così, agitato da questi devastanti pensieri, sono pronto per scattare al momento giusto, pronto per gonfiargli quella sua mandibola penzolante; ma il momento giusto non arriva, perché il tipo decide bene di tirarsi indietro e farsi gli affari suoi e non mettere becco in una storia che quasi sicuramente gli porterebbe solo problemi. Raggiungo Sara al bancone. “ Il tuo amico se n’è andato “ le dico, e ordino un altro bicchiere per acquietare la mia voglia di sangue. “ Cosa gli hai detto? “ mi chiede visibilmnte preoccupata. “ Chi Ioooo? “ fingendo un fraintendimento che in realtà non c’è stato, “ non gli ho detto un cazzo, solo che doveva lasciarti in pace! “ Sara non sembra contenta, “ e chi ti ha detto di farlo?? Sei uno stronzo… noi non stiamo più insieme, ricordi? “ “ Ah si “ le faccio, “ non stiamo più insieme?! Sei sicura? “ Sara mi fissa confusa, impaurita: “ non sono sicura di niente io, di niente…” e raccogliendo il bicchierino di sambuca dal tavolo si avvia fuori, per sedersi su una delle poltrone che il Tilt mette a disposizione nelle tarde serate autunnali. Anche io faccio lo stesso col mio bicchiere di vino e la seguo sulla poltrona. Intorno a noi gruppi di ragazzi che bevono birra e parlano di musica e fumano canne e si baciano e cercano qualcuno con cui condividere tutti i loro demoni. Ce ne stiamo seduti anche noi fumando e bevendo, per un po’ senza parlare; poi in uno scatto passionale, la prendo per il collo e la bacio, prima dolcemente e poi con foga. Anche lei mi bacia, ma due lacrime le rigano il volto. Continuo a baciarla, poi restiamo ancora in silenzio. “ Non ce la faccio più ad andare avanti così “ mi fa cercando nella borsa la busta di tabacco Lucky Strike. “ Adesso sei qui che fai il geloso ma qualche giorno fa ti divertivi con le tue troie alle mie spalle “ e la sua voce sembra supplicarmi di trovare una soluzione. “ E’ vero “ ammetto, “ sono stato un coglione, ma non ti ho mai tradita…ho solo perso la testa per due minuti ma poi non ho fatto niente di male. “

“ Questo lo dici tu “ dando fuoco alla siga come se volesse darne a me, “ e io di te non mi fido più… puoi farmene una colpa? “ “ Non fare così “ le dico cercando di farla ragionare, “ lo sai che sei l’unica per me, non ti avrei mai fatto una cosa del genere, mai…”, ma non riesco a convincerla, si vede dalla sua espressione rammaricata e delusa; e allora con voce pacata cerco ancora di scusarmi, ma ormai le scuse non servono più a niente. In questi casi solo il tempo può ridare conforto e stabilità, mi dico, e cambio registro, cercando di farla sorridere con qualche battutina scema e un po’ brilla. “ Ma veramente ti piace quel coglione con cui stavi parlando prima? “ le chiedo poi sempre col sorriso sulle labbra sforzandomi di non perdere le staffe. “ Mi sono sempre piaciuti i tipi rasati “ frigna per farmi innervosire; poi continuando la sua palese provocazione: “ mi ha solo offerto da bere! “ “ Ah si! “ sbotto io quasi pentito di non avergli rotto il naso prima, quando ne ho avuto l’occasione, “ se lo dici tu! “ e mi alzo di scatto lasciandola alle prese con un’altra sigaretta da rollare e l’ultimo sorso da scolarsi. Un giorno o l’altro doveva succedere…tutto finisce!, mi dico mentre aspetto l’ennesimo bicchiere di glen grant che la barista riccia mi versa apprezzando i miei tatuaggi, …tutto finisce! e quella che prima era la tua donna diventa la donna di un altro, e tutto quello che hai provato fino a quel momento se ne va a farsi fottere, bello schifo! Poi ritorno sulla poltrona, barcollante e deluso, ma Sara è sparita. Al suo posto una ragazzina bionda fuma accavallando le gambe come Sharon Stone in quel film con Micheal Douglasssssss, mentre la sua amica parla ad un cane nero e grosso che spaparanzato a terra si becca un sacco di coccole e carezze. Porcaputtana, sussurro, adesso vorrei proprio essere quel cane, ma quando faccio per accarezzarlo la bestia mi ringhia contro di brutto facendomi sussultare come un marmocchio. Dove cazzo è finita?, mi chiedo poi girando sui tacchi per cercarla nel locale. Ma di Sara nessuna traccia, qualcuno l’ha vista andar via verso il Corso, con un bicchiere in mano e due lacrime a rigarle il volto bianchiccio. [ ]

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[STORIE] SUONATORE D'AUTOBUS

suonatore d'autobus di Carlo Martinelli

Capitolo 6

-C

ome si sta bene mezzi morti dentro un pesce! l’unico modo per migliorare davvero la situazione sarebbe essere tutti morti!
e così il signore passava le notti a sognare la morte.
desiderava questa morte con la stessa dedizione con cui un pesce desidera il mare.. dopo anni e anni a perdere tempo appresso ai pesci la morte per omicidio rimane un sogno meraviglioso. stava nella pancia del pesce, il giovane signore, e si ripeteva:
- così si fa, oh sì, questo è quello che mi contraddistingue.
 eppure nessuna delle sue parole riusciva ad allontanare la puzza di solitudine che veniva dalle interiora della bestia, dunque, il pesce.

allora per un meraviglioso atto di benevolenza celeste apparvero sedici gamberi rosa

e gli danzarono intorno, cantando le gesta dei loro fratelli, i polpi grossi, il più grande esercito di mare, che in seguito alla campagna del mar di novembre sono da poco riusciti nella straordinaria opera di asciugare sette acri di erba e fango e nella non meno stupenda opera di far crescere altrettante stelle marine nelle settantasette buche del più grande campo da golf di cornovaglia, in puglia. e la cosa più sconcertante è che nulla di tutto questo è mai avvenuto. i gamberi fecero l’inchino, se ne andarono in giro e lasciarono il signorino a non raccapezzarsi molto bene.

nel pesce ci sono sette porte e sette persone davanti ognuna di esse con in mano una carta da gioco, però tonda.
ognuna di queste carte ha al centro una vagina e questa vagina parla al

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[STORIE] SUONATORE D’AUTOBUS

nel pesce ci sono sette porte e sette persone davanti ognuna di esse con in mano una carta da gioco, però tonda.
ognuna di queste carte ha al centro una vagina e questa vagina parla al giovane chiedendogli come sta e come si trova, e se gradisce un caffé.”

giovane chiedendogli come sta e come si trova, e se gradisce un caffé.
finito il discorso si aprono le porte e dalle porte vengono fuori degli intestini confusi con:
felci, coca cola, lexotan scaduto, gli occhiali da vista di gianni letta, gianni letta, dodici preti cattolici intenti a recitare una preghiera islamica al contrario come atto di sfida a quel cubo rosa giallognolo a sfera che sta fermo muovendosi sul collo di tua madre in questo momento
OH MIO DIO SPOSTATI STA PER TRANCIARTI LA TESTA

un pescatore getta un amo, acchiappa un pesce, il pesce vola per aria, il pescatore prova ad afferrarlo, gli finisce in bocca, il pescatore cade a terra gli si spacca il cranio e il pesce esce dal buco sul cranio, il pescatore muore, il pesce striscia in un buco nella terra ed esce dall’altro lato della terra, nel cesso di chicken hut vicino roma termini.
 - oh guardalo! guardalo, amico l’altro! il pesce! 
eccolo che arriva! disse il signor schiacciapensieri 
ma cos’ha in bocca! cos’è! 
- vieni vieni bel pescione! 
- è un bambino, mio dio e quel bambino sono io! 
- che sciocchezze dici signor spezza pietre 
- eppure ti dico che è così amico mio! guardami, guardami non ho più le braccia, guardami guardami, c’è qualcosa di profondo e nuovo e spiacevole nel mio sguardo. cos’avrò conosciuto! quali orrori, e quali miserie! vieni qui, vieni qui fratello mio, lascia questo pesce e vieni qui da me. l’altro afferrò il pesce e lo sbattè sulle pietre roventi della darsena. 
- che fai! non capisco! dove siamo! gridava la figurina. 
- chi sei, chi sei! 
- calma! calma! fecero i due. 
il bambino era alto quanto un indice e stava ritto come un secondo indice che sporge dal palmo della mano e indica il paradiso con la sicurezza di un peccatore.
i capelli erano neri, lucidi, lunghissimi, finivano sott’acqua e non se ne vedeva la fine. i due ragazzi passarono la mattinata intera a tirarli fuori. la figurina del signor cantastorielle li guardava e li ringraziava cortesemente.

- e per ore potrei andare avanti, ho conosciuto cose inimmaginabili! ho incontrato una zingara senza volto che parlava senza parole e veniva dall’inferno fratello mio! ma come fotteva! 
- figurina! piccolo bambino, stà calmo, stà zitto! diceva il giovane spezza silenzi mentre camminava verso casa, nascondendo il suo simulacro nelle pieghe del cappotto. 
- c’era una grotta larga coperta di muschio, dove andavano a ripararsi i cervi nelle notti d’agosto. e le vergini uscivano dalle case fatte di carne umana e li raggiungevano, e facevano con loro cose inenarrabili! 
- e allora perchè insisti a narrarmele, oh me stesso? 
- perchè devo! devi sapere quali gioie si nascondono lontano da quelle due vecchie! il mondo è grande!
- eh
- ma come puoi capirmi? non riesci a vedere che c’è un messaggio nascosto, una voce che ti chiama, un ronzio che ti attraversa il corpo, ed è una canzone, la stessa che suona nel legno degli alberi. è simile al verso di un cane, ma più silenzioso e pure più profumato. è impossibile da spiegare, ma lascia che ti spieghi.. e gli cercava il mento, per accarezzarglielo. 
- sta’ buono. 
- ma tu non puoi andare avanti così! impazzirai! e così giovane poi! è un peccato, converrai con me!
- eh. 
- io ho perfettamente chiaro quello che dico! sempre! non farmi arrabbiare! 
sta’ buono. 
- solo questo sai dire, ragazzo mio. che ne hai fatto dei miei capelli? e dei tuoi? della nostra bellissima lunga chioma, insomma. 
- non ho più intenzione di parlare con te. in ogni caso tu non esisti. [ ]

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