JUST KIDS
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4,50 euro Anno I - n. 04
Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM
[PAOLO BENVEGNU’] [FUZZ ORCHESTRA] [SELTON] [GLI SPORTIVI] [MARIANELLA SCLAVI] [DIEGO CUGIA]
Paolo Benvegnù . Fuzz Orchestra . Selton . Gli Sportivi . Macchie Bianche: Lonnie Holley | Just Before Music . Barsento Mediascape . COMPILATION FREE DOWNLOAD . La Madonna Dell’assedio . Improbabili Genealogie . ** . A Testa Bassa . La Casa Degli Specchi . 15 Minuti Di Inadeguatezza . Matura . Roma Fringe Festival . Diego Cugia . La Grande Bellezza . Il Grande Potente Oz . Dimmi Che Buoni Propositi Hai E Ti Dirò Chi Sei . Marianella Sclavi . L’ho Capito Dall’apostrofo .
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Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.” da “Just Kids”, Patti Smith
JUST KIDS KIDS è una rivista di musica, immagini, poesia, cinema, libri, storie, racconti. Just Kids è una rivista che narra cose. Direttore Editoriale Anurb Botwin - justkids.redazione@gmail.com Responsabile Musica James Cook - justkids.james@gmail.com Responsabile Rubriche Giorgio Calabresi - justkids.rubriche@gmail.com Responsabile distribuzione cartaceo Catherine - justkids.distribuzione@gmail.com Responsabile Promozione Web Valentina - justkids.promozione@gmail.com Website www.webzinejustkids.wordpress.com Facebook facebook.com/justkidswebzine Scrivono Alina Dambrosio, Andrea Barbaglia, Andrea Serafini, Antonio Asquino, Anurb Botwin, Catherine, Claudio Avella, Claudio Delicato, Cristiano Caggiula, Davide Uria, Edoardo Vitale, Francesca Gatti Rodorigo, Franco Culumbu, Gianluca Conte, Giorgio Calabresi, Gaia Caffio, Giulia Blasi, Giuseppe Losapio, Grace of Tree, Graziano De Leo, James Cook, Luca Palladino, Lucia Diomede, Maura Esposito, Nadia Merlo Fiorillo, Paolo Battista, Sabrina Tolve, Thomas Maspes Fotografi Luca Carlino Michele Battilomo Davide Visca Starfooker Cover: Starfooker | Back: Zak Milofsky JUST KIDS
Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538 Mensile, Anno I - n. 03 Direttore responsabile Rocco Perrone Editore Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ) 0975/841077 Stampatore
DM Services S.r.l. Via di Valle Caia Km 9.900 00040 Pomezia (RM)
SOMMARIO
[Musica] INTERviste 06 |paolo benvegnu' di James Cook 16 |fuzz orchestra di Valentina Oliverio 24| SELTON di James Cook 32 | gli sportivi di Alina DAmbrosio 40 | MACCHIE BIANCHE di Grace Of Tree|Lonnie Holley. Just before music [Musica] 42 | attravers(arti) di Lucia Diomede|Barsento Mediascape
di Giulia Blasi|** 54 |sommacco di Luca Palladino|A testa bassa 56 |sommacco di Giorgio Calabresi|La casa degli specchi 57 |sommacco di Francesca Gatti Rodorigo| 15 minuti di inadeguatezza 58 |sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista|Matura [teatro - LIBRI] 60 |l’occhio di Sabrina Tolve |Roma Fringe Festival 62 |lA STANZA (DEGLI OSPITI) di Angelina Lettieri| Intervista a Diego Cugia
47 |COMPILATION streaming/FREE DOWNLOAD
[CINEMA] 64|lo spettatore pagante di Antonio Asquino| Pinocchio | La grande bellezza |Il grande potente Oz
[immaginario] 48|la dimensione eroica del microbo di Maura Esposito|La Madonna dell’assedio 50 |parola immaginata di Davide Uria| Improbabili genealogie 52|punto focale
[STERILITA’ DEL BENPENSARE] 67 |parodia della volonta’ di Edoardo Vitale|Dimmi che buoni propositi hai e ti dirò chi sei 68 |la liberta’ e’ partecipazione di Claudio Avella| Intervista a Marianella Sclavi 74|sexon di Catherine|L’ho capito dall’apostrofo
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Il nuovo spazio, frutto della fusione di spazio fisico e spazio digitale, come hanno dimostrato le varie propaggini di primavera araba, è uno spazio pieno di occasioni, un territorio ibrido, abitato da persone che non rinunciano né allo stare sul territorio, né nelle reti, costituendo un elemento di novità nel dibattito di studio. [ ... ]C’è la presa di coscienza dell’esistenza di questo spazio ibrido e il tentativo di provare a capire cosa vi succede dentro, soprattutto nel suo immaginario artistico, dando per scontato che non c’è più alternatività tra spazio virtuale e spazio reale, ma che la realtà è quella che si crea quando si dà vita a delle interazioni sociali, in qualunque modo esse avvengano. dal report del Barsento Mediascape, pg. 42 di Just Kids #09
editoriale di Anurb Botwin
Il re dell’oro chiede al serpente:
“Che cosa c’è di più stupendo dell’oro?” “La luce” risponde il serpente. Il re allora gli domanda: “Che cosa c’è di più vivificante della luce?” Il serpente risponde: “Il dialogo” Per quanto ne sappiamo, siamo l’unica fra le specie animali a narrare storie. Viviamo per mezzo della narrazione. Le narrazioni cambiano ad ogni stadio della coscienza, ma ciò che rimane costante è il tema centrale della narrazione: comunichiamo l’uno con l’altro e ascoltiamo le storie che ci vengono raccontate perchè cerchiamo la compagnia dell’altro e siamo predisposti all’intimità e all’affetto, alla relazione e alla socialità. La conversazione, scritta o orale, stampata o riprodotta elettronicamente, è il mezzo che abbiamo per esporci agli altri, entrare nella loro realtà e, nel farlo, incorporare parte della loro realtà alla nostra.1
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ust Kids cerca di narrare delle “cose” attraverso la passione di chi ascolta i dischi, di chi va ai concerti e di chi li organizza con entusiasmo ed emozionante dedizione.Ognuno porta avanti, a proprio modo, delle piccole o grandi battaglie culturali per favorire la musica, la sua fruizione e la sua diffusione. Nonostante questo, c’è un fenomeno strano che sta accadendo in questi mesi nel mondo della musica non-mainstream italiana: ci dicono che dobbiamo prenderci responsabilità sulla cultura, che abbiamo dormito, che stiamo dormendo e che ci dobbiamo svegliare perchè abbiamo lasciato che le cose accadessero (vedi pag. 25, Repubblica XL Luglio/Agosto 2013). Sarebbe opportuno sottolineare che, nonostante la percezione di un’asettica morte culturale che ci circonda, esiste anche una enorme quantità di persone che non dormono sonni tranquilli, che hanno delle aspettative per il futuro e che per realizzarle non hanno scelto la strada dell’immobilismo ma si sporcano, si contaminano, si mischiano e non
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La civiltà dell’empatia, Jeremy Rifkin
lasciano che le cose succedano ma le fanno accadere, le fanno nascere e non le subiscono. Affermare il contrario in un manifesto che vuole essere punto di partenza per una nuova svolta culturale italiana, significa sminuire quello che esiste già nonchè ergersi a guru di una banda di falliti. La smania di diffondere l’idea che la nostra generazione sia una banda di falliti, è il primo passo sbagliato per migliorarci. Questi non sono gli anni ‘70 e non serve più cercare una guida portabandiera o qualche simbolo generazionale, nè servono libretti con le regole su come si debba fare una pseudo-rivoluzione culturale. Non sono neanche gli anni ‘80, quando bastavano le cricche per fare gesti politci o eventi d’impatto, nè tantomeno gli anni ‘90, quando ancora non si sapeva bene quali emergenze e disastri sociali avremmo dovuto affrontare. Sono degli anni di merda, diciamocelo. E sappiamo bene quanto sia difficile in Italia districarsi tra poco sostegno alle attività culturali, burocrazia e scarsa percezione del fatto che le attività culturali possono essere parte integrante del nostro sistema economico; ma se è vero questo, è anche vero che gli unici protagonisti del presente siamo noi che lo viviamo. Siamo le uniche persone che possiamo caricarci di idee, metterle in pratica e raccontarle. Sarà di sicuro la collettività a rendere meglio e di più rispetto alla competizione, ma lasciamo da parte gli imbarazzanti ed offensivi manifesti “culturali” oppure, ciò che dovrebbe essere la spinta per guardarsi e guardare oltre, rischia di diventare la solita parata di quel vizio, che sa di vecchio e provinciale, di chiudersi nella propria cerchia ed impegnarsi così tanto a starci dentro da diventare miopi a tutto il faticoso bello che ci circonda. [ ]
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di James Cook
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[Musica] INTERviste
Paolo Benvegnù
è un “artigiano della musica” che con dolcezza e grande sensibilità, da oltre vent’anni, parla di sentimenti che appartengono alla vita di ognuno di noi. L’abbiamo incontrato per voi in una sera d’agosto, prima e dopo un suo concerto a Como. Per noi è stata un’autentica emozione essere lì a condividere il suo mondo fatto di conquiste, ma anche di fragilità, in cui la musica è stata e rimane la sua ancora di salvezza.
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ai iniziato ad occuparti di musica più di 20 anni fa e nel frattempo il mondo musicale è cambiato notevolmente. Come hai vissuto questa evoluzione? Più che un’evoluzione, direi piuttosto un’involuzione, in quanto ho l’impressione che stiamo sempre un po’ girando intorno. Gli strumenti sono quelli, nel campo delle canzoni si parla sempre delle stesse cose: la vita la morte, la presenza l’assenza, l’amore, di cosa devi parlare? Forse vent’anni fa tutto era un po’ più genuino, semplicemente perché, visto che, come gli alberi, come la terra, siamo stratificazione di cose, vent’anni fa c’erano meno strati, ma ha a che vedere con il tempo, non tanto con il talento. Ci sono persone che lo fanno meravigliosamente, altre lo fanno meno bene, ma quello che succede nella musica è ininfluente ai fini dell’umanità. Ritengo che tutti i cambiamenti sociologici e di costume abbiano poco a che vedere con la vera grande importanza di fare qualcosa. Siamo gettati in questo mondo e non sappiamo come cavarcela, io ho trovato la musica come scialuppa ed anche come ancora di salvataggio… Sei nato a Milano e l’hai abbandonata per sfuggire al suo stile di vita. Hai lasciato il lago di Garda anche per allontanarti dalle idee leghiste. Dove vivi ora ti senti in sintonia o mediti qualche altro spostamento, magari all’estero? Penso che i luoghi rappresentino un po’ anche quello che sei tu. Io non mi sono mai trovato per parecchio tempo, perciò il problema era più che altro dentro di me. Credo sia più facile trovarsi in un territorio dove la musica viene considerata
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cultura, piuttosto che business. La differenza tra Siena, Arezzo, Firenze e Milano è anche un po’ questa. Qui la musica viene percepita più come tale, a Milano c’è sempre questa finalizzazione delle cose, anche se non è sempre business. Nel mio caso non ci sono mai riusciti, non per bravura, piuttosto perché non sono in grado di produrre business con quello che faccio – e meno male… Non è una ricerca la mia, non sono
capace di scrivere canzoni gradite da tutti. A dir la verità, è già una sorpresa che qualcosa che faccio piaccia a qualcuno, un privilegio fin troppo grande per me. Sicuramente mi trovo più in sintonia in un territorio in cui le case del popolo sono ancora tessuto connettivo tra giovane e anziano, piuttosto che bar da aperitivi, mi interessa meno…
atri artisti. A parte l’aspetto economico, cosa ti spinge a mettere a disposizione di musicisti, generalmente più giovani di te, la tua esperienza e le tue capacità? Beh, l’aspetto economico un pochino mi da una mano a fare di questa meravigliosa passività una possibilità di sopravvivenza, per quanto molto risicata. Negli anni, quest’attività è diventata un Hai prodotto tanti dischi di privilegio assoluto, arrivato così,
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[Musica] INTERviste
senza pensarci. Normalmente cerco di estendere questo stupore alle persone che sono agli inizi, per certi versi è anche propedeutico. C’è da dire che questo è un lato del mio carattere non prettamente positivo. Chi sono io per dire a qualcuno: “questa è la mia esperienza e anche per te sarà sicuramente così”. Forse può aiutare, però sto ripensando anche a questo aspetto. In realtà, credo che ognuno dovrebbe fare propedeutica per sé. Già mi sembra molto bello se riesco ad essere un componente in più del gruppo. Non so quanto questo andrà avanti, è
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una delle caratteristiche che dovrei togliere dal mio meccanismo di produzione. Comunque di dischi ne ho prodotti tanti in questi anni, anche in situazioni divertenti, incontrando persone magnifiche. Sono stato fortunato, nella maggior parte dei casi ho lavorato con persone molto più brillanti di me. Qual è il tuo rapporto con questa società in cui sembra sia fondamentale essere sempre reperibili? Io coltivo la fantasia di sparizione, come idea della vita. Non mi ci trovo tanto, ma semplicemente perché
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sono un uomo anziano, un uomo del novecento , con altre istanze. Per me la cosa più importante è chiamarsi e trovarsi, noi. La reperibilità mi sembra un’ansia inutile, il mondo gira sempre senza nessun problema, con o senza di noi… Spesso nei tuoi brani si affronta il dolore ma la sensazione è che tu sia un ottimista, qualsiasi cosa succede trovi un motivo per andare avanti. E’ cosi? Leggevo oggi uno scritto del filosofo Karl Jaspers. Lui vedeva
[Musica] INTERviste
Amleto come qualcuno che sa, ma non ha le prove. Un fantasma gli rivela che lo zio ha ucciso il padre e ne ha usurpato il trono, diventando re di Danimarca. La sua reazione, nella quale mi ritrovo è che, per inerzia, lui ricerca la verità, ma quasi involontariamente, solo per il fatto di esistere. La sento mia perché non è un’azione di movimento, ma una scoperta delle piccole verità e delle piccole bugie che appartengono ad ognuno dei personaggi. Però lui è sempre un po’ fermo, io invece sono più attonito, senza peraltro cercare la verità. Forse l’unica sensazione
in cui davvero mi identifico è che un po’ penso di sapere e un po’ di non poter sapere, che non mi sia dato sapere. Guardo le cose per come sono, con grande tranquillità. Perciò anche il dolore è così per me, c’è, si affronta, va via, torna. Il tempo, come un oceano, continua a macinare assenza e presenza del dolore in te, è normale, penso... Ho spesso avuto la sensazione che le scelte fatte nella tua vita siano guidate più dal cuore che dalla ragione. Se in un progetto ci credi lo fai anche gratis, altrimenti nessuna cifra potrebbe convincerti… Quello, ahimè , è un po’ vero. Forse qualche volta avrei dovuto prendere certi treni per stare un po’ meglio. Anche lì, però, è tutto da vedere se poi sarei stato all’altezza di rimanere a bordo , facendone parte realmente. Non so se definirle scelte di cuore, viste nell’ottica di qualche anno fa direi di si, ora comincio a pensare che le mie siano state anche scelte di auto sabotaggio, non tanto per paura, quanto per presunzione. A nulla serve essere intimamente e anche esteriormente colmi di umiltà, se poi nel profondo di noi c’è un narcisismo impressionante. Penso di essere arrivato a questa consapevolezza. Io mi sono auto sabotato un po’ per paura e un po’ per narcisismo. Siamo qui apposta per cercare di capire se questo sia vero oppure no… I tuoi pezzi parlano di sentimenti “senza tempo”, universali. Hai mai sentito il desiderio di scrivere qualcosa strettamente legato all’attualità? No, tanto più ora. Mi sembra che negli ultimi 30 anni, la fine delle
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grandi ideologie abbia determinato un notevole appiattimento culturale. E’ come se il pensiero degli uomini fosse stato un po’ scardinato, diventando molto corto. Poiché io penso senza tempo, non posso fare a meno di esprimere le mie intuizioni in questo modo. Del resto, contemporaneamente, tanto per essere un po’ ambiguo, c’è una frase che mi è sempre piaciuta tantissimo, detta da un ex matematico che era in manicomio: “ho un grande bisogno di essere marginato”. Sentiamo la necessità di avere dei margini perché il nostro pensiero possa essere il più lungo possibile. Non per dominare ciò che ci circonda, semplicemente perché deve essere ad ampio raggio. Mi sembra assurdo parlare solamente di un aspetto delle cose, senza considerarne anche la profondità e l’altezza... Le tue canzoni trasmettono emozioni che acquistano un grande valore, annullando il tempo e le distanze. Scrivi un pezzo oggi e magari tra vent’anni, chissà dove, qualcuno si emoziona... Sei consapevole di questo transfert emotivo? cosa ne pensi? Quando scrivo una canzone devo sentirmi “appartenente a”, non necessariamente a me o ad una mia intuizione, semplicemente qualcosa che, passato attraverso me, acquista un’esistenza al di là di me. Quando succede, ed è la quasi totalità dei casi, ho l’impressione di aver colto qualcosa d’importante, di esserne stato parte. E penso: “che bello!”, ma credo non ci sia differenza con chi ha questo tipo di sensazione costruendo un tavolo, accudendo un figlio, giocando a tennis…
[Musica] INTERviste
Mi stupisco che qualcun altro sia toccato, colpito da qualcosa per cui io faccio da tramite, perché conosco la mia grevità, il mio essere persona di terra. Sono troppo cerebrale per prendermi sul serio. Paradossalmente, un albero potrebbe farlo, quando succhia linfa dalle radici e combatte contro quelle degli altri alberi. La vita di noi uomini, e parlo di me soprattutto, no. E’ bellissimo generare emozioni, da un lato sono felicissimo e lo nascondo in una nicchia, dall’altro devo completamente dimenticarlo. E’ spaventevole ciò che succede nel momento in cui pensi di avere un’importanza, hai finito di fare questa cosa, hai smesso. Non dal punto di vista economico perché anzi, proprio gli intrattenitori hanno questa chiave, ma se tu vuoi farlo come un naufrago, abbandonandoti, perché così è la vita, allora non devi averne consapevolezza.
diventano patrimonio di tutti.
ristretta cerchia di persone, più di questo no. E’ un mio limite, ma Ti sarebbe piaciuto cantarla forse anche una mia attitudine. insieme a Mina, invece di sentire solo la sua voce? Alcuni anni fa hai proposto L’esperienza sarebbe stata una serie di spettacoli fantastica, ma sono convinto che musical-teatrali denominati una canzone debba essere cantata “trilogia dei lavori umili” da una persona sola. (idraulici-marinai-camerieri). Sono più contento che l’abbia Anche quando canti sembra interpretata lei, così come lo sono che rivendichi il tuo essere quando la canto io. Non mi piacciono una “persona normale”, un i duetti, né le collaborazioni, quelle artigiano più che un artista… un po’ appiccicate con il bostik, Ora ti dico una cosa: tutti i comunicati magari anche belle. stampa dei Benvegnù, fin dal primo, Io sono un monaco, riesco a li ho scritti io. Ovviamente molti condividere poche cose con una credevano che fossi un “alfiere
Diverse artiste hanno reinterpretato alcune tue canzoni. Cosa provi ascoltandole e quale ti è piaciuta di più? La prima strofa di “Io e te” cantata da Mina, dove non c’è arrangiamento, mi sembra bella! Mina è una donna che ha vissuto, amato, fatto figli… e questo si sente. E’ stato emozionante per tutto il significato della cosa. Quando mi ha telefonato Benedetta Mazzini mi è venuto un mezzo coccolone: “A mia mamma piace un tuo pezzo”. La cosa mi ha ovviamente sconvolto, ma poi per me è finita lì. In generale, penso che quando qualcuno scrive canzoni, se ha la fortuna che escano dalla sua stanza, non gli appartengono più,
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[Musica] INTERviste
dell’ipersensibilismo europeo, che venisse dall’ipersensibilismo internazionale di Charles F. Brikowsky, dal suo libro ‘Salutami Washington’…”. In realtà, mi inventavo tutto per vedere se i giornalisti controllavano le fonti e diciamo che l’80% non lo faceva. La storia della “trilogia dei lavori umili”, come la “trilogia del tessuto”, è una gran stronzata, inventata per vedere se finalmente qualcuno veniva da me a dirmi: “oh, ma che cazzo stai dicendo?”. In realtà quelle piccole pièces divertenti servivano a metterci fuori dal contesto del palcoscenico,
un rito che ormai ha 70 anni ed aveva forse un senso nel 1965 allo Shea Stadium con i Beatles. Stasera, a Como, è un rituale che ha perso quel significato, come è giusto che sia. L’idea interessante poi era questa: gli spettacoli prendevano strade diverse, ma il finale era sempre quello: il più piccolo di noi, Andrea Franchi, ci uccideva tutti e poi pronunciava la fatidica frase, mangiando pop corn: “non posso sopportare tutto il peso del mondo sulle mie spalle” e finiva strozzato proprio da quei pop corn, idea, secondo me, geniale. Il senso è: perché
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ci lambicchiamo il cervello ogni giorno, di quali ansie ci carichiamo, nel momento in cui, in fondo qualsiasi cosa, anche un pop corn, può distruggere la sua costruzione avvenuta per distruzione degli altri ?!… Sono tre spettacoli e se ne facessi altri, lo giuro, il finale sarà sempre quello. Si può fare musica leggera “profonda”, senza mischiarsi con l’intrattenimento? Credo ci si possa anche divertire ascoltando musica dolcemente profonda. Penso alla trilogia di Italo Calvino, racconti cupissimi,
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[Musica] INTERviste
ma scritti quasi come fiabe. A me piacerebbe un giorno riuscire ad esprimere quel tipo di intuizione, anche se io mi scateno sulla tragedia, sono un eroe tragico in fondo. Una persona che ha unito profondo e leggero in Italia è stato Battiato, “La voce del padrone” è un disco così, con grandi trasversalità. Fatico a trovare altre figure simili, Alessandro Fiori scrive così, mescolando quotidiano, personale e universale. Anche Andrea (Franchi) a volte ci riesce, ma sono espressioni che hanno poca visibilità. Negli ultimi 50-60 anni, da quando è l’occhio che comanda, vince chi ha una grancassa enorme e chi è fisicamente un figurino. Io, tra l’altro ,ho avuto anche delle chance per esserlo, ma, ovviamente, le ho sprecate tutte in carboidrati… Pensi sempre che una grande libertà sia indissolubilmente legata anche ad una grande solitudine? Riferendomi di nuovo a Battiato, non lo conosco personalmente , ma ritengo che la sua sia una grande vita di condivisione solitaria, non molto lontana da quella di un monaco. Credo sia un uomo, al di fuori della sua sfera personale, molto aperto verso gli altri. Io faccio molta più fatica in questo senso, oltre a non potermi paragonare minimamente a lui per conoscenze ed idee. Per me libertà è sinonimo di solitudine e in sè già pone un limite al concetto stesso di libertà. La solitudine intesa come dice Montaigne, vissuta nella torre eburnea, credo sia pericolosa. Per me , significa chiudersi stabilendo il conosciuto e lo sconosciuto, ne scaturisce, così, una lotta di limiti, una sorta di veto infinito a sé
stessi. Libertà è un concetto troppo soluzione di continuità. Quando difficile, io non riesco ancora a canto dal vivo (a volte anche capirlo, perdonatemi… quando sono a casa), mi trasformo in una donna bellissima, è la mia Una delle definizioni che hai essenza. Potenzialmente , io sono dato di Hermann è “colonna una madre pazientissima, ed in sonora di un film mai girato”. quanto tale, suono con persone Sapendo che sei un grande che da un lato accudisco e dalle appassionato di cinema, quali, dall’altro, vengo stimolato. ti piacerebbe scrivere una Le famiglie funzionano soltanto colonna sonora e, potendo perché c’è questo meccanismo di scegliere, quale regista protezione e stimolazione continua vorresti “commentare”? l’uno verso l’altro, in fondo non così Mi piacerebbe, ma non ne sono lontano dalle falangi romane che in grado, sono più un uomo di hanno conquistato il mondo e da parola che di musica. Ho delle quelle spartane che hanno fermato intuizioni, ma minime. Però i persiani alle termopili. lavorerei volentieri con David Lynch, lui ha una dote fantastica A che punto è la scrittura del a mio parere, si lascia molto prossimo disco? guidare dal caos, dal caso. Mentre Abbastanza in alto mare. Ho Herzog è un consapevole, cioè scritto tanti pezzi e ne ho scelti scatena intenzionalmente il caos, 4-5. Faccio fatica , nel tempo si Lynch lo accetta, è un accettante. alza la soglia dell’autocensura. Due figure così importanti con un Delle intuizioni avute fino ad ora, approccio completamente diverso. alcune le ho portate in fondo che Adoro Herzog per quello che dice meglio di così non saprei fare. Non e per come lo dice, ha girato delle opere cinematografiche profondamente sentite e ricreate, non lontano da Tati, per la sua tremenda ricostruzione del vero. Lynch invece si abbandona, in realtà non pensa, non sta rivelando il suo mistero, semplicemente non lo sa. Mi piacerebbe fare qualcosa con lui ma , ovviamente, c’è già Badalamenti che è infinitamente meglio di me. Cosa rappresenta per te il momento del concerto e che rapporto cerchi di instaurare con il pubblico? Sono troppo vergognoso e timido per cercare di instaurare un rapporto con il pubblico, perciò dico qualsiasi stronzata mi passi per la testa, come le luci di certe farmacie dove passano messaggi senza
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[Musica] INTERviste
credo che nella vita di un uomo ce ne possano essere ogni giorno di brillanti, non nella mia almeno. Se considero la mia partenza così greve, vicino al vuoto, fino ad ora ne ho avute già tantissime, sono arrivate cose che sinceramente non mi sarei mai aspettato. Non si tratta ovviamente di successo, perché ci campo a malapena, parlo di una conquista di consapevolezza e da lì ho cominciato a svuotarmi. Adesso, paradossalmente, è come se fossi tornato ad un altro stadio di vuoto, molto più armonico, un vuoto non di esclusione… ma di appartenenza. Il grosso problema per la scrittura del prossimo disco è che, quando arriva questo stadio, c’è talmente un senso di pienezza che non vorresti condividerlo con nessuno. Mi sembra tutto: “questo l’ho già detto” e “questo perché devo dirlo?”. Il problema è che, in tantissimi casi, muore l’energia primigenia e diventa mestiere.
Ho sentito, ad esempio, alcuni degli ultimi pezzi di David Bowie e mi sembrano molto validi, ma il disco è stato pubblicato a dieci anni dal precedente. Il senso è che se io non pubblico un album entro il prossimo anno, scompaio definitivamente, e già non esisto. I Benvegnù, dal punto di vista della micro sopravvivenza quotidiana non esistono. Quindi: scrivo un disco, perché devo scrivere un disco. Negli ultimi tre anni ho messo in fila tutta una serie di intuizioni, secondo me molto importanti, ma che stanno nell’indicibile: come posso spiegare che finalmente dopo 45 anni vissuti in rincorsa, riesco a vedere una giornata senza nessun tipo di ansia, dall’alba al tramonto, e la notte la vivo per com’è, senza tormenti? Potrei dirlo ma non ci riesco, perché sta nella sfera personale. Tornando a David Bowie, ci ha messo dieci anni a fare un disco,
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ha detto delle cose importanti e i pezzi che ho sentito sono bellissimi. Anche se raccontano del quotidiano, dietro hanno tutto un concepire l’esistenza che si sente, pur parlando di una persona. Non bisognerebbe forzare i tempi, ma questo è un momento in cui esisti se fai, non esisti se sei. Perciò, quello che sto cercando io in questo momento, è soprattutto essere, ed ogni tanto fare. Credimi è uno sforzo per me difficile, penso sia un’evoluzione del mio esistere il fatto di non di avere l’urgenza di dire niente, perché tutto è già palese. Lo so, in fondo è bello, ma è solo una frase di una strofa appartenente ad un pezzo. E’ bello ma finisce lì, dura cinque secondi…[ ]
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fuzz orch Valentina Oliverio
C'era una volta, tanti e tanti anni fa, Un paese incantato chiamato Tar. A quel tempo le nostre vecchie città erano intatte, Non avevano ancora collezionato ruderi, Perché la guerra definitiva non era nemmeno incominciata. Quando sopravvenne la grande catastrofe tutte le città scomparvero, ma Tar sopravvisse. Tar sopravvive ancora E se tu saprai come cercarla Prima o poi finirai per raggiungerla. Quando sarai a Tar comprenderai la vita, E sarai gatto, e sarai gatto, Tar E sarai gatto, cane, elefante, E sarai gatto, Tar, elefante, bambino e vecchio. Sarai solo e in compagnia, amante e amato, Amante e amato, amante e amato. Sarai qui e là nello stesso istante E possiederai finalmente il sigillo dei sigilli. Da “Il Paese incantato” di Jodorowsky
hestra E
sistono in Italia gruppi in grado di spostare la lancetta. Di trasformare la dimensione di un live in un’esperienza extra-ordinaria. Di infettare culturalmente e profondamente la loro musica. Caos e pathos. Tutto ciò è
Fuzz Orchestra
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Morire per la patria” ha un titolo che non passa certo inosservato e ha il sapore di una provocazione. Com’è stato pensato il titolo, ma più in generale, com’è stato pensato e concepito l’intero album? Fiè (F): Abbiamo sempre usato titoli “forti” sia per i dischi che per i pezzi. C’è un “fil rouge” che unisce i testi di ogni album. Nel primo [2007] era la storia, nel secondo [Comunicato n° 2 - 2009] la lotta. Il filo conduttore (nei testi come nella grafica) di questo disco è la morte. Nello specifico la morte per il concetto di “patria” nel suo senso più lato. Viene da una frase contenuta nel disco e presa dal film “Uomini contro” di Rosi [1970]. Resistenza, stragismo, il cinema degli anni ‘60/’70: questo è un po’ il filo conduttore dei vostri album. Cosa vi attrae di quel periodo? Luca (L): Ci attrae la vitalità
culturale e politica di quegli anni in Italia. Eravamo un paese molto più avanzato negli anni ‘70 che oggi, secondo noi. Poi i padroni avevano paura ma dagli anni ‘80, invece, spadroneggiano. Come sono stati scelti gli audio samples usati nel disco? F: Gli audio samples usati sono scelti secondo criteri tanto “musicali” quanto “narrativi”. Nell’infinito oceano dei campioni utilizzabili mi son focalizzato - per ora - sul cinema sociale italiano degli anni ‘60 e ‘70. Nell’ultimo disco c’è un’infrazione a questa regola: “Il paese incantato” di Jodorowsky [1968] e tante altre ve ne saranno nel prossimo. Preferisco rubare i campioni audio dalle pellicole meno conosciute di questo o quel regista. Ad esempio ho usato “La proprietà non è più un furto” [1973], capitolo meno noto della trilogia di Elio Petri che comprende “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni JK | 17
sospetto” [1970] e “La classe operaia va in paradiso” [1971]. Una lista dei campioni sarebbe tediosa ma in effetti dovuta: li nominerò qua è là… Nel disco ci sono dei riferimenti alla Bibbia. Lo ritenete un testo guida a prescindere dal peso religioso che inevitabilmente porta in grembo? Secondo voi ha un valore più politico (non nel senso partitico del termine) o un valore strettamente religioso? F: Ho usato alcuni spezzoni de “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini [1964]: Giovanni Battista nella prima parte e Cristo himself nella seconda. Non sono un cultore della Bibbia e sono naturalmente ben consapevole dell’uso politico/ repressivo che ne è stato fatto duranti i secoli - oggi compreso. Pasolini dà un piglio “rivoluzionario” al suo personale Cristo. Ho trovato interessante che Pasolini sia
[Musica] INTERviste
riuscito a mettere in luce la portata “trasmutatrice” di un messaggio spirituale, attualizzandolo alla contemporaneità. Quando ho visto il disco, la cosa che mi ha impressionato oltre al sound, è il numero di etichette impegnate nella coproduzione. Come interpretare questa cosa? L: Direi che abbiamo fatto di necessità virtù. Non trovando un’etichetta che da sola si sobbarcasse produzione e promozione del disco, abbiamo pensato di provare a coinvolgere tutte le etichette di nostra conoscenza. Molte hanno dimostrato volontà di partecipare a questo progetto, ed ecco spiegato l’elevato numero di nomi coinvolti. “Dulce et decorum est pro patria mori”, così recita un verso delle Odi di Orazio. Si può ancora oggi parlare di patria? L’idea di morire per la patria è per voi più vicina all’idea dell’amore o della sottomissione? L: Il concetto di patria presente nel disco ha svariati significati. Uno di questi è la patria intesa come ordinamento della società che prevede che una certa quota di cittadini/sudditi vengano mandati a morire in un’infinità di modi, dalla trincea alla fabbrica, all’avvelenamento della terra e dell’aria “Che mortificazione chiedere a chi ha il potere di riformare il potere” sono parole scritte da Giordano Bruno nel 1600 ma pare che tutto sia ancora molto attuale. Chi è il vostro Giordano Bruno degli anni zero? F: Il film da cui è tratta quella
parte è “Giordano Bruno” di Giuliano Montaldo [1973]. La cosa incredibile di alcuni uomini del passato è il loro sguardo capace di bucare i secoli. Giordano Bruno prima che filosofo, erudito e viaggiatore era un “mago”. Il suo lavoro era perciò rivolto sia all’esterno che all’interno. Non considero nessuno come il mio Giordano Bruno degli anni zero, ma i “maghi” mi son sempre piaciuti. E’ ancora possibile affermare che “la filosofia è la libera ricerca e non il dogma”? La libera circolazione delle idee, di cui il web è pregno, può rientrare nel concetto di dogma anche se all’apparenza, il web, è uno degli strumenti più liberi e democratici che esistono? F: L’amore per la sapienza non può che essere libero da ogni vincolo - soprattutto quelli della propria visione particolare. Tutto il resto è dogma, direbbe quel fascio der Califfo [pace all’anima sua]. Scienza compresa. Ritengo il web uno strumento utile per la possibilità di comunicare istantaneamente con tutto il globo. Come strumento di conoscenza lo considero niente più che un immenso indice. La maggiore quantità di informazioni non corrisponde ad una loro maggiore qualità e senza una visione “critica” alla base ed un ulteriore approfondimento si rischia di credere alle molte stronzate che galleggiano nel mare magnum di internet. Maledetto progresso. “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti
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dall’ordinamento giuridico”. Così recita l’art. 832 del codice civile. Questo può essere vero per la proprietà delle cose materiali ma come vedete la proprietà dei cervelli oggi? Chi se n’è impossessato secondo voi (ammesso che pensiate che qualcuno se ne sia impossessato)? L: Ognuno può tornare ad essere
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Fare musica in Italia pare sia un grande atto di coraggio. Perché in questo Paese non si riesce a rendere, quello del musicista, un lavoro riconosciuto nella sua
completezza e professionalità e non esiste nulla al momento in Italia che lo riconosca, anche in termini giuridici? Secondo voi, la responsabilità di questa mancanza è da attribuirsi ai musicisti stessi o è solo del nostro sistema che toglie sempre più spazio alla cultura? Di solito – almeno in passato, quando la coscienza operaia era più viva di ora – il
diritto al lavoro veniva difeso con mezzi e sedi appropriate, perché nella musica italiana questo non accade? L: Mi pare un po’ vittimista pensare che ci sia qualcuno che “toglie spazio” alla cultura. Di certo il sistema italiano non la favorisce, ma penso che ciò rifletta molto bene la mentalità dominante per cui fare musica è visto come una cosa da ragazzini, un gioco che |ph by Starfooker
padrone del proprio cervello, se veramente lo desidera: dare la responsabilità ad altri è solo un modo per giustificare la propria immobilità.
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verrà abbandonato al momento di “mettere la testa a posto”. Vi definite un mix tra Black Sabbath, Morricone, Revolution nonché un avant heavy rock trio. Cosa vuol dire oggi (permetteteci la semplificazione) fare questa musica in Italia? L: Avant/heavy rock ci sembra una buona definizione e la abbiamo adottata poiché a volte è necessario riassumere brevemente l’essenza di ciò che si è. Ci viene spontaneo essere sonicamente violenti e rumorosi, ci piace così ed è anche un modo che noi riteniamo efficace per far “passare” il nostro messaggio. Avete all’attivo oltre 200 concerti tra Italia, Europa e Stati Uniti. Il vostro rapporto con il pubblico cambia quando siete fuori dall’Italia? L: Mah, non c’è poi grande differenza salvo il fatto che, dato che pochi all’estero capiscono il messaggio che veicoliamo (o meglio, ne colgono l’essenza, ma non il dettaglio), c’è forse una maggiore attenzione per il lato puramente musicale. F: Ormai i concerti fatti dalla Fuzz saranno ben oltre i 500. Ben più di 100 con la nuova formazione in poco più di un anno. Abbiamo perso il conto. Devo riaggiornare la bio. [Mongà non t’incazzare!] Avete già avuto esperienze live negli USA e anche in questo disco ci sono collaborazioni oltreoceano per la realizzazione dello stesso. Dovendo fare un paragone con il fare musica in Italia, cosa direste? L: La differenza principale è, secondo me, proprio l’ambiente diverso che un italiano percepisce immediatamente: lì la musica è considerata una cosa importante, un patrimonio di tutti, e non una cazzata come da noi. Capita di trovarti fianco a fianco in macchina col 50enne che ascolta i Black Sabbath o, come è successo a noi, di partecipare ad una serata in una casa privata con un sacco di gruppi che suonano dal pomeriggio a notte inoltrata e vedere il vicinato che viene a sentire il concerto e bersi una birra. Cosa impensabile da noi, dove il vicino, se si fa vedere, viene sotto palco in canottiera e ciabatte urlando che “c’è gente che lavora” (il 99% dei musicisti italiani sa di cosa parlo).
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“Tuttavia un paese incantato sopravvive”. Come vedete il futuro di questo paese e della Fuzz Orchestra? L: Il futuro del paese è sicuramente nero, direi senza speranze nel lungo periodo, data l’ignoranza sempre più dilagante. Il Paese Incantato è qualcosa che ognuno può trovare dentro di sé, ove ne avverta la necessità, non certo all’esterno e, tanto meno, nella società attuale. All’orizzonte della Fuzz si scorgono concerti ovunque e la voglia di iniziare a pensare al nuovo disco. []
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di James Cook
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a vostra avventura musicale è iniziata a Barcellona, nel famoso Parc Guell, concepito e realizzato da Gaudì, un architetto-artista che ha dimostrato che i sogni si possono pensare, costruire, vivere ed abitare. I Selton hanno portato avanti la sua lezione, dandoci prova che i sogni, se ci credi, si realizzano? Ramiro (R): Si assolutamente, infatti abbiamo avuto la fortuna di iniziare in quel contesto che appunto ha un’atmosfera incredibile. Da lì è nato tutto così, molto naturalmente. Ricardo (Ri): I sogni poi alla fine li costruisci, come
Gaudì, ma c’è tanto lavoro dietro… Siete capitati, quasi per caso, a Milano circa 6 anni fa e ci siete rimasti. Cosa significa essere musicisti, brasiliani, in questa città? R: L’impressione che abbiamo è che, da quando siamo arrivati, la gente vede in noi il sole. Siamo stati accolti molto bene e questa è una cosa bella. Le persone si sono aperte, forse anche per il tipo di progetto che avevamo all’inizio, il fatto di prendere i loro pezzi e interpretarli nella nostra lingua. Questo secondo me ha aperto tanto le porte.. Ri: poi non siamo tipici brasiliani però c’è tanto Brasile
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Selton
I con la loro anima latina e poliglotta, che plana deliziosamente leggera su ogni cosa, si stanno rapidamente conquistando un posto al sole nel nostro panorama musicale, ma con spiccate potenzialità anche verso il mercato internazionale. Li abbiamo incontrati per voi in una torrida domenica d’agosto, prima di un loro concerto al festival di Filago. Ne è nata una conversazione briosa, ironica, intensa e confidenziale dalla quale ne siamo usciti decisamente sorridenti e rinfrescati…
malinconia, alla tristezza, invece è un sentimento molto più ampio. Per noi che siamo via da casa da tanto tempo, alla fine è uno stato d’animo che ci accompagna. Però non solo saudade del Brasile, ma di tante esperienze che abbiamo vissuto anche nella nostra vita a Barcellona. Può essere un sentimento molto positivo, portare dentro sensazioni che a volte ti mancano, però ti fanno anche sorridere. Daniel (D): oltre all’ironia di un brasiliano che fa un disco chiamato saudade, che sarebbe come per un italiano fare un disco intitolato pizza - vale a dire lo stereotipo dello stereotipo - sintetizza molto la nostra ricerca costante di un posto in cui sentirsi veramente a casa. Perché nemmeno quando torniamo in brasile, ormai ci sentiamo così com’era una volta. Tutto quello che abbiamo vissuto in precedenza non c’è più e nasce quindi una sensazione di continuo spaesamento, una in noi. Crediamo che a Milano questo sia percepito in mancanza tradotta un po’ in saudade, ma non in una maniera molto molto positiva. Siamo brasiliani da un senso brutto, anche nel bello di sentirsi sempre straniero. un po’ a Milano e questa è la nostra identità. Il vostro ultimo disco si intitola Saudade, sentimento spesso associato alla malinconia. Voi però non sembrate poi così malinconici, anzi, trasmettete un grande senso di speranza per il futuro. Cosa è per voi la saudade e come si fa a mantenere questa positività in momenti così duri, come quello attuale? R: Abbiamo proprio voluto mostrare un altro sguardo sulla saudade, che viene sempre associata alla
Avete di recente parlato di un particolare concetto di “casa” che vi appartiene. siete sospesi tra due continenti e i diversi luoghi a cui siete legati. Poi però c’è la musica e tutto si sistema… “saudade, o meu remédio é cantar” - giusto? Ri: Si giusto, questa frase è la sintesi di quello appena detto da Daniel. Abbiamo trovato casa nel fare musica assieme, tutto qui!
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Ad un ascolto superficiale può sembrare che facciate musica di puro intrattenimento, leggera e disimpegnata. Andando ad approfondire i contenuti invece non è proprio così. Ci sono storie personali, ma anche interessanti spunti culturali… D: Vero. In Italia c’è una cultura, almeno quella più attuale nel mondo indipendente, in cui, per avere una certa densità artistica, devi fare una cosa triste o comunque di rivolta, in qualche maniera mostrarti un po’ incazzato. Per noi, all’inizio, è stato proprio uno choc cercare di proporre qualcosa vista come musica leggera, che però avesse contenuto. C’è questo pregiudizio per il quale, se non c’è quel certo approccio, non vale nemmeno la pena cercare riferimenti che possano voler dire tanto di più. Però di fatto è una cosa che ci piace molto. Dopo un po’ abbiamo imparato che questa è una sfida molto bella da affrontare. R: con questo disco è la prima volta che cominciamo ad avere il riconoscimento di non essere troppo leggeri perché nel lavoro precedente è stata la critica più frequente. Ricardo: la nostra sfida è, con leggerezza positiva, comunque essere densi. D: Pensa ai i Beatles, erano molto ironici pur rimanendo leggeri. Ed è una cosa molto presente in brasile. Se ascolti tanti testi del samba trovi storie tristissime, però il tutto è abbastanza ballabile, sembra gioioso, quello è anche un nostro modo di proporci. Avendo interpretato i Beatles per tanto tempo ed essendo brasiliani, ci appartiene molto questo paradosso, ritmico e testuale in qualche maniera. Però a volte anche una musica che si abbini a
un tema leggero va bene.
nasce... R: Però la cosa bella di questo disco, in particolare, è che abbiamo fatto veramente quasi tutto il lavoro così, anche se alcuni pezzi a volte arrivavano più pronti. “Across The Sea” è un pezzo che è arrivato praticamente pronto, da Ricardo. Però a livello di arrangiamento poi abbiamo lavorato parecchio. Anche “Piccola sbronza”...questi due pezzi sono quelli che sono arrivati un po’ più impostati, poi però si entra nel mondo degli strumenti da usare, di dove staccare… R: La cosa bella è stata anche nei casi opposti, come “You’re Good” ad esempio, che abbiamo composto proprio insieme. Il ritornello a me e Daniel è uscito una volta, scherzando, poi in sala prove abbiamo inserito il riff in cinque quarti che aveva creato Richi. Ri: avevo mangiato qualcosa che non andava ed ho cominciare a suonare in 5/4 , un ritmo un po’ diverso…
Automaticamente viene da pensare ad un artista a voi affine, Enzo Jannacci, con il quale avete collaborato al vostro arrivo in italia. Scriveva cose molto “toste”, mascherando il tutto con una certa leggerezza D: È vero, quello è stato probabilmente uno dei motivi per cui siamo identificati tanto con lui, col suo lavoro. Ci è sembrata una maniera quasi brasiliana di scrivere, come faceva anche Chico Buarque. Avere una canzone finta leggera però con un testo molto ironico, molto pieno di contenuti. Ri: Se prendi alcuni gruppi attuali, come Vampire Weekend, anche loro hanno un tipo di scrittura simile. magari pongono il testo in modo più particolare e soggettivo, però spuntano fuori una o due frasi a pezzo che dicono tutto… il resto delle parole è irrilevante! una grande capacità di sintesi. Ramiro: Comunque Jannacci era un grande (risata generale che La stavo ascoltando prima e conferma…) pensavo: “è bellissima, questo potrebbe essere un successo Ogni vostro brano è firmato radiofonico mondiale. Ci sono da tutti e quattro, quasi a questi intrecci vocali, questo trasmettere un senso di unità. suono brasiliano con tamburi Come avviene il processo quasi samba…”! compositivo, come scegliete Ri: Lo pensiamo anche noi ma i pezzi? Scrivete veramente non è stato provato in radio non tutti e quattro insieme? è stato ragionato come singolo. D: beh, dipende… il disco Come struttura è un po’ strana, precedente è nato in una maniera, diversa da quello che magari una ma in quest’ultimo è andata un po’ radio mainstream si può aspettare diversamente. Di solito ognuno da un pezzo pop. Ciò non toglie che di noi ha un’idea di una canzone, anche a noi piace molto. Abbiamo la elabora un po’ e poi iniziamo ottimi riscontri anche da tanti a lavorarci o in sala prova o nel musicisti, prima o poi verrà il suo salotto di casa. A volte due di noi momento… iniziano a elaborare un pezzo, Perché alla radio dobbiamo poi magari arriva un terzo che per forza ascoltare sempre le interviene e piano piano la cosa stesse cose?
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D: Tranne radio Lifegate che riesce a passare gruppi leggermente meno standard…Poi c’è il discorso che se vivi in Italia, essendo un musicista, devi per forza cantare in italiano per avere un riscontro. Ri: E’ un equilibrio che stiamo scoprendo. Proviamo a dimostrare all’italia che la nostra identità è più internazionale e vogliamo che il pubblico si abitui a pensarci così. Il primo singolo è stato “piccola sbronza”, fatto insieme a Dente ed è stato la scelta giusta, un pezzo che gira e ci piace moltissimo. A livello di radio ha avuto molto riscontro. Linus a Radio Dj lo mandava un giorno si un giorno no, poi anche altri programmi e tante altre radio, Isoradio, RadioDue, Cuore… Ora proveremo con “Across the Sea”, che sarà il secondo singolo, in inglese e vedremo cosa succederà. Tra di voi regna veramente e costantemente l’armonia. Come avete fatto a trovare l’equilibrio giusto? Non litigate mai? Eduardo (E): no in realtà litigare no. Discutiamo tanto tra di noi e alla fine troviamo sempre il modo di comprenderci, perché siamo amici da prima che il gruppo esistesse. E’ stato del tutto naturale impostare in questo modo i rapporti fra i componenti della band. Sappiamo esattamente cosa uno sa fare meglio dell’altro, quali sono i suoi difetti, le sue qualità, ed agiamo sempre nel rispetto reciproco. Ra: Con il tempo abbiamo capito che la nostra forza fondamentale nasce dall’amicizia e quindi ne abbiamo tanta cura. Siamo molto attenti, se c’è qualcosa che non va ce lo diciamo, si parla sempre.
precedente e si rinnova con “Saudade”. Quanto è stato importante il suo contributo e soprattutto quanto conta l’amicizia, anche nei rapporti professionali? Ri: Non facciamo mai niente allo scopo di farlo. Anche le collaborazioni con Jannacci in primis e poi Cochi e Renato di conseguenza, sono nate per affinità musicali. Il mondo che proponevano era vicino al nostro e da lì ci siamo conosciuti. Dente… va beh, neanche a parlarne: è un amico, punto! Ci ha sempre dato una mano con le traduzioni, ci ha sgridato - in maniera molto carina – per i testi in italiano, ci ha insegnato tanto. Da noi a sua volta ha imparato molto, un po’ anche della nostra cultura musicale. L’abbiamo portato in brasile, ora è molto affascinato da quel mondo: il prossimo disco di Dente sarà tutto samba (risata generale). Così anche con Daniele Silvestri, si è creato un rapporto umano e per noi è quello che rimane, l’affinità e l’amicizia.
La produzione dei vostri due dischi “indipendenti” è stata curata da un nome importante, che ha seguito progetti anche di grande visibilità internazionale: Tommaso Colliva. Com’è andata? Immagino siate soddisfatti, visto che avete ripetuto l’esperienza. D: Si assolutamente. Con lui abbiamo un rapporto che è diventata una profonda amicizia. Sin dall’inizio quando stavamo cambiando casa discografica, prima del disco che è uscito nel 2010, lui è stata la persona che ha creduto nel nostro L’amicizia/collaborazione progetto, sentendo i provini. Fare con Dente nasce con il disco quel disco in italiano è stata un’idea
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sua, i pezzi originariamente erano in portoghese e inglese, c’era un brano soltanto in italiano, “Anima leggera”. Con quel disco ci ha preso per mano e insieme abbiamo deciso la strada da seguire. R: Da lì ha iniziato ad avere un’importanza enorme per noi E: Poi il bello è avere una persona che arriva da fuori con uno sguardo obiettivo e la sua un’opinione in qualche modo diventa importante. Noi ci fidiamo tanto, non è proprio solo uno sguardo in più è parte del processo creativo. Ri: Artisticamente siamo soddisfatti, ci fidiamo, quindi deleghiamo a lui certe responsabilità. D: Quest’ultimo disco è stato fatto molto con i primi provini registrati a casa. Consegnavamo il materiale e lui ci indicava quale direzione prendere, abbiamo lavorato così. Grande parte delle scelte artistiche che aveva in testa erano le cose che stavamo cercando noi. C’è stata molta intesa, pensiamo sia il produttore giusto per la nostra musica. Altre band che leggete pagate Tommaso Colliva: lui vale quanto chiede…(risata generale). Per noi il risultato è stato ottimale e il fatto che lavori con tutte le realtà importanti della scena indipendente italiana penso sia un segnale chiaro. Avete collaborato anche con il libro “The New Rockstar Philosophy”... D: Tommaso Colliva ha fatto la traduzione in Italiano del libro, scritto da due canadesi, uscito lì e poi in Giappone. E’ nata un’amicizia anche con gli autori che sono venuti in Italia ed abbiamo fatto pure una jam session. Ci è stata offerta l’opportunità di collaborare alla versione americana, una riedizione uscita da qualche mese,
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scrivendo parte di un capitolo sul donne mandare curriculum con diecimila. A Barcellona si fermavano crowdfunding. foto! perché avevano voglia di ascoltarci. Quindi tutte e due le situazioni La vostra immagine è Di recente siete stati in Brasile hanno un fascino speciale. L’anno piuttosto scanzonata, ma ho per una tournée (e non è la prossimo speriamo di essere al l’impressione, seguendovi prima volta). Siete più famosi primo maggio a Roma (e il giorno da tempo, di una grande a Porto Alegre o a Milano? prima al Parc Guell - aggiungono organizzazione dove poco è D: A Milano. I concerti che facciamo ridendo, ndr). lasciato al caso, dove le idee a Porto Alegre, essendo cresciuti sono sempre molto chiare. lì ma non vivendoci più, sono pieni Avete collaborato con molti Come funziona l’azienda- di amici che vengono per rivederci. artisti. Chi vi piacerebbe che selton? E’ diventata una sorta di evento vi chiamasse oggi per fare Ri: Abbiamo un’immagine per ritrovarci. Qua c’è più una fan qualcosa insieme? scanzonata? BASTA!!! Bruciamo base vera diciamo. Anche lì sta D: Devendra Banhart, David Byrne, tutto…Siamo un’esercito… crescendo però.. Dirty Projectors, Vampire Weekend, R: In realtà siamo tedeschi (risata Ri: Parlando di Brasile bisogna Arto Lindsay (l’abbiamo già fatto ). generale) prendere come luogo di riferimento Ri: Vampire Weekend per fare il E: Noi abbiamo due lati come San Paolo. Quella è la misura, San tour aprendo i loro concerti non band: uno di musicisti che suonano Paolo è la Milano brasiliana ed è sarebbe male. David Byrne per e si divertono, l’altro quello in cui lì che stiamo investendo. Porto diventare il quinto Selton e per bisogna lavorare, di conseguenza ci Alegre rimane nei nostri cuori, ci produrci. Va beh, l’abbiamo detto! dividiamo i compiti. Questo è un po’ torneremo sempre per suonare, E: Anche Paul Mccartney. Oppure i il nostro lato azienda, cerchiamo di però bisogna puntare su San Paolo Beatles, John Lennon dall’aldilà… gestirci come tale, dividendo tutto e Rio, le due città più importanti. e puntando sull’organizzazione. Otto anni fa siete partiti dal R: Da quel punto di vista abbiamo Avete suonato in contesti Brasile e avete raggiunto imparato tanto da Tommaso Colliva molto diversi, dalle cover questo, vivere di musica a e anche da “The New Rockstar dei Beatles al Parc Guell al Milano. Dove saranno i Selton Philosophy”. Abbiamo letto il libro recente concerto di Roma con fra 8 anni? e lo consigliamo a tutti, perché Daniele Silvestri davanti a R: Thailandia per vivere nel mondo della musica 10.000 persone. Come cambia E: Otto anni sono troppi non so, indipendente, ci sono tantissime l’approccio live? Preferite comunque staremo suonando, da regole nuove da conoscere. esibirvi in versione intima e qualche parte. L’immagine dell’artista che fa acustica o davanti a un folto D: California, California dreaming... solo quello e poi arriva in alto è pubblico? Ri: Sembra difficile dirlo in questo rara. nella maggior parte dei casi R: Tutte e due le esibizioni hanno momento, vista anche la nostra bisogna lavorare come dei pazzi, un fascino incredibile. Suonare storia. Quello che crediamo anche i Beatles lo facevano. davanti a diecimila persone a “Rock succederà è che cercheremo Ri: Se qualcuno guarda al passato, in Roma” è stata un’esperienza di aprirci sempre di più verso il tutti i veri musicisti si sono sempre eccezionale per noi. Però c’erano mondo musicale internazionale. dati da fare. Non hanno solo dei momenti, quando suonavamo Che poi sia il brasile o altre realtà cantato e basta… per strada, in cui si sprigionava non possiamo saperlo ora. Una D: Anche Lady Gaga pensa ai della magia, era bellissimo, la cosa è sicura: i Selton suoneranno! costumi e a tutto il resto. Alla fine vicinanza col pubblico a volte era [ ] occorre un’organizzazione, se non proprio emozionante. Ricardo: hai un’infrastruttura che lavora per In proporzione era un riscontro te occupandosi di queste cose. Lo analogo. Per quel contesto, avere stesso se ce l’hai, devi comunque duecento persone che in un parco dare le dritte... ballavano e cantavano insieme a Ri: Stiamo cercando stagiste, te, era come suonare davanti a
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|ph by Giovanni Dianotti
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GLI SPORTIV [Musica] INTERviste
di Alina Dambrosio
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Anche allo festival l’Italia c’è. In particolare, c’è la Puglia. Il mambo stage è il luogo che più mi fa sentire a casa nonostante i mille chilometri di distanza. In quest’area nostrana, diventata fin da subito punto di riferimento per gli italiani, uno dei live che più mi è piaciuto, oltre quello che ha inaugurato il mio arrivo allo Sziget, è stato quello degli Sportivi. Era la mia prima mattinata allo Sziget, dopo un primo impatto che non è stato dei migliori e le difficoltà di montare una tenda nel pieno della notte. Eravamo parecchi, colazione e pranzo diventavano un’unica cosa, primi incontri, e poi 1...2...3 ed ecco che parte un sound adrenalinico, carica pura, suoni che entrano dentro, altro che caffè doppio per svegliarci! Dopo qualche giorno trascorriamo
Gli Sportivi
un po’ di tempo con (Lorenzo Petri, chitarra e voce e Nicola Zanetti, batteria) che ci raccontano questa avventura szigettiana, tra la meraviglia e la curiosità di questo mondo parallelo. |ph by Michele Battilomo
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C
ome avete vissuto l’esperienza Sziget? Nicola (N): A parte il concerto che è andato bene, quella dello Sziget è un’esperienza assurda, c’è una quantità di musica allucinante. Vivere il festival è come entrare in una realtà parallela, io non ho mai fatto festival così grandi, è la prima volta ed è bello vedere come reagisce la gente in una situazione di follia. È stata una bella esperienza e sono contento che esista ancora gente interessata alla musica. Lorenzo (L): È bello anche dal punto di vista umano, vedi la gente allegra, si diverte, è educata. Non ci sono quelle scene di degrado che rovinano l’atmosfera, almeno per quello che ho visto io. Ci sono tanti palchi, il problema è che ci sono troppe cose e magari ci si ferma a sentire un live di un gruppo più famoso, a discapito di altri gruppi meno conosciuti, però bravi. Sarebbe da vederli tutti.
che magari non riescono ad essere totalizzanti come lo Sziget. Questo è un problema generale del nostro Paese che investe poco sulla cultura. Per quanto riguarda il mondo musicale, quali sono le difficoltà che una band emergente incontra per promuoversi e se queste difficoltà sono superabili. N: Quello del musicista è il lavoro peggiore che si possa fare. Bisogna dedicarci un sacco di tempo, io faccio solo il musicista, ho anche altri progetti. È difficile arrivare a fine mese, ma lo faccio perché penso sia la cosa che mi viene meglio e ne ho bisogno per sentirmi vivo, questo lo paghi. Bisogna tener duro, però sono contento, perché faccio quello che mi piace. Come Sportivi, il nostro obiettivo è arrivare a essere noi stessi come persone, non come prodotto, essere naturali al 100% anche nel modo di suonare. Io penso che il massimo posso darlo così, In Italia ci sono pochi festival che soffrono e penso che le cose più belle siano le cose naturali, pur
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non essendo precise, ma in quanto vive sono vere. È difficile, perché anche in questo mondo i gruppi abbracciano le mode, appaiono in un certo modo per logiche di mercato, si cerca di creare il personaggio dell’artista dannato, a me non interessa. L: Tutti pensano allo stesso modo, hanno gli stessi gusti, invece è bello l’individuo. Noi raccontiamo quello che vediamo intorno, secondo il nostro punto di vista. Se ti crei un’immagine, che non ti appartiene, tutto perde d’intensità, uno se deve dire qualcosa è perché la sente, altrimenti non ha senso.
Quale dovrebbe essere il compito delle band in questo momento storico, dove tutto è così veloce? N: Il mio obiettivo è quello di portare musica buona, guardo la qualità complessiva del prodotto. Penso che ci sia una situazione un po’ di degrado generale della musica, una musica usa e getta, che non rimane ed è un problema generale del prodotto a partire dai suoni, dall’attitudine con cui viene fatto. Spero che si capisca la differenza tra musica usa e getta e musica di qualità, come in qualsiasi forma d’arte. Spero che dal punto di vista istintivo si crei un interesse per la musica vera e no per quella usa e getta. Spero di far capire qual è un suono di batteria vero, che spinge, con le caratteristiche del suono vissuto. Quali sono state le vostre influenze? L: A livello musicale siamo stati influenzati da quei gruppi che hanno fatto la storia del rock and roll (Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Elvis, Doors…), non solo musica anni ’70, anche il grunge degli anni ’90,
La lingua inglese vi aiuta in qualche modo? N: Non credo che la lingua inglese ci aiuti, perché principalmente suoniamo in Italia, questa è la prima data all’estero. L’italiano da noi funziona molto più dell’inglese, noi cantiamo in inglese, semplicemente perché ci piace di più, lo sentiamo più vicino a noi per gli ascolti che abbiamo, alla cultura musicale che ci siamo fatti nel tempo. Sentiamo così il rock and roll, non sentiamo credibile la nostra musica in italiano. Penso alle band che cantano |ph by Michele Battilomo in italiano, come poi è sempre stato nella storia della musica italiana, a quelli che rifacevano i pezzi dei rolling stone, dei beatles in italiano, trovavano il loro spazio, proponevano qualcosa che già esisteva e a livello innovativo, di ricerca, non c’era niente e ciò da noi senza dubbio funziona. In media, nel nostro paese, un testo in italiano emoziona di più. L: In ogni caso non è detto che in italiano si capisca di più il testo, a meno che non si ascolti l’album, però durante il live spesso è difficile la comprensione. I vostri testi hanno un’istanza sociale. Come bilanciate sound e testo? L: Noi diamo precedenza alla musica, ai riff, perché vogliamo innanzitutto comunicare attraverso i suoni. Il testo, però, non viene in un secondo momento, vanno quasi di pari passo. La scelta dei testi in qualche modo sociali è data dall’analisi della vita delle persone che ci circondano, sembra quasi che ognuno abbia un lato nascosto, più o meno mascherabile, però alla fine ognuno ha qualcosa che non va. Il disco, infatti, si chiama Black Sheep, perché chiunque, per quanto possa sembrare “normale” ha sempre qualcosa che è una “pecora nera” dentro di sé, anche se non si vede. Infatti i testi sono improntati più sull’insicurezza, sul voler apparire per essere accettati. È quasi come uno sfogo, quando uno prova disagio ed emarginazione, ha il bisogno di buttar fuori qualcosa.
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[Musica] INTERviste
insomma musica forte, di carattere. Non abbiamo scelto un vero e proprio genere, abbiamo cercato di fare quello che sentivamo. Anche la scelta del duo è stata all’inizio quasi casuale, perché eravamo un trio, poi si è sciolto il gruppo iniziale e siamo rimasti noi due, e quindi è cambiato anche il genere, siamo tornati sulle sonorità un po’ più vecchie e anche il trattare certe tematiche non è stata ragionato, si tratta di ciò che accade sotto i nostri occhi, anche a livello di conoscenze. L’ultima nostra uscita è “Crazy love collection”, sono canzoni d’amore, o meglio ci sono tutte le tematiche legate all’amore: dall’odio, alla rabbia, alla gelosia, quindi tutte le sensazioni dello spirito, le scelte non razionali, legate all’istinto e anche quello è rock and roll.
ascoltato, perché i suoni, che ci piacciono, sono frutto di un’educazione sonora e perciò il suono è analogico, sporco, impreciso, più naturale, meno rigido. Io non sento la mancanza del digitale. Con l’analogico è tutto più difficile, più costoso rispetto al digitale, ci sono mille motivi per cui è conveniente il digitale, bisogna essere malati e scegliere la strada giusta per noi, ma sbagliata per il portafoglio. L: In più registriamo a presa diretta, non c’è la possibilità di rifare, aggiustare. Si registra tutto sul nastro e non si può cambiare più di tanto. Poi si sente nella resa, è più old school, è un ritornare indietro per valorizzare. N: La qualità è a rischio quando si possono fare troppe cose.
La scelta dell’analogico è legata alle vostre influenze musicali o è qualcosa che è venuta da sé? N: In parte è legata alla musica che abbiamo
Cosa vi aspetta dopo lo Sziget? L: Appena torneremo a casa, faremo le prime preregistrazioni dei pezzi nuovi e pensiamo di fare uscire qualcosa per la fine dell’anno. Dobbiamo ancora definire delle cose, però i pezzi ci sono già. Poi vogliamo lavorare sulle tecniche di registrazione (sempre in analogico) per sperimentare, prendere suoni vecchi e vivificarli, spingerli oltre quello che è stato già fatto. Non ci resta che aspettare… []
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Sziget Festival 2013 |ph by Michele Battilomo
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[Musica] MACCHIE BIANCHE
macchie di GraceOfTree
LONNIE HOLLEY Just before music. Vita che si fa miracolo
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’è una Musica che sembra avere più dignità delle altre - se possibile - e lontana dai circuiti della fama, del successo e del marketing. E’ la voce della madre terra. Quella che vorrei raccontarvi oggi è la storia di un uomo e del suo miracolo. Il suo nome è Lonnie Holley – “The Sandman”. Non fatevi ingannare dalla sua voce così “africana”, lui è nato a Birmingham (Alabama), ha 63 anni e la sua storia è come quella di tanti altri, una storia di abbandono ed emarginazione che, partendo proprio dai “rifiuti” in cui è vissuto, ha trovato nell’Arte e nelle sue infinite declinazioni il proprio riscatto. Settimo di 27 figli, Lonnie si è procurato la sopravvivenza grazie alla raccolta e al riciclo di spazzatura fin dai suoi 5 anni, collezionando in seguito i mestieri più umili e ripetuti soggiorni nelle strutture di accoglienza per bambini provenienti dagli orfanotrofi, nell’ attesa dolorosa di essere adottato da altre famiglie. All’età di 14 anni è scappato in Louisiana per poi vagabondare di città in città, finchè la perdita di due sue nipoti in un incendio lo
ha portato sull’orlo del suicidio. Mancando i soldi per garantire una lapide alle due bambine, Lonnie ha deciso di scolpirle con le proprie mani. Una lezione di amore, quindi, e di dignità che Il Cielo deve aver ricompensato permettendogli di affinare la sua tecnica scultorea e la geniale capacità di riassemblare materiali di scarto in vere e proprie opere e installazioni d’arte dall’alto contenuto metaforico. Le sue opere hanno raggiunto una tale risonanza che, nel corso degli anni, sono state esposte in molti musei ed addirittura alla Casa Bianca. La sua più famosa retrospettiva “Do We Think Too Much? I Don’t Think We Can Ever Stop: Lonnie Holley, A Twenty-Five Year Survey” è stata ospite del Museum of Art di Birmingham ed attualmente è possibile ammirarla anche nel suo giardino di casa a Birmingham. Io, in verità, mi fermerei già qui, perchè sazia di Bellezza e di Amore donato a piene mani, e restituito. Troppe cose, però, sono da raccontare ancora e parlano di Vita e di Arte “ripulite” dalla polvere, parlano di Musica che, come le sue sculture, si spoglia di ogni orpello JK | 40
per levigare l’essenza di una vita come la sua, come la nostra, alla ricerca di un senso collettivo. E’ così che nasce il suo primo album, “Just before music”, edito nel 2012 dall’etichetta “Dust to Digital”. Nel momento in cui vi scrivo è in imminente uscita il suo secondo album di nome “Keeping a record of it” (Dust-to-Digital) che si avvale della collaborazione di Bradford Cox (Deerhunter) e del Black Lips’ Cole Alexander, mentre sono già state annunciate le tappe del tour con Bill Callahan. Il nuovo disco è stato registrato in studio mentre il precedente era una produzione decisamente casalinga e, proprio per questo, oggi vorrei guidarvi alla scoperta delle radici della sua musicalità parlando della sua prima opera e rimandando la recensione della prossima a future pubblicazioni sul nostro sito. “Just before music” scorre ipnotico attraverso sette tracce prive di orpelli, essenziali ed avvolgenti, che evocano scenari lontani nel tempo e nello spazio, come se stessimo ascoltando la voce di antenati, la voce millenaria del pianeta e la coscienza che cerchiamo di sopire.
[Musica] MACCHIE BIANCHE
bianche L’intero lavoro, a partire da “Looking for all (All rendered truth)”, è una confessione disarmante dell’artista che svela il segreto della sua ispirazione scavando nel suo intenso mondo interiore attraverso la voce, intima e vibrante, accompagnata solo da una tastiera che distilla suoni magnetici ed onirici. L’intimità di questa atmosfera lascia presto spazio ad un ritmo sempre più incessante e martellante su un tappeto di percussioni tribali che, in “Here I stand Knockin’ at Your Door”, non concedono tregua all’ascoltatore. La dichiarazione di intenti è oramai evidente: gridare la propria verità, bussando fino allo sfinimento alla porta di chi, forse, è troppo stordito dal frastuono moderno per ascoltare davvero. Nei brani che seguono la voce ritorna protagonista, solitaria e profonda, sostenuta dalle note di una tastiera onnipresente e ipnotica. Il suo canto diventa una carezza che schiaffeggia l’anima intorpidita e che, declinando tutte le possibili ottave di una nota pescata nel grembo di un campo di cotone, finisce per avvolgere l’ascoltatore in un suono amniotico e primordiale.
Le storie si ricoprono della tradizione dei propri antenati, di polvere e sudore, di madri bambine sfinite da giornate nei campi sotto il sole cocente, come in “Mama’s little baby” o più strazianti come in “Fifth child bruning”, in cui la follia delle scelte degli adulti ricadono su un’infanzia saccheggiata, come in un refrain del momenti più doloroso della sua vita. L’industralizzazione e la tecnologia, così come il passaggio all’era digitale, sono il leitmotiv del brano “The end of film era”, in cui Lonnie sconfessa l’esistenza dell’uomo moderno, annichilito da una felicità vuota e apparente in cui cellulari e computer sono soltanto utili a coprire la propria solitudine. C’è una verità che urla dall’altra parte del mondo e arriva dritto dai ventri clandestini dei propri fratelli. Lonnie la grida, poi lo sussurra con quella sua voce usata come plastilina, che si dilata, si distorce e si inceppa su una base scheggiata mentre “riciclate” lamine metalliche, distorte e stranianti, ne contaminano l’intenzione. “Earthly things” e “Planet earth and otherwheres” , smorzando sempre più i suoni,
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accompagnano l’ascoltatore verso il finale e lo fanno attraverso le sfumature della sua voce, in grado di creare vere e proprie sculture sonore , scavate e scolpite nello spazio in modo cadenzato e ossessivo fino a far emergere il silenzio. Ma alla fine di tutto, nella verità della polvere, nell’ipocrisia di un mondo sfruttato e piegato all’eccesso del nulla-fatto-bisogno, cosa è in grado di salvare la terra e l’uomo che la abita? Dio è speranza in tutto questo, si chiede Lonnie. “Is hope God?” Questa domanda, urgente di coscienza universale, si fa voce e poi sculture e poi ancora quadri, fino a riempire il giardino della sua e della nostra anima, non trovando una sola risposta ma echi e tornando alla polvere arricchita del sapore di un’esistenza meravigliosa, nella speranza che possa essere lavorata dall’amore di qualcun altro.. perchè la morte non esiste se può diventare parte della vita di qualcun’altro. Il mondo è “opera” nostra.
Grazie Lonnie. []
BARSENTO MEDIASCAPE [spettacoli] attravers(arti)
|ph by Giuliano Mozzillo
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[spettacoli] attravers(arti)
TERRITORY THROUGH ART AND TECHNOLOGY di Lucia Diomede
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atturare e comunicare onde sonore con strumenti digitali per svelare la tipicità di una terra. Scoprirne suoni e rumori distintivi, come quelli delle rocce, dell’acqua e della terra. Il loro utilizzo, la loro trasformazione, l’organizzazione in forme e strutture adatte a custodire la vita umana come le grotte carsiche e i trulli. I suoni e i rumori delle attività produttive che partono dai prodotti della terra e dagli animali che ci vivono. E la tecnologia a servizio del territorio, amplificatrice e moltiplicatrice di possibilità di comunicazione, creazione e intersezione di esperienze. Il territorio stesso diventa medium, mezzo di comunicazione di se stesso e luogo di incontro di idee e dei portatori sani di idee: artisti, artigiani, operatori culturali e lavoratori. Sensibilità artistica, ricerca antropologica e sociologica, promozione del territorio, produzione culturale ed economica. Tutto questo al Sud, per chi sceglie o gli capita di rimanervi, a tessere network in un’ottica glocal, in periferia, dove di tanto in tanto, quasi miracolosamente, si sviluppano oasi di novità. L’effetto è straniante, tale per cui l’occhio indigeno riscopre quel che ha intorno liberandosi del velo della routine. Questo e tanto altro è stato il progetto Barsento Mediascape: Territory through art and technology, un insieme di iniziative dal 17 al 22 Giugno scorso, che comprendevano una residenza per artisti, una conferenza talk di presentazione dell’iniziativa, la Barsento Night (ovvero la serata di presentazione delle opere acustiche prodotte dagli artisti) e una coda a settembre con la produzione di un filmato, clip e materiali fotografici dell’intera iniziativa. Il Barsento Mediascape è stato promosso dal GAL Terra dei Trulli e di Barsento, realizzato con fondi europei, nazionali e locali, con la direzione artistica di Leandro Pisano di Interferenze New
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[spettacoli] attravers(arti)
Arts Festival, con il supporto di Bitzmob e Neural. La Terra dei Trulli e di Barsento è una fetta di territorio pugliese prezioso e generoso, un ridente ritaglio geografico di cui fanno parte i comuni di Alberobello, Castellana Grotte, Gioia del Colle, Noci, Putignano, Sammichele di Bari e Turi, consorziatisi in un Gruppo di Azione Locale per rafforzare le sinergie di promozione del territorio. E dunque il supporto al Barsento Mediascape, per far conoscere il territorio e promuoverlo con la sensibilità artistica e la sperimentazione estetica di Taylor Deupree, AGF, @C ed Enrico Ascoli. Il Barsento Mediascape non è la prima esperienza del genere sviluppata da Leandro Pisano. Infatti, nel talk tenutosi sabato 22 giugno, Pisano ha parlato di Interferenze, il festival che da dieci anni organizza in Irpinia (insieme con Neural, rivista che si occupa da un ventennio di arte digitale) con un’impostazione simile, nato come evento di musica elettronica. Come Interferenze, anche la residenza del Barsento Mediascape si rapporta al territorio, diventa una riflessione sul fatto che quest’ultimo può essere interpretato non come prodotto, ma come medium che con le sue specificità mette in contatto le persone per sperimentare relazioni e connessioni multiculturali. La forma della residenza, secondo Pisano offre un maggiore approfondimento delle connessioni e delle collaborazioni rispetto a quella di durata più limitata del festival, consentendo di estendere l’analisi ad altri campi d’indagine. Dalle trasformazioni che avvengono nel tessuto rurale e dall’ormai consolidata riflessione sul rapporto tra territorio urbano e rurale si arriva ai risvolti connaturati alla rivoluzione di concetti geografici come centro e periferia che i nuovi mezzi digitali stanno operando, e alla crisi degli organismi istituzionali, come lo stato nazione, e all’emergere di altri elementi culturalmente egemonici come le etnie. Anche i territori periferici, nello scenario post digitale, ovvero con una visione critica delle tecnologie, sembra che possano cogliere la loro occasione: i territori abbandonati, quelli in cui sono state dismesse le attività produttive, le aree a margine si offrono in modo privilegiato all’esplorazione attraverso il suono, perché consentono, anzi richiedono, di superare il paradigma oculocentrico, visualistico, per ribaltarlo, per scoprire i lati nascosti che la vista non riesce a carpire. Nell’ottica dello scambio delle migliori pratiche,
l’artista AGF non ha soltanto partecipato alla residenza e prodotto la sua sperimentazione artistica, ma durante il talk ha raccontato il caso virtuoso di cui è stata protagonista nel posto in cui ha scelto di vivere, Hailuoto, un’isola nel golfo di Bothniama, nel Mar Baltico, in Finlandia. L’isola ha poco più di mille abitanti e si pone la questione di attuare politiche che promuovano la permanenza attiva degli abitanti, evitando che si trovino nelle condizioni di dover andare via a cercare lavoro. Sull’esempio dell’esperienza di Pisani con Interferenze, AGF ha messo su progetti di sound art sull’isola, dando vita a residenze di arte contemporanea che prevedevano l’incontro tra artisti locali e internazionali. Poiché nell’isola non succedeva molto altro, le sue iniziative sono state accolte bene dalle persone e dalle autorità locali, e le è stato stanziato un fondo di 250 mila euro (che sembra davvero stratosferico dalle
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[spettacoli] attravers(arti)
nostre parti) per le residenze e la riqualificazione di alcune strutture dismesse da trasformare in ambienti adatti alla produzione acustica. Ha cominciato a lavorare anche con l’unica scuola dell’isola ad un progetto di educazione creativa, per produrre musica con l’iPad, per il quale, insieme con gli alunni, ha creato un’applicazione che consente di comporre e suonare musica, e ha anche dato vita a un’orchestra che utilizza questo strumento. Ha fondato un coro il cui lavoro con la voce è partito dalla riproduzione di suoni provenienti dalla natura. Infine, ha invitato anche curatori internazionali per l’organizzazione di cicli di eventi. Nel suo e in altri casi, l’agire lontano da grandi città, il riqualificare il territorio e l’interscambio tra artisti e territorio hanno riscosso molta attenzione sia da parte della popolazione che da parte delle autorità locali.
Interessante anche la riflessione di Aurelio Cianciotta di Bitzmob e Neural sull’importanza di mettere in rapporto i territori rurali e le culture resistenti locali – resistenti perché caratterizzate da velocità e dinamiche differenti – con gli strati più evoluti della comunicazione, che riescono a farle entrare in un circuito globale. Ci sono studi che mostrano come posti molti distanti tra loro tendano a rassomigliarsi a causa di una serie di dinamiche della globalizzazione, per cui le peculiarità vanno valorizzate in modo che prendano coscienza di sé. Il nuovo spazio, frutto della fusione di spazio fisico e spazio digitale, come hanno dimostrato le varie propaggini di primavera araba, è uno spazio pieno di occasioni, un territorio ibrido, abitato da persone che non rinunciano né allo stare sul territorio, né nelle reti, costituendo un elemento di novità nel dibattito di studio. Secondo Cianciotta, negli artisti del Barsento Mediascape c’è la presa di coscienza dell’esistenza di questo spazio ibrido e il tentativo di provare a capire cosa vi succede dentro, soprattutto nel suo immaginario artistico, dando per scontato che non c’è più alternatività tra spazio virtuale e spazio reale, ma che la realtà è quella che si crea quando si dà vita a delle interazioni sociali, in qualunque modo esse avvengano. [ ]
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TUTTE LE RECENSIONI DI JUST KIDS
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BOBO RONDELLI A famous local singer
C+C MAXIGROS Ruvain
DANIELE CELONA Fiori e demoni
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UMG Ognuno di noi è un pò anticristo
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GIOVANNI TRUPPI Il mondo è come te lo metti in testa
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01. Bobo Rondelli – La marmellata 02. C+C Maxigross – L’attesa di Maicol 03. Daniele Celona – Ninna nanna 04. IlVocifero – Lucyd 05. Black Eyed Dog – I to the sky 06. Umberto Maria Giardini – Oh gioventù 07. Family Portrait - Lontano 08. Mirko Signorile - Magnolia 09. Giovanni Truppi – Ti voglio bene Sabino 10. JoyCut - Drive 11. Luminal – Grande madre Russia www.webzinejustkids.wordpress.com
la dimensione eroica del microbo
[immaginario] la dimensione eroica del microbo
di Maura Esposito
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|pic by Maura Esposito
[immaginario] la dimensione eroica del microbo
La Madonna dell’assedio Per la città dopo l’ultimo assedio, raccolta sotto la luna settembrina vagola testa in tasca e il cuore in cielo.
A battaglia finita, siamo morti di esplosioni mancate. Il loro cuore è estinto. Il mio cuore è spacciato. Una processione di madonne impacciate, indecise se intercedere ancora, hanno perso il sorriso e quello che ci nascondono dietro le belle ragazze, il futuro Anche io sono come una madonna impacciatama ho gli occhi come fiori selvatici e tutto quello che resta da bere.
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[immaginario] Parola immaginata
La mia dimora è una bocca infuocata, ed io ho occhi come ferite aperte che scrutano il mondo, fuori oltre il mare.
improbabili genealogie
Storia, spessa coltre di tempo, di attimi, incontri. Improbabili ma reali genealogie, legami.
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[immaginario] parola immaginata
|pic by Davide Uria
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[immaginario] punto focale
**assione violenta
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Inebriamento sensuale Nella mente Ho sentito suoni Eternamente prolungati Ombre danzanti Riempivano lo spazio Ed ascoltavo il loro respiro Concentrandomi sul silenzio La luce mi ricoprì Con calore materno Passarono istanti senza tempo E perdetti così L’illusoria percezione Per entrare nel regno del vero Spoglia nuda nel deserto Vidi la luna il sole e tutte Le anime incarnate Danzarmi attorno Ed io mi abbandonai All’imminente presenza: Movimento ebbro folle La mia anima Accogli. []
PUNTO FOCALE di Giulia Blasi JK | 52
[immaginario] punto focale
“Aqva-Liquor”, 2013, 146x96cm, Olio e acrilico su tela www.giuliablasiart.blogspot.it
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[immaginario] Sommacco
sOMMACCO
è Luca Palladino, Giorgio Calabresi, Francesca Gatti Rodorigo www.sommacco.wordpress.com
Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.
A TESTA BASSA di Luca Palladino
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i si fa presente che sono un camminatore a testa bassa, un viaggiatore senza bussola, un passeggero diretto al capolinea. Mi si rimprovera che non alzo la testa, che non guardo quello che vi è sopra di me: “hai presente il capitello?”, mi fa. Sono un modello involontario del pensiero in movimento: mentre cammino i pensieri si affastellano dentro la mia capa, la testa mi si riempie di pensieri, più cammino e più si fa pesante, e più si fa pesante più si volge verso il basso. Cammino per le vie di Buenos Aires, così, come potrei camminare per le vie della mia città, soppesando a testa bassa. Come se le conoscessi digià le vie che percorro. Qualcuno potrebbe pensare, guardandomi, che non osservo ciò che passa, e può anche darsi che sia un osservatore perspicace colui che si lascia andare a tal giudizio, tuttavia, anche se il mio sguardo è rivolto verso il basso, le cose si materializzano davanti ai miei occhi all’improvviso, come se strappassero il mio sguardo, come se non decidessi un bel niente su cosa guardare, quando e perché: sono in balia del capitello, è lui che guarda me e non io che guardo lui. Per via di tutte queste apparizioni, mi accorgo di varie realtà. Mi accorgo che qui, come nel resto dei paesi civilizzati, non vedono l’ora che un palazzo vecchio non sia più agibile per avere la possibilità di buttarlo giù e di costruirne un altro di palazzo, non vedono l’ora di
innalzare i loro idoli di cemento, che qui chiamano pesos. Tuttavia, i quattrinai non hanno fatto i conti con il vecchio che resiste alla iettatura (l’anticaglia a Buenos Aires è un feticcio). E resiste, io trovo, perché vi è una squisita aria nostalgica che pervade le vie di questa città: sarà per questo che anche il palazzo più pacchiano di tutti in fin dei conti non è poi così pacchiano, almeno secondo il nostro modello di pacchianità, che è comunque un livello molto basso: il cattivo gusto parla italiano. Deh, per chi lo agogna, è lecito tirare un sospiro di sollievo, e recitare un rosario a norma di legge, in ossequio ai numerosi antiquari che profumano di avanguardia le vie di Buenos Aires, difendendola. Mi accorgo che in città c’è una fila ordinata e silenziosa ad aspettare l’autobus, che sembra di essere a Parigi e non al Sud. Ed è molto strano tutto ciò, soprattutto alla luce di un fatterello che mi è accaduto un paio di minuti fa, quando l’automobilista ha provato in mille modi ad investirmi. Il pedone non è un soggetto rispettato da queste parti, bensì un intralcio. Vado-a-piedi per le vie della Boca, un ex quartiere operaio di Buenos Aires, e, quand’anche disturbato dall’odore offensivo che proviene dalle acque del porto, un episodio si accorge di me: due bambine, appena uscite da scuola, iniziano a litigare tirandosi i capelli con una ferocia così pura che non riesco a chiudere la bocca e a fare nessun passo per cercare di dividerle. Sono due bambine dell’età di 6 anni, circa, che stanno cercando di strapparsi i loro bellissimi capelli lunghi e neri con una caparbietà nel non capitolare che io non ho mai riscontrato in nessun fatto della mia vita. La zuffa termina per l’intervento di una
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[immaginario] sommacco
serie di fattori, non ultimo la stanchezza di darsele di santa ragione, e ciò che più mi stupisce mi ha stupito e mi stupirà è la naturalezza con cui una delle due ragazze, immediatamente dopo la fine della violenta discussione, si lega i capelli e sale sull’autobus come se nulla fosse accaduto. Mi accorgo della Bombonera, lo stadio del Boca Junior. Ci sono sotto e alzo la testa e sembra che all’interno ci sia una partita in corso per quanta passione mi trasmette questo stadio fatiscente. Il fútbol qui è ancora una questione di vita o di morte, è ancora un riscatto dalla vita ingiusta e “puttana”. La cancha, il campo di gioco, è un inganno felice, un incantesimo profondo dal quale non ci si vuole svegliare neanche se lo si sapesse, perché in fondo che cosa c’è di male. Essere de primera, stare in serie A, è una questione di vita o di morte per davvero e non ci sono alternative percorribili che non abbiano a che fare con la taumaturgia. Mi accorgo che la parrilla è la religione di stato e che la propina no está incluida e che se non conosci il chimichurri non sei mai uscito dall’Italia. Mi accorgo che c’è un’altra consuetudine che ricorda Parigi: il caffè fa schifo. Mi accorgo che il mezzo di comunicazione più usato non sono gli sms ma il teatro.
Mi accorgo che chiosco si scrive con la “k” e che calle libertad si è venduta all’oro. Mi accorgo che rovistare nei cassonetti della spazzatura per certuni è un lavoro e per gli occhi dei Porteños una normalità, come un morto ammazzato per la via agli occhi dei napoletani. A volte, a mio avviso, sembra che l’unica cosa importante per l’uomo sia avere un buco dove ficcarcisi. Forse è per questo che le anime sensibili sono sconvolte ogni volta che avvistano un ratto, gli ricordano quanto siamo miseri. Mi accorgo che c’è ancora un’altra consuetudine che ricorda Parigi, il sussidio. Con la seguente differenza sostanziale: mentre a Parigi questa forma d’aiuto alle classi meno abbienti viene definita stato sociale, qui la si definisce politica populista. Mi accorgo che la fugazzeta è una pizza argentina e non italiana. Mi accorgo che la danza cacharera riesce ad essere un ballo sensuale senza che la coppia di ballerini s’incontri fisicamente mai. Mi accorgo che i graffi sui muri, i graffiti, sono fin troppo colorati per i miei gusti. Mi accorgo che el Tute mi fa ridere e che le origini italiane sono mostrate come fanno i reduci di guerra con le loro medaglie, raccontano una brutta avventura. Mi accorgo che… dale, que lo pases lindo! [ ]
|ph by Doug
|ph by XXXX
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[immaginario] Sommacco
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ntrò nella casa degli specchi perchè non sapeva più riflettere. Da qualunque angolo la guardasse la sua vita gli appariva schiacciata in una prospettiva unidimensionale che gli comprimeva il fiato e affannava il respiro. Ci entrò sapendo a cosa andava incontro, era lo stesso rischio che aveva sempre cercato di evitare. Perdere il punto di vista, moltiplicarlo, deformarlo, far perdere le tracce di sè, smettere di cercarsi per dare ad ognuno quello che vuole vedere. Sovraeccitare il senso della vista finchè non sia più in grado di riconoscere o distinguere. Se ripeti una menzogna all’infinito poi diventa vera, una comoda rifrazione di verità di cui nessuno avrà interesse a chiederti conto. Provò ad intercettare il cono di luce che batteva sull’angolo opposto e lo illuminava di taglio con un gioco di sponde e rimandi fino a non sapere più quale di quelle immagini desse origine alle altre. Nella casa degli specchi appare tutto tranne la verità e per lui nessun lusso ebbe mai sapore più dolce di quello. [ ]
LA CASA DEGLI SPECCHI di Giorgio Calabresi
|ph by Paul Keller
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[immaginario] sommacco
15 MINUTI DI INADEGUATEZZA di Francesca Gatti Rodorigo
|ph by Sonia Stella 20.30. Un caffè macchiato e un bicchiere d’acqua ordinati in una terrazza del sedicesimo. Una bottiglia di champagne che viene stappata accompagna la seconda piccola dose di caffeina di un inadeguato risveglio serale. Nelle narici l’odore dell’amido dei colli che si slacciano dopo 10 o più ore imponibili. Il caffè sale sulla mia palpebra sinistra che comincia a vibrare disordinata. Frugo in pensieri di distensione. Penso alle 18 ad Abbesses, al mio decontrarmi mentre Alex si contraeva sopra di me. Ora è anche peggio ed è il caso di accavallare le gambe. Tengo lo sguardo basso sui piedi e mi chiedo perché mai vicino a me ci siano inguardabili tacchi 12 che nel ventesimo costano 14,99 euro e nel sedicesimo 1499 euro. Le braccia mi avanzano e non so dove metterle. Sul boulevard sfilano coppie strette non da abbracci ma da cravatte blu e tubini neri. Forse alla sera, sul divano davanti al televisore spento, parlare non è cosa. Sguardi vuoti e contrazioni nervose di labbra. Triste come la foto di profilo declinata a Wahrol. Come il corso di latinoamericani allo scoccare della
coppia fissa. Come i pinzimoni alle feste in casa, nonostante la casa sia bella. Il mio appuntamento in ritardo di quindici minuti e il caffè centellinato manco fosse altro. Non so come togliermi dall’impaccio dell’attesa di chi smentirà l’accusa, rivoltami da terzi, di non voler nuovi amici oltre ai pochi che ho. So che elencherò i miei interessi aggiungendone un paio a quelli reali. Citerò in ordine l’ultimo libro letto, l’ultimo film visto grazie al prolungamento nelle sale, la mostra del nuovo Turner Prize a cui conto di andare, concerti gratuiti e a pagamento dell’ultimo e del prossimo mese, il nuovo ristorante in cui fanno un incredibile piatto indecifrabile. Ascolterò l’elenco dell’interlocutrice con la stessa attenzione con la quale declamo il mio, impegnandomi a non dormire sulla z di “Prize”, a non muovere il piede al tempo di quell’odiosa musica chill-out che continua a risuonare dagli anni novanta, e a non esprimere giudizi affrettati riguardo a quella confessione inopportunamente spiattellata di “desiderio di maternità che sai, l’orologio biologico dopo i trenta...”. [ ]
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[immaginario] sbevacchiando pessimo vino
SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO di Paolo Battista
MATURA
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evo dire che mi eccitava di brutto vederla maneggiare l’aspirapolvere, nel suo babydoll rosso, le mutandine strette tra le chiappe, la rosa tribale tatuata sul fondoschiena, i capelli neri e ondulati che continuamente disperatamente cercava di lisciare, il piercing al labbro inferiore, ricordo di una
giovinezza ormai passata, e i peli arricciatiti della fica profumati alla vaniglia. Sembrava Cappuccetto Rosso in attesa del Lupo Cattivo! Ed io ero il Lupo Cattivo! Non sapevo resisterle, non volevo, e ogni volta l’afferravo da dietro, le tiravo giù le mutande e iniziavo a leccarle il buco del culo trapanandole l’ano con la lingua; poi
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[immaginario] sbevacchiando pessimo vino
le mordevo le chiappe quel tanto che bastava per provocarle un pizzico di dolore mistico, e infine, con la mazza dura quanto la gamba di un tavolo, la spingevo sul piano della cucina e le ficcavo dentro tutto il mio clamore, schiaffeggiandole le natiche ogni volta che la sentivo gemere. Intanto l’aspirapolvere continuava ad andare, le piaceva giocare alla casalinga annoiata anche se nella vita faceva tutt’altro e a me piaceva quella pornoscenetta che tante notti aveva agitato i miei sogni. “ Mi fai male “ trillava quando senza accorgermene spingevo troppo, ma il suo non era proprio un’avvertimento; era più un invito a darci dentro, ad afferrarle le mammelle cingendola da dietro. “ Spogliami “ sussurrava stringendomi la mazza con entrambe le mani. Lo smalto rosso acceso e il rossetto rosso denso, che metteva anche solo per stare in casa, le davano quell’aria da porca che ha voglia di cose estreme. Ma l’unica cosa che in realtà voleva era una dose abbondante di giovane cazzo!
Era stanca di scoparsi vecchi bacucchi incontrati al parco. Lidia era una donna attraente, e divorziata e isterica e aveva un figlio adolescente a carico. Il suo primo marito, uno stronzo d’avvocato penalista, l’aveva mollata per una donna più giovane, e Lidia, presa dallo sconforto e da una viperina voglia di rivalsa, aveva iniziato a frequentare localini alla moda e concertini jazz pieni di ragazzotti in salute. Era stato proprio ad uno di questi concerti che l’avevo conosciuta e offerto da bere. Si vedeva che era una donna matura, ma a me le donne di una certa età sono sempre piaciute. La cosa strana era che suo figlio quindicenne aveva giusto qualche anno meno di me che all’epoca avevo appena compiuto diciott’anni ( anche se ne dimostravo di più ). La mia prima volta, tre anni prima, era stata con una puttana di strada materna e tettona. Mi ci aveva portato il mio amico Giorgio che dopo aver consumato mi aveva imposto di fare lo stesso. “ Ho pagato anche per te “ mi aveva ghignato riabbottonandosi la patta. A me piacevano le donne vissute, e Lidia, come la puttana tettona, era una gran bella donna, di quelle che ti capitano una sola volta nella vita. Non potevo lasciarmela scappare! Cosa avrebbero pensato gli amici? Il problema però restava suo figlio. Uno scansafatiche dagli occhi neri e le occhiaie come quelle di uno zombi, lo sguardo assente e labbra screpolate. Già una volta il ragazzo ci aveva quasi colto sul fatto, ma ero riuscito a svignarmela nascondendomi nell’armadio. Ma sapevo che un giorno o l’altro ci avrebbe beccati! Solo non potevo sapere quando! Era troppo per me, non potevo pensare anche ai figli delle donne che mi sbattevo. Purtroppo però mentro mi ripetevo che quella doveva essere l’ultima volta che infilavo il mio giovane cazzo nella fica rotta di Lidia, il quindicenne aprì la porta trovandosi davanti un grosso bastone rosa infilato tra le chiappe rosse della sua dolce mammina. Ormai era fatta, dovevo sparire! L’aspirapolvere continuava ad aspirare e i vestiti sparsi per la stanza non facevano che innervosire ancora di più il ragazzo che, preso dallo sconforto e da una sottile rabbia repressa, aveva staccato la spina del ciucciapolvere e aveva urlato: PUTTANA, SEI SOLO UNA PUTTANA! Restai immobile e imbarazzato, col cazzo ancora duro e le macchie di rossetto sulla faccia; poi raccolsi camicia e jeans e uscii per sempre dalla vita troppo complicata di Lidia e di suo figlio. [ ]
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[TEATRO-Libri] L’occhio
L'occhio
ROMA FRINGE FESTIVAL IL MIO MANUALE (D)ISTRUZIONE di Sabrina Tolve
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nestamente, non so se vi siete mai chiesti cosa sia il Fringe Festival. Lo frequento dall’anno scorso. Vago tra i palchi come una spettatrice che non ne ha mai abbastanza, mai. Però, ecco. Credo sia necessario, prima di andare all’osso, fare una breve sinossi sulla sua storia. Necessario perché, ripeto, non è detto che tutti sappiano. Allora spazziamo via un po’ d’ignoranza.
Nel 1947, otto compagnie teatrali scartate dal FEI (il Festival Internazionale di Edimburgo) decidono di andare in scena e autoprodursi, autonomamente e autofinanziandosi, con il pubblico come unico giudice. Il Fringe (frangia, idealmente periferia) nasce come primo festival di teatro indipendente, salvo poi ricevere molti, molti consensi, fino a costituirsi società: il Festival Fringe Society. Dagli anni ‘70, sul modello edimburghese, nascono altri Fringe Festival. Come si può intuire, il perno
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fondante è l’indipendenza artistica della compagnia e degli artisti organizzatori. Come dicevo, precedentemente, il Roma Fringe Festival, nasce l’anno scorso. Villa Mercede diventa, per un mese, un villaggio teatrale. Solo quest’anno ci sono stati 79 spettacoli, per un totale di 230 repliche e, ogni sera, si avvicendavano sui diversi palcoscenici, ben nove spettacoli. Il flusso è stato di 35000 persone circa. Ecco. Tanto basta per farvi avere un’idea. Nel mio vagolare distratto, ho posato gli occhi su uno spettacolo che poi ho saputo aver vinto il Premio della Critica: Manuale (d) istruzione, della compagnia Fatti d’Arte. Una compagnia pugliese (di Bitonto, ad essere precisi) che, con questo spettacolo, aprirà la stagione teatrale 2013 – 2014 del Teatro Studio Uno. Lo spettacolo è diretto da Raffaele Romita, ed è scritto e interpretato da Mariantonia Capriglione. Ho detto spesso che l’arte deve saper interrogare, instillare il dubbio e far riflettere. Ebbene. Questo monologo sa far ridere, sorridere, e piangere in un singulto ritmico che ha il senso proprio della vita: un’altalena spinta a forte velocità. E se il monologo sia autobiografico o no, non deve interessarci. Lo spettacolo è hic et nunc. E sulla scena si incontra Mariantonia: un personaggio (auto)ironico, capace di farci sognare e sorridere, d’un sorriso amaro che lascia tra le labbra il sapore della verità. Una ragazzina. Una ragazzina che vuol fare l’attrice. Che non è bella (o meglio: non è bella per i canoni
a noi imposti), non è magra, ma ha talento. E d’un tratto la ragazzina cresce, il talento cresce, ma non basta. Non si può diventare donne e rincorrere un sogno che ha porte così serrate da non poter essere nemmeno divelte. Cosa si può fare? Diventare come tutte le altre. E, se si è diverse, calpestare se stesse, la propria dignità, il proprio corpo (soprattutto quello) e distruggersi – letteralmente – per un’idea di perfezione che ci è stata inculcata e che noi crediamo tale. Non rimane nulla, se non una carcassa vetusta che non fa il paio con l’idea che si ha di se stesse: un’immagine completamente distorta. L’altalena della tenerezza e dell’autolesionismo è un dondolarsi via, per dirla alla Beckett. Via, per non ritrovarsi. Oppure per posare a terra i calcagni e provare a ritrovarsi e a rinnovarsi, custodendo quello che si è vissuto come una brutta caduta che ci ha permesso di calibrare un volo verso l’alto. Buona la regia, bella, bellissima la colonna sonora, interprete straordinaria, un monologo di quelli ormai troppo rari da essere visti e sentiti. Purtroppo. [ ]
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[TEATRO-Libri] L'occhio
[TEATRO-Libri] L’occhio
INTERVISTA A DIEGO CUGIA Intervista a cura di Angelina Lettieri
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’immaginaria origine del tango argentino, ballo sensuale per eccellenza. Ma anche la storia dei migranti dal Sud Italia al Nuovo Mondo. E pagine di passione, amore e vendetta. Tutto questo è Tango alla fine del mondo il nuovo romanzo denso e pieno di energia di Diego Cugia, presentato a Picerno (PZ) dall’associazione “Leggere e non solo…” nell’ambito della rassegna “Incontri d’autore”. Una serata magica nella splendida cornice della Torre Normanna, sulle note del tango e in compagnia dell’autore
di Jack Folla. I suoi personaggi sono figure indimenticabili, capaci di farsi accompagnare, spiare, incoraggiare o fermare. Insomma uno splendido feuilleton di fine ottocento, in controtendenza con il minimalismo odierno. Diego ha incantato la platea degli ammiratori di Jack Folla con la sua voce calda e sensuale. Abbiamo intervistato un personaggio il cui “ritorno” farebbe bene ai media di massa italiani.
tutto ciò che non abbiamo e a farci assaporare tutte le vite che avremmo voluto vivere. La scrittura e la lettura possono essere considerate un modo alternativo di viaggiare ma il biglietto costa sempre di più, e non parlo del costo dei libri, parlo di quei voletti senz’ali che ti puoi fare su Facebook o guardando la tele. Sono facili ma non ti portano lontano. Ogni libro, all’inizio, costa un po’ di fatica. Ma dopo una trentina di pagine (se il mezzo di trasporto è buono) A quali bisogni rispondono le decolli e non ti fermi più. E quando storie e i libri? A compensare l’hai finito hai davvero scoperto JK | 62
un Nuovo Mondo e sei cresciuto facendo l’autostop con la vita di un altro. Che rapporto ha con le parole? Cosa prova sapendo che le sue emozionano, incoraggiano, spronano e coinvolgono le persone? Le parole possono guarire, le parole possono ferire, le parole “accadono”, perché contengono “un fatto”. Per cui gli slogan politici del tipo “fatti non parole” sono fatti di aria fritta più delle parole stesse. Che rapporto ho con le parole? Di massimo rispetto. Cerco di usarne il meno possibile e il più intensamente che posso. Per coinvolgere bisogna emozionare. Il nostro vocabolario dev’essere costituito di 500 parole emozionanti. E’ opinione condivisa che l’informazione pubblica italiana sia poco in salute, ma quando è cominciata questa malattia? C’è stato uno o più eventi storici determinanti? L’Italia è indipendente da poco più di cento anni. Non ha mai avuto, o quasi, un’informazione davvero indipendente come negli Stati Uniti. I nostri telegiornali, ad esempio, sono proni al potere politico. Non ha importanza se l’uno è più schierato con Tizio per controbilanciare l’altro che simpatizza per Caio. Il servilismo dei nostri Tg è evidente, sia perché dedicano a fatterelli della politica interna oltre metà delle loro edizioni, sia perché il giornalista medio italiano non è in grado di formulare uno straccio di domanda davvero pungente al politico di turno. Quando vedo i colleghi sgomitarsi per avvicinare il loro microfono a labbra inutili che rigurgitano ogni santo giorno una “dichiarazione” pur di apparire alla tv, provo compassione e rabbia.
“Lo dico sinceramente: non considero niente di più feroce della banalissima televisione”. Parole di Pier Paolo Pasolini. La tv è davvero così spietata? Sì, lo è stata soprattutto, perché il danno è fatto. Pasolini l’aveva previsto nei dettagli: la televisione ha disfatto l’Italia, è stata un Risorgimento al contrario. Ma ha avuto anche dei meriti, fino a vent’anni fa ha alfabetizzato una nazione. Poi però l’ha omologata impartendole esempi da caserma, dando notorietà a personaggi che non la meritavano. Quando l’accendo sento anche l’odore di broccoli e di minestrone delle loro anime poco ventilate. Cosa vorrebbe fare in tv oggi? Vorrei che mi avessero chiesto di rifare Alcatraz. Magari per rispondere di “NO”. Mi sembra pazzesco che una piccola trasmissione, che ha fatto battere il cuore, riflettere, appassionare e anche arrabbiare un milione e mezzo di giovani, sia finita come se non fosse accaduto nulla. Che terribile errore. Erano giovani che si rifiutano di guardare la tv o di ascoltare la solita minestrina dei dee-jay. La Rai li ha vinti e ripersi in una mano sola. Come diceva Nanni Moretti, “facciamoci del male”. [ ]
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[LIBRI] LA STANZA(DEGLI OSPITI)
[cinema] lo spettatore pagante
lo spettatore pagante di Antonio Asquino
PINOCCHIO di Enzo D’Alò
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a fantasia al potere nella sua massima espressione di vivacità, colore e leggerezza, questo in poche parole è il “Pinocchio” del grande autore napoletano Enzo D’Alò che riesce a fare una versione convincente ed eccitante del celebre romanzo di formazione scritto da Carlo Collodi nel 1881 e tradotto in tutte le lingue. Una buona parte del merito però va riconosciuto anche a quel disegnatore e fumettista geniale che è Lorenzo Mattotti (già autore di un
bel libro su Pinocchio uscito tempo fa) che ha curato i personaggi e le ambientazioni e ad Umberto Marino che ha collaborato alla sceneggiatura. Nella visione di D’Alò l’attenzione è rivolta verso i rapporti interpersonali tra Geppetto e Pinocchio e il confronto intergenerazionale tra i sogni di entrambi: quelli speranzosi mirati verso il futuro del burattino e quelli al passato con tutti i rimpianti del padre, un discorso sempre attuale. La resa visiva è eccezionale nei suoi rimandi a De Chirico (nelle architetture delle piazze, delle case e anche dei paesaggi), nel suo eccelso lavoro cromatico di stampo favolistico (l’arte pittorica di Mattotti è ai suoi massimi livelli). E’ un lavoro che ha richiesto oltre quattro anni per la realizzazione mentre il progetto iniziale risale addirittura all’anno duemila, ma si può dire che ne è valsa assolutamente la pena per l’equilibrio perfetto che si crea tra semplicità e sperimentazione e che ha portato alla creazione di un’opera d’arte per tutti e per sempre. Questo, dopo il “Pinocchio” di Comencini (che merita la palma del migliore semplicemente per il maggiore approfondimento di tutti gli aspetti della trama e tutti i personaggi ma stiamo parlando, non a caso, di uno sceneggiato televisivo di ben cinque puntate) è la versione più bella e adatta di uno dei romanzi più importanti nella storia della letteratura italiana. Magico e omogeneo, funzionale ed affascinante sotto ogni aspetto. Una menzione speciale la merita la colonna sonora del compianto Lucio Dalla (qui anche nelle vesti di doppiatore del Pescatore Verde) assolutamente efficace nel contrappuntare e sottolineare nel migliore dei modi gli stati d’animo dei personaggi e i loro sentimenti in modo mai noioso e banale. [ ]
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[cinema] lo spettatore pagante
LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino Questa è la trama: In una Roma estiva e di seducente fascino, si muove il brillante giornalista ed ex-scrittore Jep Gambardella, avvezzo alla vita mondana nei palazzi del potere, alle chiacchiere da terrazzino borghese e a rapporti interpersonali superficiali e vuoti cosi’ come tutta la fauna di “nuovi mostri” che lo circonda. Al compimento dei sessantacinque anni comincia a sentire il peso del nulla esistenziale e l’inesorabile e pressante lo scorrere del tempo. Non c’è tanto da girarci attorno, è un film che ha diviso e dividerà critica e pubblico ma questa è una caratteristica comune a tanti grandissimi film, quello che colpisce è che mai come in questa pellicola ogni giudizio è fortemente condizionato dalla cultura personale e cinematografica di chi lo esprime e non può prescindere dalle esperienze di vita di chi ne parla o ne parlerà. o lo ritengo un capolavoro di portata inimmaginabil. Prima di vederlo mi aspettavo un gran film - essendo un estimatore di Sorrentino da sempre - ma non mi aspettavo una tale completezza dal regista napoletano e una capacità cosi’ unica di dipingere una tela così vasta e complessa che mi lasciasse a bocca aperta tuttora. E’ un film totale e definitivo, intelligente nei contenuti e nella messa in scena, bello da vedere e bello da capire e da approfondire, stimola la riflessione come
poche altre cose potrete vedere al cinema in questo e in altri periodi. La regia è creativa e coinvolgente, tra dolly, carrelli e piani mozzafiato le scene memorabili impiegherebbero una pagina intera solo per elencarle, i dialoghi sono killer perfetti e fanno piazza pulita di ogni vezzo d’artista, ignoranza e arroganza borghese e religiosa che avete sentito o sentirete in vita vostra. La sceneggiatura non è improntata solo all’affresco sterile ma all’analisi e all’auto-analisi come solo i grandi registi hanno fatto (direi sanno fare ma quelli attualmente capaci di farlo cosi’ sono pochissimi).Gli attori sono tutti capaci ma questa già è una cosa più scontata cosi’ come è scontato sottolineare il solito montaggio splendido di Sorrentino per non parlare della fotografia. Ma la meraviglia vera di questo film sta nel suo saper abbracciare e mostrare, come solo il cinema migliore sa fare, una gamma così ampia di sentimenti opposti e conflittuali, in modo cosi’ continuo e vorticoso che durante la visione è richiesta la capacità di sentirli, quegli stessi sentimenti, sul momento e velocemente (questo per quelli che quando guardano un film lo apprezzano o meno in base al fattore empatico o all’immedesimazione, cosa che a me succede di rado ad esempio). Dal punto di vista contenutistico si’, come altri hanno giustamente detto, è lo specchio fedele della nostra società attuale (e non solo quella italiana) ma è anche la
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[cinema] lo spettatore pagante
descrizione precisa e impietosa di un “uomo attuale” e di tante parabole discendenti, intime disillusioni, storie che possono collimare con la storia di tutti (cambiando luoghi, vezzi e “vizi”). Ultima postilla, non ho ben chiaro il perché qualcuno vedendo una descrizione di salotti borghesi, feste, la Roma delle terrazze etc.. .ha trovato tanto in comune con “La Dolce Vita”, ad una analisi approfondita è una forzatura superficiale che denota anche scarso impegno, Fellini c’entra ma è quello di “8 e 1/2” piuttosto. Se fosse proprio necessario trovare elementi in
comune con altri registi io citerei anche Greenaway, Bergman, i movimenti di macchina di Mallick, i volti di Cassavetes, le figure di Lynch e il miglior Scola, tanto per citare i primi che mi vengono in mente e Sorrentino, pur riprendendoli, riesce a personalizzare tante influenze e tante storie in modo splendido al punto che se malauguratamente non dovesse più riuscire a realizzare in futuro un film di questo livello, avrebbe comunque già conquistato il posto che merita nella storia del cinema o meglio, nella storia di chi conosce la storia del cinema. [ ]
IL GRANDE POTENTE OZ di Sam Raimi
Sam Raimi con questa pellicola fa un lavoro pregevole dal punto di vista visivo forse un po’ meno dal punto di vista della narrazione, il regista statunitense è bravissimo a giocare con la grafica 3D (soprattutto nella prima parte) e con gli effetti rimanendo fedele alla sua fama di inventore di cinema americano (e si’, anche hollywoodiano) dalla sicura efficacia visiva. La bravura di Raimi e degli animatori grafici è riscontrabile soprattutto nella prima parte in bianco e nero che restituisce bene anche la dimensione storica dell’ambiente che fa da sfondo alla vicenda e, successivamente, fino all’arrivo nel mondo di Oz del protagonista, dove in un vorticoso turbinio di immagini si disvela tutta la magia del luogo e lo spettatore ne rimane colpito, tra soggettive spettacolari, utilizzo sapiente (anche se forse troppo insistito) della motion capture ed esplosioni di colri e forme. Il film si perde un po’ nella seconda parte, forse non tanto negli aspetti visivi quanto a causa di debolezze nella sceneggiatura e nei dialoghi che si attestano comunque su livelli accettabili. Quello che si smarrisce è la presa emotiva e la capacità di coinvolgere il pubblico, malgrado la buona resa di tutti gli attori: le tre sorelle streghe Glinda (Michelle Williams), Theodora (Mila Kunis) e Evanora (Rachel Weisz), il protagonista Oscar Oz (James Franco) e l’assitente/ scimmietta Finley (Zach Braff). La seconda parte risulta leggermente buonista e scontata almeno fino alla sequenza finale dove con il duello decisivo di Oz contro le due streghe cattive il film si risolleva decisamente soprattutto nelle suggestioni visive che sa evocare, grazie all’effettistica e alla
superba tecnica del regista. Un valore aggiunto che è giusto riportare è l’efficacia dei personaggi secondari come, ad esempio, la bambolina di porcellana e i servitori del mago. Tutto sommato è un buon film se si considera che in genere prequel e sequel di film famosi hanno spesso dei problemi di dislivello qualitativo rispetto alle opere che vorrebbero precedere e/o seguire sotto tanti aspetti.In questo caso il pericolo è stato scongiurato, questo film pur con alcuni buchi di sceneggiatura e la scarsa originalità nella caratterizzazione di alcuni personaggi è un viaggio di discreto fascino e buona resa, niente per cui strapparsi i capelli ma godibile e apprezzabile soprattutto dal punto di vista visivo. [ ]
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[sterilita’ del benpensare] parodia della volonta’
parodia della volonta' di Edoardo Vitale @edoardovitale_ www.concimalatesta.it
DIMMI CHE BUONI PROPOSITI HAI E ccoTIcomeDIRO’ CHI SEI stanno le cose: scambierei tutti i Quest’anno oltre ai fedelissimi “comprare un orologio”
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ferragosto che mi restano da vivere per giornate come oggi, in cui il cielo d’estate e il cielo d’autunno sono in lenta osmosi e si spartiscono la giornata. Il disco giusto, le prospettive e le notizie interessanti e tutte quelle sensazioni che solo in giornate come questa possono esserci, in modo che il cuore mi faccia le capriole e anzi sai cosa mi fa il cuore? Mi fa “la ruota”, mi fa! Quella mossa che facevano tutte le ragazzine alle elementari, con vocetta acuta: “tu la sai fare la ruota?”, no che non la so fare la ruota. Ma non perché sono un maschio e non faccio queste cose, no. Perché non la so fare e basta la ruota. Non sapevo neanche fare le capriole sul letto, mi facevano paura. Mia sorella rideva, mi spingeva il culo da dietro per farmi fare la benedetta capriola, ma niente. Ecco come stanno le cose. Naturalmente il vero capodanno cade il primo di settembre, io riconosco solo quello come capodanno. Ed è così bello che non ci sia nessuno a chiedermi quel che abbia fatto a capodanno. Cos’è che ho fatto a capodanno? Ho compilato la lista dei buoni propositi, al solito. Che domande. Non c’è niente di più bello.
e “fare le analisi del sangue”, assidui frequentatori dei miei buoni propositi, ci sono parecchie novità. Però chi se ne frega dei miei buoni propositi. Ci sono alcuni dischi che è bene ascoltare in settembre: Interpol degli Interpol; 23 dei Blonde Redhead; Pink Moon di Nick Drake; Historie de Melody Nelson di Serge Gainsbourg; Berlin di Lou Reed; Write about love dei Belle and Sebastian; If you forget me dei Devics; Andare, camminare, lavorare e altri discorsi di Piero Ciampi. Arrivederci, buon settembre. [ ]
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[sterilita’ del benpensare] liberta’ e’ partecipazione
LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE di Claudio Avella
|ph by CAKTUS&MARIA
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[sterilita’ del benpensare] LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE
Libertà è Partecipazione un’intervista con Marianella Sclavi, una delle massime esperte di Partecipazione e di Ascolto Attivo in Italia, ha insegnato Torna dopo un paio di numeri di assenza su Just Kids. A questo giro vi presento un estratto da
Etnografia Urbana al Politecnico di Milano, è stata visitor scholar al MIT e presso il Program on Negotiation della Harvard Law School. L’ho incontrata alcuni mesi fa a Milano, dopo che le ho proposto l’intervista mi ha regalato il suo libro Confronto Creativo – dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, scritto a quattro mani con Lawrence E. Susskind, professore di Pianificazione urbana e ambientale al MIT e direttore del Program on Negotiation, sul quale ho basato l’intervista. Ci siamo visti a fine luglio nella sua casa a Milano poco prima di partire per le vacanze... Buona lettura!
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a rubrica per cui facciamo l’intervista si chiama “Libertà è partecipazione”. Lei all’inizio del libro cita proprio questa frase di Gaber, dicendo che andrebbe integrata: “La Partecipazione è Confronto Creativo (CC), il Confronto Creativo è Libertà”. Dopo un po’ di righe dice, “ci vuole tempo e ...ci volete voi”. Oggi la partecipazione è spesso invocata: le masse vogliono essere sempre di più coinvolte. Quello che noto è però che c’è molta frustrazione e poca consapevolezza. Il CC è forse un’ancora di salvezza in questo quadro. In cosa consiste il CC? La partecipazione come è stata intesa dalla Rivoluzione Francese in poi, forse anche da quella inglese, è un modo tramite il quale, coloro che hanno il potere consultano la gente chiedendo che opinioni hanno. Formalmente tramite il voto o tramite un’assemblea, un referendum, ecc... Da una parte ci sono delle persone che hanno il potere di decidere e dall’altra delle persone che possono essere consultate, che hanno un’opinione. L’opinione delle
masse è formata dalle opinioni di tanti singoli, le “opinioni grezze”. All’inizio l’assemblea era una cosa assolutamente rivoluzionaria e travolgente perché, chiunque fosse maschio e pagasse le tasse, poteva accedervi, non più solo il nobile. Questa era una cosa assolutamente incredibile. Anche allora era molto frustrante, ma era talmente rivoluzionario rispetto ai parametri precedenti che tutto il resto passava in secondo piano. Oggigiorno l’assemblea è frustrante e basta. Nell’assemblea si è portati a schierarsi: ci sono delle posizioni su un certo argomento e chi parla si colloca più da una parte e chiede agli altri di appoggiare la propria posizione. Non è un contesto che facilita l’invenzione congiunta di nuove idee e proposte. E prima ancora non permette il mutuo apprendimento, cioè il fatto che se io ho la posizione A, e un altro ha la posizione B, posso imparare qualcosa insieme a B. Questo in una società che diventa sempre più interdipendente, dinamica e turbolenta non è più sufficiente, perché la società attuale è in cambiamento continuo e ha bisogno di inventare sempre soluzioni nuove e creative. JK | 69
La prima caratteristica è quella di un contesto in cui tutti i punti di vista emergono. Non ci interessa quale è giusto e quale è sbagliato. Assumiamo che solo conoscendo tutti i punti di vista capiamo meglio di cosa stiamo parlando. Il secondo punto consiste nel comprendere le ragioni di questi punti di vista. L’ascolto diventa attivo: ci si chiede quali sono le esigenze più generali alla base dell’altrui punto di vista. Il terzo punto consiste nella ridefinizione del problema: siamo abituati a ragionare in termini di problem solving, invece nel CC si passa al problem setting. Come definire il problema in modo da accogliere le esigenze di fondo del maggior numero di persone che abbiano parlato. Una volta ridefinito il problema ognuno è impegnato nell’invenzione di nuove soluzioni e nel vedere se vadano bene agli altri, quindi si moltiplicano le opzioni. Solo in seguito, grazie alle nuove conoscenze acquisite, si inventa una soluzione, che di solito effettivamente va bene a più dell’80% - 90% delle persone. Al di là della effettiva bontà della soluzione, che di solito è migliore di quelle di partenza, la gente
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apprezza il processo attraverso il quale è stata presa. È grata del fatto che la propria posizione è stata presa sul serio. Per questo le percentuali di consenso sono altissime. Questo tipo di partecipazione richiede che chi si riunisce non discuta in un contesto assembleare, ma in un’alternanza di momenti di plenaria e di lavoro di piccoli gruppi. Come nell’Open Space Technology (OST)? (dal libro di Marianella Scalvi e Lawrence E. Susskind “Confronto Creativo”: “l’OST nasce nella prima metà degli anni ‘80 dalla costatazione di un antropologo prestato alla consulenza aziendale, Harrison Owen, secondo cui durante i convegni i momenti che le persone considerano più fruttuosi sono quelli del coffee break. (…) Il colpo di genio è consistito nel chiedersi se non fosse possibile organizzare convegni che per il 98% del tempo funzionassero secondo i principi del coffee break e per il 2% secondo quelli più tradizionali”-n.d.r.) L’OST consiste in questo, anche se si tratta di un lavoro fatto soprattutto da piccoli gruppi. Colpisce il fatto che grazie al CC si raggiungano consensi dell’80% 90%, per il fatto che la procedura venga apprezzata. Quanto la bontà della procedura influisce sulla bontà del risultato? Quando dico: “La prima regola dell’Arte di Ascoltare è non aver fretta di arrivare alle conclusioni, le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca” è perché durante un buon processo si creano i presupposti per arrivare a tante conclusioni diverse: se non
ne va bene una, la si cambia. Si crea senso di fiducia e comunanza. Il nodo per affrontare un qualunque problema è il fatto che la gente deve lavorare con creatività e fiducia reciproca. Ci vogliono quindi delle condizioni particolari affinché il CC funzioni? Sì! Ma poi non è semplicissimo. Il fatto di lavorare in piccolo gruppi è importante, ma i gruppi devono essere differenziati al loro interno, perché più i gruppi sono differenziati più la gente è costretta a tirare fuori la creatività. Poi ci vuole allenamento... Se non altro si deve disimparare i modi con i quali si è abituati discutere, che bloccano e mettono ostacoli, invece che favorire a trovare una soluzione. La cosa bella di questi processi è che sono molto strutturati, ci sono delle regole e dei paletti. Un po’ come il jazz, ci sono delle regole all’interno delle quali ci si può muovere in maniera molto libera. Esatto: ci sono delle regole che consentono la creatività. Non è vero che la creatività è il contrario delle regole, Questa è una stupidaggine romantica: romanticismo, genio e sregolatezza, ecc... In realtà già i patafisici avevano scoperto che più regole e ostacoli ti poni più sei costretto ad essere creativo: facevano esercizi tipo scrivere poesie solo con la vocale “a”o un romanzo senza la “e”, ecc... Eppure lei all’inizio del libro dice che il Confronto Parlamentare ha messo in campo sempre più regole per
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poter funzionare. Oggi leggevo l’editoriale di Michele Ainis sul Corriere della Sera in cui si diceva che in Italia ci sono 70.000 leggi. Nel decreto del fare hanno messo un capitolo sulla semplificazione fatto da 90 commi. Perché tutta questa complicazione? L’Italia è uno dei paesi in Europa che decide per leggi. Da noi ogni decisione passa per la strada della legge. Ogni legge ha tantissimi articoli, perché bisogna definire tutto. Nel nostro paese c’è una forte sfiducia nella capacità delle persone di prendere delle decisioni pratiche. Ho appena finito di scrivere un libro sulla scuola. Parlo della scuola finlandese come esempio positivo, essendo stata la migliore al mondo: da un punto di vista degli esiti accademici, non esiste la bocciatura, il costo per allievo è molto basso, ecc. Funziona sulla base del principio che ogni insegnante ha la libertà di insegnare come gli pare. Prima si controllava tutto quello che gli insegnanti facevano, i quali erano non erano responsabili sugli esiti. Gli studenti venivano bocciati, erano infelici, ecc... Ora gli insegnati sono totalmente liberi di lavorare come vogliono, viene promossa la creatività, e gli insegnanti sono i responsabili sugli esiti. Il CC prevede che le regole vengano decise dal gruppo. Nel libro “Arte di Ascoltare e Mondi Possibili”, parla della sua esperienza nelle scuole di Harlem nella quale si prevede che siano insegnanti e studenti a decidere come deve essere portato avanti il sistema educativo. Esiste quindi una
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forma di autogestione. Uno dei fini del CC è quello educativo: ovvero mostrare che esistono metodi alternativi di analisi e risoluzione dei problemi. Esiste la possibilità che in un futuro il CC e l’Ascolto Attivo divengano qualcosa di automatico? Se dici a delle persone “Discutete e datevi delle regole”, sono completamente perse, perché viviamo in una società in cui non ti viene in mente che ci si possa dare delle regole di buona convivenza. Nel libro sul CC nell’appendice c’è un elenco di dodici regole banalissime (non interrompere quando uno parla, ecc...). Ho detto ad un gruppo di docenti di leggere quelle regole e darsene di proprie. Scoprono che ci possono essere delle regole di convivenza e ne sono entusiasti. Regole che non vengono in mente naturalmente. Questo lo si vede anche per quanto riguarda la scuola. Quando le scuole sono in crisi, le classi non funzionano i ragazzi sono infelici, contestano, ecc...viene chiamato lo “specialista”. In Italia sono aumentati gli sportelli degli psicologi. Questo è dovuto all’incapacità di parlare e stabilire un rapporto con le persone. L’insegnante non è abituato a cercare il punto di vista dello studente per cui non riesce a creare dei contesti dialogici. Non riuscendo in questo, è disperato. Si ha la moltiplicazione delle diagnosi: dislessia, disadattamenti emotivi, morale e di apprendimento. Ogni volta che c’è un guaio si mette un’etichetta. Invece che diagnosticare, sarebbe necessario creare un contesto di mutuo apprendimento. Forse
il
problema
nella rigidità del contesto scolastico. Gli studenti sono costretti a seguire delle tappe uguali per tutti. Chi non ha un percorso dritto si perde. Un esempio che riporto nel mio libro è questo: quando insegnavo al Politecnico di Milano io facevo delle “collezioni”. Dicevo agli studenti che dopo un mese avremmo fatto una lezione su un certo argomento e chiedevo a gruppi di due o tre persone di fare una ricerca e di preparare un poster su cosa avessero scoperto su quell’argomento. La lezione cominciava con un giro dei poster guardando le cose che veramente li aveva incuriositi e stupiti sull’argomento. In questo modo venivano fuori cose molto interessanti, cose che spesso non conoscevo neppure io. Poi si instaurava una discussione sulle cose scoperte sull’argomento. Tutti erano coinvolti. Inoltre ognuno aveva trovato il suo ruolo, c’era chi era più bravo con le fotografie, chi con Power Point, ecc...
C’è una sorta di contraddizione. Nella società italiana invochiamo il leader salvifico, ma poi lo vediamo come un nemico da imbrogliare... Il leader salvifico va bene fintantoché dice cose in cui credi anche tu.
Lei fa distinzione tra leader salvifico, leader protettore delle procedure e leader facilitatore. Anche a me capita spesso di appoggiarmi e affidarmi a una persona particolarmente competente con cui collaborare ma che essendo molto capace assume la figura di leader. Esistono situazioni in cui il leader salvifico ha la sua utilità o è sempre necessario avere dei leader facilitatori? “Sempre” è una parola che non funziona mai. Innanzitutto c’è un grande bisogno di leader facilitatori e di cultura della facilitazione. Il leader salvifico di solito è l’altra faccia del senso di impotenza della Si imparava anche la forza del gente: lui è quello che ha le idee gruppo e della diversità... e sa come si risolvono le cose, Quelle erano le lezioni più divertenti indipendentemente da quello che e interessanti per tutti noi. In quel pensi tu. contesto non c’erano persone disadattate, perché ognuno Effettivamente dall’altra trovava il proprio spazio. Il salto parte vedo una sorta di spinta è analogo a quello che citavamo dal basso. Un esempio che mi prima con il CC. è venuto in mente in questi In una società complessa si ha giorni è la legge di iniziativa bisogno che ogni persona metta popolare sull’acqua, che a in gioco la propria esperienza prevedeva una gestione del e il proprio punto di vista sevizio idrico integrato in imparando dagli altri. Questa cosa forma partecipata, cosa che la si dovrebbe imparare a scuola. poi, nonostante il referendum Invece si impara il contrario: la non è stato fatto. Perché solidarietà tra studenti per fregare questa spinta dal basso si il professore, suggerire, copiare spegne pian piano e non viene ecc...che sono cose tipiche della ascoltata? sta società patriarcale. Secondo me perché ogni volta che
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[sterilita’ del benpensare] liberta’ e’ partecipazione
si parla di partecipazione, viene automaticamente intesa come assembleare. Voti di maggioranza, colpi di mano, colpi di maggioranza, ecc...Ci sono decisioni che non si possono prendere a maggioranza. Non funziona. Bisogna potere prima avere una valutazione approfondita delle cose. Ognuno deve mettersi in discussione. Bisogna passare dalle opinioni grezze a opinioni articolate informate. Bisogna garantire questo passaggio, ma il referendum e l’assemblea non lo garantiscono. Sono strumenti di opinioni grezze. Un’altra cosa mi incuriosisce del CC e dell’ascolto attivo, ovvero il fatto che gli antagonisti diventino alleati. Immagino che spesso venga posta l’obiezione che questo si tratta di inciucio. L’inciucio avviene quando persone con posizioni opposte fanno un compromesso al ribasso. Non si trova una soluzione nuova, che trascende le loro posizioni. Di solito hanno una convenienza personale o partitica. Invece la soluzione creativa è un’altra cosa, il cui fondamento sta nel capire le ragioni del nemico. Prendendo l’esempio del TAV: ci sono il “sì TAV” e il “no TAV”, ma ci sono posizioni di tipo argomentato e diverso che non rientrano nel “sì” e “no” netto: il grigio. Se si dà la parola solo a “sì TAV” e “no TAV”, tutte le altre posizioni le vengono già escluse. Parlano solo quelli che hanno già deciso. Che poi non si parlano per niente. Bisogna avere tutte le posizioni, soprattutto quelle che si tenderebbe a escludere, per poi creare un contesto nel quale si ridefinisce insieme il problema. Credo che sia
una legge universale: ogni volta che una situazione di un paese o territorio è creativa, si sviluppa e migliora, coincide con un aumento del dialogo fra i diversi. Tutti i periodi di civiltà, crescita, produzione culturale e artistica, sono i momenti nei quali c’è stata un’apertura verso l’altro. I momenti di decadenza nascono quando ci sono opposizioni che non si parlano più. A quel punto nasce il declino economico, culturale, sociale del paese. Ascolto attivo vuol dire curiosità, esplorazione, scoperta. È relativo al sentirsi benestanti e ricchi. Che poi non è legato alla quantità di soldi. Più manca l’essere benestante e ricco da un punto di vista spirituale e culturale, più si ha bisogno di soldi, per coprire questo buco. Tra l’altro questo discorso si lega ad una petizione fatta da Stefano Boeri, rivolta al ministro dei Beni Culturali, Bray, per liberalizzare la musica dal vivo, sulla falsa riga del Live Music Act inglese, per cui i locali sotto una certa capienza, non hanno bisogno di fare permessi su permessi da fare. Lo scorso 22 luglio c’è stata una conferenza al Teatro Franco Parenti, in cui ci sono stati diversi interventi, tra cui quello del ministro Bray in videoconferenza. La mia riflessione è stata: perché aspettare che sia il ministro a fare una legge da proporre e non scrivere una legge di iniziativa popolare, tramite un processo partecipativo. Vedo nella partecipazione e l’ascolto attivo qualcosa che possa effettivamente innovare anche al fine di scrivere delle leggi che possano funzionare
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sul lungo termine... È una bellissima idea. Riprendo l’esempio della scuola. Le regole di comportamento e che rendono responsabile rispetto all’esito sono diverse dalle leggi. La semplificazione sta proprio nel creare delle sedi di autoresponsabilizzazione ed autogoverno, con strutture e mezzi. In Finlandia questo avviene per chiazze, in tempi lunghi e con singole scuole, territori, distretti scolastici che discutono e decidono se sono disponibili ad aderire a questo modo diverso di concepire l’organizzazione, le finalità, ecc... oppure no. Nella società complessa la scelta di aderire a questa libertà deve essere fatta localmente e spontaneamente, non può essere imposta. Ci vuole grande entusiasmo ed energia per mettersi in gioco. Un sistema che funzioni in modo decentrato, attraverso un federalismo, necessita delle regole diversificate a seconda dei luoghi. Queste regole possono essere basate su un arco di valori comuni che possono essere stabiliti da una direttiva che stabilisce gli obiettivi generali che la scuola deve raggiungere. Poi bisogna lasciare che sia la gente a scoprire come raggiungerli. Si chiama la progettazione in base ai valori, invece che in base agli obiettivi. Questo è quello che accade in Finlandia, ma anche in Inghilterra, per esempio. La gente poi può scegliere di rimanere nel vecchio sistema. Non si butta via qualcosa, semplicemente la si usa in maniera diversa, c’è un ventaglio di possibilità più ampio. In Italia non si è riuscito a fare: è stata stabilita l’autonomia delle scuole e delle regioni, per esempio. Tutto il decentramento è risultato in una
[sterilita’ del benpensare] LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE
maggiore burocratizzazione, ad un livello più basso. Riuscire a fare questo salto è molto difficile, perché bisogna fare valere le nuove regole, che sono quelle di un nuovo sistema di rituali e procedure. Lei parlavo dei valori prima, creare un set di valori sul quale lavorare. Cosa succede quando il conflitto è un conflitto di valori? Mi viene in mente un esempio particolare sul quale dopo tanti anni non mi sono ancora dato una spiegazione: a fine 2006 a Opera, un paese vicino Milano, il sindaco decise di accogliere un gruppo di Rom che era stato sgomberato da un campo abusivo, fintantoché il Comune di Milano non avesse trovato una sistemazione più adatta. Il paese si spaccò in due, le tende della Protezione Civile vennero bruciate la notte stessa in cui vennero montate. Per tre mesi, ma anche di più ci fu guerra aperta tra chi era d’accordo con l’accoglienza di questo gruppo e chi invece era assolutamente contro. Chi aveva atteggiamenti razzisti, non si riconosceva come razzista; chi era favorevole all’accoglienza, faceva un razzismo al contrario, bollando come razzisti chiunque non fosse per la stessa posizione. In questo modo era come non riconoscere l’esistenza dell’altro: come non veniva riconosciuta l’esistenza del Rom, per cui lo si voleva scacciare, dall’altra parte non riconoscevamo l’esistenza di quelle persone che avevano dei timori che lo portavano ad avere certe reazioni. D’altra parte ci deve essere
un’intransigenza nei confronti degli atti razzisti, che devono essere riconosciuti come tali. Come si fa a bilanciare tutte queste cose? Non è facile. Prima cosa, non si può essere tolleranti con gli intolleranti! Dopodiché ci si può fare carico dei problemi e delle ansie di persone le cui posizioni razziste sono il modo in presentano i loro timori. Contemporaneamente bisogna essere molto decisi affinché certe cose non accadano ed assumere allo stesso tempo un atteggiamento ascoltativo, tentando di farli parlare di cose concrete, non ideologiche. Se hanno subito dei furti e sospettano che siano stati i Rom, questo è un problema che va affrontato: si può arrivare a una soluzione se si ha la garanzia che non ci siano furti. All’inizio il facilitatore ascolta tutti e cerca di farsi carico delle preoccupazioni di ognuno. Una volta fatto questo si fa una sintesi in cui vengono esposte le ragioni di tutti, sia delle persone del quartiere, che magari i preoccupano della pulizia, ecc... sia dei Rom, il cui problema magari è la ricerca di lavoro: si chiama valutazione etnografica. Su questa base si chiede se si sia disposti a trovare una soluzione. Non è semplicissimo. Ora sto lavorando con un gruppo a Roma che lavora con i Rom a Tor Sapienza, facendo un esperienza molto bella di dialogo tra gli abitanti del quartiere e due campi Rom di un migliaio di persone. In realtà è molto diverso partire da una situazione come quello di Tor Sapienza, dove non c’è lo scontro fisico. A Roma proveremo a fare anche degli incontri di Public Conversation Project, nei quali dei volontari delle due comunità
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si incontrano e fanno dei dialoghi guidati da dei facilitatori, nei quali si conoscono personalmente, raccontando esperienze della propria vita. Ad una conferenza ad Amsterdam porterò invece come esempio quello della città di Ravenna, nel quale c’è un ufficio del comune che si chiama Città Attiva, appaltato alla cooperativa Villaggio Globale. I membri della cooperativa sono autoformate alla mediazione e alle politiche partecipative. Il primo incarico che è stato dato loro riguarda la zona intorno alla stazione ferroviaria, considerata una zona pericolosa da risanare. Il comune gli ha dato carta libera, chiedendo aggiornamenti sugli esiti. Loro hanno iniziato a coinvolgere tutti ed hanno trovato soluzioni di abbellimento dell’area, hanno aperto un negozio che è diventato la loro sede. Alla fine la stazione è stato verificato da tutti che è molto più vivibile. Il Comune non aveva idea di cosa fare... Adesso loro sono dei dipendenti del Comune. A partire da quello, hanno fatto altri progetti, tutta la parte sulla partecipazione sulla Darsena, progetti con le scuole. Se non si fanno le cose in questo modo, si fa la stessa cosa, ma male: siccome la burocrazia blocca tutto, la gente prende iniziative di tipo clientelare, decidendo fuori dalle norme in maniera non trasparente, non sistematico, non scientifico, se vuoi, propriamente secondo metodi di clientelismo. []
[sterilita’ del benpensare] sex on
sex on di Catherine
’
L’HO CAPITO DALL APOSTROFO #decidodopo #einveceerauncalesse
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[sterilita’ del benpensare] sex on [...] se ti vedo subito non so più nulla dire, ma la lingua si spezza, sottile presto sotto la pelle corre un fuoco, con gli occhi niente più vedo, rombano le orecchie, sopra me si versa sudore, un tremito tutta mi assale, più verde dell’erba divento, e dal morir poco lontana mi sembro. [...] (Saffo, Fr. 31) [...] Ma solo pensare a te. Non è una figura che viene una nitida traccia. È come cadere in un posto con un po’ di dolore. Mio vero tu, mio altro corpo mio corpo fra tutti mio più vicino corpo, mio corpo destino ch’eri fatto per l’incastro con questo mio essere qui in forma di femmina umana. Tu sei sacro al mio cuore. Il mio fuoco brucia da sempre col tuo il mio fiato. [...] (Mariangela Gualtieri, Alcesti)
N
onostante le premesse, questo pezzo non parla d’amore. E va bene che le citazioni in qualche modo dovrebbero avere a che fare con il testo che le succede. E va bene che una volta tanto si potrebbe anche essere meno cinici e più innamorati. Ma facciamo così, io ci ho provato. Perlomeno introducendo con romanticismo il ritorno di una Catherine che, dopo un breve periodo di apparente morbidezza d’intenti e sentimenti, ha il buonissimo proposito di lucidare la sua tazza rossa. Certo, anche i buonissimi propositi inevitabilmente sono come le premesse, può capitare non ci azzecchino niente con la storia che viene dopo. Una volta mi hanno detto: “se hai fame potrebbe essere che invece hai solo sete“. Ora, tralasciando il fatto che la fonte di questa perla è una delle donne emotivamente squilibrate che mi circondano, equiparerò la frase a un concetto ispirato da un’altra di quelle donne: “se hai mal d’amore potrebbe essere che invece hai solo fame, oppure è mancanza di sonno”. Nei casi di inspiegabile
irrequietezza e nostalgia di non so cosa, dunque, prima di sprecare ulteriori energie in bilanci della propria situazione affettiva o compiere azioni estreme fomentate da eventuale pre-ciclo, il suggerimento è propendere per un pasto calorico e poi andare a dormire. Possibilmente un pasto che comprenda proteine e patatine, possibilmente andare a dormire insieme a qualcuno che di quell’amore che provoca un male presunto restituisca il temporaneo piacere. Quello che conta, cioè. Ci sono periodi in cui la sensazione è quella di non esserci ancora arrivati, di non riuscire a stare fermi né con il corpo né con i pensieri, di essere sazi eppure ancora affamati. Direi che è una cosa simile all’inquietudine, ma inquietudine è una parola troppo negativamente schierata. Sentirsi inquieti, ecco, che è un po’ diverso e ci può stare. Non è tristezza, non è malinconia, non è noia. Forse somiglia all’insoddisfazione cronica, ma non ancora giunta a un livello incurabile. Consiste essenzialmente in un alternarsi di euforiche sensazioni nei confronti di
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[sterilita’ del benpensare] sex on
qualsiasi evento, uomo, gatto, occhiale da sole della nostra vita e nichilistici momenti di odio antropologico che svuotano di significato le persone, gli animali e gli oggetti della lista di cui sopra. Nessun cambiamento apparente, eppure prospettiva repentinamente capovolta. Si sa, gli oggetti dell’amore e dell’odio sono ossimoricamente soggettivi. Anche se non sono certa si possa dire “ossimoricamente”, e d’altra parte azzardare erudizione e neologismi in un contesto in cui si parla di questioni futili è un ossimoro a sua volta. Ho detto questioni futili? Essere immotivatamente divisi in due in quanto a intenzioni e desideri è una questione futile? Non so, lo abbiamo chiamato bipolarismo in passato, ma credo che il concetto sia a questo punto superato. Non si tratta di personalità diverse che vogliono cose diverse, ma della medesima persona che cambia troppo spesso idea. Perché non sa decidere, perché le scelte presuppongono costanza e danno l’impressione opprimente della finitezza. Eppure non si può sempre scegliere una fila e poi continuare a fare zig zag perché la fila accanto sembra quella più veloce. Cioè si può, ma non è sano. Induce stress per se stessi e inoltre la gente, ovviamente, s’incazza. Ci sono poi anche i casi in cui la strada non si cambia ma si perde, per distrazione, scarsa volontà, recidività a memorizzare nomi, cose e città. A meno ché non sia necessario dimenticarli, in quelle occasioni si ricordano sempre benissimo. L’alternativa sarebbe non considerare le alternative. Imparare a osservare il soffitto, quietarsi e vivere quello che c’è senza chiedersi cosa potrebbe esserci di meglio e senza paura che poi non ci sia più. Alternativa alquanto utopica quando si parla di persone ispirate dal dramma, dai punti di domanda e dal vivere piuttosto che sopravvivere. Dunque, tenersi la smania di fare e l’agitazione infondata forse è l’unica soluzione pratica. E vai così, come di consueto sono riuscita a dire tutto senza dire niente. Allora cos’è? Cos’è che manca quando sembra che proprio tutto sia dove dovrebbe essere? Secondo voi lo so? Vi aspettate davvero stia arrivando una risposta concisa per una domanda tanto assillante quanto generalizzata? E io invece? Mi aspetto davvero che adesso qualcuno risponda a una domanda retorica rivolta essenzialmente a uno schermo luminoso, mentre in questa stanza ci siamo solo io e un riso in bianco che bolle in pentola? Potrebbe essere colpa
del caldo che altera la percezione del bene e del male, oppure potrebbe essere che veramente quello che manca sia proprio una manciata d’amore. O forse no, ma magari sì. Ipotizziamo. Potrebbe essere che il senso di irrisolto si risolverebbe se tra 15 minuti l’appuntamento non fosse con un riso che scuoce ma piuttosto con l’ometto caruccio incontrato ieri sera al ristorante. Che sarebbe potuto essere un’interessante occasione se solo l’occhio non fosse caduto, come tutte le volte, sulle scarpe. Tutte le volte, inadatte. In effetti indugiare nello screening dei particolari non graditi che consideriamo rivelatori di significative verità, non sempre è cosa buona e giusta. Soprattutto se si pensa che raramente una grande verità può celarsi semplicemente dietro una barba poco curata o al contrario curata benissimo. Per quanto riguarda le scarpe però è diverso, le scarpe sanno, le scarpe dicono. Le scarpe sono. Esiste comunque l’aspetto positivo di una selezione
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[sterilita’ del benpensare] sex on
mediamente severa, è l’effetto deterrente che tutela dal frequentare con sessuali conseguenze una quantità spropositata di uomini al mese. Quando non si è accompagnati da qualcuno in maniera relativamente stabile e definita, può capitare infatti di collezionare (lecitamente) primi appuntamenti come se non ci fosse un domani. Un po’ per gioco, un po’ per mantenere alti i livelli di dopamina (su questo punto ci ritornerò... forse), un po’ perché sparando a caso nel mucchio non si sa mai, si potrebbe pure centrare il famosissimo accompagnatore relativamente stabile e definito. Non che si stia spasmodicamente cercando qualcosa, ma un’emozione così lacerante da non vedere più niente e nessuno, che restituisca la speranza in questo clima di disagio intellettuale e relazionale, potrebbe rivelarsi gradita. Restiamo sempre e comunque vagine che pensano, anche quando tutti gli indizi utili portano a pensare che di pensato ci sia veramente poco. Di questi tempi fare
amicizia è estremamente semplice e può succedere che qualcuno meriti di offrirci da bere anche solo per essere stato carino e gentile. Può anche succedere di premiare l’impegno con qualche bacio di troppo non troppo sincero, a volte. Rigorosamente seguito dalla tecnica del silenzio. Tuttavia, per quanto sia stato improbabile l’incontro sperimentato, per quanto si intuisca benissimo fin dall’inizio che l’approccio sarà circoscritto nello spazio temporale e concettuale di un aperitivo, per quanto le condizioni generali, le reciproche coordinate geografiche o i rispettivi anni di nascita siano assolutamente contrari alla logica, niente è quasi mai lasciato in balia dei soli ormoni. Qualsiasi sensazione, parola, azione si confonde per poi riemergere da quella fittissima e incasinatissima rete neuronale che dal basso ventre arriva su al cervello, in tutto il suo indistricabile splendore. In questa prospettiva, perché faticare tanto per distinguere tra amore, sesso, emozioni, voglia di dolcezza, voglia di divertirsi, voglia di condivisione? Perché affannarsi a discernere tra piacere fisico, cuore e mente se stiamo parlando di aspetti indissolubilmente intersecati fra loro che riguardano un’unica, seppure plurima, persona? Eccoci, arrivati al picco massimo della curva di suspense purtroppo deve arrivare puntuale il mio STOP! Temo di essermi incartata, la storia del legame viscerale tra mente e vagina sarebbe affascinante da approfondire, ma rischio di iniziare un monologo senza via d’uscita che poi sarebbe il tentativo di spiegare a me stessa cosa sto dicendo. Mi devo censurare, assolutamente non per motivi di scabrosità dei contenuti, ma per pericolo di autoreferenzialità estrema. Proverò almeno a semplificare il mio delirio affermando che sentirsi innamorati equivale a un perenne post orgasmo che induce a desiderare qualcuno in attesa dell’orgasmo successivo. Per dirla in termini meno fisici, sentirsi innamorati equivale a un post orgasmo che a sua volta equivale a uno stato di estasi semi cosciente in cui le emozioni sono triplicate e di conseguenza generano sfavillanti, sinceri ma spesso irragionevoli, “amore mio”. Un autentico, devastante, appassionante sballo cerebrale e ormonale. Niente di più, ma non mi sembra poco. Ricapitolando e dirigendoci (finalmente) verso una specie di conclusione, concretamente è facile passare da un eccesso all’altro: dal sentenziare giudizi
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[sterilita’ del benpensare] sex on
irremovibili basati su marsupi molto poco attraenti, congiuntivi maltrattati, apostrofi abusati e altri dettagli, al credere di desiderare il primo (mal) capitato che, in preda a illusori furori, vorrebbe portarci via con sé. O almeno così sembrerebbe. Si costruiscono persone, spesso. Si tessono trame di storie a piacimento, per poi scoprire che fantasia e bisogno hanno fatto un encomiabile verosimile lavoro. Successivamente la tendenza comune potrebbe essere boicottare inconsciamente dall’interno la solita
relazione a progetto, che sulla carta aveva tutto: parti consenzienti, un adeguato monte ore da passare a letto, la giusta dose di complicazioni, il superamento di fasi più o meno previste, una conclusione intuita che non necessariamente ne decreta il fallimento. Un progetto serve comunque quasi sempre a uno scopo, come per esempio a dedurre l’ennesima, inedita (inutile?) consapevolezza. Anche se non era Lui, e non era Lei. []
P.s.
“La dopamina è la sostanza chimica femminista per eccellenza. Quando il sistema dopaminico viene attivato in modo ottimale, come avviene quando una donna si prepara a un incontro sessuale di grande voluttà, la sua attenzione e motivazione si focalizzano e la spingono a perseguire con energia il proprio obiettivo. [...] Una donna con un basso livello di dopamina avrà scarsa libido e si deprimerà mentre quella che ne ha un livello ottimale sarà fiduciosa, creativa e comunicativa. Proverà un senso di benessere e di contentezza, si porrà obiettivi precisi e li perseguirà con tenacia, sarà capace di affetti forti, saprà scegliere in modo sensato e avrà aspettative realistiche. [...] Il suo rilascio può attivarsi in vari modi: con l’aerobica, con la socializzazione, con lo shopping, con il gioco d’azzardo...e con del buon sesso.” (Naomi Wolf, “Vagina. Una storia culturale”)
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