JUST KIDS - #08 - Luglio 2013

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[SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS & THE GRACE LAND] [TEHO TEARDO & BLIXA BARGELD] [DER MAURER & SEBASTIANO DE GENNARO] [ALMAMEGRETTA] [NADAR SOLO] [LUMINAL] [ELIO PETRI] [PALETTI]

#08

4,50 euro Anno I - n. 03 Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM

JUST KIDS

Speciale Jeff Buckley: Gary Lucas And The Grace Land . Teho Teardo & Blixa Bargeld . Der Maurer & Sebastiano De Gennaro . Almamegretta . Nadar Solo . Luminal Elio Petri . Paletti . Gianni Resta . Black Rebel Motorcycle Club . Alessio Lega . Ero. Enrico Ruggeri . Lu-Po . M’ors . Fabularasa . Mark Lanegan & Duke Garwood Editors . The Postal Service . Kurt Vile . The Flaming Lips . The Pastels . Gazebo Penguins . Gli Indiani Degli Anni Zero . Testaintasca . laria Graziano & Francesco Forni Beatrice Antolini . COMPILATION IN FREE DOWNLOAD WALLACE RECORDS. Non Abbiate Paura Dei Mostri . Palingenesi . Perdita . L’aspra Cronaca Di Verosimiglianza . L’agnello Di Dio . Il Mercato È Fermo . Il Ragno Nello Stivale (Una Speci Di Fiaba) . Una Lontana Fedeltà . Digerseltz, Il Cannibalismo Dell’attore . Arte E Natura Sono Un Dio Bifronte . Elogio Dello Sperpero . Sul Ricominciare, Che Poi Alla Fine È Solo Un Andare Avanti . La Prostituzione . Catherine Vs Incostanza 0-1


JUST KIDS

è una rivista autoprodotta che puoi sfogliare gratis on-line e acquistare in formato cartaceo INFO: www.justkidswebzine.tumblr.com


SOMMARIO [Musica] INTERviste

speciale Jeff Buckley: gary lucas and The Grace Land 06|gary lucas (italiano) di Grace of Tree 13|gary lucas (english)di Grace of Tree 18| Jeff Buckley. The Grace Land UN viaggio appassionato tra cinema, musica e letteraturadi Grace of Tree 22| TEHO TEARDO BLIXA BARGELD di Nadia Merlo Fiorillo e James Cook 28| Der maurer sebastiano de gennaro di Nadia Merlo Fiorillo 36|almamegretta di Nadia Merlo Fiorillo 42|nadar solo di Antonio Asquino 48|luminal di Claudio Delicato 54|elio petri di Livia Ascolese 60|paletti di Claudio Avella e Letizia Varotto

RECENSIONI

67| gianni resta|Discorocksupersexypow erfunky di Thomas Maspes 68|BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB|Specter At The Feastdi Alina Dambrosio 69|ALESSIO LEGA|MALATESTA di Andrea Barbaglia 70|ero|fermoimmaginedi Andrea Barbaglia 71|enrico ruggeri|frankenstein di Andrea Barbaglia 72|lu-po|bloom di Andrea Barbaglia 73|m'ors|m’ors di Andrea Barbaglia 74|fabularasa|d’amore e di marea di ALucia Diomede 75|Mark Lanegan & Duke Garwood|Black pudding di Gaia Caffio 76|editors|the wight of your love di Gaia Caffio 77|the postal service|give up di Gaia Caffio 78|kurt vile|walkin on a pretty daze di Antonio Asquino 79|the flaming lips|the terror di Antonio Asquino 80|the pastels|slow summit di Antonio Asquino 81|gazebo penguins|raudo di Antonio Asquino 82|TEHO TEARDO BLIXA BARGELD|still smiling di Nadia Merlo Fiorillo 83|gli indiani degli anni zero|parole e mappe della riserva indipendente di Giuseppe Losapio

[immaginario] 90|la dimensione eroica del microbo

di Maura Esposito|Non abbiate paura dei mostri 92|punto focale di Giulia Blasi|Palingenesi 94|parola immaginata di Davide Uria| Perdita 96|sommacco di Luca Palladino|L’aspra cronaca di Verosimiglianza 98 |sommacco di Giorgio Calabresi|L’agnello di dio 100|sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista|Il mercato è fermo 104|la stanza(degli ospiti) di Jacopo F. Tapiro|Il ragno nello stivale (una speci di fiaba)

[POESIA] 110||scrap

di Cristiano Caggiula| Gli dei della terra

[teatro - LIBRI] 112|l'occhio

di Sabrina Tolve |Una lontana fedeltà | Digerseltz. Il cannibalismo dell’attore

[spettacoli] 114|attravers(arti)

di Lucia Diomedee |Arte e natura sono un dio bifronte

[STERILITA' DEL BENPENSARE] 116|verderame

di Claudio Avella| Elogio dello sperpero 118|la nuova era e' adesso? di Sara Fusani| Sul ricominciare, che poi alla fine è solo un andare avanti 120|cattivi pensieri di Franco Culumbu|La prostituzione 122|sexon di Catherine|Catherine VS incostanza 0-1

recensioni delicate di Claudio Delicato 84|testaintasca|ep 85|luminal|amatoriale italia

Live report

85|Ilaria Graziano & Francesco Forni diGrace Of Tree 88|beatrice antolini di Nicoletta Labarile

compilation in free dowNload wallace records


JUST KIDS

Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.” da “Just Kids”, Patti Smith

JUST KIDS KIDS è una rivista di musica, immagini, poesia, cinema, libri, storie, racconti. Nasce dalla voglia di raccontare le proprie passioni e la propria forma d’arte. Direttore editoriale Anurb Botwin - justkids.redazione@gmail.com Responsabile musica e social network James Cook - justkids.james@gmail.com Responsabile rubriche Giorgio Calabresi - justkids.rubriche@gmail.com Responsabile distribuzione cartaceo Catherine - justkids.distribuzione@gmail.com Promozione Valentina - justkids.promozione@gmail.com Versione sfogliabile on-line www.issuu.com/justkidswebzine justkidswebzine.tumblr.com Facebook facebook.com/justkidswebzine Scrivono Alina Dambrosio, Andrea Barbaglia, Andrea Serafini, Antonio Asquino, Anurb Botwin, Catherine, Claudio Avella, Claudio Delicato, Cristiano Caggiula, Davide Uria, Edoardo Vitale, Francesca Gatti Rodorigo, Franco Culumbu, Gianluca Conte, Giorgio Calabresi, Gaia Caffio, Giulia Blasi, Giuseppe Losapio, Grace of Tree, James Cook, Luca Palladino, Lucia Diomede, Maura Esposito, Nadia Merlo Fiorillo, Paolo Battista, Sabrina Tolve, Thomas Maspes Hanno collaborato a questo numero Jacopo F. Tapiro, Nicoletta Labarile JUST KIDS

Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538 Mensile, Anno I - n. 03 Direttore responsabile Rocco Perrone Editore Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ) 0975/841077

Stampatore DM Services S.r.l. Via di Valle Caia Km 9.900 00040 Pomezia (RM)


editoriale di Anurb Botwin

A questa rivista manca il senso dello spazio. Mi hanno detto. Si è vero, manca. Non fa niente. Tanto l’importante è avere il senso del tempo. Ops, temo che anche quello ci manchi. E infatti questo numero che sfoglierete avrebbe dovuto essere il numero di Giugno e invece è diventato il numero di Luglio che però vi farà compagnia anche ad Agosto. Per non sbagliarci lo chiamiamo numero #08, anche se poi in realtà è il n. 03 dell’Anno I. Poste queste prime linee di evidente confusione, direi che possiamo ritenerci comunque molto soddisfatti di questa rivistaccia - anche “solita webzine”, se vi è più comodo - che cerca di parlarvi di musica e di raccontarvi Cose. [Credo che si possa dire “Cose” senza necessariamente addentrarsi in superficiali spiegazioni di cosa siano le Cose anche perchè, se queste Cose vi incuriosiscono, potete andare alla sezione Rubriche di Just Kids. La vostra fantasia potrebbe beneficiarne abbastanza]. Questo numero #08 che vi apprestate a sfogliare, vi farà compagnia fino a Settembre, quando torneremo più belli e forti di ora. Nel frattempo saremo in giro per goderci un pò di musica e partecipare ai tanti festival estivi (www.justkidswebzine.tumblr.com/festival) che ancora reggono in questi tempi amari di cost desease dove l’arte è sofferenza e non sempre rappresenta quel dignitoso lavoro su cui questa repubblica dovrebbe essere fondata. A proposito di malattia dei costi e di resistenze a crisi culturali varie ed eventuali, ho scoperto che a metà degli anni ‘60 due giovani economisti di Princetown, William Baumol e William Bowen, raccoglievano biglietti di teatro a Broadway per verificare un’intuizione: quella di un aumento ininterrotto dei prezzi degli spettacoli, imputabile a loro avviso all’incomprimibilità del lavoro artistico. In effetti, l’esecuzione di un quartetto di Mozart necessita la stessa quantità di lavoro sia nel 1785 alla corte di Vienna di Giuseppe II che due secoli più tardi al Cornegie Hall di New York. In altre parole, anche se la produttività del settore della musica da camera stagna, contemporaneamente esplode l’aberrante smania della produttività e si fa strada la rarefazione della collettività che dovrebbe tessere le trame della società. E ha come conseguenza - tra tante - anche un aumento prevedibile del costo relativo delle perforamance artistiche(1). L’arte, qualuqnue essa sia, è incomprimibile e i robot non suoneranno la Traviata. Ora, se potete, datemi una spiegazione

(1)Pierre Rimbert - I robot non suoneranno la traviata, Le monde diplomatique Giugno 2013

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Buona lettura!


[Musica] SPECIALE JfEF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

GARY LUCAS di Grace Of Tree

«

La differenza di età fra noi non è mai stata un problema. Non eravamo legati dalla moda o da altri ideali passeggeri. Eravamo spinti da un comune desiderio di comunicare la sensazione di Grazia delle nostre canzoni. E speravamo che il mondo ci avrebbe seguito. E il mondo ci seguì. E io sentivo questa cosa fortemente. E la sento ancora. Persone di tutto il mondo mi raccontano di come le nostre canzoni hanno cambiato le loro vite. È il più grande onore che possa avere, come artista. Aver creato insieme a Jeff un’arte che trascende il tempo e continua a far sognare le persone è una benedizione. E ricordo con amore quel momento in cui fummo entrambi “toccati dalla grazia».

Gary Lucas

A parlare è , “Il chitarrista migliore e più originale d’America” secondo Rolling Stone, componente di diversi gruppi musicali, inclusa la sua band newyorkese, Gods and Monsters e l’ultima incarnazione della mitica Magic Band di Captain Beefheart. Tra le sue decine di collaborazioni con nomi quali Lou Reed, Iggy Pop, Patti Smith e Leonard Bernstein, la più conosciuta per il grande pubblico resta quella con un giovane

Jeff Buckley

con cui ha composto alcuni brani del leggendario album “Grace”. Ho avuto l’onore di incontrarlo al teatro Corso di Mestre lo scorso 17 Maggio in occasione della giornata-tributo in suo ricordo e questo è il risultato di uno scambio generoso e davvero speciale con lui...

|ph by Bram Bellomi

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[Musica] SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

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[Musica] SPECIALE JfEF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

P

rima di tutto ci tengo a dirti che sono davvero molto felice di essere qui. Da quale parte del mondo arrivi? Sei in tour al momento? Sono appena arrivato dagli Stati Uniti e sì, siamo appena tornati da un tour in Lubljana, Slovenia in Yugoslavia. Stavo collaborando ad un progetto di un fantastico film horror brasiliano prodotto da un ragazzo che si chiama Coffin Joe. C’è anche un disco in uscita di dance music chiamato “Wild Rumpus”, in cui collaboro con una ragazza di nome Colin Murphy, aka DJ Cosmo, un sorprendente mix di electronica, dub e country.

capitato di leggere su di lui? Posso parlare solo della mia esperienza diretta con Jeff, quello che ho provato. Molte storie su di lui sono versioni superficiali, limitate. In giro ci sono molte invenzioni sul suo conto, e così ad un tratto ho capito era arrivato il momento di mettere per iscritto le esperienze comuni. Voglio dire, la gente si inventa veramente di tutto: una volta in una rivista chiamata Uncut lessi la storia di una donna che affermava di avermi visto mettermi davanti a Jeff durante un concerto! Ho pensato che fosse assurdo, non ho mai fatto niente del genere in tutta la mia carriera da musicista, piuttosto sto fermo su un punto preoccupandomi del modo Hai moltissimi progetti in corso. Sei musicista, in cui suono, degli effetti che uso . E così ho iniziato a compositore, insegnante all’Università, scrit- provare il desiderio di rafforzare le memorie storiche tore ...nessun limite alla creatività? e renderle accurate. Questo è il genere di esperienza Non credo in nessuna barriera musicale: blues, rock, che mi ha spinto a voler scrivere questo libro. folk, psychedelic…fa lo stesso per me. Sì, faccio corsi di perfezionamento e convegni. Mi piace entrare in co- E quali sono le sensazioni che provi nel conmunicazione con i giovani musicisti. Cerco di trasmet- dividere questo tipo di eventi tra amici e coltere loro l’importanza di essere positivi. Purtroppo leghi? oggi gli artisti comunicano poco, tendono a mante- Penso che sia importante rendere omaggio alla musinere un’aura misteriosa circa la loro personalità, fi- ca, mi piace molto lavorare con Alessio Franchini e la nendo per risultare troppo pieni di sé e poco generosi sua band Il circolo dei baccanali, perché amano davnei confronti del pubblico. Come artista il meglio che vero suonare la musica mia e di Jeff con grande ensi puoi fare è comunicare, esprimere se stesso ed tusiasmo. Ho un grande amore per il popolo italiano. avere un dialogo con la gente. Dicono che nel momento in cui etichetti qualcosa interrompi il suo flus- Credi che il tuo legame con Jeff si rafforzi duso espressivo,beh io cerco di esprimermi fluidamente rante questi eventi tributo? senza troppi limiti e questo aumenta la mia compren- Penso di si, perché il legame con Jeff era forte e non sione delle cose. me potrei mai liberare facilmente, anzi, ne vado molto orgoglioso. Non credo che il pubblico abbia senti...e sei anche uno scrittore. Parliamo del tuo to parlare abbastanza dei suoi lavori, per anni tutti libro “ Touched by Grace “. Come hai concepi- hanno parlato solo di “Hallelujah” e poche altri pezzi, to l’idea di scriverlo? ma gran parte dei brani dell’album Grace continua a Stavo suonando in questo fan-tribute italiano a Rimini rimanere inesplorata. La mia chitarra, ad esempio, è e la mia amica organizzatrice Anna Rita Mancini vole- la prima cosa che si sente nell’album Grace, eppure la va assolutamente che dessi un’occhiata ad un articolo maggior parte delle persone non conosce il pezzo. A scritto su Jeff . Leggendo il pezzo notai alcuni impreci- volte mi capita di pensarci ed allora desidero rendere sioni e pensai che in qualche modo avrei dovuto siste- omaggio a quell’album. mare la cosa. Anna mi suggerì di scrivere una lettera alla rivista, ma sapevo che non avrebbe funzionato e Il tuo primo incontro con lui avvenne nel 1991 così alla fine mi disse “Perché non scrivi un libro, Jeff in occasione del Tributo a Tim Buckley nella era molto popolare qui”. Poi fu lei a trovare l’editore Chiesa di Sant’Anna a Brooklyn. Eri una musa con il quale collaborai durante la stesura di “Touched per lui, vero? Nel tuo libro descrivi momenti by Grace” – di Arcana Libri-, e così è nato il volume. particolarmente creativi in cui furono concepiHo lavorato duramente per questo libro, alcune parti ti brani come Grace e Mojo Pin. Ricordo le tue le ho scritte in Italia, a Pesaro. parole “Io in un angolo arpeggiando le corde della chitarra e Jeff a cantare sul divano con Qual è la più grande sciocchezza che ti è mai gli occhi chiusi”. Facci sognare, raccontaci...

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[Musica] SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

|ph by Burcu Ozturk

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|ph by Arjen Veldt

[Musica] SPECIALE JfEF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

Eravamo entrambi onorati. Pensai che fosse davvero una bella persona. Io per lui avevo buone credenziali, inoltre a lui piaceva come suonavo la chitarra. Ho grandi ricordi della creazione di quelle canzoni, erano momenti magici. Scrissi quella musica a New York mentre Jeff era a Los Angeles e nonostante la distanza comunicammo alla perfezione. C’era una grande intesa tra di noi. Gli mandavo le cassette registrate - a quei tempi non avevamo internet, non c’erano computer, mp3 o altro. Scrivevamo e comunicavamo nella vecchia maniera.. ricordo in particolare quella volta in

cui tornò a NY e mi disse “Ricordi la canzone intitolata “Rise up to be”? Bene, ora si chiama “Grace” ”. Si sedette sul mio divano e tirò fuori il suo taccuino che aveva sempre con sè, quello in cui annotava testi e poesie, così mentre io suonavo la chitarra lui cominciò a cantare..ero talmente sconvolto da quanto avevo sentito che corsi a incidere il brano al Krypton Studio di SoHo. Camminavo come uno che aveva una bomba atomica in tasca..in quel periodo noi scrivemmo molte canzoni e lui era davvero felice di essere parte della mia band Gods and Monsters.

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[Musica] SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

I musicisti come voi danno l’impressione di non voler mai venire fuori dalla musica, perdendosi completamente nell’isipirazione artistica, come se rappresenti una casa accogliente, contrariamente alla realtà..una specie di ventre materno... Certo, ma mi piace anche tornare al mondo reale e creare musica per la gente. La mia gioia più grande nella vita è quella di incontrare molte persone entusiaste che mi fanno sentire che vale la pena fare quello che faccio, perché a volte il mondo è così freddo. Come tutti, quando mi addentro in problemi esistenziali mi deprimo, ma la musica ha la capacità di sollevare le persone e mi piace essere orgoglioso di questa emozione. È pura magia. Alcune persone pensano che il cinema sia la più grande forma d’arte, ebbene, penso che la musica sia ancora più profonda perché tocca veramente l’anima e crea il proprio racconto all’interno delle nostre menti. Nel cinema il regista tenta di mostrare una storia, ma la musica è del tutto libera perché ti fa sognare.

l’intero puzzle si è composto nella mia mente. Non so, forse è solo una storia che ho creato per dare un senso agli eventi, non posso certamente affermare di avere prove di un’entità divina. Sono abituato a credere nel libero arbitrio e penso che le persone siano messe alla prova per fare scelte che cambiano le cose e le situazioni durante il corso della vita. Non voglio sentirmi prigioniero di qualche piano divino, ma nella mia vita ho sempre cercato i segni intorno a me, segni di divinità o diavoleria. Tento sempre di essere sensibile a quello che accade attorno a me. C’è una componente mistica e soprannaturale nella musica... Penso che tutta la musica prodotta durante la mia vita abbia una qualità spettrale. Non so perché, ma da piccolo ero attratto da cose come film horror, la mitologia greca e romana, le divinità, i mostri. Ecco perché mi piacciono Fellini e molti altri registi italiani come Antonioni, li trovo tutti molto mistici. Fellini è il mio preferito.

Può diventare una fuga tutto questo? A volte ho la sensazione che la realtà di Jeff non fosse affatto un posto così confortante per lui...e nemmeno per te... Era molto sensibile ed, a volte perso in un grande dolore, altre volte molto felice - proprio come chiunque-, era un miscuglio di emozioni. Così l’ho visto andare a rifugiarsi in zone oscure che nessuno riusciva a raggiungere, e così lo esprimeva nei testi. Voglio dire, guarda il testo di Grace, mi ricorda davvero il suo dolore “It reminds me of the pain I might leave ..Leave behind ..Wait in the fire”.. Queste canzoni hanno una specie di protagonista romantico, sai. Ma reagiva e voleva veramente andare avanti, come me. Come mi disse una volta sul palco.. “Sai, una mattina mi sono guardato allo specchio e dopo i miei soliti pensieri riguardo alla morte mi sono reso conto che c’è sempre qualcuno da amare”... qualcuno per cui valga la pena andare avanti. E da quel momento in poi vai avanti per quella persona.

Quanto è difficile mettere la creatività sotto contratto e trovare un equilibrio tra ispirazione e denaro? Sì, è molto difficile. Mi sarebbe piaciuto vivere in un paradiso socialista, in cui gli artisti avessero l’opportunità di creare senza preoccuparsi dei soldi ma non è così. Nel settore della musica è sempre più difficile prevedere di poter vivere del proprio lavoro. Non apprezzo la musica creata esclusivamente in funzione del mercato discografico o della moda di turno. Per me il criterio di riuscita di una buona opera d’arte è racchiuso all’interno di chi la crea, che si sente felice del lavoro svolto - il suo puro impulso, senza la preoccupazione del mercato. In primo luogo l’artista deve soddisfare se stesso. A volte funziona e viene a crearsi un legame con moltissime persone, altre volte non va affatto, è difficile. Molti aspetti sono fuori dal tuo controllo. Anche una grande etichetta come la Sony non è stata in grado di ottenere un pubblico abbastanza amplio rispetto a quello che Jeff stava cercando di esprimere, commercialmente parlando.

E tutte quelle premonizioni nei suoi testi? Sensibilità o sensitività? Non lo so, è abbastanza difficile da dire, stavo attraversando questo viaggio bellissimo con Jeff e mi sembrava che ci fossero degli indizi da cogliere, ma allora era difficile leggere i segni. Dopo che Jeff è morto,

Stiamo arrivando alla parte più dolorosa del libro, la rottura della collaborazione con Jeff... Nel libro ho avuto la possibilità di esprimere quei sentimenti ed è stato molto doloroso per me. Cerco di parlare principalmente dei lati positivi del rapporto, la nostra musica va oltre le cose negative che successe-

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[Musica] SPECIALE JfEF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

ro. E poi io sono qui e Jeff non c’è più, è abbastanza triste. Vorrei che la gente si ricordasse che il fulcro del nostro rapporto fu sulla musica ed è così che ho finito il libro, tornando alla musica.

Non credo proprio che lo stesse facendo per questioni di ispirazione, penso che lo stesse facendo solo per svago ed a volte per allontanare il dolore. Io ad esempio fumavo la pipa, mi rilassava. E’ possibile che volesse fuggire, ma non ne ho mai discusso con lui. L’unica discussione tra noi fu circa Mojo Pin. Una volta gli chiesi “Jeff, cosa è Mojo Pin?” lui mostrò un certo imbarazzo e così realizzai “Oh no, aspetta – ha veramente intenzione di affibbiare un testo sulla droga alla mia bella musica!” (Ridacchiando). Stava scherzando, era sempre capace di divertire e divertirsi, nonostante i suoi lati oscuri. Questo è un ottimo film, mostra bene le due facce di Jeff. L’attore Penn Badgley l’ho adorato nel fim “Greetings from Tim Buckley”, mi ricordava così tanto Jeff – penso che abbia davvero catturato la sua essenza.

Sei stato molto sincero riguardo a questa parte della tua vita. A volte, in preda alla delusione hai indicato i suoi lati oscuri, definendolo prezioso, ambizioso, egoista. Pensi che fosse rimasto intrappolato dal successo fino a trasformare la propria personalità? Penso che il successo lo colpì in molti modi, perché il Jeff che conoscevo io era molto più dolce e più innocente all’inizio. Sai, una volta decollato è diventato un grande business e le persone gli ronzavano intorno come se fosse una miniera d’oro, come risultato Jeff è diventato molto duro. E’ un peccato ma succede, è un risvolto triste nella vita di chi ha provato a farsi strada Ci sono altri due film in uscita sulla sua vita nel mondo. oltre quello proiettato oggi, credi che ci sia una sorta di attenzione morbosa verso la sua Jeff affermava che “la società vuole uccidere figura di uomo e artista? gli artisti”. Secondo te è possibile riportare la Per quanto ne so, non sono mai stati fatti. La gente musica ad un livello puro? che investe nella produzione di un film non investe in E’ possibile solo quando si è in uno stato di rilassa- doppioni, non avrebbe alcun senso. L’ultima volta che mento, dunque è necessario avviare la creazione da è successo è stato con due film Truman Capote, al botun punto di partenza puro e non contaminato dalle teghino si sono autodistrutti a vicenda . Per il resto è esigenze del mercato musicale. strano, sono passati venti anni da quando uscì l’album Grace, è un anniversario piuttosto importante, la stoScrivere questo libro è stato terapeutico per ria di Jeff poi è molto affascinante ma non credere che te? molte persone in America ne siano particolarmente inE’ stato molto utile, anche se doloroso. Per molti anni teressate. C’è più attenzione in Europa o in Australia, non avevo più pensato a molte vicende che ho ripor- i continenti dove è veramente famoso. In America c’è tato nel libro, avevo sepolto quei ricordi, erano solo il mondo MTV, il mondo di Lady Gaga… nemmeno lo dolorosi. Ma alla fine ho pensato che valesse la pena ricordano. In America nessuno si preoccupa di queste rivivere quelle memorie e, nel caso qualcuno voles- cose. se sapere la mia versione della storia, adesso può. Torniamo alla vostra storia, ora. In occasione Chiunque può criticarmi ma, giuro, questo è esatta- di un concerto alla Knitting Factory avete fatto mente quello che è successo dal mio punto di vista. finalmente pace... Oggi giorno se ne sentono di tutti i colori su Jeff, ed Già. Tempo addietro ebbe alcune difficoltà nel trovaè bello sentire che moltissimi lo ricordano come “Jeff re le canzoni per il secondo album e così mi chiese l’angelo”, ma credo che lui avrebbe davvero preferito della musica. Gli mandai alcune composizioni, mi ririmanere umano, reale. Ho cercato anche di scrivere spose dicendo che gli erano piaciute e che voleva in modo surreale e penso che gli sarebbe piaciuto, sentirne di più. Poi sparì, ed io pensai che non avesse forse... più alcuna intenzione di prendere in considerazione i miei pezzi. In fondo quello era lo stile di Jeff, era Alcuni paragrafi del tuo libro sono dedica- fatto così. Pensai di dare le tracce a qualcun altro, ti agli eccessi di Jeff. Credi che fossero solo ma mi resi conto che nonostante tutto le volevo per scorciatoie per aumentare l’ispirazione? O un Jeff. Un giorno lo chiamai, affrontammo l’argomento modo per fuggire dalla realtà e connettersi a ma lui fu molto vago. Dopo qualche tempo gli chiesi qualcos’altro? se tutto stesse andando per il verso giusto, mi disse

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[Musica] SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

che era un periodo molto buio ed io mi sentii un po’ in colpa. Ma poi, prima di uno dei suoi spettacoli mi vide e sapendo che era venuto appositamente per lui, durante la performance mi chiamò dicendo: “Se Gary non è più arrabbiato con me, gli andrebbe di venire sul palco?” Così lo raggiunsi e quando gli chiesi cosa avremmo suonato, rispose “Grace, naturalmente” e così mi ritrovai a suonare esattamente come ai vecchi tempi. Fu un momento straordinario, i fan esultavano per noi e sentii di avere sempre amato Jeff nonostante tutto. Pensai che in futuro avremmo di nuovo lavorato insieme, tra noi c’era sempre un fortissimo legame ... Fu davvero una bella esperienza.

per Jeff. Con lui ho provato una varietà di approcci di genere, ci sono stati alcuni brani epici come “Grace”, “Mojo Pin”, “Songs to No One”, “She’ s Free”, blues di “Harem Man”… Allora non ci pensavo troppo, il meglio di quelle canzoni arrivava così spontaneo che non era possibile analizzarlo sul momento. In seguito ho analizzato e cercato di capire quali fossero le componenti importanti di quei brani e perché piacessero alla gente. Vorresti condividere con noi il ricordo più tenero che hai di lui? Beh, mi ricordo di quella volta che tornò a NY dopo aver cantato delle demo di ”Grace” e “Mojo Pin”. Entrò nella stanza chiedendo se la sua interpretazione poteva andare ed io gli risposi che era semplicemente stupefacente. “Hai davvero spaccato cazzo, sei una vera e propria stella”. Ma in quel momento Jeff non ne sapeva ancora niente, era solo molto timido.

In che modo si è evoluta la tua ispirazione dopo gli anni di Grace? Beh, è difficile parlare con accuratezza di questo, ma ho pensato che la musica che ho prodotto dopo la collaborazione con Jeff fosse buona come lo era ai tempi di Grace. Sono molto orgoglioso anche dei brani che concepii per il suo secondo album. Ho lavorato con Ti manca? Mari Conti e poi con Najma Akhtar , entrambe hanno Quando è morto ho pianto ogni singolo giorno, per collaborato molto bene sui brani che avevo pensato oltre un mese. Sì, mi manca... [ ]

English version First of all, I want to tell you I’m very glad to be here, Gary. Which part of the world are you coming from? Are you in tour? Today I’m coming from the U.S but I just came back from Lubljana, Slovenia in Yugoslavia. I was playing with a great Brazilian horror film of a guy that they call Coffin Joe. There’s also a record coming out over dance music called “Wild Rumpus”, with Dj Cosmo, a girl called Colin Murphy, an astonishing mix of electronica, dub and country. You have loads of projects going on. You are musician, composer, teacher, producer ..no limits? I don’t believe in boundaries: blues, rock, folk, psychedelic…it’s all the same to me. Furthermore I do master classes and talks. I like doing this, trying to communicate with young musicians. You know artists today are very much in what they call “ivory tower” and they don’t communicate much. They want to maintain

a mysterious aura about their persona and I think that is fine, but they might not be very generous people, they might be very full of themselves. I mean the best you can do as an artist is try to communicate, express yourself and have a dialogue with people. People say that once you label something you stop the flow of it, so I try to talk fluid and around it, I can say I have a fluid understanding of it. Last but not least, you are a writer. Let’s talk about your book “Touched by Grace”. How did you conceive this idea? I was playing this in this Italian fan-tribute in Rimini, there were some really fine musicians and the organizer, my friend Annarita Mancini, translated an article about Jeff in a magazine where I found some errors. I thought I had to fix it and she suggested to write a letter to the magazine and I said yes but it usually doesn’t really work so then she said “well why don’t you write a book, Jeff was very popular here”. I said

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|ph by Lars Klove

[Musica] INTERviste

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[Musica] SPECIALE JEFF BUCKLEY: GARY LUCAS AND THE GRACE LAND

“if you can find a publisher I’m ok with that”, so she came up with this Arcana Books and I connected with that, and that’s how it came to be. I worked very hard and I wrote some of it in Italy, in Pesaro. What’s the biggest balderdash that you have read about Jeff? Many of the accounts have superficial understanding and some errors about everything but no one knows the story better than me. People say all sort of things. Once I read in a magazine called Uncut how a woman said I leaped in front of Jeff during a concert. Now I’ve never in my life done any leaping on stage, I don’t do it. I’m very much concerned with my playing and my effects and I pretty much stand still in one spot, so I thought that was incredible. And then I just want to strengthen the historical record and make it accurate. This is the kind of thing that drove me into wanting to write it.

on the sofa with closed eyes“ Let me dream, tell me more… He was, and I was honored to meet him too. I thought he was a beautiful guy. At that time I was an alumnus of the Magic Band of Captain Beefheart. I had some good credentials, plus he liked my guitar playing very much. I have very big memories of the creation of those songs, because it was a magic time, I was making music with another person and we were very much united, affected – I wrote the music in NY and Jeff was in LA and still we were able to communicate really beautifully even if when apart. I sent him the cassettes, we didn’t have the internet, there was no computer, no mp3s or anything. It was just old fashioned..I remember the time when he came back to NY and told me “Do you remember the song “Rise up to be ”? Well, now it’s called “Grace””. He sit on my sofa and pulled out the notebook that was always with him, where he wrote poems and lyrics and I played my guitar while he was starting to sing..I was so shocked that I went immediately with him to record at Krypton Studios in SoHo. I walked away from this session like someone carrying the atomic bomb in his pocket. In that period we composed many songs and Jeff was happy to be part of my band “Gods and Monsters”.

What are your feelings in presenting this kind of events or tribute with your colleagues and your friends? I like it because I think it’s important to pay tribute to music and I like very much working with Alessio Franchini and his band and because they love the music Jeff and I made and they want to play it, so if I find I have the feeling that soul musicians like you people that are very enthusiastic, why not. I have a never want to come out from music as you feel great love of the Italian people. the urge to get lost in inspiration. I mean, music looks like a warm house, instead of reality, …and during those circumstances, does your a sort of womb… connection with Jeff gain more strength? Yes but I also like going back to the world to play this I think it gained strength because I’m tied forever to music for people. And my biggest joy in life is to meet the work with Jeff and it’s not just something I can many enthusiastic people. It makes me feel it’s worth walk away from, I’m very proud of it. I don’t think that doing this, because it’s such a cold world man you people heard of it enough, for years all they talked know. I feel very depressed and down like anybody about was “Hallelujah” and other songs, and it’s like when there are problems of existence, but music has what about Grace and all the other songs on the “Gra- the ability to lift people up, so I like to be part of this ce” album, in fact my guitar is the first thing you hear emotion. It’s total emotion. Some people think that cion the Grace album, but most people don’t know that nema is the greatest art form but I think that music song “Mojo Pin”. You know sometimes when I think is deeper because it really touches the soul and you about it I just want to pay my respect to that album. create your own narrative within your mind. In cinema the director tries to show a story, music is free, it’s You first met him in 1991 during Tim Buckley best because you can just dream along. tribute at St. Ann Church in Brooklyn. You were a muse for him, right? In your book you tell Could music be an escape? Sometimes I have about especially creative moments in which the feeling that reality wasn’t so comfortable Grace and the mysterious Mojo Pin were con- for Jeff…and for you. ceived. I remember quotes like “Me in the cor- He was very sensitive and sometimes also in a lot of ner pulling up guitar chords and Jeff singing pain, sometimes very happy - just like anybody, he was

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a mixture. But I saw some dark signs where he just lived and you couldn’t really reach him there, so that was expressed in a lyric. I mean, look at the lyrics of Grace, “It reminds me of the pain I might leave ..Leave behind ..Wait in the fire”. These songs have a kind of romantic protagonist, you know. However he wanted to keep going. Me too. As Jeff once said on stage with me: “You know, when I looked in the mirror this morning and had my usual thoughts of death and dying I realized that there’s always someone…” somebody you can love that makes you want to keep going and then you’re going for that person. What do you think about all those premonitions in his lyrics? Is it a sort of sensitivity or sensibility? I don’t know, it’s fairly hard to say but it felt like I was being given clues. I was going through this journey with Jeff, but you are not aware of that until you look back, it’s hard to read the signs. But after Jeff was gone it was like the whole puzzle came together in my mind. I was given some guidance. I don’t know maybe it’s just a story I made to make sense out of it, I can’t say it’s a proof of a divine entity and because I also believe in free will I think that as a person you are occasionally tested to make these kind of choices in your life to change things and situations. I don’t want to feel like I’m a prisoner of some divine plan but I do think that it is amazing and in my own life I always look for signs around me, signs of divinity or deviltry. I’m always trying to be sensitive to what’s going around me. There’s a supernatural and mystical component in music .. Yes, very much I think it’s haunted .I think all the music I’ve been doing in my life has a component of a ghostly quality. I don’t know why but since I was a little boy I’ve been attracted to things like horror films, Roman and Greek mythology, and before that I was into gods, monsters. That’s why I like Fellini and a lot of Italian film-makers like Antonioni. They are very mystical you know. Fellini’s my favorite.

the music industry. It’s harder and harder to realize any money. I just don’t like music that’s made that way, I can feel that’s linked with fashion and it’s trying to fit with what’s popular, but to me the criteria of a good work of art is within the maker that feels happy about the work he is doing, his pure impulse without the concern of the marketplace. First he has to satisfy himself. Sometimes it works and it makes a connection with a lot of people, some other times it does not, it’s hard. A lot of it is out of your control. Even a big label like Sony wasn’t able to get enough people in the world engaged with what Jeff was trying to express, commercially speaking. Let’s go to the most painful section of your book, the break of your collaboration with Jeff… I had a chance to express those feelings too, It was a hard time for me but I just kept going, I didn’t give up. I mainly try to talk about the positive side of the relation and the music goes beyond any of the bad stuff that happened, so I got over it. I mean I’m here, Jeff’s gone and it’s sad. But I want people to remember that the focus is on the music, so that’s how I ended the book, going back to the music. Sometimes you pointed at his dark sides with adjectives like “precious, ambitious, selfish”. Do you think that Jeff was trapped by success and changed his personality because of it? I think it affected him in many ways because the Jeff that I knew was a lot sweeter in the beginning and more innocent. You know, once it took off and it became a big business and people were sniffing around him and saw a goldmine in Jeff he got very hard. It’s unfortunate but it happens, it’s almost like a sad component of trying to make your way in the world.

He said that “Society wants to kill the artist”. In your opinion, how could it be possible bringing music back to a pure level? It’s only possible when you are in a relaxed state but I think that you have to forget the market place and Is it difficult to put creativity under contract start creating from a pure point. and to find a balance between inspiration and money? Was this book useful or therapeutic for you? Yes it’s very difficult and unfortunate. I sometimes wish It was painful and useful, at the end. For many years I we could have lived in a socialist paradise where ar- did not think about many aspects which I then reportists had the ability to create without worrying about ted in the book, I had buried those memories but in money but it’s not that way of course, especially in the end I thought that it was worth living this record.

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Everybody projects all sorts of stuff on Jeff and I don’t mean to take away from him by this, it’s lovely that a lot of people remember him as “Jeff the Angel”, but I think Jeff wanted to keep it real, so I tried to make this book super real-- and I think he would have liked it… In fact, few paragraphs of your book are dedicated to Jeff’s excesses. Shortcuts to increase his inspiration or escape from that material and connect with something else? I don’t think he was doing it for inspiration at all, I think he was just doing it for leisure and relaxation and, sometimes, to keep the pain away. I used to smoke pot and I did it for medication, it relaxed me. It’s possible he wanted to escape, but I never discussed it with him. The only discussion we ran was about Mojo Pin. Once I asked him “What’s Mojo Pin, Jeff?” and then when he told me I was like “Oh no, wait - he’s going to put a drug lyric on my beautiful music!” He wasn’t always so serious though-- he had fun, laughing sides to him. This film is very good, it shows the two sides of Jeff. And I loved Penn Badgley in film “Greetings from Tim Buckley”, he reminded me so much of him – I think he really got it.

ally wanted to save it for Jeff. I just wanted to know what happened so I confronted him, but he was vague. Then I asked him if everything was fine, he said it was a very dark period and I felt bad about that. This was before one of his shows-- he saw me and knew I had come to see him. Later on during the performance he said “If Gary is not still mad at me, would he come on stage and play a song with me?”, so I went on stage and I asked about what we were going to do, and he just said “Grace, of course” and so I played it exactly how I used to play it. Even though he added one section on the “Grace” album, I played just as I used to. It was a truly beautiful moment, people were cheering and I felt like I still loved that guy, despite everything that happened. And it felt good because I thought I’d be working with him in the future, maybe not on the current album, but in the future, as he knew we still had that real connection… That was cool. How has your inspiration evolved since the years of Grace? Well, there’s no telling about the development times but I thought that the music I sent in at the end was just as good as it was at the beginning of Grace, and that last request from Jeff for more music – well, I’m very proud of those instrumentals. I worked with Mari Conti and then I did something with Najma Akhtar and they did a very good collaboration on that music I had originally written for Jeff. If you liked what they did then you would have liked that music on a future album of Jeff’s. I tried to do a variety of approaches with Jeff you know. In the work with him there were some epics like “Grace”, “Mojo Pin”, “Songs to No One”, “She is Free”, blues like “Harem Man”, at the time I wasn’t even thinking about it too much, the best art in songs just comes out . Later on I tried to figure out what was important about it and why people liked it.

There are also others two films about his life that are coming out... is there a morbid kind of attention towards him? As far as I know they are not being made. People who would invest in making a film are not going to finance a second referred film, it makes no sense. The last time it happened it was with two Truman Capote films, and they just killed each other in the market place. I don’t know, it’s twenty years since the Grace album, so it’s a big anniversary this year and it’s very fascinating story but not that many people in America know the story or are interested in it. There’s more attention in Europe or Australia. In America we have the MTV world, the Lady GaGa world..They don’t much play him Would you share with us the most tender meor remember him. That’s America, no one really cares. mory you have about Jeff? I remember that once he came back after singing the Come back to your story! Finally you made pea- demos of Grace and Mojo Pin. He entered the room ce with him at Knitting Factory. Tell me more.. and asked “Was that any good?” so I said to him “You He had asked for music because he was having some killed it, you’re a star. That was fucking great and you sort of difficulty in coming up with songs for the se- were fucking amazing”. I mean at that time he didn’t cond album. So I sent him my music, he said it was be- know, he was just shy. autiful and wanted to hear more of it. But then I didn’t hear from him, so I thought I don’t know is he going Do you miss him? to use it or what? This is so Jeff you know. I thought When he died I cried every single day, for over a month. of giving it to somebody else but I realized that I re- Yes, I still miss him... [ ]

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Jeff Buckley The Grace Land

Un viaggio appassionato tra cinema, musica e letteratura di Grace Of Tree

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i siete mai chiesti dove vadano a finire certi artisti mentre cantano ad occhi chiusi? Quando sgranano delicatamente le melodie come perle d’amore e poi le rimescolano con la foga e l’energia della follia fino a sparpagliarle, inesorabilmente, nello spazio interminabile di un sospiro? Io sì, ma mi sono rassegnata a non capirlo, al massimo a comprenderlo in un moto folle e convulso dell’anima e provare a seguirli, ancorata alla terra, in un mondo che è altro da qui, è oltre da qui, semplicemente è… e chiama per ricongiungersi nel tutto. Questa nostalgia di un

Altrove perenne e dimenticato forse Jeff Buckley doveva conoscerla bene, perché è la stessa che riusciva a restituire nel suo canto misterioso, che sgorgava luminoso come un siero purissimo e prepotente dalle viscere di un paradiso umano, divinamente umano. Certe voci sembrano provenire da un abisso interiore, una voragine d’amore assoluto da scandagliare, in cui perdersi ebbri e febbricitanti, senza avere la certezza di uscirne vivi, ma con la fermezza di aspirare al cielo. Grace, il suo unico album pubblicato in vita, nel 1994, è una pietra miliare della discografia di tutti i tempi, che sfugge a qualunque tentativo di inquadramento musicale e spinge il confine della percezione artistica un po’ più in là, tanto da procurare a Jeff il nome di “Voce degli Angeli del terzo millennio”. Dall’inquietudine rock all’intensità e l’elevazione del soul o del gospel, fino ad arrivare al misticismo del Qawwali indiano, le sue incredibili progressioni vocali si fondevano con liriche sognanti e accordi dilatati, per divenire poi dirompenti e lasciare l’ascoltatore in ostaggio di una ‘felicità disperata’. Le sue cover hanno fatto storia, tanto da far impallidire alcuni originali, ma i suoi brani hanno convinto tutti, sbalzandolo improvvisamente nell’olimpo delle rockstars più acclamate e corteggiate dallo showbiz di quegli anni. La sua vita, poi, ha fatto il resto, tramutando in mito quel “mistery white boy” dipinto dai suoi collaboratori più stretti come una presenza “elettrica”, dall’energia nervosa e seducente e dotata di una fragilità intensa, in grado di “trafiggerti come un dolore”. Dopo la sua consacrazione artistica, purtroppo, giunsero implacabilmente l’insostenibilità di un tour massacrante in tutto il mondo, le pressioni della casa discografica e la sua costante ricerca di ispirazione che stentava ad arrivare, nel tanto attesissimo secondo album. Noi sappiamo solo che un giorno, a Memphis, nel tepore primaverile della serata del 29 maggio ’97, decise di tuffarsi nel wolf river, un affluente del Mississippi, completamente vestito e armato dei suoi “Dr Martens” mentre canticchiava “Whole lotta love” dei Led Zeppelin. Non ha fatto più ritorno. Nessuna traccia di droga e alcool, al massimo un eccesso di incoscienza o quel suo “vivere forte” che lo spingeva sempre a tuffarsi nelle cose con ardore. Tutto quel che è stato dopo la sua morte oscilla tra la santificazione e la mercificazione della sua stessa tragedia, ma conosce anche momenti di grande condivisione, come quello svoltosi al Teatro Corso di Mestre, in occasione dell’anteprima assoluta

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europea del film di Daniel Algrant, “Greetings from Tim Buckley”. La giornata comincia con la presentazione del libro “Touched by Grace”, scritto da Gary Lucas, l’eclettico chitarrista newyorkese che ha condiviso con Jeff gli esaltanti esordi della carriera, scrivendo con lui due delle perle musicali più importanti del primo e unico album pubblicato in vita, ossia il folgorante pezzo che da il nome all’album “Grace” e la misteriosa e ipnotica prima traccia “Mojo Pin”. L’autore, in 234 pagine spietatamente sincere, ci dona la sua esperienza artistica ed umana con un giovanissimo Buckley, che approda a New York agli inizi degli anni ’90, deluso dallo scenario gretto dell’underground musicale di Los Angeles, pronto ad intraprendere quella che poi si sarebbe rivelata la parte più felice e fortunata della sua vita. La Grande Mela, con la sua frenesia e le infinite possibilità offerte ad un ragazzo in cerca di se stesso e di una dimensione artistica appagante, fa da sfondo ad un’amicizia elettrizzante ed un sodalizio artistico che illudono Lucas di aver finalmente trovato il compagno ideale per costituire un gruppo leggendario al pari di Led Zeppelin, Smiths o Doors. Questi propositi finiscono, invece, per ‘naufragare’ in una rottura improvvisa e lacerante proprio all’alba della firma del contratto con la Sony, lasciandolo in una disperazione ed un rancore che sarà curato solo dal tempo e da un prolifico talento. L’immagine restituita di Jeff alterna l’innocenza e la nitidezza di un animo ed un talento cristallino alla determinazione egoistica, capricciosa e ambiziosa, di un artista che tradisce una collaborazione inizialmente agognata, per inseguire da solo il proprio successo. E’ evidente, però, che la necessità di autonomia artistica è imprescindibile, in certi casi, e indagarla può prevedere molte verità. Questa è soltanto una. I momenti più esaltanti del libro rimangono i racconti che descrivono la nascita dell’ispirazione e il crescere della stessa in un continuo ed esaltante scambio dei protagonisti, fino al compimento di una musica, taumaturgica e intramontabile, destinata a piombare nelle nostre vite come uno schianto d’amore. Ambientato negli stessi anni a New York, il film “Greetings from Tim Buckley” approfondisce il lacerante rapporto di Jeff con suo padre, il geniale quanto incompreso artista “navigatore delle stelle” Tim Buckley. Per parlare di Tim non basterebbero le pagine di questo numero, mi limito a dire che la sua geniale e prolifica sperimentazione in

bilico tra folk-jazz e psichedelia degli anni ’70, oltre all’assoluta padronanza di un estesissimo mezzo vocale, accompagnava una personalità ipersensibile, fragile e contraddittoria, erede di una ‘tara’ affettiva paterna destinata, tristemente, a ripetersi nei confronti della sua progenie. Tim, infatti, abbandonò sua moglie Mary Guilbert ancora incinta di Jeffrey Scottie e con lui trascorse solo fugaci momenti dell’infanzia, prima della sua tragica morte avvenuta per overdose ad appena 28 anni. Il film narra il contorto disegno del destino, che porta uno sconosciuto Jeff a NY per partecipare al memorabile concerto in ricordo del padre, il 26 aprile 1991, nella chiesa di St. Ann a Brooklyn. La storia d’amore con una ragazza sembra accompagnarlo, come una moderna Beatrice, in un percorso interiore di riscoperta e, forse, perdono nei confronti di un genitore a cui era legato da un rapporto contraddittorio di odio-amore e sconfinata ammirazione artistica. La regia, quasi per supplire all’avarizia del destino, lascia incrociare continuamente i due protagonisti in un’alternanza dei piani temporali, per riunirli nel momento infinito e culminante in cui Jeff esegue, in quel concerto, proprio le canzoni composte dal padre in occasione del suo stesso abbandono. Rendere in parole la spietatezza e lo splendore di questo autentico e romantico incontro di anime, nella loro stessa essenza - la Musica - è praticamente impossibile, meglio lasciarlo alla vostra immaginazione, insieme ai silenzi e all’amore celati dietro le parole di “Once I was”, cantate proprio dal loro stesso destinatario: “And though you have forgotten / All of our rubbish dreams I find myself searching / Through the ashes of our ruins For the days when we smiled / And the hours that ran wild With the magic of our eyes / And the silence of our words And sometimes I wonder / Just for a while / Will you remember me” Fu allora che Scott "Scotty" Moorhead scelse di chiamarsi Jeff Buckley! La scelta di un cast molto curato incornicia Penn Badgley nelle espressioni più buffe e malinconiche di Jeff e Ben Rosenfield nella ritrosa fragilità dei gesti di Tim, mentre una regia lontana dal sensazionalismo tipicamente americano ed, a tratti, un po’ lenta, rende

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risuonare una forte sensazione di impotenza, quella di chi ama disperatamente qualcosa che non può comprendere fino in fondo e che non può fermare o sottrarre ad un inesorabile disegno del destino. Gary sta suonando per noi, e noi stiamo risuonando in lui, condividendo la stessa vertigine. Ma è il silenzio ad avere l’ultima nota. Quel sospiro.

Ciao, Jeff.

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JUST KIDS

ancor più cara l’intenzione artistica del film. L’evento tributo si conclude con il concerto di Gary Lucas e Alessio Franchini, accompagnato dal suo gruppo, il Circolo dei Baccanali. Le maglie arpeggiate e serratissime di “Cantina”, irrompono virtuose nel silenzio del teatro e rimandano agli anni in cui Gary e Jeff, nella formazione dei Gods and Monsters, ricercavano una comune dimensione artistica. Con l’arrivo di Franchini, definito “la voce italiana di Buckley”, e del suo gruppo, riviviamo la magia di tanti brani, che hanno segnato la nostra formazione musicale, come “And you will”, divenuta nel tempo l’ipnotica e ammaliante “Mojo Pin”, eseguita egregiamente dal cantante nella sua versione “estrema”, quella che la Sony decise di tagliare. Ogni tentativo di mantenere uno straccio di scetticismo vero chi ‘osa’ interpretare questi pezzi si scoglie in una commozione generale e l’ispirazione di quella voce, interiorizzata e non emulata, colpisce dritto lì, dove dimora la nostra nostalgia. Dopo canzoni come ”Dink’s song” e “Distorsion” sopraggiungono i vocalizzi dilatati di Franchini, infranti su cadenzati giri di basso, a incastonare una straniante “Hymne a L'amour”, mentre le incursioni psichedeliche ci avviano al momento tanto atteso, “Grace”. In bilico tra il sacro e il profano, la chitarra di Gary, vorace e tentacolare, avvinghia l’ascoltatore in fitte trame di suoni contratti e poi dilatati, alternando l’intensità di arpeggi folkblues ad incessanti progressioni rock diluite piano in campionamenti sonori. Ogni punto dello spazio è saturato dall’intensità di queste note e sembra quasi che la chitarra riesca a bastare a se stessa, così imponente e sontuosa da coprire tutto e nonostante questo, manca qualcosa! Avverto un’assenza, sì... la presenza di un’assenza? Come di una compagna anelata e speculare. Manca il silenzio, forse. Manca Jeff! Tutto sembra rimandare a quel sospiro incombente ed eterno, quella silenziosa vertigine invocata dal suo opposto, uno spazio che solo lui sembrava inseguire ed evocare nel canto come uno Zenit della catarsi artistica. D’ora in poi tutto diviene nostalgia, commossa e partecipe, ed i brani che Lucas gli dedica, come “Dream of the wild horses” e “Dance of destiny”, sono vere e proprie invocazioni d’amore, vortici incessanti di parole mai dette, in cui il dolore dell’assenza si sublima in sognanti visioni di libertà, come galoppate di cavalli selvaggi nella brezza di un tramonto sull’oceano. Le dita di Lucas percorrono la chitarra con la leggerezza di ali di farfalla e poi sembrano irrompere tra le corde col fragore della disperazione più struggente. Nel teatro sembra quasi


TEHO TEARDO BLIXA BARGELD [Musica] INTERviste

di Nadia Merlo Fiorillo e James Cook

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[Musica] INTERviste

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[Musica] INTERviste

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vevano già lavorato insieme per lo spettacolo teatrale “Ingiuria” nel 2009 e nel 2010 per il brano “A quiet life”, incluso nella colonna sonora del film “Una vita tranquilla”

Teho Teardo e Blixa Bargeld

di Cupellini, ma hanno lasciato di stucco tutti con “Still Smiling”, un disco che vale a poco definire ispirato e perturbante. Il noto compositore italiano – un vero artigiano del suono industrial che oggi scolpisce nella materia vibrante degli archi – e la voce storica degli Einstürzende Neubauten si sono cuciti addosso un album dai connotati onirici e stranianti, come solo l’ironia realistica di due artisti del loro calibro avrebbe potuto concepire. Per saperne di più abbiamo incontrato Teho Teardo e Blixa Bargeld nei camerini dell’Alcatraz, dopo il loro concerto milanese e questa intervista non ha smentito il fascino della loro musica, né la suggestiva spazialità che permette di percorrere ogni sua singola nota.

S

till Smiling è un disco che si può considerare una sintesi di musica astratta e di musica concreta, visto che coniuga elettronica, uso degli strumenti classici e rumori. Come lo definiresti? Non so bene cosa voglia dire musica astratta, perché in generale l’idea di astrattismo, ad esempio in pittura e in altre forme espressive, forse non è qualcosa che si può coniugare con la musica, però sicuramente vorrei evitare qualcosa di prevedibile, di banale. Il disco si pone proprio su questa direzione. Nella tua produzione acustica sei passato dall’uso dei martelli pneumatici alla melodia e questo disco è prepotentemente melodico. Da un punto di vista musicale, cos’è rumore e cosa melodia, secondo te? Non ho mai smesso con i martelli pneumatici, cioè li uso ancora, anzi lo uso ancora e c’è anche in questo disco. All’interno del rumore, a volte, è come se lavorassi con una sorta di microscopio che mi permette di fare un lavoro quasi molecolare sulla musica e lì dentro ci trovo della melodia. Scavando dentro il rumore c’è un sacco di melodia che mi interessa: armonici, overtones e spesso costruisco la musica così. Poi, all’interno di quelle cellule ci infilo gli archi e altro, però tutto avviene così. Negli ultimi anni hai composto tantissime

musiche per film (Il Divo, Diaz, L’amico di famiglia), dando una struttura sonora a moltissime immagini cinematografiche. Still Smiling, invece, è un disco che possiede in sé la facoltà di evocare visioni e scenari. Creandolo avevate in mente un disegno filmico? No, però è diventato un disco cinematico inevitabilmente, perché i nostri riferimenti sono cinematografici, letterari, gastronomici e c’è qualcosa che si annusa, che si lega. Quindi anche in questo disco. In più mi piace pensare alla musica per luoghi e quindi per stanze, per ambienti, per superfici. Pure se penso al cielo che c’è tra qui e Berlino, attraversato in aereo un sacco di volte, per me lì c’è un suono. Io vado a cercare questi suoni qui e quindi hanno a che fare con i luoghi, come i film che vengono girati in luoghi, in ambienti. All’interno degli ambienti c’è una storia, una narrazione, dunque nel disco è come se ci fosse una componente cinematica, solo che ci arriviamo da un’altra parte. Mi piace che la musica crei uno spostamento da-a, senza sapere necessariamente dove si andrà e mi piace che possa esercitare questa possibilità. Ci sono moltissimi dischi che, quando li ho ascoltati, mi hanno dato questa sensazione e sono orgoglioso se qualcuno soltanto semplicemente mi dice che anche per mezzo centimetro il mio disco lo ha portato in un altro posto.

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[Musica] INTERviste

|ph by Starfooker Cosa ha ispirato un brano come Axolotl? Questo pezzo parte da un’idea che arriva da un saggio di Giorgio Agamben, docente dell’Università di Venezia, che ha scritto un saggio nel quale c’è anche questo anfibio che muore prima di svilupparsi completamente. Attraverso una sorta di terapia ormonale, sono riusciti ad allungargli la vita ed è diventato un essere completamente diverso da quello che è. Quindi è qualcosa che ha a che fare con la nostra voglia di cambiare o di non cambiare, di rimanere esattamente come siamo oppure se cambieremo chissà come saremo. Se noi potessimo, che ne so, vivere più a lungo, chissà che forma prenderemmo. Ed è basato su questo.

identità quando si parla una lingua diversa dalla propria. Secondo te, ci si traduce fino in fondo, quando si traducono dei significati in una lingua diversa o la pronuncia è appunto ciò che impedisce una totale identificazione con ciò che è estraneo? Se io cambio lingua come reagisce il mio corpo? Le metafore che raccontano me e il mio corpo vengono con me? È questo che succede e che ci si domanda. Siccome siamo in un universo, tornando alle mappe, lo spazio necessita l’uso di altre lingue, o almeno la predisposizione ad accogliere altre lingue: come reagiamo, come ci comportiamo davanti al cambiamento? Ed è un rapporto tra l’uomo e il cambiamento e anche Axolotl ha a che fare con questo, In questo brano si percepiscono versi e rumori come “Mi scusi”. ambientali che, però, non avete registrato, ma prodotto con voce e chitarra. È un modo La dizione, la pronuncia è il suono della parola. per dire che ogni suono è riproducibile o credi La musica è il suono di che cosa? che ve ne siano alcuni che solo la loro propria La musica è il suono, non faccio distinzione fra musica fonte può emettere? e suono. Nel suono c’è la musica e viceversa. È uno Non si tratta di imitare suoni della natura, ma di degli elementi fondanti della musica il suono, però a trovare il modo in cui certi suoni possano portarti volte sono in pratica la stessa cosa. Tornando a quello altrove, indipendentemente da come sono stati creati. che dicevo, c’è proprio una ricerca molecolare dentro Non è un problema di imitazione, non c’è niente da le cellule del suono e la musica è una sorta di ambiente imitare, ma da inventare e reinventare. dove ci si può immergere. “Mi scusi” è una riflessione sulla possibilità In “Come up and see me” accennate all’uomo di rimanere se stessi, di conservare la propria che ha avvitato un intero Paese e il riferimento

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[Musica] INTERviste

|ph by Starfooker

a chi ha governato l’Italia per venti anni è evidente. Ma “to screw” vuol dire anche “fottere, ingannare”. In che modo siamo stati ingannati e che giudizio dai dell’attuale situazione politica italiana? To screw significa fottere ed avvitare, però il senso era riprendere il titolo di quel famoso numero dell’Economist “The man who screwed an entire country”, l’uomo che ha fottuto un intero paese. Ma forse abbiamo voluto farci ingannare, abbiamo voluto farci dire che andava tutto bene, che tutto sarebbe andato bene e abbiamo voluto probabilmente crederci. Io no, però è arrivato qualcuno che ce l’ha detto e tanti ci hanno creduto. In fondo sembra che ci siamo proprio impegnati a crederci e il momento di adesso è l’esatta conseguenza di questo. C’è una sorta di incoscienza che anche davanti alla realtà non ti fa vedere i buchi in cui stai precipitando e guardi altrove... [sguardo interrogativo e sconsolato]

un’icona dell’avanguardia musicale del calibro di Bargeld? Ma bene, siamo amici, ci troviamo bene, stiamo bene insieme. Siamo in tour con le nostre famiglie, con tutti i nostri bimbi - 3 bimbi in totale - io ne ho 2 e uno ce l’ha Blixa. Con moglie e tutto quanto stiamo proprio bene insieme. Stiamo già parlando di fare un altro disco, di fare un tour dopo l’estate in giro per l’Europa. Non ci ho neanche mai pensato a come farla questa cosa, abbiamo semplicemente agito senza fare troppi piani, troppi progetti. Già da subito le cose erano davvero molto chiare su come sarebbero dovute andare e le abbiamo fatte, semplicemente.

Still Smiling realizza perfettamente la prossimità di gusto musicale tra te e Blixa. Che cosa c’è in questo disco che appartiene solo a Teardo e che manca a Bargeld e viceversa? Da parte mia c’è la componente melodica fortissima, però poi il disco è fatto insieme e quel che è tuo diventa La tua collaborazione con Blixa risale al nostro e viceversa. È ciò che fa sì che il disco abbia un 2009 e approda, in questo disco, alla sua senso, altrimenti sarebbe un disco che accompagna espressione compiuta. Come è lavorare con Blixa Bargeld o la situazione in cui Blixa fa un featuring JK | 26


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secondo cui si dice che è molto dura farsi accettare all’estero cantando in italiano. Blixa canta in italiano. Noi siamo accettati in Germania cantando in italiano o in Inghilterra. Non è una questione di lingua, è questione di qualità e di talento, soprattutto anche di originalità. Secondo me succede soltanto in un ambito stretto agevolato dal fatto che in Italia le cose succedono sempre in ritardo. La coda lunga delle mode qui continua a gravare ancora un po’, mentre c’è bisogno di qualcosa che sia davvero di più. Negli anni ’80 c’era una band formidabile di Firenze che si chiamava Pankow, esistono ancora… Avevano una cifra stilistica talmente originale e forte che in Germania, in Inghilterra, nel mondo se li ricordano ancora. Questo ci serve, indipendentemente dal genere, dallo stile. Gli stessi Negazione, gruppo hardcore, hanno fatto tour in tutto il mondo, in America, in Europa facendo esattamente qualcosa che era soltanto loro. Questo ci serve, invece di clonare altre cose che arrivano dall’estero e farle, come dire, meno bene.

nel mio album e questo non funziona. Abbiamo deciso di farlo assieme nell’epoca in cui tutto si può fare per posta a distanza, noi, invece, abbiamo deciso di lavorare sempre assieme: lui ha lavorato tanto a Roma da me nel mio studio e io tanto a Berlino, perché era lo stare insieme in una stanza a far succedere delle cose che poi ha dato la forma al disco. Avete, dunque, registrato l’album tra Roma e Berlino, che da anni è capitale di una certa sperimentazione sonora. Cosa manca alla musica italiana rispetto alla fertilità creativa berlinese? Uno sguardo che sia consapevole del fatto che è necessario guardare al mondo, perché il mondo ci guarda e non ce ne accorgiamo. C’è un’autoreferenzialità nella musica in Italia che è un disastro, oggi. E questo è preoccupante, seriamente preoccupante. Non vorrei trovare soltanto in giro i miei dischi e i soliti pochi altri. Vorrei che ce ne fossero di più in giro, andando in un negozio a Londra o a Berlino. Invece purtroppo succede sempre che c’è questo leitmotiv degli italiani

Negli ultimi trent’anni la tecnologia e la comunicazione hanno modificato il modo di creare e distribuire la musica. Oggi potrebbe sembrare molto più semplice e a portata di molti avere una certa visibilità e “farsi ascoltare”. Cosa ne pensi? Tu pensi sia così facile promuovere un disco? Pubblicarlo forse si, ma promuovere in un certo modo un disco è difficilissimo. In questi anni forse c’è stato un cambiamento in peggio: un certo tipo di tecnologia, invece di essere un vantaggio e agevolarti nel far la musica e quindi farla meglio, ha soltanto agevolato il fatto che in molti di più possono farla ma spesso la qualità è sempre molto bassa. Quindi aumenta il rumore di fondo. Per quello è più difficile poi promuovere, perché c’è troppo rumore di fondo. Ma lo stesso vale per l’editoria. Il vostro è un connubio che potrebbe proseguire? Si, certo. In realtà di programmato non c’è nulla, però le cose si stanno muovendo in un certo modo e quindi, dopo le date in Europa, probabilmente andremo a suonare in Giappone e poi torneremo di nuovo in Italia. Nel frattempo svilupperemo le nuove idee che abbiamo di già. [ ]

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di Nadia Merlo Fiorillo

der maurer sebastiano de gennaro [Musica] INTERviste

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A distanza di un anno dalla fine delle celebrazioni per i cento anni dalla nascita di John Cage,

Enrico “Der Maurer” Gabrielli e Sebastiano De Gennaro hanno pensato

bene di fare omaggio al compositore americano, emblematico esponente dell’avanguardia novecentesca, con una rilettura esecutiva di due sue partiture, scritte entrambe come musica per coreografia, Dance Music for Elfrid Ide e Bacchanale. 1940 on Cage è un progetto molto sui generis, alimentato da una forte connotazione concettuale, ed esprime, attraverso una completa sovversione dell’idea di musica, la potenza iconoclastica del suono percussivo, muovendo un attacco all’inviolabilità del pianoforte, strumento per eccellenza della percussività sonora. Noi abbiamo provato a saperne e a capirne di più e in questa intervista ce ne hanno dato modo i due genietti dell’indie italiano, con cui abbiamo parlato anche di avanguardia “pop” e di libertà artistica.

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940 on Cage. Al di là di quella che potrebbe essere un’occasione solo celebrativa, perché un omaggio a Cage? Der Maurer (DM): Perché è appena concluso l’anno sulle ricorrenze di Cage. E a noi piaceva lavorare su musica sua in totale tranquillità e lontani dalle celebrazioni. De Gennaro (DG): Per quanto riguarda la mia personale esperienza su Cage, studiare brani del suo repertorio per percussioni (come la Terza costruzione o Double Music) è stata un’esperienza fondamentale. L’idea di suonare questa musica con Der Maurer era inevitabile. L’estetica di Cage ha sottratto senso all’autorità e alla centralità del compositore, liberando i confini creativi

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|ph by Alice Demontis

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dell’esecutore. In Bacchanale e Dance Music for Elfrid Ide qual è il vostro personale contributo e quali possibilità esecutive avete realizzato? DM: Il nostro è un approccio decisamente infantile. Abbiamo smontato il giocattolo per vedere come era fatto dentro e lo abbiamo rimontato. La parte adulta però è venuta fuori quando ci siamo resi conto che siamo stati in grado di rimontarlo in modo diverso e di farlo funzionare lo stesso. DG: Verissimo, abbiamo proprio smontato e rimontato questi due giocattoli. Con Cage lo si fa anche a cuor leggero perché, come dici tu, respingeva l’idea dell’autorità del compositore (lo dimostrò in maniera evidente nella sua produzione di musica aleatoria). Forse la sua idea di composizione era quella di avviare dei processi, noi lo abbiamo inteso così. Queste due partiture scritte nel 1940 rappresentano una sintesi espressiva tra musica e danza, due arti del movimento: nel caso della musica è un movimento sonoro, in quello della danza corporeo-visivo. Quanta visionarietà c’è nel vostro modo di suonare brani di musica concreta? DM: C’è, secondo me, molto empirismo e poca visionarietà. Ma è un empirismo indotto dalla distorsione delle cose e dei valori. Per cui l’esito conclusivo è probabilmente di fatto un passo falso e allo stesso tempo virtuoso. DG: Nel caso di 1940 non si tratta di musica propriamente concreta però, in effetti, è chiaro che questa musica nasce da un approccio empirico. Nel 1940 Cage scriveva queste cose partendo dalle esperienze concrete, eppure ne scaturiva un suono visionario. A mio parere il nostro modo di procedere è del tutto simile, nasce dalle esperienze fatte su queste partiture, suonate in duo, adattate ai nostri mezzi. Tu ed Enrico suonate in molte band dell’indie italiano, band seguitissime da un pubblico anche molto consistente. Questo vostro progetto per chi è e non credete che il suo ascolto possa risultare molto ostico ai più? DM: Noi abbiamo un concetto di “ostico” evidentemente diverso dai più. Per noi è sinceramente ostico un programma di competizioni in cucina o di mogli che si scambiano o canzoni che parlano di amore con tutti i crismi classici e certi fenomeni radiofonici e mediatici che proprio non capiamo perché non ci arriviamo. Siamo ignoranti in materia e facciamo proprio fatica a capire come esistano e si alimentino certe cose. Io chiedo spesso di spiegarmi come funziona un talent show ma continuo a non capire. Perché sono un po’ duro e ritardato. DG: Sì, io credo sia ostico per moltissimi, ma non sarebbe stata una buona ragione per evitare di esplorare questo repertorio e di pubblicarlo. Il nostro è un percorso di condivisione d’idee e di divulgazione. Questa musica è ricca, è intelligente, è trasgressiva e soprattutto parla un linguaggio differente: c’è n’è estremo bisogno.

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In 1940 avete sostituito il piano “preparato” tipicamente cageano con una doppia partitura, ma il concetto di fondo resta ed è quello di mostrare le potenzialità sovversive insite in quello che è lo strumento par excellence della tradizione musicale europea. Quali potenzialità eversive possiede oggi la musica e rispetto a quali canoni estetici? DM: La musica possiede potere. Questo è un dato di fatto. L’eversione non appartiene alla musica in quanto tale però, appartiene alla storia delle cose. Di fatto quando la musica riesce col suo potere ad intaccare fatti salienti della germinazione spontanea in fatto di eventi sociali e storici ha sganciato un vagone e si “evertono” certe cose. Ma perché ciò accada devono concorrere tanti fattori. La musica da sola non basta: servono i gesti di chi la fa, il tessuto sociale in cui viene fatta, i mezzi con cui viene espressa. Diciamo che oggi queste cose spesso si muovono singolarmente e dunque non si creano condizioni eversive. Ma aspetto di essere sempre sorpreso. DG: In questo caso noi siamo stati eversivi dell’eversivo, abbiamo spaccato in due una singola partitura che a sua volta aveva rotto con il classico concetto di pianoforte. Una cosa è certa: la storia della musica è disseminata di questi episodi e quindi il potere eversivo della musica è evidente. Di quali canoni estetici? Ovviamente di quelli che vengono prima, oggi forse ancora molto simili ai canoni vigenti ai tempi di Cage: l’armonia consonante e le forme immediatamente comprensibili. Nel 2013 il panorama musicale “pop” ha la possibilità di diventare avanguardia e c’è una band che, secondo voi, può rappresentare un esempio in questo senso? DM: Ci sono molti gruppi strumentali che, a mio avviso, rappresentano una vera risorsa in questo paese. Sospendendo la parola si fa un’operazione interessante e antiretorica. Fuzz Orchestra, Morkobot, Meteor, Ronin, Guano Padano, Vincenzo Vasi, Zeus!, Hobocombo, Junkfood, sono i primi che mi vengono in mente. Ma ne verranno fuori tanti altri che semineranno un buon quantitativo di stimoli per le generazioni a venire. DG: Cacchio! all’estero è così e sembra proprio sia una cosa normale, per esempio ho sentito l’ultimo disco dei Flaming Lips, è un gruppo pop ma anche rock ma anche d’avanguardia…non si capisce ma chi se ne frega, favoloso. Nella scena pop italiana

di proposte definibili all’avanguardia non le conosco (sarebbe bello ci fossero e forse è anche il momento giusto), però di musicisti e band strumentali che fanno avanguardia ce n’è anche di migliori che a Berlino. Di notte sento una trasmissione su RadioTre: Battiti. Lì passano tanta avanguardia italiana. In 1940 ci sono due vostri silenzi. Non pensate sia scioccante per chi è abituato all’ascolto di ritmi, melodie e armonie codificate in una precisa sintassi sonora trovarsi di fronte ad un’esperienza acustica del genere, che come prima reazione ti fa pensare “ma cos’è?”? DM: I silenzi suonano sempre bene, secondo noi. E su vinile sono addirittura piacevoli. E poi ci servivano per completare il minutaggio di 19’40’’. Cage pensiamo avrebbe apprezzato. Certo, il suo 4’33’’ era arte. I nostri sono semplice musica. Pensando alla libertà di chi interpreta partiture o brani scritti da altri, mi viene in mente UPM (Unità di Produzione Musicale), il progetto che Enrico realizzerà con un folto gruppo di musicisti italiani noti e meno noti, nel quale la produzione di musica è ottenuta simulando turni di lavoro di 8 ore in catena di montaggio. Di quale indipendenza gode oggi un musicista italiano e a quali costrizioni, invece, è sottoposto? DM: Dipende in che sistema di rapporti sei coinvolto. Quando sei chiamato per svolgere un ruolo specifico sei sottoposto a regole che non sono tutte tue; se invece sei tu da solo o in un contesto di comunione di intenti il tuo ruolo segue regole che sono di semplice convivenza. In ogni caso le regole ci sono sempre. E io personalmente non ho alcun problema a farci i conti. Quando sono stupide però si soffre. Ma i soldi sono sempre meno e dunque si è sempre meno disposti ad accettare ruoli stupidi se almeno non sei pagato bene. Ergo: meno soldi uguale a meno regole. E tutti sono più felici. Però poi penso a tutto questo discorso e, non so perché, mi viene tristezza. Voi vi sentite artisticamente liberi in progetti come 1940 on Cage o quando collaborate, per fare solo qualche nome, con i Calibro 35 e i Baustelle? DM: Io personalmente so cosa serve ai Calibro 35, che sono il mio gruppo, e immagino di sapere come rendermi utile ai Baustelle che non sono il mio gruppo.

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Questo destreggiarsi in diverse forme di applicazione mi fa sentire libero. Talmente tanto libero da fare un disco nuovo con i Mariposa, scrivere un’opera lirica, mettere in piedi un’orchestrina liscio o fare un vinile su Cage assieme a quel geniaccio di Sebastiano de Gennaro. DG: Mi è sempre sembrato sano ed utile mettermi nei panni di altri artisti, limitando la mia libertà in favore di progetti diversi in cui magari la mia pura ricerca risulterebbe incoerente. Le Luci della Centrale Elettrica o Edda o i Baustelle sono artisti nel cui mondo vale la pena di calarsi sbarazzandosi delle proprie ambizioni creative. Quindi: no, non mi sento libero in quelle situazioni ma non avrebbe senso per me esserlo, sarei un pessimo elemento. Mi sento a mio agio, perché faccio la mia parte nel gruppo.

Abbiamo già suonato il 1° giugno alla Galleria Ono di Bologna, il 15 giugno a Villa Romana a Firenze e il 18 giugno al Carroponte. Altre date si aggiungeranno di sicuro a queste e per saperne di più potete consultare il sito www.sebatianodegennaro.com. [ ]

Un’ultima curiosità: porterete live questo progetto? DM: Lo vogliamo assolutamente! Quanto e più possibile.

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JUST KIDS

Cage ha sempre sostenuto che bisogna far musica “dimentichi dell’ingombrante, pesantissima struttura dei divieti musicali”. Ve ne sono alcuni, secondo voi, che vanno rispettati perché si possa fare non della musica, ma della “buona musica”? DM: Quella frase del cazzo “c’è musica buona e musica cattiva” ha rovinato tanta gente, perché è una frase che esorta al giudizio definitivo sulle cose e ammette solo due possibilità nel verdetto. Non esiste un’etica, né un sistema codificato di leggi, né una politica del gusto musicale. Se queste cose ci fossero sarebbero stati presi, colpevolizzati e linciati in pubblica piazza i responsabili della “cattiva musica” e tutti vivremmo in un mondo migliore. In base sempre al concetto della cattiva o della buona musica verrebbe da pensare che proprio la pubblica piazza preferisce di gran lunga la prima. Per cui io non voglio più pensarla in questi termini, altrimenti dovrei rinunciare a fare le cose per e con la gente. DG: Ma sì, dai, le regole fanno bene alla musica se c’è un’idea prima. Una bella canzone è una bella canzone perché c’è l’idea, se poi è ben ‘formalizzata’ tanto meglio, no? Cage era stufo dell’epoca in cui la formalizzazione musicale aveva raggiunto un livello esasperante e probabilmente sentiva il desiderio di seguire altre strade. Ma se penso alla musica barocca, la cui struttura era regolata in tutti gli aspetti, armonici, formali, funzionali, beh ce n’è tanta e bellissima.


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Tornano insieme dopo 10 anni esatti e riprendono un discorso anticipato ma lasciato in sospeso in Sanacore. Con il nuovo

Almamegretta

|ph by Oreste Pipolo

disco, Controra, Raiz e gli si rimettono alla ricerca del tempo sottratto, in 11 tracce che riassumono il loro stile di sempre, ma strizzando l’occhio alla forma canzone e a un pop stavolta più esplicaito. Tempo, lavoro, otium sono le parole-chiave di questo nuovo album, che spiazza gli abitudinari dell’ascolto e conferma il primato da sempre mantenuto dagli Almamegretta nell’Olimpo del dub italiano. Abbiamo incontrato Raiz in un tardo pomeriggio di giugno e ci ha regalato non un’intervista, ma un incontro appassionato di rivelazioni e confessioni sugli Alma, su se stesso e sulla società attuale.

ALMAMEGRE di Nadia Merlo Fiorillo

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L

a prima domanda, quasi d’obbligo, riguarda il tuo ritorno, a distanza di 10 anni, all’interno degli Almamegretta. Per voi è stata una necessità e, da un punto di vista artistico, come vi siete reciprocamente trovati? È stata una necessità artistica, più che un fatto materiale, anche perché ho sviluppato una carriera solistica che è molto più underground rispetto a quella che avevo con gli Alma ai tempi d’oro della band, tempi che probabilmente non torneranno nemmeno più per la musica italiana di un certo tipo. Oggi è tutto molto cambiato, ma abbiamo avuto un momento molto alto, a cui è seguito un fisiologico “rompete le righe”, dovuto a 13 anni di lavoro insieme e a quel po’ di stanca artistica che naturalmente si sente. In seguito a ciò, io mi sono dedicato a un altro tipo di carriera, appunto più underground, che mi garantisce di andare avanti, di fare il mio lavoro e va bene così. Gli Alma lo stesso, più nel settore dub e al di fuori della forma canzone, si sono fatti comunque un nome e lo hanno portato avanti anche senza di me. Le cose, perciò, sono proseguite distintamente, anche se facciamo comunque parte della stessa fascia di mercato, dunque se c’è stata una necessità, è stata una necessità di tipo esclusivamente artistico. Tra di noi, fra l’altro, è sempre rimasta una grande amicizia, che, ti dirò, va proprio al di là del gradimento personale. Ci conosciamo da tantissimo tempo e, per esempio, conosco Paolo, il tastierista, da più di 30 anni; ci siamo conosciuti in una sala prove quando io ne avevo 17 e lui 15 e facevamo già musica. A me, a un certo punto, è mancato il senso del collettivo e a loro sono mancate probabilmente le cose che facevo io e che riuscivamo a fare insieme.

Io credo che la nostra più grande vittoria sia proprio il fatto di aver continuato l’amicizia negli anni e di non aver mai litigato per soldi. Piuttosto, abbiamo litigato per un suono di rullante, ma mai per interesse e, anzi, siamo molto lontani da ciò. Questa è la nostra grande forza, ma anche la nostra grande debolezza, perché se fossimo stati più furbi avremmo fatto tante altre cose. Quando vi siete resi conto della necessità di una vostra reunion? Questa cosa è nata quando John Turturro ci ha dato la possibilità di lavorare insieme. In realtà mi aveva chiesto di fare una nuova versione di Nun te scurdà per il suo film Passione e io gli dissi di volerla assolutamente fare con gli Alma. Abbiamo allora deciso di riprendere i nastri originali che, però, non si trovavano e quindi abbiamo riregistrato il pezzo. Siccome lui lo voleva uguale all’originale, ma con l’introduzione di due nuove voci, quella di M’Barka Ben Taleb e di Pietra Montecorvino, alla fine ci siamo ritrovati a fare una replica del lavoro che avevamo già fatto 20 anni fa in studio ed è come se dal cielo fosse caduta una seconda occasione per ricreare esattamente quel clima. Visto che in quei giorni ci siamo divertiti tanto, abbiamo deciso di ritornare in studio e creare una cosa nuova, ma con la premessa di fare pezzi che valesse la pena pubblicare. Se l’intento fosse stato solo quello di far acquistare il disco per scavare il fondo del barile non lo avremmo fatto, perché è un barile che sta bene anche da solo e saremmo stati contenti così. Però il disco ci è piaciuto e lo abbiamo fatto uscire. Questo vostro nuovo disco si chiama Controra e ‘a cuntrora, in napoletano, indica il momento della giornata tipicamente postprandiale, in cui si dedica del tempo a se stessi. Lo avete usato, dunque, come metafora per la riappropriazione della nostra umanità. Più che dell’umanità, si tratta del recupero del tempo.

È mancata, forse, la tua voce? A parte la voce, credo che siamo talmente simbiotici sul palco, che scatta una specie di magia per la quale se io sono uno, gli Alma sono uno, insieme siamo due o tre, insomma facciamo forza ed è una cosa bella. Il godimento che si ha per questa cosa basterebbe già solo per continuare a lavorare insieme. Quindi avete ripreso un discorso già avviato quasi 20 anni fa con Tempo, ultima traccia dell’album Sanacore? In un certo senso sì. Quello del tempo, infatti, è un tema a noi molto caro e già allora se ne parlava nei termini del tempo che manca, che non c’è. Di tempo non ce n’è più, quando in realtà ce ne sarebbe a iosa e te ne accorgi proprio dal tempo che

ETTA

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tutti rincorrono nel lavoro. Oggi il lavoro non serve e questo fatto ormai è una realtà. Che il lavoro non serva o che serva a molto poco lo dimostrano, tra l’altro, i continui licenziamenti. Ma se la controra è riappropriazione del tempo sottratto dal lavoro e se oggi il lavoro manca, cosa diventa ‘sta cuntrora? Diventa il momento in cui si prende coscienza che il lavoro è un sistema di controllo. Ho molti amici che lavorano in fabbrica o che fanno i consulenti per delle fabbriche e nella maggior parte dei casi sono persone che percepiscono un reddito ma che di fatto non producono. Perché accade? Perché è molto utile tenere le persone coatte in un posto, dal momento che sono più controllabili. La gente non si fa venire strane idee, tipo espandere la propria personalità o cambiare la propria visione della vita e della società. E’ la circolarità produzione di reddito-consumo e questa, secondo noi, andrebbe spezzata appunto attraverso la ripresa del tempo proprio. Quello che dici pare confermare l’impressione che ho avuto ascoltando Controra, la traccia 6 del disco. Mi sarei aspettata un pezzo con pochi bpm, proprio a voler mimare il ritmo lento di questo momento slow della giornata, invece è un brano techno, nel quale dite “nuje venimme a ce piglia’ tutt’’e cose e ce le ‘a ra” (noi veniamo a prenderci tutto e ce lo devi dare). È una rivendicazione di quello che oggi ci spetta umanamente e di diritto? Io credo che la differenza tra un uomo libero e uno schiavo si misuri in base al dominio del tempo e del calendario. Se domini il tuo tempo, sei libero e nel momento in cui domini il tuo tempo sviluppi la tua personalità; se il tuo tempo è soggetto al dominio di un altro, non hai molte possibilità di scelta. Noi Alma non facciamo politica e non apparteniamo a partiti politici, né abbiamo programmi politici, ma facciamo la politica con la p maiuscola in maniera, direi, da anarcosindacalisti, nel senso che rivendichiamo il diritto di prendersi ciò che ci serve, dunque se c’è bisogno di tempo, mi prendo del tempo e non mi pongo il problema dei programmi, di ciò che succederà.

e non cucino più”. Qual è il prezzo vero che stiamo pagando per il progresso e Napoli ha ancora possibilità di progredire o, come molti sostengono, è destinata a campare sempre negli stessi problemi? Lo spunto di Mamma non lo sa è uno spunto pasoliniano. C’è un’intervista molto bella, trovata su Youtube e che consiglio di vedere, in cui Pasolini parla, da Ostia, della società di massa. Erano gli anni ’70 e allora sosteneva che quello che non era riuscito a fare il fascismo, lo aveva invece prodotto la massificazione dei consumi. I problemi sorgono quando ti viene sottratta la cultura popolare e mi viene sempre in mente mia nonna, che parlava poco l’italiano, sapeva scrivere grazie al maestro Manzi e alle sue lezioni televisive, ma possedeva una grossa cultura e se lei mi avesse visto, per esempio, mangiare un’arancia in piena estate mi avrebbe chiesto dove l’avessi presa. Lei non aveva una cultura scolastica, ma una cultura di vita e conosceva il ciclo delle stagioni, sapeva quando uscivano le verdure, soprattutto sapeva cucinare. Mia nonna era dei Quartieri Spagnoli e oggi nei Quartieri ci sono persone che non sanno cucinare, ma a fronte di ciò non possiedono una laurea. Piuttosto, guardano la tv, passano il tempo su Facebook, vivono di espedienti, di facilitazioni e di lavoretti saltuari. Mia madre è stata educata da una persona che non ha frequentato scuole, eppure ha un’educazione, una moralità, un’etica, mentre oggi quelle stesse persone che non hanno studiato e sono state spossessate del loro background crescono dei figli che pure passano le giornate davanti alla tv, con la merendina in mano a se fa’ chiatte (ad ingrassare, n.d.r.). Questo non è progresso, ma lo spossessamento più grave, di cui anche Napoli è vittima.

In un altro pezzo del disco, Pane vino e casa, sono presenti degli archi e dei fiati che richiamano atmosfere bandistiche di paese, mentre il sax di Senese mi rimanda molto ai paesaggi industriali dell’hinterland napoletano – quasi rivedo, non so perché, le luci gialle che illuminano di notte la tangenziale. Due mondi messi a confronto, uno periferia di un’altra periferia. È un’esortazione a retrocedere e da cosa? In uno dei due brani portati a Sanremo, In un altro luogo, Pasolini dice che con tutte le Mamma non lo sa, voi dite “ho imparato a aberrazioni del passato, l’unica forza che si oppone leggere e a parlare, ma mangio scatolette al presente è ciò che abbiamo dietro, i nostri valori.

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|ph by Luca Anzani dal video “Mamma non lo sa” Malgrado il maschilismo, il bigottismo, i valori che ci siamo lasciati indietro e che sembrano essere spariti con l’avvento della società di massa, sono l’unica cosa che oggi può opporsi ad un presente e all’alienazione umana che produce. Allora, noi Alma diciamo che la nostra mania di tornare indietro non è un fatto nostalgico o, peggio ancora, luddista, tant’è che crediamo nella tecnologia e nell’aiuto che può dare. Altri gruppi pure sono tradizionalisti, tipo CasaPound, ma con una concezione del passato immobilista e idealista, soprattutto difendono un concetto stupido, come quello di “nazione”, come se l’idea di nazione fosse un’idea in sé e non il risultato di una sedimentazione storica di popoli che, di volta in volta, si incontrano, si mischiano e creano nuove cose. Noi, invece, crediamo nel passato perché ne vediamo

la grossa carica umana che possiamo riattraversare per allenarci a ritornare umani e affrontare la sfida del futuro . Parlando di tradizione e di pregiudizi, penso ad un altro dei brani inclusi in Controra, La Cina è vicina, in cui affrontate, sebbene in maniera molto leggera, uno dei vostri temi di sempre, ossia quello della differenza culturale e dell’integrazione tra razze, e fate riferimento ad uno dei popoli migranti che è considerato da molti come una vera e propria minaccia, soprattutto da un punto di vista economico. Ascoltando il pezzo mi è venuto in mente ‘O buono e ‘o malamente di Animamigrante e mi è sorta questa domanda: non riuscire

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a considerare buono ciò che a prima vista è malamente, non rende questa Cina molto meno vicina di quanto voi credete? Il pezzo, in realtà, è un divertissement e parte da uno slogan usato dai maoisti negli anni ’70, una specie di “adda veni’ baffone”, per cui Mao verrà e cambierà il mondo, uno slogan che poi è caduto, come è caduta l’ideologia su cui si basava. Noi lo usiamo per dire che le differenze sono vicine. Tutto ciò che è molto lontano può essere molto vicino e così pure gli obiettivi che uno si prefigge. È un invito a provarci, anche se poi non riesci. Poi c’è la storia a noi molto cara della diversità, anche se non crediamo necessariamente nella mescolanza delle diversità: è un fatto molto libero e se uno vuole fare una cosa, la fa. Abbiamo realizzato un video per La Cina è vicina e alla fine i due personaggi si ritrovano con qualcuno che appartiene alla sua cultura, scelta oggi comprensibilissima. Insomma: hai voglia di stare con uno straniero, fallo; hai voglia di stare con chi è della tua “razza”, nessuno te lo vieta. Di fondo, il messaggio del brano resta questo: uscire dagli stereotipi, come cerchiamo di fare noi Alma con la nostra musica ibrida. Sempre riferendosi a questo brano, mi è capitato di leggere in rete i commenti di chi ha dimenticato che Controra è pieno di sonorità già presenti in Animamigrante, Sanacore, Imaginaria. Molti si sono fissati su La Cina è vicina e vi hanno mosso l’accusa di aver prodotto un disco troppo pop, in cui ne uscite snaturati. Che ne pensi? Innanzitutto vorrei chiedere a queste persone quanti dischi degli Alma hanno comprato e quanti ne hanno ascoltati. Ma al di là di ciò, non abbiamo alcun problema a dire che si tratta di una scelta commerciale. Visto che abbiamo fatto un disco con una major, avevamo bisogno di un pezzo che potesse passare in radio e questa necessità ha anche condizionato il testo e il sound di La Cina è vicina. In altre occasioni abbiamo prodotto pezzi molto ermetici, ma nel caso di un pezzo molto dolce e molto romantico, come lo è questo, l’ermetismo non ci sembrava il registro più adatto. Tra l’altro, è da molto che avrei voluto scrivere un brano sull’amore tra un ragazzo napoletano e una ragazza cinese e quando mi è uscita la melodia ho pensato a qualcosa di molto onirico e psichedelico, ma questo pezzo è chiaramente ironico. A me l’idea della serietà e dell’impegno a tutti

i costi pure mi sta molto stretta e noi Alma ci vogliamo permettere anche di essere morbidi, quando ne abbiamo voglia. Anche i fan, comunque, dovrebbero permettersi un ascolto meno ideologico, invece in Italia solitamente i giudizi sono veicolati dall’esperto o dal critico di turno. Noi abbiamo avuto la fortuna di avere tra i nostri estimatori un critico come Goffredo Fofi, che scrisse molto bene di noi quando uscì il nostro primo disco nel ’92. A lui piace davvero la nostra musica e non c’è, in questo caso, un retropensiero, ma c’è stata tanta gente che sull’onda delle sue esternazioni a nostro favore ci considerava dei geni, senza aver mai neanche ascoltato un nostro pezzo. La domanda, allora, che mi viene da fare è “che cos’è commerciale?”, e bada che gente come Dylan e Pink Floyd sono commerciali, ma nessuno li ha mai accusati di esserlo. La divisione commerciale/non commerciale, dunque, non ha molto senso, se ci pensi bene. Tra l’altro La Cina è vicina non è l’unico episodio musicale che si distacca dal vostro sound tipicamente dub e penso a ‘Na bella vita, esempio chiarissimo di melodia napoletana. Anche questa, allora, non doveva rientrare in un disco degli Alma. Questo è meno criticato perché, essendo cantato in dialetto, ci sta la bandiera napoletana che noi portiamo e pure un pezzo come Ancora vivo non riceve molte critiche. È una canzone araba e la sua linea di canto è una roba neomelodica mediterranea. In tutto il Mediterraneo c'è il neomelodico e parlano sempre delle stesse cose: “ma pecché nun scinne?” (ma perché non scendi?), “nun te spusa’ a chillo, pecché te voglio bene io” (non sposarlo, perché ti amo), argomenti che un certo tipo di Intelligencija ha sdoganato e che sono nostri. Ma se pensi che un pezzo del passato, come Respiro, pure era un’ibridazione voluta fra l’hip hop di New York e il pop neomelodico napoletano, capisci che gli Alma sono da sempre tutte queste cose qui, un meticciato musicale di dub, reggae, neomelodico e pop. Un’ultima domanda, stavolta più personale. Ti sei convertito all’ebraismo ed è cosa nota, soprattutto dopo che a Sanremo hai saltato un’esibizione per rispettare lo Sabbath. Questa tua conversione spirituale ti ha cambiato anche come artista? Già in Mamma non lo sa c’è un chiarissimo rimando al Qohélet e mi chiedevo quanto della tua conversione fa ora parte della

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tua musica. ufficiale, più per gli altri che per me. [ ] Il Qohélet è citato lì e in Disco Biscuits, ma in tempi più lontani ho citato anche i proverbi di Salomone, mentre in Lingo c’era En-sof, che è uno dei nomi di Dio. Questa è una delle cose che io ho sempre avuto dentro e che poi è diventata una realtà, attraverso un percorso anche abbastanza sofferto. Ero quello e a un certo punto ho chiesto di essere apertamente quello a chi mi poteva dire “ok, tu sei noi”. Quindi è il modo in cui sono sempre stato. In Animamigrante c’è un pezzo, Terra, in cui ringrazio appunto la Madre Terra, un pezzo dai risvolti panteistici solo perché ero troppo giovane e troppo timoroso del giudizio dell’ambiente in cui stavo, per poter fare affermazioni in linea con il senso del divino e della mistica ebraica. La differenza con Raiz musicista di ieri è che ora la cosa è diventata

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Grazie a Lia e a Rosi Polcari della libreria Evaluna di Napoli.

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|ph by Daniele Leonardo Bianchi

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nadar solo

Nadar Solo

I hanno pubblicato uno dei dischi piĂš interessanti di questa prima metĂ di 2013 in ambito rock italiano: "Diversamente, come?". Li abbiamo intervistati per approfondire il di Antonio Asquino disco ma anche per parlare di tanti altri aspetti legati alla loro musica e alla loro poetica che hanno inevitabilmente toccato anche la nostra attualitĂ . JK | 42


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la mano e quindi abbiamo messo tantissime chitarre ed è venuto fuori un sound quasi punk rock con chitarroni molto invasivi. Dal disco precedente a questo c’è stato questo tentativo, pur facendo sostanzialmente lo stesso tipo di cosa, di rendere il suono un po’ più delicato e un po’ meno prepotente rispetto alle parole.

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ome si è evoluto il vostro lavoro, sia in questo che nel disco precedente? Ci sono delle caratteristiche in particolare che ricercate come suono distintivo dei Nadàr Solo? Matteo (M): Sicuramente ci sono delle caratteristiche che ricerchiamo. In questo ultimo disco siccome ci sono più “canzoni” nel senso stretto del termine, abbiamo cercato di portare un pochino indietro gli strumenti senza perdere di vista che siamo un power trio. Facciamo comunque il rumore che dobbiamo fare con chitarra, basso e batteria ma abbiamo cercato di scarnificarlo un pochino e metterlo più al servizio delle parole. Il disco precedente al contrario, ci aveva un po’ preso

Nella scrittura dei testi vi rifate ad un immaginario letterario e/o cinematografico di riferimento? Federico (F): E’ un immaginario cinematografico. Io mi muovo più per visioni: se ho una cosa in testa che voglio dire, una storia, un sentimento o una sensazione, cerco delle immagini che le possano descrivere al meglio. Matteo invece ha un tipo di scrittura che riesce a scavare nel particolare delle storie raccontando una cosa generale partendo dal particolare. Ad esempio a me emoziona molto Alberto dei Verdena che scrive dei testi che ti fanno pensare: “bah, chissà che cazzo vuole dire!”. Però ci sono sempre immagini che mi suscitano qualcosa e penso di essere più vicino a quel genere di poetica. M: Io no, o quantomeno non consapevolmente. Sono tantissime le cose che mi piacciono però non ho mai sviluppato un passione, diciamo, “monografica” per un personaggio o per delle opere in particolare. Io so che da un punto di vista letterario, mi hanno molto influenzato le letture che ho fatto dai diciotto ai ventidue - ventitré anni: dai classici russi alla letteratura di resistenza partigiana e poi a quelli che leggevo negli anni novanta, Aldo Nove e una serie di scrittori che a quell’età ti colpiscono molto. E’ chiaro che poi tu lavori per tirare fuori la tua identità di narratore ed è forse la sintesi di quello che ho imparato e di quello che mi è piaciuto nel corso degli anni. Oggi non ho mai un modello a cui rifarmi. Generalmente mi rifaccio di più alle cose che vivo e su cui sento la necessità di andare a fondo. E’ così anche per le canzoni. Alex (A): Io non scrivo però riconosco che Federico lavora più per immagini, magari non ti sta raccontando una storia come invece fa Matteo, ma cerca di darti un immaginario, che è un po’ il metodo che utilizzano spesso e volentieri i Verdena, appunto, dove magari prima arriva la musica e poi arriva il testo. Lo facevano anche i Nirvana... Noto anche che tu, Federico, tendi più a lavorare proprio sul suono delle parole diversamente da Matteo... F: C’è da dire che Matteo, rispetto anche all’approccio alle linee melodiche del cantato, alcune volte scrive

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delle metriche strettissime, pregne e riesce a creare dei piccoli racconti. A me piace molto lo slargo di voce, la vocale tirata un po’ più a lungo. Spesso prima penso a una linea melodica e dopo ci scrivo il testo sopra, invece penso che a Matteo prima gli viene l’idea per il testo e poi ci suona sopra. C’è una canzone dei Nadàr Solo a cui siete particolarmente legati? A: Dipende dall’album, io ad esempio sono entrato nei Nadàr Solo quando il primo album era già uscito Avevano un altro batterista e diciamo che di quel repertorio, anche se non ho scritto io le parti di batteria, mi sono innamorato molto di “Stato Maggiore”. Per quanto riguarda “Diversamente, come?”, dove abbiamo composto noi tre, per il momento non c’è una preferita, mi piacciono abbastanza tutte. F: Io faccio una differenziazione tra quelle che mi piace ascoltare (in questo momento sicuramente “Le Case Senza Le Porte”) e quelle che mi piace suonare e che cambiano in continuazione. In questo momento mi piace sicuramente “L’Abbandono”. A: E’ vero,“L’Abbandono” perché tra tutti forse è il brano tecnicamente un po’ differente, un po’ più fuori stile. E’ venuta fuori una roba strana, nella scaletta è sempre un momento divertente. M: Per me “Le Case Senza Le Porte” che non doveva neanche essere nel disco perché è stata scritta tra la pre-produzione e la produzione dell’album. dE’ venuta fuori durante l’estate molto estemporaneamente e abbiamo deciso di metterla dentro. E’ un brano di cui sono soddisfatto perché ha un messaggio molto importante che è riconducibile anche a quello di cui parlavamo prima. Mi piace il fatto di fare delle cose che hanno senso e non di perdere la vita dietro stupidaggini che non hanno valore, in preoccupazioni, a stare sulla difensiva, preoccuparmi che la porta sia blindata, che il pavimento non abbia delle crepe. C’è tantissima gente che ci impiega davvero tanta energia in queste piccole cose che, per carità, sono anche rassicurazioni necessarie perché la vita è difficile da affrontare e hai bisogno di un nido, però penso che tanta gente rinunci in fin dei conti a se stessa. E questo accade perché veniamo educati così e non ad esprimerci. Non vorrei usare un’espressione brutta però credo che l’educazione di un bambino sia in qualche modo una sorta di stupro collettivo che la società perpetra nei confronti dell’individuo: una serie di piccole violenze e sofferenze finché uno diventa strutturato e a quel punto non può più nuocere a nessuno. Forse da un lato

è necessario, ma è anche vero che tanta gente muore dentro. “Le Case Senza Le Porte” prova a raccontare un pochino questo in poche parole semplici. Se doveste descrivere i Nadàr Solo a chi non li conosce o non li ha mai ascoltati, per convincerlo ad ascoltarvi che cosa gli direste? M: Gli direi che noi facciamo questo mestiere perché ci entusiasma da morire, perché dà un senso profondo alla nostra vita... io i messaggi promozionali non li so fare per niente però penso che possa essere una bella esperienza ascoltare un nostro disco o un nostro concerto ma l’unico modo per dimostrartelo è che tu venga ad ascoltarci, che tu ascolti un nostro album e poi mi dirai se avevo torto. Se avevo torto... non ti ripago il biglietto, questo no, perché non ho proprio la possibilità!!! F: Le due cose che mi vengono subito da descrivere sono l’approccio ai testi, sia quelli che scrivo io ma soprattutto quelli che scrive Matteo che definirei in senso ampio “cantautorale” cioè un testo curato in cui si cerca di dire qualcosa e non di buttare giù delle parole in un italiano bofonchiato solo per avere la linea melodica del cantato. Per quel che riguarda la musica invece, mentre per i testi l’occhio è rivolto verso l’Italia, noi ascoltiamo quasi esclusivamente roba straniera a parte Il Teatro (Degli Orrori) che è facilmente intuibile e pochi altri, citerei i Verdena ma a parte questi, tanta roba straniera. Alex adesso è preso tantissimo da questo gruppo che si chiamano i Mutemath, io invece sto ascoltando tanto i Tame Impala, Matteo sta ascoltando gli Alt-J e in generale l’approccio alla musica è più esterofilo. Quanto vi hanno aiutato i vostri ascolti nella vostra carriera di musicisti? M: Come ti dicevo prima, noi non abbiamo mai sviluppato una mitologia vera e propria verso un artista in particolare. A parte Fede che è stato un folle amatore dei Beatles per tutta la sua adolescenza, io da ragazzino qualche passionaccia ce l’ho avuta: i Nirvana, gli Smashing Pumpkins,i Radiohead...questi gruppi chiaramente ci hanno formato nella testa ma come succede per tutti, c’è un periodo in cui ascolti tanto e un periodo in cui ributti fuori, per cui abbiamo dei cliché, se vuoi, nella nostra testa che ci aiutano poi a comporre i nostri brani e penso che sia evidente il tipo di tradizione rock a cui ci rifacciamo. Il nostro tentativo è quello di creare un mix tra il rock classico e il cantautorato perché, molto spesso, quello di cui ci siamo resi conto ascoltando il rock italiano è

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che ci piaceva da matti la musica ma le parole non così tanto come invece ci piacevano le parole dei cantautori e viceversa, se ascoltavo De André la musica quasi mai mi entusiasmava. Non per fare un paragone, però ci piaceva l’idea di scrivere dei testi come piacciono a noi e la musica come piace a noi e metterli insieme.

in generale quello che c’è in “I Tuoi Orecchini” c’è anche in altri brani del disco per esempio “Quel Sabato Mattina” e “Non Conto Gli Anni” anche se è meno esplicito ed è la nostalgia per una storia finita non tanto perché non si fosse più innamorati ma perché non si riusciva più a far quadrare le cose.

Il brano “I tuoi orecchini” mi ha colpito particolarmente per l’intelligenza musicale nell’arrangiamento, nell’impostazione, nei cambi e nel testo: una fotografia perfetta sia della vostra musica che della realtà che ci circonda. C’è una storia dietro questo brano? M: Questa canzone è una delle cinque dell’album che ho scritto io ed è autobiografica. Nei mesi precedenti alla scrittura dei brani e anche in contemporanea ho vissuto, come tanta gente, una storia d’amore turbolenta che mi ha fatto soffrire tanto. La storia è abbastanza vera, con un po’ di romanzamento. E’ la storia di qualcuno che ha troncato una storia d’amore e cerca di fingere che non gliene importi niente, dice: “mi sono rimasti i tuoi orecchini in mano e sai che faccio adesso? Me li vado a vendere cosi’, visto che non ho una lira, almeno arrivo alla fine del mese”. La verità è che è una canzone che esprime nostalgia,

Come vedete il panorama italiano? Io spesso vedo una situazione che è un po’ una sorta di guerra tra i poveri. Volevo una vostra opinione in merito M: Anche se c’è una crisi devastante che colpisce anche il settore musicale in tutte le sue parti, ho la sensazione che negli ultimi anni a volte in Italia tiriamo fuori risorse nascoste, proprio quando non abbiamo una lira per fare le cose. Pensa al neorealismo italiano nel dopoguerra, non c’erano i soldi per fare i film eppure che capolavori sono venuti fuori! Non voglio paragonare la scena musicale di oggi al neorealismo italiano del secondo dopoguerra però è sicuramente vero che si è sviluppata una nuova scena capace di tirare fuori delle cose molto belle, molto valide e molto attenta a raccontare quello che succede in Italia oggi o, più in generale, il sentimento che attraversa la nostra epoca.

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Certo, naturalmente, il panorama musicale soffre, soffrono i locali, soffrono le band che hanno sempre meno posti dove suonare e che devono fare un gran lavoro per quattro spiccioli però penso anche che questo è un lavoro troppo bello per farselo scippare dai problemi pratici per cui credo che questo sia veramente il momento di fare resistenza culturale. A Torino abbiamo partecipato a un evento che si chiama “Aldo dice Torino” e il nome è un riferimento proprio al messaggio del Comitato di Liberazione Nazionale, un messaggio in codice in cui si annunciava l’inizio dell’insurrezione partigiana. Noi organizziamo una grande giornata di musica con tutte le realtà torinesi proprio per affermare che la musica è l’attività culturale, nonostante tutte le difficoltà e tutti i tentativi di farla fuori, che non si può fermare. Personalmente credo che uno dei problemi principali del fare cultura, musica, ma non solo, in Italia, sia la SIAE. Cosa ne pensate? M: E’ ovvio che non va bene come viene gestita in questo momento. Io penso sinceramente che il diritto d’autore, così come l’abbiamo inteso nei decenni passati, non ha più molto senso. Sono proprio le politiche SIAE ad essere sbagliate, non tanto nei

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confronti del diritto d’autore in sé quanto nei confronti dei locali. Non è possibile che un locale debba avere tutte queste spese per fare un concerto dove vanno cinquanta persone, questo sta ammazzando la musica oggi. E’ ovvio che un gestore che vuole organizzare un concerto di musica poco conosciuta deve sostenere delle spese che lo costringono a pagare il gruppo pochissimo e che lo costringono, appena prova ad alzare la testa, ad andarci probabilmente sotto, a meno che la band non abbia già un suo giro. La SIAE che guadagna fino a dieci volte su ogni singolo brano registrato, è una delle principali responsabili di questi problemi e, d’altra parte, è controllata dai musicisti più ricchi che ci sono in Italia. Quali sono gli aspetti che preferite dell’essere musicista e quali quelli che preferite di meno? M: E’ la realizzazione personale, la soddisfazione, al di là del successo che ottieni, di impiegare una parte del tuo tempo a esprimere delle cose che hai bisogno di esprimere e che ti dà un piacere anche fisico. Questo fa davvero bene alla salute, mentale e fisica. Poi per me, al di là dello scrivere, comporre, andare a suonare in giro con i miei compari, tutto l’aspetto

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del viaggiare, la sospensione che vivi quando viaggi da un posto all’altro, il sentirti un po’ sradicato ma incontrare tante persone...queste cose mi fanno stare bene. La geografia che si forma crea un’esperienza complessa di cose che ti sono capitate che ti danno un forte senso della vita. Il fatto che uno non ci possa vivere è secondario, il modo di sopravvivere poi lo trovi sempre. Gli aspetti che mi piacciono meno sono che quando intraprendi questa attività e tenti di farne un mestiere, al di là del fatto che è dura perché ci guadagnerai davvero poco per un tempo indeterminato, rischi di entrare in delle dinamiche di abitudine che ti possono annoiare, dalle prove fatte in un certo modo al fatto di ripetere per centocinquanta volte la stessa canzone sul palco. Questi aspetti possono annoiare però noi facciamo di tutto perché questo non avvenga. Matteo, visto che hai pubblicato anche romanzi e racconti, quali sono le differenze di approccio nella scrittura di un romanzo rispetto a un testo e come canalizzi le idee? M: Sono due cose così tanto diverse che ho difficoltà a farle contemporaneamente. Quando scrivo canzoni difficilmente mi metto sul romanzo e viceversa. Le due cose partono da necessità diverse: quando arriva un’ idea interessante, la seduzione per un personaggio o per una situazione allora è più facile che questa diventi romanzesca invece quando mi trovo semplicemente ad avere un’idea più astratta allora è più facile che si declini in versi e che poi diventi una canzone. Iniziare un romanzo è molto più difficile perché devi avere tanto tempo davanti a te ed è un’attività che non si può interrompere così facilmente, rientrare e uscire da una storia rischia di allontanartene quindi devi avere davanti a te almeno un mese, due mesi in cui sai che tutti i giorni per tre-quattro ore devi fare quello e basta. La canzone invece viene in un pomeriggio o ci lavori due giorni ma tutto sommato è più veloce poi si può raccontare una storia anche dentro una canzone, si può scrivere in maniera narrativa, però sono due cose che io separo abbastanza. Secondo te come potrebbero cambiare le cose in Italia negli ambiti artistici in cui vi muovete? M: Per certi versi non bisogna neanche cadere nell’equivoco che ci sia una sorta di èlite intellettuale. Molto spesso chi si è istruito, chi ha letto, chi ha scoperto delle cose ha la sensazione di aver capito più

cose e al tempo stesso soffre e gode della presenza di una massa di incolti che invece non capisce niente, che guarda le trasmissioni di Maria De Filippi, che ascolta i Negramaro e Anna Tatangelo e in qualche modo nel disprezzare c’è un compiacimento. Io penso che ci siano soltanto gli imbecilli e le persone intelligenti qualsiasi sia il livello di istruzione di una persona, ma solo che chi ha avuto la possibilità di istruirsi e quindi ha acquisito una maggiore conoscenza di quello che è il percorso umano dall’inizio della storia in avanti ha più responsabilità degli altri. Il nostro sistema mediatico è controllato da persone istruite, persone che definiremmo colte; Antonio Ricci è una persona colta ma è un figlio di puttana, Maurizio Costanzo è una persona colta però è un figlio di puttana. E’ gente che aveva una responsabilità ma l’ha usata male: fare un palinsesto di una tv nazionale è una responsabilità molto forte perché la televisione è uno strumento di controllo. Semplicemente dal mio punto di vista ti dico come potrebbe cambiare: se saltassero molte teste da quelle parti forse qualcosa cambierebbe ma non è interesse di nessuno in questo momento in questo Paese farlo per cui io non credo in un qualunque cambiamento a breve. Potrei dirti come potrebbe cambiare ma in questo momento non sono così ottimista. E la musica cosa può fare? M: Io penso che la musica, così come i libri e tutte le opere d’arte in genere, abbiano un ruolo fondamentale: mettere le persone in contatto con se stesse. Attraverso l’emozione che ti viene raccontata da un altro, entri in contatto con zone di te stesso a cui, normalmente, quando stai lavorando o stai correndo da un negozio all’altro prima di tornare a casa per preparare la cena, non hai modo di accedere. Quindi io credo che il ruolo della musica sarà sempre quello di aggregare le persone e di metterle tutte insieme a dialogare ognuna con se stessa nello stesso momento e, nella musica live, anche nello stesso luogo. E’ chiaro che ci puoi mettere quello che vuoi quindi puoi pensare di far passare semplicemente un’oretta serena alla gente e farla ballare, e non c’è niente di male, o puoi pensare di provare a metterci dei contenuti che per te sono importanti. Penso che quando veramente qualcosa per te è importante lo percepisce anche chi ti ascolta perché se hai scritto qualcosa con sincerità è molto probabile che siano cose che ha provato anche un altro essere umano. E quindi ci si incontra con la musica. [ ]

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luminal [Musica] INTERviste

di Claudio Delicato

|ph by Claudio Delicato

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Dopo la serata del 15 maggio scorso all’Angelo Mai ho pensato che se la mia ragazza mi chiedesse di scegliere fra il nostro matrimonio e un concerto dei Luminal farebbe meglio a procurarsi una sagoma in cartone del sottoscritto al più presto. Prima della loro esibizione le mie aspettative non erano altissime. Pensavo che l’assenza della chitarra li penalizzasse alquanto in sede live, quindi mi ero preparato a una perfomance di pancia prima che di qualità, invece mi sono dovuto ricredere:

Luminal

i sono dei cazzo di treni. Dal vivo Alessandro Commisso è il motore del gruppo, pesta sui tamburi con una precisione e una potenza che ricordano Giorgio Mastrota durante le televendite Eminflex; Alessandra Perna fa da basso e chitarra insieme, con le sue distorsioni trucide e la frangetta a triangolo, e Carlo Martinelli vomita parole stralunate e surreali come un vagabondo con la sindrome di Tourette sul 778. Ma l’esibizione del gruppo romano, prodotto da Le Narcisse, non è solo nella sommatoria delle capacità tecniche dei singoli componenti: è un’esperienza a tutto campo, uno spettacolo dall’inizio alla fine nel senso più letterale del termine. Un misto fra underground musicale berlinese, performance teatrale e Alvin Superstar con la maglietta dei CCCP. Quindi cancellate gli impegni concomitanti con i loro concerti, perché se non andate a vederli almeno una volta vuol dire che il 2013 vi è sfuggito sotto il naso. Noi di Just Kids abbiamo avuto occasione di fare qualche domanda ai Luminal prima del concerto.

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envenuti, Luminal. Parliamo innanzitutto del disco, di cui ho realizzato una recensione per questo numero di Just Kids [la trovate a pagina X, ndR]. Come mai questa scelta di eliminare la chitarra? Non pensate possa penalizzarvi in sede live? Alessandra [Aa]: Quando abbiamo scelto questo nuovo set (basso, batteria e voce) eravamo un po’ spaventati, perché per noi l’impatto live è molto importante. Prima avevamo due chitarre, quindi abbiamo rinunciato a due pilastri fondamentali del nostro sound. Invece ci siamo accorti che paradossalmente è tutto molto più potente e incisivo. Alessandro [Ao]: È vero, per adesso non c’è stato alcun problema per quanto riguarda i live. Volumi alti, suoni pieni e grassi. Da cosa deriva questo cambio radicale nel vostro modo di comporre rispetto ai primi due dischi? Aa: L’idea è nata per caso. Io a un certo punto ho

deciso di cambiare radicalmente rispetto al passato e, durante una delle lunghe passeggiate che facciamo io e Carlo quando vogliamo cercare di capire da che parte andare nelle nostre vite, gli ho detto “il prossimo disco lo facciamo basso, batteria e voce. Non chiedermi perché.” Mi è uscito così, naturale. Lui era d’accordo, anche perché tantissimi anni prima aveva un gruppo con questa line-up. Mi pare che rispetto ai primi due dischi Alessandra canti molto meno. Avete abolito le quote rosa? Aa: [ride] Suonare con solo basso, batteria e voce mi ha spinto ad applicarmi principalmente nello studio del basso, perché prima suonavo la chitarra. La realtà è molto semplice, io canto i pezzi che ho scritto e Carlo quelli che ha scritto lui. Comunque nel prossimo disco ci sarà una bella sorpresa. Carlo [C]: Che io non so, fra l’altro. Negli ultimi tempi sono usciti molti gruppi

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le cui tematiche principali, se non esclusive, sono gli aperitivi al Pigneto e i live set dei Crookers; queste band hanno il pregio di trattare temi che in pochi avevano affrontato prima di loro, ma forse in pochi l’avevano fatto perché a nessuno fregava un cazzo di farlo, dato che argomenti di questo tipo solleticano l’hype ma non meritano una discografia intera. Dove sono finite le canzoni di impegno politico, quelle con una finalità sociale? Perché la gente non parla più di cose serie? Forse si vergogna? C: È in atto un processo: c’è un tentativo di rendere bimbiminkia tutti. C’è il culto del giovane, del piccolo, del bambino. Questo vuol dire che in tutti gli ambiti si sente di dover parlare solo di cose che non facciano pensare, ma soprattutto che non creino conflitto, tant’è che anche i gruppi musicalmente più interessanti hanno un atteggiamento spensierato e positivo, infatti spesso hanno un pubblico molto giovane (se non di ragazzini). Sembra che si tenti di parlare a persone con orizzonti molto semplici, perché non ci si vuole esporre. Aa: Dal Berlusconismo in poi è cresciuto il bisogno di risposte semplici a problemi complessi, è uno dei motivi per cui Grillo ha avuto tutti quei voti. Si cerca di essere più chiari possibile, al punto di diventare semplicistici; oggi sembra che fare un discorso serio ti renda automaticamente presuntuoso. È allucinante. Venti, trent’anni fa c’erano dei movimenti, e se avevi un’opinione c’era qualcuno che in qualche modo ti proteggeva. Adesso quando dici qualcosa sei solo, quindi ti becchi orde di troll che ti dicono “non è vero, sei un coglione snob.” C: Sono morte le ideologie, è finito tutto. Quello che rimane è soltanto il sorriso del fallimento. Sempre a questo proposito, negli ultimi tempi sono proliferati i concerti di gruppi il cui pubblico balla e canta divertito dei testi che lo prendono per il culo. In un mondo in cui il distaccamento e l’ironia la fanno sempre più da padroni, voi mi parete più trasversali, nel senso: vi sporcate le mani a parlare di Facebook e degli hipster ma sembrate “esterni” al fenomeno, al contrario di gruppi come Lo Stato Sociale. Nel vostro disco non mancano canzoni dai testi impegnati, ma come rispondereste se qualcuno vi dicesse “sì, alternativi e tutto, però alla fine i pezzi sugli hipster li

avete scritti pure voi”? C: Che l’abbiamo fatto perché con questo disco l’obiettivo era di parlare di quello che abbiamo intorno. Noi ne parliamo ma con sadismo, con odio verso questa mostruosa superficialità e queste tendenze orrende, e per poterlo fare accusiamo anche noi stessi. L’ambiente di cui parli è spaventosamente autoreferenziale, molte persone che ne fanno parte vivono chiusi in un mondo in cui si conoscono tutti fra di loro e hanno un proprio codice di comunicazione. Il varco, per chi non fa parte del circoletto, dovrebbe essere più ampio. Ci vuole più spazio per le persone di talento. Ci sono tanti casi di gente che spacca letteralmente i culi ma non gli viene data possibilità di crescere perché non gli è concessa credibilità e fiducia. Riuscite a vivere di musica? Non ditemi cazzate tipo “lo facciamo per passione,” voglio sapere se nel circuito indipendente si riesce finalmente a guadagnarsi il meritato pane o tocca comunque appoggiarsi a mamma e papà. C: Dipende da cosa intendi per “viverci”. Cioè, io ci vivrei con 800/1,000 euro al mese. Noi facciamo lavoretti saltuari, la band ripaga le spese del gruppo, ci paghiamo le sale prove e le altre spese. Aa: In realtà in momenti particolarmente buoni, come quando sono usciti i vecchi dischi, non dico che ci abbiamo vissuto ma abbiamo guadagnato bene. C: I gruppi che stanno più “su”, hanno cachet più alti e fanno tantissime date ci vivono, sarebbe folle dire il contrario. Non sono tantissimi in Italia ma neanche zero. Ao: Bisogna ridefinire il concetto di “vivere”. Non vivi se sei in famiglia, con la tv e la macchina loro. Sopravvivi, lo puoi fare, ma non vivi. Mettete in ordine di importanza per arrivare al successo queste quattro componenti: produzione, distribuzione, ufficio stampa e booking concerti, motivando la prima in classifica. C: È una cosa brutta a dirsi, ma oggi come oggi la distribuzione è quasi inutile. Noi ne abbiamo una molto valida, la Goodfellas, ma soprattutto a livelli mediobassi i dischi si vendono ai concerti, quindi distribuzione per ultima. Aa: Io penso che al primo posto ci sia la produzione, nel senso che ci dev’essere un disco che spacca, che quando lo senti ti arrivi come un calcio in faccia. È comunque tutto da contestualizzare, bisogna considerare anche il rapporto con il produttore: Il Mafio

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|ph by Claudio Delicato (Daniele Tortora), che ci ha prodotto il disco, è una persona che quando va a dare il disco nostro ne parla come ne parleremmo noi, con gioia, con gli occhi a cuore. Ao: Io al primo posto metterei la promozione, assolutamente.

comunicato tramite la mail del booking dei concerti. Siamo arrivati all’ingresso e il manifesto diceva che quella sera si sarebbero esibiti i “Booking Luminal”. Invece una volta abbiamo suonato a Catanzaro in un locale abbastanza popolare. Al primo pezzo c’è stato un applauso molto mesto, al secondo il silenzio totale. Il gelo. C: L’espressione delle persone non era “che schifo,” ma “che cos’è? Cosa sto ascoltando?” Aa: Il giorno dopo abbiamo trovato un post sulla pagina del locale in cui un tizio diceva: “avrei da ridire riguardo il gruppo che ha suonato ieri, non per come hanno suonato ma per quello che hanno detto riguardo noi poveri cretini e riguardo Cristo. Io amo Gesù.” E la cosa bella in tutto questo era il “mi piace” del gestore del locale, che aveva organizzato il concerto.

Nella mia fallimentare carriera di batterista ho incontrato, fra fonici, proprietari di locali e produttori, una serie di personaggi che risulterebbero troppo disadattati perfino per un film di Wes Anderson. Raccontatemi l’aneddoto più squallido che vi sia capitato nel corso della vostra carriera musicale. C: Una volta a Napoli andammo a suonare in un locale davanti a circa 4 persone che mangiavano un panino, e a un certo punto il proprietario ha spento l’impianto, è venuto da noi e ci ha detto “se ve ne andate vi do Facciamo il gioco del “chi butti giù dalla tor30 euro!” re?” dell’indie. Ovviamente se buttate giù Ao: Anche quel locale in Emilia, con cui avevamo un gruppo non vuol dire che vi fa schifo, ma

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semplicemente che tra i due preferite l’altro. I Cani o Le luci della centrale elettrica? Ao: Io Luci. Aa: È difficile... direi Le Luci della Centrale Elettrica. C: Penso anch’io le Luci. Ma è durissima. Aa: Sì, è vero, è durissima. Direi che potrebbe essere questa la nostra risposta definitiva.

Paolo Limiti o Benedetta Parodi? C: Oddio, perché? Teniamoci tutti e due. O forse buttiamo giù la Parodi, Paolo Limiti almeno aveva un cane, ricordo. Ao: Aspe’, ma è bona la Parodi...

E su questa perla possiamo concludere l’intervista. È tutto, Luminal. Grazie e in bocca al Ministri o Management del Dolore Post-Ope- lupo. ratorio? Aa, Ao, C: Grazie a te. [ ] Ao: Management. Aa: Sì, Management. C: I Ministri hanno fatto delle cose più apprezzabili. Bud Spencer Blues Explosion o Teatro degli Orrori? C: Non saprei rispondere. Ci sono cose che mi piacciono e non mi piacciono di entrambi i gruppi. Aa: Anche a me, però dico il Teatro. Ao: Anche io. Dente o Brunori SAS? Aa, Ao, C: [risata collettiva] Entrambi. |ph by Claudio Delicato

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di Livia Ascolese

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Chiariamo subito una cosa: non stiamo parlando di cinema.

Elio Petri

non è il regista de “La classe operaia va in paradiso”, ma è la band di Emiliano Angelelli, nata come progetto solitario in una camera romana dal pavimento mosaicato nel 2005 e diventata realtà discografica solo nel 2010 con “Non è morto nessuno” (Matteite/Venus). Allora si chiamava elio p(e)tri mentre con il nuovo lavoro, intitolato “Il bello e il cattivo tempo”, le parentesi se ne sono andate e le maiuscole hanno preso il sopravvento. Il disco è uscito a gennaio per Cura Domestica, etichetta perugina legata ai The rust and the fury, e porta con sé due collaborazioni importanti: quella di Teho Teardo, che ha suonato ne “Il disprezzo”, in “Bruco” e in “Ti farò soffrire”, e quella di Marco Parente, protagonista nel finale di “Capra astrale”. Gli Elio Petri hanno dalla loro una scrittura senza eguali con liriche intrise di loop poetici, di frasi ripetute a mantra cercando soluzioni fra strofe e ritornello, il più delle volte sottilmente imprevedibili, per brani che sono malinconici o ballate pop-rock dal drumming serrato e minimale. Abbiamo incontrato l’ideatore del gruppo, Emiliano Angelelli, che ci ha raccontato qualcosa in più sul suo disco.

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ominciamo con una lecita curiosità. Perché Elio Petri? Si, è una domanda che mi fanno veramente spesso. Ecco, non credo che nelle cose vada sempre ricercato un significato. Attraverso i testi ho sempre tentato di ricreare un immaginario estetico che mi soddisfacesse a prescindere dal fatto che la cosa risultasse comprensibile o meno. L’uso del cut-up o del no sense (come alcuni amano definirlo) non l’ho certo inventato io, così come non sono certo il primo a prendere il nome di un personaggio famoso e usarlo per una band. Diciamo che amo divertirmi e giocare con le parole. Elio Petri è il risultato di questo. I testi, molto particolari, parliamone. Cosa ci racconta lo zoo di Elio Petri? Si, nei miei testi ci sono sempre molti animali. Nello zoo Elio Petri trovate capre astrali, bruchi, vipere e tacchini per rimanere all’interno de “Il bello e il cattivo tempo”, ma anche bradipi, stercorari e lumache blu se vogliamo andare indietro fino al primo disco. Ma c’è anche altro, in questo disco si parla di bruxismo e apnee notturne in “Mascella”, di odio per il mondo al risveglio domenicale ne “Il disprezzo”, del desiderio di far soffrire qualcuno in “Ti farò soffrire”, di storie d’amore tra alghe e oggetti di marmo in “Alga” e JK | 56


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infine di elettrodomestici senza personalità in “Blues”. Ho sempre amato i gruppi che sanno giocare con le parole oltre che con la musica, ma devo dire che i miei testi nascono più che altro da suggestioni letterarie, e a volte anche da prestiti, citazioni o rielaborazioni. Non parlo solo di scrittori noti, ad esempio il testo di “Capra astrale” l’ha scritto un mio amico italo-tedesco che si chiama Venanzo Kautz, gliel’ho chiesto in prestito facendo solo delle piccole modifiche. “Il bello e il cattivo tempo” potrebbe essere un bel titolo per un film... Sì, è vero. Dedico molto tempo alla ricerca dei titoli, sia delle canzoni che degli album, perché il titolo è importante, è un po’ come gli occhi, volente o nolente, è la prima cosa che guardi. Ma tornando al “significato”, il discorso è più meno simile al precedente. I titoli dei miei dischi fanno raramente riferimento diretto alle canzoni che contengono. Finora sono nati sempre dopo e a seguito di una lunga ricerca. Il titolo deve suonare bene nella mia testa e mi ci devo riconoscere in quel particolare momento in cui lo scrivo.

“Il bello e il cattivo tempo” fa riferimento all’alternarsi delle stagioni, sia dal punto di vista climatico che esistenziale, ma soprattutto al modo di dire “fare il bello e il cattivo tempo” che significa che puoi fare quello che vuoi della tua vita, nel bene e nel male. Per me è una sorta di manifesto esistenziale. La vostra musica ha influenze composite che vanno dal pop di matrice sperimentale, alla psichedelia, al post rock e al punk. Tu come la definiresti? Non mi riesce molto bene di definire la mia musica perché la vivo troppo da dentro, ma quando abbiamo fatto uscire questo disco l’idea era di allontanarsi volutamente dalla definizione di “cantautorato”, per quanto storto potesse essere quello del primo disco, e avvicinarsi di più a sonorità rock di matrice anni ‘90, che sono poi gli anni che mi/ci hanno formato musicalmente. Non so cosa ci sia di quello che ti sto per dire nel nostro disco, ma mi vengono in mente gruppi come Pavement, Pixies, Deus, Flaming Lips, ma anche Jim O’Rourke, Elliott Smith e molti altri.

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Torniamo agli immaginari. I vostri video sono sempre molto originali, l’ultimo è quello di “Alga”. Ci vuoi raccontare come li realizzate? Ormai da diversi anni abbiamo trovato una simbiosi perfetta con un gruppo di amici che vivono a Genova e che fanno capo a Michele Vaccari e Lucio Basadonne. Il primo è uno scrittore mentre il secondo è un regista e un videomaker. Con loro abbiamo realizzato il nostro primo video (il pezzo si chiamava “Bradipo”), ed era la storia di questi tre personaggi che vagavano su una vecchia “Ape” all’interno di un bosco innevato, dove incontravano della gente curiosa che faceva sesso con gli alberi. L’altro video, come dicevi tu, è “Alga”, e racconta una storia d’amore “diversamente” concepita, la cui trama si comprende solo nel finale. Di solito li lascio lavorare in totale autonomia, mi limito a seguire tutte le fasi della creazione e a fare l’attore in prestito quando è necessario. Proprio in queste settimane stiamo lavorando al secondo video del disco, che sarà “Capra astrale”, al quale parteciperà anche Marco Parente. Pure stavolta la tematica sarà molto, per così dire, suggestiva. A proposito di novità, state già lavorando al disco nuovo? Alcuni pezzi ci sono già, ma voglio farli fermentare un po’ nella mia testa prima di iniziare a lavorare al terzo disco. L’unica cosa che so è che mi piacerebbe chiamarlo “Salto Mortale” e che dovrà portarci ancora da un’altra parte, musicalmente parlando. Sto appunto cercando di capire dove. [ ]

JUST KIDS

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JUST KIDS

compilation by

Tracklist

free Download 01. Quasiviri - No more problems 02. Makhno - Ulrike 03. Plasma Expander - Bombshell 04. X-Mary - La Giornata Del Nuovo Pizzaiolo 05. Taras Bul’ba - Short Drop 06. Fuzz Orchestra - La Proprieta’ 07. I Camillas - Stella 08. Xabier Iriondo - Irrintzi 09. Gerda - Untitled 10. X-Marillas - Pattini

QUASIVIRI Freak of Nature

MAKHNO Silo Thinking

PLASMA EXPANDER Cube

X-MARY Green Tuba

TARAS BUL’BA Amur

FUZZ ORCHESTRA Morire Per La Patria

I CAMILLAS Costa Brava

XABIER IRIONDO Irrintzi

GERDA Untitled

X MARILLAS X-Marillas 7’’

www.justkidswebzine.tumblr.com/compilation www.wallacerecords.com


paletti [Musica] INTERviste

di Claudio Avella e Letizia Varotto

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Paletti è

un cantautore bresciano alle prese con il primo vero e proprio album solista, Ergo Sum, uscito l’8 marzo scorso per etichetta Foolica Records Forte della sua precedente esperienza con i The R’s e di cui era bassista e cantante, con il suo primo EP solista, Dominus, Paletti è un cantautore giovane, ma allo stesso tempo maturo e mai scontato. Ho trovato in lui una ricerca musicale e stilistica notevole e dei testi che, per quanto raccontino tanto della storia personale dell’autore, sono quasi un “bene comune”, l’”io” che diventa “noi”: in Ergo Sum emerge la sua ricerca spirituale, messa a disposizione di tutti coloro in grado di coglierne l’essenza nelle sue melodie, che lui stesso definisce vassoio delle sue parole. Ho visto per la prima volta Paletti dal vivo in un concerto al Rocket a Milano. È stata un’esperienza molto intensa. Chiedergli un’intervista mi è venuto quasi automatico. L’abbiamo incontrato in un piovoso pomeriggio fuori dal Bloom di Mezzago. Ci siamo rifugiati nel suo furgone e con il sottofondo della pioggia sul tettuccio abbiamo avuto una piacevolissima chiacchierata.

Ergo Sum” si presenta come un viaggio introspettivo. La cosa interessante è che in questo viaggio riesci a toccare tante tematiche molto diverse tra loro, non solo quelle puramente personali, ma anche quelle collettive. Mi riferisco in particolare alla canzone “Il Cambiamento” che apre il tuo album: è una scelta puramente musicale o per te questo brano ha un particolare significato, per cui aveva senso che aprisse “Ergo Sum”? Cambiamento per me è la canzone più importante del disco perché é il fil rouge che collega un po’ tutte le canzoni. Metterla all’inizio è stata una scelta casuale, perché la playlist l’ho affidata a Marco Bertini, djpromoter di Brescia molto bravo e a cui voglio molto bene. Però credo che sia la canzone più importante del disco perché, seppure non vuole essere una canzone politica, dice che se vogliamo cambiare, anche come paese, prima dobbiamo farlo da soli. Abbiamo il lusso di vivere in un periodo storico in cui, nonostante ci sia crisi, comunque tutti riusciamo a campare: non abbiamo problemi a mangiare, almeno la maggior parte di noi. Con un po’ di coscienza riesci a risparmiare, a mantenerti, a vivere. Ce la faccio io che sono un cantautore … Abbiamo, quindi, la possibilità di provare a osservarci e a fare un po’ di autocritica. Questo discorso

sull’autocritica si ricollega poi a tutti i pezzi dell’album perché l’album è una mia autocritica, personale, una sorta di analisi psicologica. Ormai da tre anni a questa parte sono cambiate un po’ di cose per me, sia negli assetti personali, sentimentali che lavorativi … sono cambiate tante cose, ciò mi ha portato a guardarmi dentro, a tirare un po’ le somme e provare a crescere. Quello che mi interessa principalmente è crescere, come uomo, riuscire ad arrivare ad essere una persona perlomeno decente, perché ancora non lo sono. Faccio questo sforzo, perché se io riesco a cambiare, anche il mondo intorno a me può giovarne: ecco perché “Ergo Sum”: eccomi, come sono. Eccomi, che mi guardo, mi osservo, mi critico, miglioro e quindi, anche il mondo intorno a me migliora. Da questa risposta pare che tu ti sia avvicinato a un percorso di psicoterapia ... Siii … io l’adoro. Sto facendo e ho fatto queste cose. Ho iniziato nel 2005 per necessità, perché c’erano delle contraddizioni che mi portavano a non star bene. L’intento era quello di capire chi sono, perché anche nelle scelte di tutti giorni c’erano un sacco di contraddizioni: non sapevo se andare a destra, andare a sinistra, avanti o indietro. Era tutta una confusione, quindi volevo capire dove, cosa scelgo e perché. È

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un percorso tra virgolette “spirituale”: una ricerca della mia essenza perché probabilmente sono sovra strutturato, ci sono tante cose che mi intasano e mi confondono. Quindi c’è una ricerca rivolta verso l’Io ...

al cantare in inglese, mi ritrovo in una situazione in cui devo esplicitare in maniera molto più diretta quello che ho dentro. L’italiano scivola meno addosso dell’inglese, arriva molto più diretto. C’è anche una mia intenzione, quando sono sul palco, canto e affronto i pezzi su disco, di comunicare di più. L’italiano ti porta ad essere più comunicativo, se non sei comunicativo, le cose non arrivano. L’italiano è diverso rispetto all’inglese, c’è una potenza di comunicazione che arriva molto a noi. È una bella sfida per me.

È quasi un invito ad autoanalizzarsi per cambiare e migliorarsi? Sì, io poi sono stato un paio di anni in analisi ed ho fatto altri percorsi. Ora ne sto facendo altri di cui preferisco non parlare perché si tratta di cose molto personali. In ogni caso tutto verte alla ricerca, a capire chi è Pietro, più che Paletti ... C’è bisogno di chiarezza? Certo, anche stasera, che sono da solo con chitarra È un sentimento diffuso questo della crisi. È il e voce, voglio comunicare: se la stanza è sei metri sentimento del tempo? per sette li devo riempire tutti… Come diceva Nanni Secondo me la crisi, infatti, più che economica, è Moretti: la parola è importante! una crisi morale. Qui in Italia, se vogliamo andare (E mentre parla si dá uno sberleffo sullo guancia sul politico, ma più che politico, sul sociale, siamo un proprio come in una famosa scena del film “Palombella po’ in difetto, perché ci sono un sacco di cose che ci Rossa”. A questo punto ridiamo e iniziamo a citare hanno molto disturbato negli ultimi quindici/vent’anni. film di Nanni Moretti, tra i quali “Ecce Bombo”... di cui Ci hanno educato male. Pietro è un grande fan n.d.r.). È qualcosa che ha a che fare anche con la maturità. Tu dicevi “mi piacerebbe crescere”. Crescere significa diventare grandi e fare autocritica? Solo con la crisi ti conosci, ti confronti con te stesso e riesci a scoprire e ottenere qualcosa in più da te, invece, se ti va tutto bene … ma anche in quel caso credo che qualcosa si rompa. È giusto che ci sia una crisi e che qualcosa ti porti a farti delle domande. Non necessariamente a darti delle risposte ma già solo a porti un po’ di domande ... D’altra parte, in cinese la parola crisi è composta di due caratteri, uno che rappresenta il pericolo e uno che rappresenta l’opportunità... Davvero? Bomba! Non lo sapevo … figo! Ora che il tuo disco sta avendo un buon successo e che stai facendo un tour e c’è un pubblico che ti segue, che significato ha scrivere in italiano? Il testo ha assunto un’importanza maggiore rispetto a quando scrivevi in inglese? La gente si riconosce in quello che racconti? Sul fatto che la gente mi segua dovrei ancora capire chi è questo pubblico, perché io non lo vedo! Sì, ci sono quelli che chiamano Hype, la gente inizia a parlare del progetto, a cantare le canzoni ai concerti ed è molto figo. Credo che quello che vuoi dire tu sia che, rispetto

Ormai da più di un mese è uscito Ergo Sum, ora sei in viaggio con la tua band per un tour denso di date. Immagino che di storie da raccontare ce ne siano a bizzeffe, la strada è sempre foriera di ispirazione: hai qualche aneddoto da raccontare? Qualche incontro, qualche luogo o non luogo che ti hanno lasciato qualcosa in particolare? Adesso a maggio abbiamo un sacco di date e sono molto contento. Per vari motivi ho dovuto cambiare band, perché i ragazzi con cui suonavo prima sono impegnati con altri progetti. Mi è dispiaciuto di non poter riuscire a continuare quello che avevo costruito con “Dominus” prima, dal vivo, per cui si è formato un altro team di lavoro. Ora ci sono: Teo Marchese alla batteria, Daniela Mornati alle tastiere e Davide Livornese alle chitarre. Daniela non la conoscevo, Teo lo conoscevo per dei lavori pop-mainstream che non ti cito perché son vergognosi, Davide è un ragazzo che ho conosciuto a Milano nei miei studi sul Sé e quelle cose lì. Poi c’è Gabri, il fonico, il più giovane di tutti, che però è una montagna d’uomo. Abbiamo iniziato a suonare e c’è stata subito una gran sintonia tra di noi. La cosa più bella è che si è iniziato subito a creare, fin dai primi giorni in cui si fa tutto insieme, un forte tessuto di relazione. E questa è la cosa più bella, perché loro sono delle bellissime persone. È una cosa preziosa! Sei in giro a suonare con poco cachet, non

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|ph by Alessandra Giotto

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sai bene in che situazioni tecniche ti trovi nei locali, etc etc... ma c’è molto di più rispetto a questo. Dopo i primi mini-tour , tornando a casa ho pensato: “ma io non ho smesso di ridere nemmeno un secondo!”. Un aneddoto è che un giorno eravamo in camera a dormire tutti insieme e Teo ha avuto un incubo ricorrente: verso le 6:30 del mattino ci ha svegliato tutti con un doppio urlo tipo “AAAAAH – AAAAAH!”. Ci siamo svegliati tutti con l’infarto. Questa è stata la cosa più strana.

avevo fatto con “Dominus” perché era piaciuto, ma volevo fare qualcosa in più. Ho chiamato Sergio Maggioni, che è un bravo produttore che mi ha messo sotto torchio e mi ha rotto il culo. Mi ha fatto capire cosa volevo dal disco, come dovevo trattare la mia voce, spingere un po’ oltre la produzione. Infatti, abbiamo fatto la pre-produzione e la produzione in maniera abbastanza veloce, ma molto oculata. Gli arrangiamenti sono studiati in base alle parole: se voglio comunicare che ho fatto la cacca, allora devo Credi che trovarti così bene queste persone fare una canzone di merda. Se voglio comunicare il sia dovuto al cambiamento di questi anni o al cambiamento, deve esserci sotto il tribale che macina! caso? Questo non l’avevo fatto con “Dominus”. La musica Ti cito una frase altissima: “ Il caso non esiste”. Kung diventa vassoio per le parole. Fu Panda. Cosa pensi della scena musicale italiana? Musicalmente quali sono le tue influenze? Faccio un critica cattiva, che forse non dovrei fare, ma Per quanto riguarda l’italiano la mia unica influenza la faccio lo stesso. A me dispiace vedere sul palco certe è Battiato. Poi ascolto soprattutto indie americano band che non sanno suonare, che sono prettamente sperimentale, tipo Tune Yards e Django Django. Mi folklore. Quando salgo su un palco, anche importante, piacciono molto Beck, poi andando indietro: Bowie, e vedo della gente che non sa suonare, mi dispiace i primi Red Hot Chili Peppers: il funk che facevano ... La musica è una cosa seria, te la devi studiare. loro era sangue puro, Hendrix e i Led Zeppelin, i Poi magari ci sono altre cose in quei progetti, magari Beatles, ovviamente. Di italiano c’è ben poco. Gazzé testi nuovi, affascinanti, interessanti, scherzosi, un po’ faceva parte degli ascolti di quando ero ragazzino, di freschi. C’è della freschezza notevole. mia sorella più che altro. Se vuoi un nome su tutti, i Però ecco, nella scena italiana vedo questa cosa che Bluevertigo o il progressive tipo gli Area. per me è come un cancro. Sono pochi però spero non prenda troppo piede perché mi svilisce. Studio musica Come reagisci di fronte alle critiche che stai da quando avevo sei anni e vedo della gente che non ricevendo sia positive che negative? sa suonare che ha dei cachet cinque volte il mio. Di critiche negative ne sto ricevendo poche, a parte Le parole sono importanti, ma anche la musica è la copertina. Sarebbe stato meglio se avessi ricevuto importante. Ci sono cose nella musica italiana che mi delle critiche più incentrate sui contenuti. C’è chi ha piacciono molto. Ci sono degli artisti che mi piacciono scritto che “Cambiamento” ha un testo troppo facilone, e che rispetto tantissimo. Soprattutto dei dischi in cui ma forse non l’ha capito. Con le critiche positive cantano in inglese dove c’è una ricerca del suono. son contento, fa piacere. Però più che le critiche mi interessa che il mio progetto arrivi alla gente. Poi è Progetti futuri? bello prendere in mano la recensione e farti quattro Suonare tanto dal vivo. Sto scrivendo un po’, risate su quella che ti stronca un pochettino. A me non sperimentando qualcosa di diverso per me, partendo dà fastidio. A me interessa più che la gente venga ai dalle parole e poi inserendo la musica (io ho sempre concerti e che il mio “prodotto” piaccia alle persone. fatto il contrario), facendo anche dei giochini su di me. Poi adesso sono molto dentro “Ergo Sum” e mi Rispetto a “Dominus” c’è stata un’evoluzione? sembra strano di dover pensare ad attraversare il Credo che tutta la mia vita ultimamente sia molto ponte quando sono ancora un po’ più indietro. armonica, è tutta un’evoluzione, uno scorrere. “Ergo Sum” è un’evoluzione di “Dominus”. Se non mi fossi Ringrazia qualcuno… affidato a delle persone brave che hanno lavorato con Nicola Cani della Foolica Records che si è fatto un me, non sarebbe diventato un’evoluzione. gran culo e che continua a farselo. Si sbatte fino Ho rischiato di rimanere fossilizzato su quello che all’inverosimile e crede nel progetto! [ ]

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GIANNI RESTA Discorocksupersexypowerfunky (Mapaco/Venus, 2012) di Thomas Maspes

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sistono molti dischi che a un primo ascolto risultano ostici e non è così facile comprenderli e apprezzarli immediatamente. Poi con gli ascolti successivi, rivelano qualità spesso notevoli riuscendo così a trovare la giusta via per toccare quelle corde che ci portano a provare delle emozioni. Però esistono anche casi in cui alla cripticità iniziale non segue poi nessun tipo di rivelazione, e ciò che sembrava affascinante in un primo momento, si rivela poi vuoto e senza colori. Il disco del bravo musicista milanese, Gianni Resta, non rientra in nessuna di queste categorie. La sua è una musica che non vuole apparire misteriosa, che non cerca mai di nascondersi, che non piange su se stessa, ma che al contrario vuole rivelarsi nella luce, cercare un contatto umano, vero, sincero, senza barriere. E Gianni riesce già a sintetizzarlo al meglio attraverso il titolo della title-track posta in apertura del lavoro: “Discorocksupersexypowerfunky”. Non poteva esserci inizio migliore. Ritmica tipicamente “black”, tastiera funky che ricorda lo Stevie Wonder di Superstition, sassofoni e qualche piccolo accenno di elettronica giusto per modernizzare e non sembrare troppo retrò o ingenuamente derivativi. La voce di Gianni viene spesso affiancata da quelle di due coriste, voci calde e potenti che si amalgamano perfettamente al mood sensuale della canzone. Il disco prosegue con “Autommobele”, basso slappato

e chitarrina che più funky non si può per una brano scanzonato che prende in giro gli status symbol che molti amano esibire per sentirsi superiori agli altri; il continuo accumulo di oggetti che impedisce di capire che il mondo sta cambiando, spesso in peggio, e che molti non riescono neanche a cogliere perché troppo impegnati a ballare come degli scemi (”Dancing like a fool”) e a non impegnarsi in niente altro che non sia il loro effimero godimento personale. Con il brano successivo però sembra quasi arrivare una risposta: “all you’ve been you’ll never be, if you do not try, if you do not cry”. Questa una frase significativa contenuta in “Occhio ai movimenti”, un’intensa ballata pianistica, probabilmente la perla del disco, da poco uscita anche come singolo e accompagnata da un video realizzato con delle immagini girate durante una manifestazione No Tav. Si prosegue sempre su uno standard di buon livello, con “La donna scimmia” ispirata dall’omonimo film di Marco Ferreri, che utilizza fra l’altro anche il Coro Polifonico dei bambini dell’Istituto Buon Pastore di Milano; “Vuoi venire a letto con me, stasera” e “Holostress”, canzoni divertenti che fanno dell’ironia il loro punto di forza e che ci accompagnano allo strumentale “John Stay in undici mosse”, bel brano dall’incedere molto anni ‘70 che ha un unico difetto, quello di durare troppo poco. La strada ormai è tracciata. Con un po’ più di coraggio e voglia di osare il buon Resta potrebbe lasciare un segno importante all’interno del panorama della musica italiana. Noi, naturalmente, glielo auguriamo. [ ]

DISCOROCKSUPERSEXYPOWERFUNKY-GIANNI RESTA 01. Discorocksupersexypowerfunky 02. Autommobele 03. Dancing Like A Fool 04. Occhio Ai Movimenti 05. La Donna Scimmia 06. Vuoi Venire A Letto Con Me, Stasera? 07. Holostress 08. John Stay In Undici Mosse 09. Un Luogo Comune

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BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB Specter At The Feast (Abstract Dragon, 2013) di Alina Dambrosio

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n nuovo album dopo tre lunghi anni, un ritorno che attendevo trepidante, le aspettative di farsi stravolgere dal garage adrenalinico dei BRMC. Specter at the feast non le ha soddisfatte appieno, ciò non vuol dire che, per quanto mi riguarda, è totalmente bocciato. Il marchio BRMC c’è, ma non basta. Quello che sono soliti trasmettermi i BRMC è energia pura, carica attraverso i riff sporchi, onnipotenza, ma non solo. La loro forza era tutto questo e il saper inserire all’interno dei dischi ballate nostalgiche, che trascinano l’anima nel buio. Quest’ ultimo lavoro, settimo album nella carriera della band, è anticipato da una cover dei the Call, un omaggio al mentore, Michael Been (nonché padre di il padre di Robert Levon Been, morto per un attacco cardiaco nel 2010 proprio durante il tour della band). Tutto il disco si può considerare un tributo e forse anche per questo, manca di originalità nel sound, cosa che non dispiace più di tanto a chi ama le sonorità di questo tipo, ma che delude in parte chi ama i Black Rebel, abbastanza fuori corda. Altro fattore non da trascurare è la nuova formazione, di fatti il batterista storico Nick Jago ha ormai abbandonato la truppa a favore di Leah Shapiro. “La cosa più difficile durante la registrazione del disco è stata il bilanciamento di luce e buio.” ha dichiarato

Robert Levon. E questa difficoltà si percepisce: il disco si apre con “Fire Walker”, che ha un intro fin troppo lunga, nel cui mezzo s’inseriscono batteria e basso, sancendo un ritmo elementare. Su questa linea sono anche gli altri primi cinque brani , dal sound troppo lento e dal ritmo non sconvolgente. C’è una venatura più scura che rimane nel sottotesto e in alcuni punti irrompe con più veemenza. Bisogna arrivare a “Hate the taste” per innalzare leggermente il tono, passando per “Revival” ed esplodendo in “Teenage Disease”. Atmosfere oniriche al limite tra luce e buio in “Some kind of ghost” e “Sometimes the Light” (che ricorda gli Spiritualized) . “Funny game” è uno dei pezzi più riusciti (shoegaze alla spaceman 3, ossessione ritmica della batteria, psichedelia), quello che per gusto personale, rappresenta al meglio i motociclisti belli e dannati, insieme a “Sell it”, dando una sterzata a tutto l’album, che come un ciclo ritorna su di sé, ritorna alle atmosfere iniziali, ma allo stesso tempo lo suggella, perdendosi nell’inconsistenza di “ Lose yourself”. Ciononostante la voglia del loro live è tanta, dove in ogni caso sanno dare il meglio. [ ]

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB - SPECTER AT THE FEAST 01 Fire Walker 02 Let The Day Begin 03 Returning 04 Lullaby 05 Hate The Taste 06 Rival 07 Teenage Disease 08 Some Kind Of Ghost 09 Sometimes The Light 10 Funny Games 11 Sell It 12 Lose Yourself

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ALESSIO LEGA Malatesta

matica scritta Frizullo sulle navi carretta in balia del Mediterraneo, le Risaie mollemente fertili (“i chicchi bianchi della fame nera”) che si estendono nelle terre d’acqua del Vercellese e della Bassa Novarese, il delitto Matteotti sullo sfondo della quotidianità familiare (A Buzz Supreme, 2013) di un presente che si incarna fiero nel futuro sono l’ombelico di un mondo poeticamente credibile e condi Andrea Barbaglia divisibile. Irriverente sindacalista con Ascanio Celestini in Monte Calvario e leggero cantore ne La Scoperta Di Milano, Lega approfondisce la tematica amorosa grazie all’amaro volo solitario di Icaro e a quello romanticamente rigenerante de I Baci, sviscerando ansie e aspettative comuni mettendone a nudo i tratti salienti. Esempio di folk song senza tempo, con dedica mirata al poeta Roberto Roversi, è poi Spartaco, omaggio al gladiatore tracio che assurge al ruolo di eroe contemporaneo, trasfigurato infatti nella quotidianità odierna di un precariato vissuto fra cantieri e lavori interinali e proprio per questo mosso, una volta ancora, alla ribellione. Per non soccombere. E mentre con Paolo Pietrangeli rivendichiamo Canzoni Da Amare e una voce ci suggerisce “Difendi L’Allegria!”, è La Piazza, La Loggia, La Gru l’ennesima occasione imprescindibile di riflessione, civile e circostanziata, in cui realtà fra loro differenti si intrecciano nel flusso inesorabile degli isco di storie, di luoghi e di anarchia. Così ci piace eventi. Vola alto Alessio Lega, senza paura e come presentare l’ultima fatica di Alessio Lega, al quin- sempre lontano dalla retorica di questo o quel partito. to album del suo percorso cantautoral-militante Libero e battagliero. Coraggio, pietà non è morta. [ ] comprendente anche un riuscito ep omaggio alle canzoni del professor Gianni Nebbiosi. Un personaggio simbolo delle più urgenti istanze sociali capace di mettersi sempre in gioco; ora con disinvoltura accanto ai funambolici Mariposa negli esordi del pluripremiato Resistenza e Amore, ora con malcelata emozione MALATESTA - ALESSIO LEGA e sanguigna deferenza quando si tratta di misurarsi 01. Frizullo Canzoni Da Amare con la grande canzone d’Oltralpe di Leo Ferré o “Ton- 02. 03. frammento “addio morettin” ton” Brassens. Abile costruttore di trame narrative 04. Risaie (la ricercatezza formale di Isabella Di Morra su tutte), 05. Cristo Lavoratore Lega viaggia attraverso la memoria collettiva e quella 06. Spartaco personale, fatta di libri, approfondimenti e indagini a 07. La Scoperta Di Milano tutto campo, scegliendo una carrellata di figure forse 08. Icaro Insulina mai celebrate abbastanza eppure così ben radicate 09. 10. frammento “dormi, dormi...” e rappresentative dell’italico sentire comune, utili per 11. I Baci imbastire un discorso trasversalmente politico in cui 12. Matteotti è la tripartizione narrativa a suggerire le coordinate 13. Rosa Bianca e a dettare i tempi del lavoro. Passione e attenzione 14. frammento “Corso Regina Coeli” sono le molle capaci di spingere una volta ancora le 15. Isabella Di Morra Difendi L’Allegria riflessioni poetiche dell’artista salentino là dove altri 16. 17. frammento “esecuzione produttiva” operano mediante più ampie pubblicazioni editoriali. 18. La Piazza, La Loggia, La Gru Qua il racconto è necessariamente sintetico eppure parimenti descrittivo e felicemente compiuto. L’enig-

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ERO Fermoimmagine (Zetafactory, 2012)

di Andrea Barbaglia

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tutti gli orfani degli impareggiabili Coldturkey, che a metà anni ‘00 seppero realmente emozionare con un cd meritevole di miglior sorte come Assaltacustico l’invito è quello di non disperare. Nulla si distrugge. Semplicemente tutto scorre. E cambia. Ero è infatti la nuova creatura di Simone Magnani, il frontman di quell’imprevedibile duo che, perseverante, ora si mette al servizio di una nuova formazione dal taglio decisamente più rock, ma con variegate contaminazioni e mutevoli umori musicali, alla base di un crossover maturo e poetico. Sì, perché Magnani non ha perso il dono della scrittura in questi anni di silenzio, ma anzi l’ha affinato ulteriormente. E per raccontarlo ci piace andare controcorrente partendo dal finale del cd, da quella Se, piano-ballad lunare da brividi, capace di mettere in evidenza la sensibilità musicale del giovane cantautore carpigiano e occasione per ritagliarsi un momento unico di sognante intimità amorosa dopo le tante occasioni, riuscite, di convulsa energia che pervadono il resto del lavoro. Fermoimmagine è infatti una rigenerante caduta in quella spirale che folgorò decine di migliaia di persone sulla strada del Rock, quel rock con la R maiuscola, dal potenziale dinamitardo. Mai domo. Fiero. Difficile da disinnescare. Si prenda l’esplosione chitarristica de Il Santo, con gli axemen Enrico Gherli e Luca Righi decisamente sugli scudi, o

il vortice grunge de La Macchina Del Tempo con quel nervoso innesto blues di armonica, perfetto contraltare sonoro alla rabbia vocale di Magnani. Le polaroid scattate all’esistenziale dubbio cosmico di Tina sono l’ennesima conferma alla bontà del progetto: cantautorato metropolitano dai bagliori British e performance strumentale niente affatto scontata in cui anche la sezione ritmica di Mattia Crepaldi (già con l’interessante progetto Angus Mc Og) e Marco Manfredini riesce a prendere il sopravvento prima di tracciare la strada in Non Ne Vale La Pena. Semplicemente eccezionale X: con i Temple of The Dog nel cuore e i Pearl Jam di Ten nelle orecchie la mèta finale del viaggio non può che essere Seattle per quello che è un omaggio alle proprie radici musico-culturali. Cambio di rotta invece con il funky soul grintoso de L’Epitaffio, solo un poco mitigato dalle essenziali linee di tromba che Enrico Pasini, collaboratore di lungo corso dell’indiavolata Beatrice Antolini, tratteggia tra un wah-wah e l’altro. Photophobia è contagiosa, con le sue atmosfere kafkiane rese al meglio dall’interpretazione vigorosa di un sempre più sicuro e deciso Magnani qui sostenuto da un altrettanto robusto hard rock. Giunti alla (jazzata!) title track, ennesimo must del cd, plachiamo per qualche istante l’antico ardore, ci facciam cullare dalla tromba e, accompagnati dalle sei corde, riposiamo nelle prime ore del pomeriggio all’ombra di una quercia secolare, protetti dal cocente sole che batte impietoso sulla pianura padana. Sono i Cocci Sparsi di una vita sincera spesa fra alti e bassi nei paesi, lontano dalle grandi città dove i giochi di potere sono all’ordine del giorno, tra la via Emilia cantata dai Nomadi e la East Coast di un John Frusciante solitario e serenamente irrequieto dopo i fasti redhotchilipeppersiani; là dove è la Natura a prendere a volte il soppravvento (La Scossa, caratterizzata dai vocalizzi della diciannovenne Alice Sacchi) e l’uomo resiste grazie alle sue passioni (Sali E Scendi). Capitani coraggiosi. Visionari illuminati. [ ] FERMOIMMAGINE-ERO 01. Il santo 02. Tina 03. Non vale la pena 04. X 05. Fermoimmagine 06. La macchina del tempo 07. L’epitaffio 08. Sali e scendi 09. Photophobia 10. Cocci sparsi 11. La scossa

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EnRicO ruggeri Frankenstein (Anyway, 2013)

di Andrea Barbaglia

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’era già andato molto vicino nel recente passato; soltanto oggi però Enrico Ruggeri porta a compimento il suo primo concept album con un plot narrativo di spessore ed una analitica visione ragionata sulla società contemporanea. In una foga creativa che ha coinvolto il solo Luigi Schiavone come ai pionieristici tempi di CHAMPAGNE MOLOTOV (1981), il cantautore milanese sceglie di raccontare l’uomo di oggi prendendo spunto dal romanzo ottocentesco di Mary Shelley. La storia del dottor Frankenstein alle prese con la sua creatura è specchio dei nostri tempi in cui si riflettono le nevrosi dell’animo umano a partire dal desiderio egocentrico di vita eterna che, anche per mezzo della scienza, contrasta e sfida le leggi di Natura. Il superuomo di nietzschiana memoria, il moderno tema della diversità, la mai sopita lotta tra vincenti e perdenti confluiscono in un lavoro senza tempo che vede Ruggeri alacremente intento alla ricerca del suono e della parola migliori, capaci di conferire all’album tre chiavi di lettura. La prima di commento al moderno Prometeo della Shelley; la seconda atta a considerare ogni canzone opera sé stante; la terza utile per seguire i capitoli del romanzo breve L’Uomo al Centro del Cerchio allegato al progetto discografico. Così quando La Nave salpa tra le onde, nella foschia, al suono del flauto traverso dell’amico Elio, ci troviamo catapulta-

ti in una dimensione di avventura che non prescinde da quella personale: Il Capitano è fotografia di tutti coloro i quali, appena raggiunto un approdo, ripartono per oltrepassare nuovamente le colonne d’Ercole della propria conoscenza. Sono Le Affinità Elettive con l’eroe omerico Ulisse, sottotesto al classic rock de La Folle Ambizione e nemesi dello stesso dottor Frankenstein impegnato nel suo azzardato assemblaggio bestiale (Per Costruire Un Uomo). Pietosa preghiera pagano-superomistica s’alza nel pop-prog della title track, tutt’uno con il vertice musicale del concept. La cowbell anni ‘70, il chitarrone di Schiavone lanciato in assolo, l’indovinato cambio di atmosfera centrale caratterizzano la strepitosa Aspettando I Superuomini, in equilibrio a metà dell’opera. A ruota, il singolo Diverso Dagli Altri, dalle liquide sonorità elettroniche, ci conduce nell’antro dei pensieri più reconditi della Creatura; qui Il Cuore Del Mostro pulsa e sanguina sotto una pioggia fredda, penetrante, mentre la minaccia si fa largo e prende forma. Gli sferragliamenti del violino di Andrea Mirò in Ucciderò (Se Non Avrò Il Mio Amore) fanno il paio col clangore sinistro de L’Odio Porta Odio e con la voce di Ruggeri filtrata meccanicamente ad urlare quella interiore del “mostro” ribellatosi al suo creatore. Una brezza leggera soffia ne Il Tuo Destino È Il Mio mentre, consapevoli che L’Infinito Avrà I Tuoi Occhi, guardiamo il tramonto. Nei ricordi una lacrima scende su una fotografia in bianco e nero; la Creatura dall’altro capo del supporto ottico ci guarda e sbiadisce lentamente. La redenzione risiede altrove. [ ]

FRANKENSTEIN-ENRICO RUGGERI 01. La nave 02. Il capitano 03. Le affinità elettive 04. La folle ambizione 05. Per costruire un uomo 06. Frankenstein 07. Aspettando i superuomini 08. Diverso dagli altri 09. Il cuore del mostro 10. Ucciderò (se non avrò il mio amore) 11. L’odio porta odio 12. Il tuo destino è il mio 13. L’Infinito avrà i tuoi occhi

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LU-PO Bloom

no, Bloom mette infatti a frutto una ricerca musicale matura, basata sulla elaborazione del suono che si piega alle esigenze di synth e tastiere, anche quando concepito su una strumentazione più tradiziona(AEF/Radio France International, 2013) le. Uno slancio capace di bilanciare le aspettative di quanti sono più legati alla tradizione di suoni acustici e quanti amano perdersi invece nelle derive moderne di Andrea Barbaglia dell’elettronica intelligente, che sa dare concretezza a immaginifiche cattedrali del pensiero. Quanto LUPO produce e successivamente trasmette alle nostre orecchie è anche una ricerca interiore, meditativa ed emotivamente delicata che tende alla descrizione oggettiva e analitica della realtà. Anche se parziale e mai del tutto rivelata. È un continuo scavare in profondità, alla perenne ricerca di un qualcosa di indefinito e indefinibile. La liquida Guilty Guitar, il gorgo che pare inghiottire Autumn, la felpata Bloom, la percussività di Tree, il tranquillo paesaggio d’acqua dolce tratteggiato in Lake, l’insospettabile crepuscolarità crepitante di Daylight, il moto ciclico delle mare esercitato da Moon e Moon II sondano il campo e si addentrano, mai invasive, nei misteri della Natura, mutando ed evolvendosi in una sequenza di stati d’animo e sensazioni (il più delle volte malinconiche) sperimentabili dall’individuo nel corso della propria esistenza umana. Uno sguardo otato al minimalismo della Terra, Gianluca Porcu, riflesso nella sospensione infinita tra astratto e contitolare nonché deus ex machina del progetto LU- creto. Giocando con le unità di tempo, luogo e spazio PO, festeggia i dieci anni di attività discografica senza paura dell’Infinito. [ ] rilasciando in digitale, con la sinergia di quella AEF già in orbita Radio France Internationale e a soli cinque mesi dal precedente racconto notturno Stendere la notte, questo ottimo Bloom, che poco ha a che spartire, musicalmente parlando, con il suo predecessore se non fosse per quell’evocativo astrattismo strumentale e l’indubbia capacità tecnica del suo esecutore, che ne contraddistinguono la trama. Sono cambiati infatti gli scenari sonori, così come le modalità di esecuzione hanno seguito il nuovo mood, dal quale si è originato questo prodotto dal taglio internazionale. Mentre cinque mesi fa la collaborazione con archi e - BLOOM ottoni aveva partorito una sintesi fra genio umano e LU-PO 01. Angel meccanica elettronica, qui tutto è ridotto e riconduci- 02. Lake bile all’intelligenza delle macchine che, partendo da 03. Break the night uno spunto sonoro caldo, come può esserlo un ar- 04. Bloom peggio di chitarra, prendono il sopravvento per dise- 05. Guilty guitar gnare un landscape maggiormente algido ed etereo. 06. Moon Autumn Didascalica in tal senso è l’introduttiva Angel in cui, 07. 08. Daylight oltre a rimandare emotivamente ad una dimensione 09. Drawing ultraterrena, viene testimoniata la crescita artistica 10. Tree del musicista sardo. Registrato tra Cagliari e Tori- 11. Moon II

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M'ors M’ors

(Infecta/Calacas Records , 2013) di Andrea Barbaglia

U

n equilibrista in bilico fra le note. Questo è Marco Orsini da Roma. Con il suo elettrizzante progetto M’ors compie un variegato excursus nel miglior cantautorato italiano che non disdegna la fruibilità per le masse, ma anzi si lascia di fatto contaminare pigramente da un piacevolissimo afflato pop capace di rinnovare gli stilemi del genere e sempre utile per arrotondare le spigolature e rimpolpare la melodia che, rispettivamente, il rock e il folk (a cui ci si rifà) portano con sé. Con un occhio al sud del mondo. A tutti i sud del mondo. Una patchanka di gran classe dunque per l’esordio di questo sestetto generatosi quindici anni or sono tra Roma e la Romagna. Potenzialmente ogni canzone ha tutti i crismi per divenire il singolo trascinante dell’album; scelta, questa, ricaduta su un fantasioso Rock-Co-Co-Co dalle pulsioni beat, ottimo esempio di pop rock d’Oltremanica desideroso di incontrare il folk punk sviluppato dai Green Day in Warning. Eppure non ci sarebbero stati problemi nel lanciare sulle piattaforme mediatiche la solare Eritrea, con il suo sound estivo e i suoi ritmi calypso-tropicali che fanno pensare a certe trovate dei quasi corregionali Ridillo; o addirittura la più impegnativa Il Re Nel Fango

la quale, seguendo coordinate sonore care a Dente e rintracciabili anche altrove in compagnia de Il Mio Amico Gramsci, tratteggia la figura di un sovrano vanesio e compiaciuto di sé, ben poco disposto a scendere da un trono effimero, decorato con lustrini e paillettes. Non un solo momento di stanca: anche nell’interlocutoria, ma non per questo meno incisiva, Fantasia, Orsini, Ciuzz, Pica, Jack Tormenta, Piddu e Zena hanno trovato la giusta chimica affinché, grazie anche alla naturale collaborazione in sala di registrazione con Manuel “Max Stirner” Fusaroli (con Tormenta nei, anzi “i” Don Vito e i Veleno), le dieci tracce del platter funzionino nel miglior modo possibile. Semplicità è la parola d’ordine in casa M’ors. Bandita ogni forma di esasperato e complicato tecnicismo, è la Poesia a prendere il sopravvento, quella stessa poesia fatta di autentica spontaneità che ci fa vivere meglio tanto la spensierata leggerezza di una bella giornata di sole quanto l’espressionismo della stupenda Anima Nera, intreccio sincopato di chitarre talmente ben riuscito da essere stato preferito nella sua versione demo. E anche quando è la matrice sociale a connaturare le riflessioni del sestetto (l’incrocio avventuroso in acustico fra Subsonica e Mano Negra di Tutti In Piazza con il piano di Zena a imperversare; il precariato di coppia in Pericolante) è l’innata tensione al viaggio a manifestarsi una volta ancora. Il Lungo Viaggio di una donna africana scappata dalla guerra e sopravvissuta alle difficoltà che l’hanno infine condotta nel nostro paese. “Tra sogni di pace, amore e di un tanto atteso parto imminente.” [ ]

M’ORS - M’ORS 01.Eritrea 02. Poesia 03. Il mio amico Gramsci 04. Rock-co-co-co 05. Fantasia 06. Il Re nel fango 07. Anima nera 08. Pericolante 09. Tutti in piazza 10. Il lungo viaggio

Andrea Barbaglia è anche qui: JK | 73 www.terapiemusicali.blogspot .it


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fabularasa D’amore e di marea (Radar Music, 2012) di Lucia Diomede

È

raffinato e sorprendente D’amore e di marea, il secondo cd dei pugliesi Fabularasa. È stato consacrato terzo miglior album italiano del 2012 al Premio Tenco di Sanremo, tra i più importanti di musica d’autore in Italia. Questo cd è notevole non solo per i testi dal curatissimo impianto narrativo, sempre in primo piano con la voce ruvida di Luca Basso (autore), ma anche per gli arrangiamenti e le linee melodiche, vicine alla tradizione cantautorale italiana e originalmente intessute di fusion da Vito Ottolino (chitarre e musica), Giuseppe Berlen (batteria, percussioni e musica) e Poldo Sebastiani (basso, loop station e musica). Un grande risultato, vista l’etichetta discografica, la Radar Music (Egea Distribution), specializzata in jazz. E poi, l’eccezionale presenza in ben quattro brani di Paul McCandless, due Grammy, fiatista delle storiche Paul Winter Consort e Oregon, discografia e collaborazioni infinite con i più grandi del jazz; il cameo di Gabriele Mirabassi, tra i migliori clarinettisti italiani; e ancora Maurizio Lampugnani alle percussioni, Giorgio Distante alla tromba e Giua, in sintonia con l’intelligenza autoriale e musicale del gruppo. Testi

radicati nella Puglia e nel Mediterraneo, il mediatore tra terre e propulsore di migrazioni, sin dalla prima traccia, Rabdomanza, neologismo da rabdomanzia, la ricerca ancestrale di sorgenti sotterranee con polloni, qui metafora di pensiero e prassi meridiani per carpire le storie e capire la storia: “partire da Levante per rubare il Santo” (la “traslazione” delle reliquie di San Nicola); “sentire il diavolo in gola dei cantastorie di Mola” (lo scomparso corpofonista Enzo Del Re, che lavorava con gente come Dario Fo e Vinicio Capossela). Di notevole bellezza è Il regalo, che parla di una lettera del 1920 del sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio al suo “padrone”, il Conte Pavoncelli, per restituirgli l’omaggio natalizio: “Lo so che non l’ha fatto in malafede …ma i miei compagni che non hanno da mangiare lo potrebbero pensare… non è soltanto una questione di coscienza… la politica è una pratica d’onore”: implicita e forte la critica all’attualità. Serenata della controra, si è aggiudicata il Premio Bindi 2011 per la migliore musica e, infatti, il suo lirismo è pari a quello dei versi. Due i brani non originali, Siciliana, rilettura per voce e basso della romanza della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Recessione, attualissimo rifacimento della canzone di De Martino su versi di Pasolini. Conclude il cd Majorana si imbarca sul postale: il misterioso addio al mondo dello scienziato diventa immagine del commiato del gruppo. D’amore e di marea è un lavoro di “ricostruzione” autorale, che non teme di fare precise scelte testuali e musicali e di indirizzarle senza titubanza verso una qualità non scontata, bella ed efficace. [ ]

FABULARASA - D’AMORE E DI MAREA 01. Rabdomanza 02. Il regalo (feat. Gabriele Mirabassi) 03. L’oro del mondo (feat. Paul McCandless) 04. Serenata della controra (feat. Paul McCandless) 05. Leggero (feat. Giua) 06. Siciliana 07. Aria (feat. Paul McCandless) 08. Recessione (feat. Gabriele Mirabassi) 09. Fiore di vento (feat. Paul McCandless) 10. Lunamare 11. Majorana si imbarca sul postale

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Mark Lanegan & Duke Garwood Black Pudding (Heavenly, 2013) di Gaia Caffio

A

rriva un momento nella vita di ognuno di noi in cui i mantra passatisti assumono il valore di verità rivelata: “…si stava meglio quando si stava peggio, le ferrovie non sono più quelle di una volta e… i musicisti di un tempo erano molto più prolifici e attenti alla qualità”. Un percorso di buio qualunquismo da cui si può uscire velocemente (fidatevi) ad esempio ricordandosi che c’è Mark Lanegan. Uno con un curriculm vitae che non ha pace, pieno di collaborazioni e sperimentazioni, più trasversale di quello di Capezzone. Questa volta, ad un anno dall’uscita di Black Funeral, l’instancabile Mark, ci regala la collaborazione con il polistrumentista Duke Garwood, un fingerpicker ipnotico, erede indiscusso di John Fahey e Jack Rose. I due, che in realtà lavorano insieme già da qualche anno e si adorano a vicenda, hanno deciso di chiudersi insieme nei Pink Duck Studios di Burbank, California (praticamente a casa di Josh Homme, ma questa è un’altra storia) e sfornare un album intero, Black Pudding, che vede entrambi nella loro versione più contenuta ma non per questo priva di carisma. Black Pudding è un album di blues acustico, sottile, rilassato e sorprendentemente vivo anche

quando la coppia sembra più interessata a impostare il proprio stato d’animo che ad altro. Si parte con una serie di tracce folk dove la protagonista è la chitarra acustica, accennata e ostentata in un’alternanza sapientemente dosata. Nel proseguire, poi, entrano in scena numerosi strumenti (molti dei quali non voglio fingere di essere in grado di identificare) grazie al talento di Garwood che nel disco suona tutto, ad eccezione di alcune parti di chitarra e tastiera affidate al mixer di Alain Johannes dei Queens of the Stone Age. C’è spazio per un bel viaggio in solo 12 brani (dal sitar ondeggiante della bellissima “Pentecostal”, alle le note discordanti del pianoforte danzante di Last rung, passando per le tastiere a picco sotto il sole di Shade of sun, per arrivare allo strano electro-funk di Cold Molly, forse l’unico passo falso di tutto il disco) ed il duo mostra un’abilità tecnica nel caricare di energia le tracce che li eleva anni luce sopra l’eccessiva serietà della schiera di indie folk singer contemporanei. Inutile dire che la voce al catrame dell’ ex Screaming Trees la fa da padrona e traccia la rotta di tutto il lavoro. Ma a parte le doti vocali di Lanegan e lo scrigno di strumenti di Garwood, il terzo fattore notevole di Black Pudding è la produzione. L’album suona come se fosse registrato in una baracca lungo un fiume. Macchie di sfondo, le dita che scorrono sulle corde della chitarra, sedie a dondolo e assi di legno che scricchiolano. In tutto questo, volenti o nolenti, si rimane immersi e gradevolmente perduti. Detto questo, poichè ne vorremmo sentire altri di album così, lunga vita a Lanegan e agli stakanovisti come lui! [ ]

MARK LANEGAN&DUKE GARWOOK - BLACK PUDDING 01. Black Pudding 02. Pentacostal 03. War Memorial 04. Mescalito 05. Sphinx 06. Last Rung 07. Driver 08. Death Rides a White Horse 09. Thank You 10. Cold Molly 11. Shade of the Sun 12. Manchester Special

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editors The Weight of your love

categorico del “radio friendly”. Le tracce sono undici (più altre tre incluse nella deluxe edition): si apprezzano il singolo A Ton of Love, la bass line di Formaldehyde, il riff di Hyena (che ricorda molto i fasti del passato, in particolare “Papillon”) e il curioso country di The Phone book. A tratti (molto alla lontana) si intravedono gli archi di Wish dei Cure, ma l’idea è quella di un discorso accennato e abbandonato sul nascere ed il resto dell’album non è degno di nota. Un colpo al cuore il falsetto di Tom Smith in What is Thing Called Love. Dopo tre album praticamente perfetti, privi di sbavature, in cui ogni brano era un possibile singolo, ci aspettavamo di più, soprattutto conoscendo le potenzialità della voce di Tom Smith. Ci aspettavamo pathos e complessità compositiva, non semplici canzoni. Ma, diciamolo, i veri fan perdonano anche i passi falsi! Durante l’estate potremo vedere la band dal vivo in alcuni dei festival europei più importanti, tra i quali lo Sziget Festival di Budapest, noi saremo lì, perché il live è tutta un’altra storia. [ ]

(Play It Again Sam, 2013) di Gaia Caffio

S

ono passati 4 anni dall’uscita di In This Light and On This Evening e gli Editors tornano con molto amore da dare. Il primo luglio uscirà The Weight of your love, quarta fatica della band di Birmingham, questa volta in formazione diversa: arriva il tastierista e polistrumentista Elliott Williams ed Justin Lockey sostituisce il genio del chitarrista Chris Urbanowicz, uscito dalla band nel 2012, “with huge sadness“, per divergenze nella direzione musicale (sic!). Se nel loro terzo album si respirava un’aria synthriflessiva da veri figliocci di Dave Gaham & co. (tastiere e rivestimenti elettronici assortiti à gogo), in The Weight of your love troviamo soluzioni decisamente più semplici. Abbandonata la voglia di new wave tipica della scena musicale della prima decade del millennio, ritornano le chitarre, i violini e le tastiere che abbiamo ascoltato in “An end in has a start”, ma manca del tutto quel mood epico, ascendente ed evocativo a cui ci hanno abituato in questi otto anni e di cui ci siamo innamorati. La svolta è verso il pop più tradizionale e l’intero album (lo dico con il cuore infranto) sembra uno sforzo senza fine di raggiungere le sonorità degli U2, dei Coldplay o dei Keane e, benché ci siano alcuni brani degni di interesse, l’album nel complesso risulta un’opera deludente, debole e diluita sotto l’imperativo

EDITORS - THE WEIGHT OF YOUR LOVE CD 1 01.The Weight 02.Sugar 03.A Ton of Love 04.What Is This Thing Called Love 05.Honesty 06.Nothing 07.Formaldehyde 08.Hyena 09.Two Hearted Spider 10.The Phone Book 11.Bird of Prey CD 2 (deluxe edition) 1. The Sting 2. Get Low 3. Comrade Spill My Blood 4. Hyena (acoustic) 5. Nothing (acoustic)

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The Postal Service Give Up (SubPop, 2013) di Gaia Caffio

E

’ il 2003. I sogni infranti e la malinconia vengono celebrati dai Radio Dept. con Lesser Matters, gli Stokes ci confondono le idee con Room On Fire e Jack e Meg White, sempre in due, continuano a suonare come un esercito nel loro quarto album. Abbiamo ancora addosso il peso degli anni ’90, MTV perde credibilità e comincia il nostro lungo (e mai concluso) percorso di psicoterapia collettiva per capire i nuovi album dei Radiohead.E’ in questo contesto che la Sub Pop Records, che non vede gloria dai tempi del disagiato Bleach dei Nirvana (1989), dà credito al progetto di due che hanno da tempo la patente di visionari, Ben Gibbard (aka Death Cab For Cutie’s frontman) e James Tamborello (Dntel, Headset e Figurine), riuscendo a far tornare a brillare l’elettropop, che le chitarre “prime donne” di Seattle avevano oscurato. Dicunt, ferunt, tradunt: dopo un lungo scambio per corrispondenza tra i due (si ringrazia sentitamente il Servizio Postale della West Coast) di demo di brani abbozzati, ritoccati e poi definiti, arrivano il piano e la chitarra di Chris Walla, le voci di Jenny Lewis (Rilo Kiley) e di Jen Wood. Le stelle si allineano e nasce “Give Up”, il primo e (ahimè!) unico album in studio dei The Postal Service. Il gruppo ci tiene a sottolineare l’assenza di premeditazione: il tutto è frutto di sinergiche casualità

e improvvisazioni (Notwist docet). Il lavoro concluso, oltre che efficace e brillante, ha qualcosa in più: è da subito perdurante, o meglio “sta avanti”. Ecco perché non stupisce la decisione di celebrarne il decennale con l’uscita di una versione Deluxe multidisco. La tracklist originaria viene arricchita con quindici bonus track (tra cui cover di The Flaming Lips, Phil Collins e John Lennon e due inediti). Partono i festeggiamenti: la prima parte, versione rimasterizzata dell’originale, conserva intatta la solare confidenza elettrica dei brani. Le sonorità si alternano senza che alcuna soluzione di continuità pesi all’ascolto. Ritroviamo i violini di “The District Sleeps Alone Tonight”, quel capolavoro assoluto di melodia e velocità di “Such Great Heights”, il ritmico sarcasmo di “We Will Become Silhouettes”, il game boy di “Nothing Better” e la new wave di grande stile di “This Place Is A Prison”. The Postal Sevice conservano ancora il titolo di “versione indie e rinnovata dei New Order”. Le luci si spengono progressivamente, tuttavia, nel prosieguo. Vi sono pezzi belli e ricercati come i “Be still my heart” (già presente nella versione in vinile del 2004) e l’inedito “There’s enough time” nonché le tre cover (chi se lo aspettava Phil Collins in versione elettropop!), ma progressivamente le sonorità si appiattiscono sotto la scure del remix ad oltranza, riempitivo di cui si poteva fare pacificamente a meno. Nel complesso l’album deborda, ma rimane fermo il plauso all’intento di riqualificarlo nella sua versione originale! L’idea ci piace. Alziamo la puntina del giradischi e, nell’attesa che aggiungano una data italiana al loro Reunion Tour, speriamo che le stelle si riallineino. [ ]

THE POSTAL SERVICE - GIVE UP (DELUXE 10Th ANNIVERSARY EDITION) Disc 1 06. Against All Odds (Take a Look At 01. The District Sleeps Alone Tonight Me Now) (Phil Collins cover) 02. Such Great Heights 07. Grow Old With Me (John Lennon 03. Sleeping In cover) 04. Nothing Better 08. Such Great Heights (John Tejada 05. Recycled Air Remix) 06. Clark Gable 09. The District Sleeps Alone Tonight 07. We Will Become Silhouettes (DJ Downfall Persistent Beat Mix) 08. This Place Is a Prison 10. Be Still My Heart (Nobody 09. Brand New Colony Remix) 10. Natural Anthem 11. We Will Become Silhouettes Disc 2 (Matthew Dear Remix) 01. Turn Around 12. Nothing Better (Styrofoam 02. A Tattered Line of String Remix) (conitua) 13. Recycled Air (Live on KEXP) 03. Be Still My Heart 14. We Will Become Silhouettes 04. There’s Never Enough Time (Performed by The Shins) 05. Suddenly Everything Has 15. Such Great Heights (Performed Changed (The Flaming Lips cover) by Iron & Wine)

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KURT VILE Walkin On A Pretty Daze

e prettamente rock. Vile non si fa mancare niente e in“Was All Talk “ riesce perfino ad utilizzare con misura e gusto un po’ di elettronica mentre “A Girl Called Alex” è sognante, costruita su arpeggi e chitarra che pare uscita da un disco proprio di Neil Young. “Never Run Away” è uno dei pezzi più riusciti e brevi dell’album, (Matador Records, 2013) smaccatamente pop e candidata al ruolo di singolo mentre “Pure Pain” rappresenta un capolavoro di cambi di tempo e atmosfera, ora malinconico e di Antonio Asquino ora sferzante, sempre all’insegna di un alto senso melodico, brano intelligentissimo e ”Too Hard” è una meraviglia dolente di stampo folk.“Shame Chamber” riporta il disco su terreni più vivaci ed elettrici e “Snowflakes Are Dancing” è un brano immediato e incalzante, in uno stile che rimanda al miglior Paisley Underground. “Air Bud” costituisce uno splendido esempio di arrangiamento creativo e commistione sbalorditiva di psichedelia con una spruzzata di elettronica. La lunga “Goldtone”, che chiude il disco, sembra a tratti un apocrifo di Lou Reed e non solo per il tipo di cantato ma anche per la capacità di rendere tutto un immaginario metropolitano come pochi saprebbero fare e anche qui è da sottolineare l’arrangiamento da applausi . Questo disco è uno dei più belli usciti finora nell’anno e per la discografia di Kurt Vile, oltre ad essere identificato come la cosiddetta “prova della maturità”, fa ben sperare per l’apertura uesto disco è la definizione e la consacrazione verso soluzioni ancora meno usuali di resa della sua di un grande songwriter contemporaneo, musica che, sono certo, si evolveranno ulteriormente l’americano Kurt Vile, al suo quinto lavoro con e ci faranno di nuovo gridare al miracolo. [ ] “Walking On a Pretty Daze” (sesto se contiamo anche l’esperienza con i War On Drugs da lui co-fondati e lasciati dopo il primo album per concentrarsi sulla carriera solista). L’arte del musicista di Philadelphia è una sorta di magico amalgama delle cose migliori che l’America ci ha regalato in quarant’anni di musica, in Vile convivono il cantautorato folk di Dylan e quello virato verso la psichedelia acida di Neil Young, l’anima poetica di Leonard Cohen e quella rock del miglior Steve Wynn, l’autorialità metropolitana di Lou Reed e una benedetta dose di sensibilità pop, potremmo KURT VILE - WALKIN ON A PRETTY DAZE continuare a lungo ma questo breve elenco può dare 01. Wakin On A Pretty Day KV Crimes la giusta dimensione, a chiunque abbia un minimo 02. 03. Was All Talk di buon gusto musicale e senso della storia della 04. Girl Called Alex musica, del tipo di artista che abbiamo di fronte. Il 05. Never Run Away viaggio inizia dalla lunga “Wakin On A Pretty Day” 06. Pure Pain nove minuti e mezzo di melodia e chitarre acustiche 7. Too Hard e ed elettriche liquide nel lungo e bellissimo assolo 08. Shame Chamber Snowflakes Are Dancing psichedelico finale, prima di una lunga serie di gemme 09. 10. Air Bud la seconda è l’attuale singolo “KV Crimes” più ritmata 11. Goldtone

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THE FLAMING LIPS The Terror (Warner Bros/Bella Union, 2013) di Antonio Asquino

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uesto è un disco importante per ciò che rappresenta nella discografia dei Flaming Lips e nelle vite dei componenti, infatti è figlio delle buie esperienze personali dei due motori principali del gruppo: Wayne Coyne, reduce da una dolorosa separazione con la compagna di vita e Steven Drodz che, a quanto pare, si trova di nuovo a dover fare i conti con le vecchie dipendenze. Il “terrore” di cui il gruppo ci parla è sepolto nei meandri di una mente atterrita e colpita duramente dalle emozioni negative che si provano nel non riconoscere più se stessi né la vita quotidiana che ci si è costruiti, superfluo dire che questo investe anche la vita artistica, in special modo in un gruppo come i Lips che ha fatto sfoggio, spesso, degli aspetti più ludici dell’avere una sensibilità “altra”, non solo nell’approccio alla musica ma anche in quello visivo e in ogni aspetto artistico (e sono tanti) che l’esperienza trentennale di questa strepitosa band ha toccato. È un disco di indiscutibile fascino e di profondissimo coraggio perché sebbene rispetto ad altri (capo-)lavori della band texana le “canzoni” propriamente dette siano latitanti, le atmosfere e i paesaggi presenti nell’album consentono un viaggio psichedelico di immane bellezza, una immersione totale in un abisso cangiante e sfuggente con cui raramente

chi ascolta musica può trovarsi faccia a faccia, in tutte le ossessioni che governano il suo flusso. La batteria sferzante di “Look…The Sun Is Rising” ci introduce in uno spazio elettrico ed elettronico, una chitarra fragorosa e rumorista, su di un tappeto di synth, definisce i contorni dell’incubo mentre la voce risuona dolce e distante. In “Be Free, Away.” la melodia si fa quasi inno mentre la ritmica pulsa sul fondo, “Try To Explain” è una gemma psichedelica baciata dai synth, la quarta è la lunghissima “You Lust”è costruita sui tastiere e chitarre effettate al limite in una continuum sonoro avvolgente mentre l’elettronica arricchisce il paesaggio sonoro con efficaci bordoni. “The Terror” è cupissima e avvolta nei rumori e nei ritmi, talvolta compressi talvolta leggermente esplosivi., segue “You Are Alone”, una sorta di sosta straniante, la calma prima di quella tempesta industrial che si chiama “Butterfly, How Long It Takes To Die”, contrappuntata da picchi sonori che nascondono la melodia vocale tra i riverberi e gli effetti. “Turning Violence” ha un incedere liquido e quasi pigro fino all’innalzarsi sonoro del finale. e infine“Always There…In Our Hearts”, conclude questa meraviglia in modo perfettamente circolare, partendo dallo stesso incubo di fondo, richiamando suoni e drumming del primo brano in scaletta, riproponendone il riff di chitarra tra noise e funk acido ed espandendone i contorni sonori in deflagrazioni prossime alla kraut music. Questo non è solo un gran disco ma è anche una esperienza unica di sconvolgente fascino. [ ]

THE FLAMING LIPS - THE TERROR 01 Look…The Sun Is Rising 02 Be Free, A Way 03 Try To Explain 04 You Lust 05 The Terror 06 You Are Alone” 07 Butterfly, How Long It Takes To Die 08 Turning Violent 09 Always There…In Our Hearts 10 Sun Blows Up Today (digital-only bonus track)

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THE PASTELS Slow Summits

invece da Stephen, più ritmata e meravigliosamente arrangiata nei suoi intrecci di fiati, uno di quei brani capace di farti aprire le braccia al mondo. Il terzo brano è “Check My Heart” che è anche il primo singolo (Domino, 2013) estratto dal disco, duetto dei due alla voce e vibrante melodia indelebile, “Summer Rain” travolge con la sua cadenza jazzata sottolineata benissimo dalla di Antonio Asquino ritmica e “After Images” rallenta il tiro affidandosi alle tastiere, è il primo dei brani strumentali. Sesta traccia è “Kicking Leaves”, canzone dolcissima ad alto tasso di orecchiabilità in cui gli archi la fanno da padrone e trafiggono il cuore, segue “The Wrong Light” forse la vetta del disco, la cosa divertente di una canzone come questa è che potrebbe sembrare un giro di accordi già sentito e ci sono buone probabilità che sia cosi’ ma è talmente bella che non te ne può fregare di meno, ti lasci avvolgere e poi l’impasto delle voci e il controcanto del flauto fanno il resto. La title track è il secondo strumentale e qui la sensazione è quella di trovarsi di fronte a una bella colonna sonora vintage con tanto di finale elettrico e coretti, “Come To Dance” è chiusura leggera e leggiadra, ottimo esempio di quello che viene definito “pop da cameretta” e, aggiungiamoci l’aggettivo giusto, superlativo. Un disco bellissimo non solo per la sua levatura artistica er ascoltare, capire in pieno ed apprezzare i notevole ma anche per la capacità di nutrire quella Pastels in generale e questo disco in particolare, nostra parte d’animo meno disillusa e cinica, quella bisogna “sentirli col cuore”, mi rendo conto che che spesso ci fa vivere meglio. [ ] la frase può risultare melensa e stucchevole ma è la verità. Slow Summits richiede empatia e sensibilità particolari, bisogna dare, insomma, alla nostra eterna adolescenza l’importanza che merita e se non riuscite ad usare il cuore come orecchio dovreste provare almeno ad ascoltarlo stesi su un di un prato (meglio se leggermente bagnato di pioggia) oppure correndo per una strada di campagna prima di rotolarvi in un campo di grano, premesso questo veniamo alla fredda cronaca: la band scozzese che conta ormai come nucleo principale il duo Stephen McRobbie e Katrina Mitchell più collaboratori del calibro di John McEntire (Tortoise tra gli altri) qui in veste di produttore THE PASTELS - SLOW SUMMITS Music e arrangiatore, senza scordare Alison Mitchell alla 01.Secret 02. Night Time Made Us tromba e Tom Crossley al flauto(che meritano una 03. Check My Heart menzione speciale), realizza il suo settimo album 04. Summer Rain in venticinque anni a sedici di distanza dall’ultimo 05. After Image “Illumination”. La mirabile apertura è affidata a “ 06. Kicking Leaves Secret Music”, dove la voce di Katrina si fa strada con 07. The Wrong Light Slow Summits eleganza e discrezione in una ninna nanna di richiamo 08. 09. Come to the Dance immediato, una colonna sonora per un sogno ad occhi 10.Illuminum Song aperti prolungato da “Night Time Made Us”, cantata

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GAZEBO PENGUINS Raudo

“Ogni Scelta è In Perdita” resta sullo stesso livello del brano precedente per quanto riguarda il testo mentre la musica si fa pressante con l’incedere della batteria che puntella le parole come meglio non potrebbe fino (To Lose La Track, 2013) al finale al vetriolo. “Correggio” è un breve spaccato di adolescenza declinata in forma nostalgica mentre “Trasloco” è decisamente un brano dall’animo rock di Antonio Asquino stradaiolo che avvampa nel ritornello. “Mio Nonno” ha un gran bel testo, tanto corto quanto efficace: “mio nonno per quasi 70 anni è stato in minoranza e sta benissimo” ed è uno dei brani migliori del disco cosi come “Non Morirò” che gode di un efficacissimo riff di chitarra e riesce ad equilibrare ottimamente, nel testo, ironia e cupezza. L’efficace “Piuttosto Bene” chiude e, in un certo senso, riassume abbastanza fedelmente tutto il disco partendo piano e finendo in sfacelo, tra chitarre che friggono e ritmica poderosa. I Gazebo Penguins appartengono a quella categoria di gruppi che non chiede mezze misure: si ama o si odia ma soprattutto va capito e condiviso, non si possono ascoltare né giudicare con il distacco che si può dedicare ad altre tipologie di artisti, ma avendo come motore di comprensione l’emotività e l’empatia, vanno “sentiti” prima che “ascoltati”. “Raudo” è un disco che si deve vivere più che descrivere e il materiale che il gruppo mette a disposizione per questo compito è opo “Legna”, il disco esplosivo che li ha fatti affascinante e di ottima fattura. [ ] conoscere ed apprezzare un po’ ovunque nella penisola, tornano i Gazebo Penguins con la sua prosecuzione ideale e rivolta al futuro: “Raudo” che è ulteriore prova di crescita, sia nell’attitudine che nella finalizzazione dell’idea musicale, della band emiliana. Un disco più nervoso e instabile del primo, sospinto da un potenza viva e salvifica, una resistenza al tedio e alle insoddisfazioni della vita quotidiana declinata in salsa tra hardcore, post punk e deflagrazioni sonore vicine allo stoner. La musica colpisce a pari merito dei testi leggermente più scuri rispetto al passato ma che non indugiano in sciocchezze da ragazzetto emo idiota che si autocompatisce e si autocompiace. “E’ finito il Caffé” e “Casa Dei Miei” si arrampicano su muri di chitarre potenti, più malinconico il mood GAZEBO PENGUINS - RAUDO della prima più punk la seconda, mentre “Difetto” 01.Finito Il Caffé Casa Dei Miei esplode sospinta dalla ritmica martellante, creando 02. 03. Difetto un saliscendi emozionale e sonoro di raro impatto, 04. Domani è Gennaio uno dei brani più riusciti. “Domani E’ Gennaio” vive 05. Ogni Scelta è In Perdita di elettriche grattugiate e graffianti e si identifica in 06. Correggio un testo intelligente e anche ironico di empatica 07. Trasloco resa:”ti prego non mi dire più/domani è un altro 08. Mio Nonno Non Morirò giorno/i lunedì di maggio sono così da otto anni”. 09. 10. Piuttosto Bene

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Teho Teardo & Blixa Bargeld Still Smiling (Specula Records, 2013) di Nadia Merlo Fiorillo

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eisegefährten, compagni di viaggio, travelling companions Teho Teardo e Blixa Bargeld lo sono da 4 anni (in passato avevano già collaborato per lo spettacolo teatrale “Ingiuria” e per “A quiet life”, brano della colonna sonora del film “Una vita tranquilla”) e Still Smiling sancisce il loro percorso artistico in 12 tracce che rendono questo disco un excursus musical-concettuale tra i più originali del momento, se non l’unico in Italia. Iconico come nessun altro, il design sonoro di Teardo, in passato già riscrittura industrial del riformismo elettronico e sperimentale, si fonde con l’espressionismo siderurgico di cui Bargeld è stato attore indiscusso negli anni ’80 con i suoi Einstürzende, sebbene Still Smiling presenti una corposità melodica e talvolta pop lontanissima dal rumorismo nevrotico tipico dell’avanguardia dei Neubauten. Eppure, lo stridore e i rumors ambientali – non registrati come in una camera anecoica, ma in “Axolotl” riprodotti dalla voce di Blixa e dalla chitarra di Teho! – non mancano e sono effetti dell’uso lacerante di archi (sapientemente suonati da Martina Bertoni e dal Balanescu 4et) e di oggetti, come in Buntmetalldiebe (nel quale testo e musica richiamano in un’andatura simbiotica lastre d’acciaio vibranti realmente utilizzate e saldature metalliche). Superbo nelle sue costruzioni acustiche, Teardo sa

sostenere con un’elettronica asciutta, disadorna e ipnotica l’interpretazione sulfurea e cavernosa di Bargeld, maestro di sussurri spasmodici (Still Smiling) e di risonanze gutturali che ispessiscono la scansione ritmica del tedesco e della sua pronuncia percussiva (Nocturnalie). Meravigliosa “What if…?”, aperta da toni bassi insistenti e compulsivi che introducono un etereo violino, su cui il parlato di Blixa si incastona nella lingua italiana, per esplodere a metà pezzo in un cantato inglese enfatico e iperbolico. Ma è in “Mi scusi” – dal testo prevalentemente in italiano – che il duo dà il meglio di sé, soprattutto nella tessitura di un’estetica del concetto, forte degli studi e della riflessione di Bargeld sulla lingua, sulla sua dizione e sulla possibilità di tradurre in un idioma altro le metafore della lingua d’origine (“Wer bin ich in einer anderen Sprache? Wer bin ich, der in meinem Körper singt das Lied?”, “Chi sono in una lingua diversa? Chi sono io, quello che canta la canzone nel mio corpo?”, “Kommen die Metaphern mit mir mit?”, “Le metafore vengono con me?”). Facile innamorarsi di un disco del genere, sublimazione di sensibilità tenebrose e atmosfere abissali da cui lasciarsi irretire, affidandosi al genio di due artisti tanto diversi, eppure così complementari. Quello di Still Smiling è un mondo in cui tecnologia e ancestralità si accordano in un esperimento sensoriale che non può fare a meno della visionarietà del significato. Un album, quindi, da ascoltare, vedere e pensare non una sola volta, perché la sua capacità di suggestionare è inesauribile. Un capolavoro. [ ] STILL SMILING - TEHO TEARDO & BLIXA BARGELD 01. Mi scusi 02. Come up and see me 03. Axolotl 04. Buntmetalldiebe 05. Still smiling 06. Nocturnalie 07. Alone with the moon 08. What if…? 09. Konjunktiv II 10. Nur zur Erinnerung 11. A quiet life 12. Defenestrazioni

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GLI INDIANI DEGLI ANNI ZERO Parole e mappe della riserva indipendente della musica italiana (Francesco Bommartini - Arcana Edizioni, 2013) di Giuseppe Losapio

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on ha tutti i torti Manuel Agnelli degli Afterhours quando dice che non esiste un genere musicale “indipendente”, ma buona e cattiva musica. Dello stesso avviso è il cantautore Dente (Giuseppe Peveri): “In Italia ultimamente c’è gente che fa delle belle cose che potrebbero essere popolari, quasi nazionalpopolari, canzoni che non sono canzonette ma possono arrivare a tanta gente. Dispiace che questo non arrivi”. Eppure gran parte della nuova produzione musicale italiana, innovativa e artisticamente valida, arranca nel mercato e si è ritagliata spazi tutti propri. E’ questo l’argomento affrontato nel libro Riserva indipendente. La musica italiana negli anni Zero scritto dal giornalista veronese Francesco Bommartini (Arcana edizioni). Bommartini vola lungo questa faglia geologica musicale entrando nel merito della questione: «Spesso i ritornelli delle canzoni che si sentono in radio dicono ancora “Io ti amo/tu mi ami” - gli risponde Enrico Molteni (Tre Allegri Ragazzi Morti) -. Ma se vuoi dire qualcosa di diverso e riesci a dirlo in modo abbastanza forte, fondamentalmente trovi delle barriere in alcuni direzioni e porte spalancate in altre». Una logica dell’esclusione cui questi artisti rispondono con una trasversalità linguistica e compositiva che il mondo ufficiale della musica rifiuta. Il libro contiene una serie di temi che vanno dalla produzione-creazione delle canzoni alla vendita, ai contratti discografici, l’organizzazione dei concerti e i luoghi preposti, il rapporto con il mondo radiofonico e con le nuove tecnologie. “Se spariranno del tutto - dichiara Giordano Sangiorgi nella prefazione -, se andranno sempre nel dimenticatoio, saranno ricordate solo le grandi voci di Sanremo e qualche grande cantautore e storico rocker, come se la storia della musica italiana fosse tutta lì”. Il reportage di Bommartini è importante per orientarsi in questa landa dai confini mutevoli: diciotto interviste a gruppi o cantautori della scena italiana, gli interventi di Federico Guglielmi ed Enrico De Angelis, sedici interviste sui premi, etichette, booking agency, uffici stampa e videomaker. Una mole d’informazioni

che sicuramente non è imputabile ad una riserva in senso stretto, ma ad un panorama in espansione. Le pecche del libro sono poche: l’assenza di interviste alle rappresentanti del repertorio femminile e la definizione di un canone limitato, eppure il lettore si renderà conto che non c’è cattiva fede: l’autore tasta il polso ad una scena musicale vivace e seguita, ne è un esempio il pubblico giovanissimo che segue progetti come I Cani e Lo Stato Sociale o il successo di vendite del doppio dei Verdena, Wow. E’ in crisi il sistema musicale come lo abbiamo sempre inteso, le major che si ritrovano cavalli di razza ormai ripetitivi e che attingono a questa riserva, s’imbattono in regole e richieste fuori dal loro modus operandi. E’ uno scontro esplicito in tutto il lavoro di Bommartini. A questo punto c’è da chiedersi chi potrà salvare la nuova musica italiana. La risposta è nel libro. [ ]

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testaintasca EP

dietro l’angolo. Bene, un po’ come i Thegiornalisti (un altro gruppo contemporaneo che mi piace moltissimo) i Testaintasca ci riescono alla grande con questo EP tutto occhiali da sole rotondi e partite a beach volley ai Cancelli di Ostia, dalla prima traccia “Collaborare” – profetica in tempi di larghe intese – fino all’ultima “Settembre”, un pezzo più lento e fuori dal coro che funge da classica ciliegina sulla torta. Cinque pezzi scanzonati e paurosamente simpatici, con arrangiamenti intelligenti, missaggio british, begli assoli – incredibile, esistono ancora gruppi contemporanei che fanno gli assoli – e il classico cantato sporco del futuro ragazzo della tua futura ex ragazza. Questo EP è un motivo più che valido per aspettare i Testaintasca al varco del primo disco con grande fiducia: potrebbe essere l’ennesima bomba targata 42 Records, è divertente, non è lungo, si scarica gratuitamente, se non vi basta che volete, che ve lo vengano pure a suona’ a casa? [ ]

(42 Records, 2013) di Claudio delicato

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ono sempre stato allergico agli EP perché mi infastidisce tutto ciò che normalmente si definisce con un acronimo, ma per i Testaintasca ho deciso di fare un’eccezione: il loro singolo “La musica (mi piace tanto)” mi ha incuriosito da subito e per questo ho deciso di scaricare questo EP, disponibile in download gratuito dal sito della loro etichetta 42 Records. “La musica (mi piace tanto)” è un pezzo interessante perché quello del ritornello è il classico testo che, se proposto in sala prove da un componente del tuo gruppo, porta generalmente alla tortura di quest’ultimo con dei tizzoni ardenti; eppure, ascoltando queste semplici parole nell’economia di una canzone ben suonata e cantata con grande personalità, si capisce che al giorno d’oggi il cosa non è importante quanto il come. L’EP dei Testaintasca risale al 2011 ma è stato pubblicato solo ora in formato appetizer, per lasciarci l’acquolina in bocca in attesa dell’imminente disco d’esordio. Quindici minuti che rimandano agli anni ’60 più puri, con molti Beatles, una spolverata di Formula Tre e fortunatamente quasi niente Amedeo Minghi. Una musica derivativa e per questo complessa, perché il rock di quei tempi è un po’ come la cacio e pepe: non è difficile, ma se non lo fai bene il rischio figuraccia è

TESTAINTASCA - EP 01. Collaborare 02. La musica (mi piace tanto) 03. Blù 04. Maledizione 05. Settembre

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luminal Amatoriale Italia (La Narcisse/Goodfellas, 2013) di Claudio delicato

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opo aver ascoltato per la prima volta “Amatoriale Italia” mi sono sentito un po’ come quando ho aperto la cartella download convinto di aver scaricato “Habemus Papam” di Nanni Moretti e ci ho trovato una gangbang di un’ora e un quarto fra due Russe barely legal e un branco di cavalli brachimorfi: non era certo quello che mi aspettavo, ma devo ammettere che il prodotto è superlativo. Con questo disco i Luminal sembrano prendere Francesco Capovilla per i capelli e urlargli nelle orecchie che il noise contemporaneo nostrano, oltre a parlare della Comune di Parigi, può anche sporcarsi le mani con argomenti più “bassi” e attuali che volenti e nolenti fanno parte della nostra cultura come Facebook e Lele Mora. Immagini già ampiamente sviscerate dalla una folta schiera di gruppi emersi di recente, ma i Luminal lo fanno con un atteggiamento del tutto diverso: urlano, scatarrano, strepitano per 45 minuti in un disco che non salva nessuno. Nichilismo allo stato puro, un cane rabbioso chiuso in una gabbia affamato per tre giorni e punzecchiato con un attizzatoio bollente. Il disco parte a mille con “Donne (du, du, du)”, impietosa carrellata delle peggiori figure femminili

che l’avanspettacolo abbia portato ai vertici politici e culturali del Belpaese; poi si passa al panorama musicale indipendente con liriche al vetriolo su pezzi mitici come “Carlo vs. il giovane hipster”, “Giovane musicista italiano, vecchio italiano” e “C’è vita oltre RockIt”, un bel cazzotto in bocca a ridimensionare Vasco Brondi e Lo Stato Sociale. Non mancano episodi più intimi e la canzone più riuscita è a mio parere “Grande madre Russia”, che unisce una grottesca prospettiva personale a quella politica, in un mix di piani quinquennali e MDMA che neanche a Carlo Conti è mai riuscito così bene. Chi ha seguito il gruppo nei suoi precedenti lavori rimarrà sorpreso dal cambio di rotta, radicale quanto quelli dei vertici del PD dopo ogni tornata elettorale: i Luminal rinunciano quasi in toto alla melodia a favore di riff crudi e ossessivi e basi musicali distorte, creando un sound che non perde nulla in sede live. Le linee vocali sono sbraitate e negli episodi più calmi richiamano lo sguardo gelido e subdolamente omicida che ti indirizzava tua madre quando da bambino ti rifiutavi di mangiare gli spinaci, i testi sono deliranti almeno quanto il sito web del gruppo e l’alternanza di voce femminile e maschile funziona, per quanto personalmente lascerei un po’ più di spazio ad Alessandra Perna. “Amatoriale Italia” è quanto di meglio vi possa capitare mentre annoiati mettete thumbs up ai video dei The Pills. Vi consiglio di procurarvelo subito, perché non c’è esperienza che mi abbia reso così entusiasta nel 2013 se si eccettua quel flash mob di un paio di settimane fa a piazza Colonna che consisteva in uno stupro di gruppo capeggiato da Paolo Limiti. [ ]

LUMINAL - AMATORIALE ITALIA01. Donne (du, du, du) 02. Una casa in campagna 03. Blues maiuscolo del maniaco su Facebook 04. Stella era una ballerina e stava sempre giù 05. Carlo vs. il giovane hipster 06. Lele Mora 07. Dio ha ancora molto in Serbia per me 08. Giovane musicista italiano, vecchio italiano 09. Una discografia di Cohen 10. Essere qualcun altro 11. C’è vita oltre RockIt 12. Canzone per Antonio Masa 13. Grande madre Russia 14. Il lavoro rende schiavi 15. L’aquila reale

Claudio Delicato è anche qui: JK | 85 www.ciclofrenia.it


[Musica] live report

Ilaria Graziano & Francesco Forni Rocksteria, Roma di Grace Of Tree

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na leggenda malese racconta la storia di un uomo che sogna una bellissima donna sotto una pianta di bambù e al suo risveglio rompe lo stelo trovandola al suo interno. Lei, una rosa tra i capelli, rossetto infuocato e un seducente sguardo di sfida; lui, cappello da cowboy, presenza granitica e affascinante che la segue con lo sguardo, senza mai perderla d’occhio. Come sfondo un viaggio tra due anime che si inseguono tra le cadute del cuore, i tramonti infuocati, gli asfalti bollenti e le lande dimenticate, in grado di

sbalzarci da un un quadro di Frida Kahlo a quello di Toulouse-Lautrec con l’estrosità e la leggerezza di un vagabondo in fuga dalla sua stessa follia. La copertina dell’album di Ilaria Graziano e Francesco Forni, “From Bedlam to Lenane”, sembra racchiudere tutte queste suggestioni che hanno trovato una splendida conferma nel live romano svoltosi per Rocksteria. I due artisti non sono certo degli esordienti nel mondo musicale, bensì una solida realtà cresciuta grazie ad un innegabile talento e le più originali e trasversali

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[Musica] live report

frequentazioni, che li hanno visti incontrarsi anche in precedenti progetti, come la band “Rainbow 4et”. Lei, autrice di grande sensibilità e sopraffina capacità vocale ed interpretativa, curiosamente annovera anche, tra le sue svariate collaborazioni, il mondo visionario e delicato delle colonne sonore per le “anime” giapponesi della compositrice Yoko Kanno (“Ghost in the Shell”, “Wolf’s Rain”, “Cowboy Bebop”). Lui, formidabile bluesman partenopeo, è impegnato in numerosi progetti come produttore, cantautore e compositore di musiche per spettacoli cinematografici e teatrali, quali “Gomorra”, “La città di dentro”, “Erodiade” e tanto altro ancora. Quando si è consapevoli dei propri mezzi, come loro e c’è un cammino da intraprendere, non è importante portare tanto con sé, bastano una chitarra, un ukulele e i giusti compagni di viaggio. Si parte armati proprio della pazzia nel brano di “Mad Tom of Bedlam”, ispirato al folle protagonista dell’omonimo poema del 1600. La rivisitazione del pezzo in chiave swing si arricchisce della sinuosa voce narrante di Ilaria e della malinconica chitarra blues di Francesco, che si leva in un’improvvisa accelerazione gipsy, lasciando il pubblico spiazzato nel pieno di un scorribanda gitana con due voci che si alternano, si sfidano e si fondono in un perfetto equilibrio dinamico e armonico. L’inseguimento si placa nella contemplativa e quieta disperazione di un solitario tramonto nella “tierra del sol” con un classico folk mariachi, “Cancion Mixteca”, in cui i protagonisti, in lontananza, sembrano struggersi di nostalgia per un amore che affida al vento queste parole: “Inmensa nostalgia invade mi pensamiento/Y al verme tan solo y triste, cual hoja al viento/Quisiera llorar, quisiera morir de sentimiento”. Il primo brano originale del live è affidato ad una splendida “La strada”, un’istantanea introspettiva e dolente di un cuore femminile, indomito e ramingo, che s’infrange in speranze disattese. La chitarra balla un prodigioso sirtaki e alterna sapienti cambi ritmici, tipici di un cuore che sussulta e si placa rivestendosi di parole come queste: “Non opporre alcuna resistenza/è la legge che permette di restare in equilibrio/ma scivolando un piede dopo l’altro/sono caduta sull’asfalto e ho sentito il mio dolore” La voce narrante, ora, diventa quella di “un uomo che viene da lontano in cerca di una donna a chiederle la mano” nell’originale inventiva del blues di Francesco, che esegue un ammaliante slide metallico su corde di

una chitarra senza tempo. Sono schermaglie amorose quelle raccontate dall’autore e sembrano dilatare i tempi di un ritorno in un gioco seducente, tra collera e desiderio, che concede giusto lo spiraglio necessario perché il tempo curi le ferite e gli amanti si ricongiungano nella bellissima “Love sails”. Il brano parte all’unisono su base folk e musica il testo della poetessa indiana Saloni Kaul grazie ad un’ispiratissima Ilaria che, sostenuta dalla solida tessitura musicale di Francesco, è libera di esprimere l’intensità di un canto avvolgente che non eccede mai, muovendosi sul filo di un’emotività intensa, mai leziosa e sempre al servizio della musica. La sua calda espressività, in bilico tra una fragilità vibrante e una tenacia appassionata, raggiunge l’apice nell’interpretazione della delicatissima “Crying” e di un autentico gioiello, “Rosso che manca di sera”, il mio brano preferito. L’intimità del racconto di un’anima inquieta e innamorata è tale da suggerire colori, profumi, paesaggi e lamenti di una donna che culla la sua malinconia e la nostra, sussurrando languida al suo amante: “A me piace perdonare le bugie/credere alle mie/a me piace parlare con te/Tra sogni infranti e tragiche risate/ scambiando errori per tenere cadute” Il ritmo viene stravolto sul finale, nell’irresistibile manouche italo-francese “On y va” cantata in modo travolgente da Francesco che, accompagnato solo dal nostro battito di mani, divenuto uno scrosciante applauso, concede il bis. E’ sul pezzo finale, la rivisitazione di “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash, che i nostri artisti si sfidano per l’ultima volta nel loro gioco sottile di fughe e ritorni, scambiandosi vicendevolmente le sottili provocazioni, la complicità e l’ispirazione. A noi, divertiti e conquistati spettatori di un concerto emozionante, non resta che sperare di godere di un prossimo live. Il viaggio è soltanto giunto ad una delle tante tappe ma, tranquilli, riprenderà presto perché il gioco della seduzione può durare anche tutta una vita. [ ]

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[Musica] live report

BEATRICE ANTOLINI Fra sgomento e magia, Bari di Nicoletta Labarile

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apelli ramati, sguardo accattivante e labbra che catturano: immaginate di volare con la fantasia e di idealizzare la sagoma di un’incerta e accattivante figura femminile, regalatele una voce maledettamente psichedelica e la vostra dea non potrà che avere il nome di Beatrice Antolini. Nuda di ogni esteriorità, sbarazzina ma non troppo, ancorata a una modellazione

pop favolistica, Beatrice Antolini è una delle giovani promesse della scena indie italiana che vanta la sua evoluzione musicale attraverso i più svariati generi: dal classico al punk, da un poderoso dark-industrial ad uno straordinario e unico psych-pop che afferma regina la musa Antolini. Straordinaria realtà della musica indipendente, amata dal circuito underground:

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[Musica] live report

|ph by Michele Battilomo

la suadente voce della cantante marchigiana s’insinua nelle orecchie con preponderanza, ammalia la mente e fa ballare l’anima con timbrica “jazzata”, ora sensuale, ora capricciosa. Alle spalle tre dischi importanti, specchi fedeli dell’intricata personalità della cantante, sempre nuova e mai uguale a se stessa: le antiche divagazioni sonore dei vecchi cortometraggi animati, che prendono forma nel modernismo elettrico del primo album “Big Saloon”, si evolvono in atmosfere di richiamo fumettistico nel secondo disco “A due” e nella voce profonda e vellutata dagli accenti più esotici di “BioY”, sino a culminare nell’ultimo e atteso lavoro discografico: “ Vivid”.Non amando le etichette e le definizioni, anche questa volta l’oscura

e aitante cantante poco permette alle divagazioni e ai commenti superflui, lasciando parola solo alla sua musica con un tour da cinque tappe che le permette di approdare nell’ambiente raccolto e amichevole dell’Oasi San Martino ad Acquaviva delle Fonti, dove ogni nota prelibata può essere assaporata sino alla goduria di corpo e mente. L’alta aspettativa viene smorzata con la calda atmosfera, infuocata dai brani già noti e amati dal pubblico: la melodia sognante di “Planet”, i ritmi caleidoscopici di “Piece of Moon”, l’andamento apparentemente dissonante e magico di “Funky Room Show” conducono il live verso le più promettenti speranze che, tuttavia, il nuovo album non riesce pienamente a soddisfare. Sperimentazione più pacata rispetto agli album precedenti, stile lineare e più piatto, seppur mai banale e costantemente intriso di originalità e stile: “Vivid” raccoglie dieci canzoni, composte e prodotte totalmente da Beatrice, registrate e mixate presso il Ritmo&Blu studio di Brescia, e pubblicate da Qui Base Luna, non un’etichetta indipendente, ma un nuovo ecosistema musicale, a cui Beatrice ha aderito condividendone idee e filosofia. “Pinebrain” è stato il singolo che durante la serata ha anticipato l’esordio del nuovo album: ritmico ed incalzante, dalle inaspettate aperture, un vero e proprio appello alla propria tana interiore. “Locked into my den” canta la misteriosa Antolini: le improvvise meraviglie che la scoperta della propria interiorità può offrire permettono di resistere all’impatto quotidiano del mondo e, non isolandosi da questo luogo ideale di creatività ed ingegno, si può costruire il proprio percorso di condivisione con l’altro. Le tonalità e la timbrica della cantautrice si riscaldano poi con i successivi brani “Open”, “Vertical”, “Transmutation” e si colorano di nuove sfumature con le note di “Test of All”, “Now,” Vibration”, per poi concludere con “My Name” e “Happy Europe”: ascolto che richiede coinvolgimento, attenzione, predisposizione. “Vivid è chiarezza, coerenza e trasparenza, è quello che non si vedeva e adesso si vede, è come vorrei essere, senza opacità, un canale pulito di energie attraverso il quale fluiscono le mie canzoni”. Come la stessa cantante afferma, “Vivid” necessita di essere vissuto, interiorizzato: il primo ascolto lascia spiazzati, sprofonda nello sgomento e in una lieve delusione che non può essere tale e che si rivelerà esorbitante eccitazione, non appena la passata immagine idealizzata dell’Antolini, misteriosa e sperimentale, sarà contemplata e ascoltata “senza opacità”, nel “canale pulito di energie” in cui brilla. [ ]

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[immaginario] la dimensione eroica del microbo

la dimensione eroica del microbo di Maura Esposito

non abbiate paura dei mostri

S

plendidi epigoni non abbiate paura dei mostri- perché i mostri siete voi.

Eserciti di veneri dei ritagli di giornale- separate dalla terra da una permanente ubriacaturanon abbiate paura dei mostri- perché i mostri siete voi. Sedicenti genitori del contemporaneo, che camminano alle periferie dell’inferno sbirciandolo appena con codardo stuporenon abbiate paura dei mostri- perché i mostri siete voi. Splendidi epigoni, spettri addobbati di luci che attendono in fila per l’ultima eucarestia della quale si cibano con vorace autocommiserazionenon abbiate paura dei mostri- perché i mostri siete voi. Stasera a letto senza sogni sentiremo imponente cadere sulle nostre teste l’umana nostalgia dell’interezzaun sogno di serie B mi dice -almost mee come sempre diffido della realtàJK | 90


[immaginario] la dimensione eroica del microbo

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[immaginario] punto focale

“Esperienza di Movimento�, G Blasi, 2013, 38x50 cm, Olio, acrilico e pasta ruvida ad olio www.giuliablasiart.blogspot.it

PUNTO FOCALE

di Giulia Blasi

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[immaginario] punto focale

Palingenesi orrei dissociarmi

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Estraniarmi Da questo calvario Preferirei Volare Via.

Faceva proposta. E assomiglia al fiele Questo sapore dolciastro Che intanto Sto leccando dall’asfalto. Un corteo di anime Con gli occhi sbarrati Un cordoglio rapido e indolore Scappa il tempo per assaporare le cose.

Coltivavo la passione Del pianto convulso Con le mia lacrime Avrei ricoperto ogni cosa. Ma se si notasse Ma il callo oramai Soltanto Si è andato creando Un Barlume La memoria non mi abbandona più Intravisto nel retro del sipario Nel culmine della riflessione Il germe della curiosità magari Cerco nelle mie mani una risposta Inizierà a rodere un po’ di noi dall’interno Loro, così tormentate E qualcosa si muoverà nuovamente, Torturate giorno e notte La pantomima come possibile Nella ricerca del mio intimo nido, Verità sacrosanta. E mi muovo attraverso il dolore Gli attori si muovono in trance La spossatezza, la pesantezza delle palpebre Dopo il giuramento fatto permeabili; Dopo il raccoglimento Ringrazierei per l’allettante offerta L’elettricità passa per il loro corpo Essere felici, sicuri, soddisfatti Che come tramite viene completamente travolto Consegnami la tua anima Dall’attraversamento energetico in atto. Io saprò cosa farne. Sarà un’intima palingenesi collettiva Tentazioni succulente Attraverso scene surreali Accessibili banchetti Vissute Tutto questo può essere mio. Come lo scuotimento del senso di stupore. Alcuni derelitti invece Coltivavano la passione del raccolto Senza la semina Con le loro squallide lacrime Avrebbero ricoperto ogni cosa Avrebbero sostituito il mare Con un nuovo mare E svuotato i laghi Per riempirli con Nuovi laghi tossici Se solo gli si fosse detto che Ne avrebbero ricavato Una qualche ricchezza, E ci crederebbero E lo compirebbero. Ma anche questa è felicità, E’ l’appagamento di cui Quell’allettante offerta

Mi sento Tutt’a un tratto Pienamente Consapevole Del mio dramma. []

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[immaginario] Parola immaginata

(

perdita

Un manto di stelle che ci stringe in un gelido abbraccio e ricade, attraverso l’aria, sulle nostre nere esistenze...

parola immaginata di Davide Uria

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[immaginario] [immaginario] parola parolaimmaginata immaginata

|pic by Davide Uria www.davideuria.it

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[immaginario] Sommacco

sOMMACCO

è Luca Palladino, Giorgio Calabresi, Francesca Gatti Rodorigo

Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.

L’ASPRA CRONACA DI VEROSIMIGLIANZA di Luca Palladino

O

gni volta che se ne usciva di casa c’era sempre qualcuno che le faceva un cenno d’intesa come se l’avesse riconosciuta. In effetti tutti erano convinti di conoscerla, tutti la scambiavano per la verità ma non era la verità, tutti la salutavano come se fosse la verità ma non era la verità. Certo, nessuno poteva negare che le somigliasse, però non era la verità. Verosimiglianza c’aveva una sorte brutta come il peccato, l’affinità. E dire che un tempo credeva fosse un bellissimo dono essere simile alla verità. Adesso, invece, era solo una routine che disprezzava quella di essere riconosciuta per quella che non era: diversi erano i suoi tratti somatici, pensava. Verosimiglianza deprecava quel momento in cui un estraneo ti dà la faccia di un altro: “sei identico a quel mio cugino”, dice l’estraneo. Lo si lasci dire: l’aria si riempie di malinconia ogni volta che ti scambiano per qualcun altro. E’ aspro constatare che non si ha l’esclusiva manco per niente, nemmeno del proprio pelo sul naso. E’ come se ti cavassero un dente ogni volta che ti si fa presente di assomigliare a qualcun altro; è come se l’immagine che si vede dentro lo specchio tutte le mattine ti dicesse: “hey, sono io, non sei tu”. E’ come se ti avessero scoperto nudo mentre cerchi di defecare nella turca. Dio, che inopportunità. D’altra parte, è un fatto noto che la vita è una

cronaca aspra, per esempio: chi non ha mai assomigliato a qualcun altro? Ebbene, verosimiglianza ci assomigliava tutti li cazzo di giorni alla verità. Ed è profondamente ingiusto che ti usurpino della tua identità tutti li giorni. Verosimiglianza, pertanto, era arrivata all’esasperazione: si era decisa ad incontrarla sta verità per rifarle i connotati, soltanto che non la trovò mai perché nessuno gliela indicò. Inoltre, nessuno degli interrogati seppe rimanere serio alla domanda posta da verosimiglianza. Ogni volta che verosimiglianza chiedeva dove fosse di casa la verità, la turba si scompisciava dalle risate. Gli astanti non ci potevano credere che colei che avevano davanti, colei che chiedeva dove fosse la verità, non fosse la verità. Dev’essere stato sconfortante per Verosimiglianza constatare di essere così trasparente, constatare che ogni interlocutore avesse la certezza di conoscerla molto meglio di qualunque altro interlocutore; constatare che nessuno conosce la verità. Sì, è una storia molto triste questa, una storia che è lontanissimamente lontana dall’happy end. Preparatevi a sapere in questa frase che Verosimiglianza, anche adesso che è diventata pazza, non ha smesso di essere simile alla verità. [ ]

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[immaginario] sommacco

|ph by Matetex

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|ph by Sulmonte

[immaginario] Sommacco

L’AGNELLO DI DIO di Giorgio Calabresi

A

l rintocco della campana tutti capirono. La gente riprese a respirare, i più ottimisti si spinsero perfino a sperare. Quel suono sancì la fine di un’ attesa dolorosa come un’ apnea troppo lunga. Negli ultimi nove mesi tutto il villaggio era rimasto immobile, immerso in un silenzio isterico che si era impadronito delle strade ammutolendone gli affanni. In tutto quel tempo ognuno era riuscito a stento a tenere alla catena aspettative e appetiti su ciò che sarebbe potuto accadere. Quello era il primo bambino a nascere nel piccolo villaggio dopo anni. Il suo primo urlo lo cacciò una domenica senza sole, dando subito prova di sana e robusta costituzione. La giovane donna che lo partorì non aveva mai fornito

nessuna spiegazione circa il suo concepimento, l’unico fatto certo era che del padre non c’ era mai stata alcuna traccia. Per conseguenza ogni singolo abitante si considerò libero di dare forma ai convincimenti più disparati sulla faccenda. La cosa però sembrò non impensierirli più di tanto, madonna o puttana che fosse la maternità sembrava comunque non rientrare nei piani della ragazza, fu subito chiaro che quel bambino non apparteneva a lei solamente e che non sarebbe toccato a lei prendersene cura. Pervasi da intenzioni sincere tutti si concentrarono su cosa avrebbero potuto fare per il bambino in modo che nulla di brutto gli accadesse. Quella nascita fu istintivamente considerata come un’

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[immaginario] sommacco

occasione troppo rara per mandarla sprecata. Un banchetto parve da subito a tutti come la cosa più naturale da fare. Con sorprendente rapidità la più grande festa che il villaggio avesse mai visto ebbe inizio. Tutta la gente si ritrovò all’interno di una grande struttura in legno costruita per l’occasione, spinta dalla famelica curiosità di vedere da vicino il neonato. Il bambino vestito con paramenti di rara fattura fu posizionato nel mezzo di un enorme tavolo rialzato imbandito da una morbida tovaglia bianca che scendeva fino a sfiorare il suolo. La sua bellezza acerba aveva in sè qualcosa di catartico, chi lo guardava ne rimaneva vinto. La folla eccitata volle farsi più vicina a lui, qualcuno gli portò in dono dei regali cercando di assicurarsi la sua futura gratitudine. La smania di dimostrargli amore, si trasformò presto in competizione. La competizione venne tragicamente confusa con l’amore stesso. Il gran pasto venne consumato a crudo, con la cannibale voracità di chi si sente nel giusto. Avida è la fame di chi decide di amare e loro amavano il bambino più di ogni cosa al mondo, in quel modo lo avrebbero protetto e portato sempre dentro di loro. Prendetene e mangiatene tutti, l’agnello di dio è servito in tavola. [ ]

ANICE E BASILICO. NÈS SOUS LA MÊME ÉTOILE di Francesca Gatti Rodorigo

I

l sole entrava dalla finestra, e il vetro sottile conduceva il freddo di fuori sul naso di Annarella. Guardava le sue piante provate dall’inverno che restava. L’edera resisteva senza troppa fatica, con le vecchie foglie verde scuro che razionavano l’acqua regalandola alle foglie gialle appena nate. Il vaso del basilico era invece rimasto nudo, la terra compatta e arida, pochi stecchi morti che uscivano dalle radici. Non aveva il coraggio di toglierlo, e non lo avrebbe rimpiazzato nemmeno nella primavera imminente. L’odore di basilico era ancora forte nel suo naso e le narici troppo vicine al suo cervello per poter

dimenticare Lole. L’odore del basilico era l’odore di Lole, delle gocce del suo sudore che da sotto le braccia le colava sui seni mentre facevano l’amore. Le gocce di basilico sul corpo e l’anice del pastis appena bevuto ancora in bocca. Lole, l’odore di basilico, il pastis e gli IAM di “Nés sous la même étoile” sono quelli di Jean-Claude Izzo e della sua trilogia (Total Khéops, Chourmo, Solea). [ ]

SOMMACCO è anche qui: JK | 99 sommacco.wordpress.com


[immaginario] sbevacchiando pessimo vino

SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO di Paolo Battista

IL MERCATO E’ FERMO

|pic by Dario Levi

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[immaginario] sbevacchiando pessimo vino

È

il primo giorno della seconda settimana di lavoro. Del nuovo lavoro. Renzo, il vecchio titolare della trattoria, non mi toglie gli occhi di dosso. Ha i capelli bianchi, la pelle abbronzata e raggrinzita come una fica secca, le spalle strette e arrotondate, le labbra stridule e disunite. La prima cosa che mi dice è di tagliarmi la barba. Poi fissando i miei tatuaggi come un ritrattista fisserebbe un quadro futurista mi fa: quella roba lì deve sparire, i clienti non sono abituati…io direi che la camicia è perfetta, ci siamo capiti? e a maniche lunghe, chiaro! Lo guardo, faccio un cenno impercettibile con la testa e gli dico: occhei, fottuto coglione. Poi inizio a pulire i tavoli e sostituire le tovagliette

sporche con quelle pulite, posate, bicchieri, sottopiatti, fazzoletti, cambio tutto velocemente ed esco a fumare una sigaretta. Quando rientro Renzo mi aspetta al varco mulinando il suo mestolo di legno, mi strizza perbenino e fa: i tovaglioli vanno messi così…a un centimetro dallo spigolo del tavolo, e le posate così, strizzando i suoi piccoli occhi marroni più insipidi di una pasta ai funghi insipida, ci siamo capiti? Lo guardo, faccio un cenno impercettibile con la testa e gli dico: occhei, fottuto coglione. Poi inizio a tagliare il pane, facendo attenzione a non fare le fette più grosse di quelle che di solito fa lui. Sono incazzato nero, non fa altro che rompermi i coglioni, ma lascio correre. Continuo a piantare il grosso coltello nella testa bionda del pane immaginando di tagliuzzare quella di Renzo con cura e precisione. Sono stanco delle sue cazzate ma mentre penso alla punizione che mi piacerebbe infliggergli non mi accorgo che tra le fette capovolte sta per finirci anche il mio pollice destro. Uno schizzo di sangue copre briciole e fette come sugo appena fatto, Renzo si avventa sul tagliere per sottrarlo ai miei colpi e salvare quel poco di pane rimasto, CAZZO COMBINI?, mi urla infastidito, vai in bagno a disinfettarti e poi dai una ripulita, fa’ presto prima che……cazzo la gente sta per arrivare, fregandosene altamente del mio pollice rosso. Lo guardo, faccio un cenno impercettibile con la testa e gli dico: occhei, fottuto coglione. Poi mi chiudo in bagno, ficco il dito sotto l’acqua e un vortice mestruale cola giù per le fogne. Prendo due cerotti dall’apposita cassettina del pronto soccorso e mi sistemo il pollicione. Afferro il rotolo di carta gigante ed esco a pulire il sangue, gettando via le fette di pane torbide e arrossate con Renzo che bestemmia, e i primi clienti che entrano, ed io che appena in tempo faccio sparire tutto. Sono nero, esco a fumare un’altra sigaretta ma quando sto per buttarla arriva Renzo, incarognito come un cinghiale morto nella giungla di Lost, e mi fa: che cazzo combini?, c’è gente…e cazzo puoi fumarti una sola sigaretta, uscire solo una volta…ci siamo capiti? …hai una sola pausa! Cazzo, penso, e getto via la cicca centrando in pieno una merda di cane che di lì a poco Renzo mi chiederà di pulire. Rientro, prendo le ordinazioni, servo qualche tavolo e esco a pulire la merdaciccata. Fa’ presto, mi ordina Renzo storcendo le labbra sull’ultima sillaba. Lo guardo, faccio un cenno impercettibile con la testa e gli dico: occhei, fottuto coglione; poi prendo scopa e paletta dal cesso, m’infilo i guanti

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[immaginario] sbevacchiando pessimo vino

di gomma gialli, e spazzo via tutto quello che c’è da spazzare. Quando rientro mi richiudo nel cesso, tiro giù nel water la merda di cane e mi fermo a darmi una rinfrescata, attento a non farmi trascinare giù insieme alla cacca. L’acqua sulla faccia ha un effetto calmante, mi ci vuole, ho voglia di fargli chiudere quella sua bocca del cazzo, ma devo darmi una regolata. Questo è il primo lavoro che trovo dopo mesi di bagordi e tasche vuote, e non perché non avessi cercato, ma perché “ IL MERCATO E’ FERMO! “, come amano cinguettare i padroni dopo che per un’ora ti hanno fatto rosolare in camere d’attesa spoglie e impersonali. Carla dice che è stanca, che vuole mettere su famiglia, dice che di vedermi buttare la mia vita non le va proprio, dice: smettila di fare il coglione e mettiti la lingua in culo! E allora eccomi qua, mi guardo nel piccolo specchio pieno di schizzi, e butto fuori un sospiro lenitivo. Le pupille dilatate però mi dicono che sono ancora in ansia, risospiro, mi do un’altra rinfrescata, svuoto la vescica, mi lavo le mani ed esco senza dire una parola. La sala ormai si è quasi riempita del tutto, e la gente inizia a brontolare peggio dei loro stomaci. Tiro dritto fino alla cucina e prendo tre piatti fumanti di pasta al basilico, poi stampandomi un sorriso ebete sulla faccia mi dirigo verso il tavolo 3. Seduta c’è una coppia di rompicoglioni ultrasettantenni troppo vecchi per vivere ancora. Hanno entrambi sorrisi attillati e il vecchio ha la testa pelata come la fica di una bambina. La donna, invece, ha i capelli lisci grigi e ordinati, la camicia sbottonata, e le mani adunche come quelle di una strega. Non faccio neanche in tempo a mollare i piatti davanti alle loro facce raggrinzite, che il vecchio mi punta quel suo dito spettrale sulla faccia e strilla: giovanotto lo porti indietro, io avevo ordinato le pappardelle ai funghi. Lo guardo, faccio un cenno imperecettibile con la testa e dico: occhei, fottuto coglione. Torno in cucina, ancora una volta Renzo mi aspetta al varco con quella sua paletta del cazzo. Sta per prendermi in disparte ma stavolta non gli do il tempo di parlare, sospiro, vorrei colpirlo, dopo una settimana già penso di mollare tutto e mandarlo a cagare, adesso lo faccio!, sono stanco delle sue insulse battutine, degli ordini, dei suoi cazzo di racconti pieni di gioiellerie in via del Corso e barche a Montecarlo. Per un attimo ripenso a Carla, vedo la sua faccia incazzata rimproverarmi manco fossi un poppante. Sono due anni che stiamo insieme, ma già al primo

mese abbiamo capito di essere fatti l’uno per l’altro. Solo che sono due anni che mi vede gettare opportunità per la mia insofferenza, per il mio insensato rifiuto dell’autorità, come ama gridarmi in faccia ogni volta che perdo un lavoro. L’ultimo è stato agli inizi di quest’anno, dopo una lite col manager di un supermercato. Adesso lo faccio!, proprio non resisto, vorrei colpirlo e questa non è una cosa buona, sono stanco di tutto, così mi giro verso Renzo e sbotto: LO SAI CHE C’E’? NON ME NE FREGA UN CAZZO DI TE E DI QUELLA VECCHIA STREGA CHE VUOLE I SUOI FUNGHI DEL CAZZO…IO ME NE VADOOOOOOO, FANCULOFOTTUTO-COGLIONE! Esco senza voltarmi, sento Renzo bofonchiare qualche parola incomprensibile di scusa verso la coppia imbalsamata ma io sono già lontano per sentire quello che dicono. Quando torno a casa tiro dritto verso il frigo, prendo una birra e mangio un po’ di prosciutto. Carla ha già capito tutto, mi guarda schifata e piagnucola: c’è da pagare la bolletta del gas!, restando in attesa di un mio piccolo cenno. Nello stesso momento un cane abbaia dalla strada, uno stronzo spinge il clacson fino a rompermi i timpani e un aereo romba a pochi chilometri inquinando l’acustica del quartiere. Continuo a bere la mia birra, le dico che ho perso il lavoro e faccio per accendermi una sigaretta. Solo che l’accendino mi arriva dritto in mezzo agli occhi, Carla impreca come un’ossessa, finisco di bere la mia birra e taglio la corda. A pochi passi dal mio appartamento leggo un cartello scritto a penna dal fruttarolo marocchino: CERCANSI AITANTE… Tentar non nuoce, penso ed entro a chiedere delucidazioni. Lo vedo inginocchiato baciare il pavimento sporco e non so cosa dire. HHHHmmmm, andiamo bene, mugugno e Salam si gira cercandomi con i suoi occhi scavati. Cosa volere?, mi chiede, ma quando sto per dirgli cosa cerco mi blocca e spara: uno minuto! Occhei, annuisco e prendo un mandarino, lo sbuccio e mando giù i pezzi saporiti. Poi ne prendo un altro e mando giù anche quello, ma al terzo Salam si alza e mi si avvicina minaccioso. Sono qui per il lavoro di aitante, sghignazzo sputando a terra due piccoli semi. Ah si, ribecca Salam ridacchiando, tu già lavorato frutta? No, sbotto io, ma cosa ci sarà di tanto complicato,

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[immaginario] sbevacchiando pessimo vino

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JUST KIDS

posso iniziare anche subito e da domani mi paghi. Salam, grandi ciglia nere, denti sporgenti, jeans e felpa nera, arrotola il suo tappeto da preghiera e non dice più nulla, poi dopo alcuni secondi si gira verso di me e fa: niente daffare, il mercato essere fermo, me dispiace e poi tua pelle troppo bianca, non buono, non buono! Così prendo un altro mandarino e vado a farmi una birra. Cerco di non darmi per vinto ma vivere in città comporta un sacco di casini, tra cui pagare l’affitto e le bollette. Cazzo, penso, va proprio dimmerda se persino un marocchino se la passa meglio di me! Forse Carla ha ragione, sono solo un ubriacone che non vuole ricevere ordini, anche se a questo punto anche lei dovrebbe muovere il culo e darsi da fare. Ritorno a casa e gliene dico due. Quando apro la porta il posacenere blu s’infrange a due centimetri dalla mia faccia. Grido: perchéccazzo non vai a cercarti un lavoro anche tu! Lei ringhia qualcosa, nei suoi occhi c’è odio, ma anche amore. Prende l’altro posacenere, quello rosso, e lo lancia con meno forza di quello blu. Grido: cazzo smettila!, e schiaccio una decina di mozziconi morti sul pavimento. Poi mi siedo sul divano smangiucchiato dalle tarme e accendo la tivvù, alzo il volume in modo da non sentire la sua voce stridula che mi lancia contro una serie di frasi poco carine, ma niente da fare. Non si capisce un cazzo. Quando alla fine si calma, è quasi ora di cena, il sole sta per tramontare e domani inzia un’altra giornata del cazzo. Prendo due birre e restiamo seduti a guardare un servizio del Tg che dice: IL MERCATO E’ FERMO, SIGNORI, ANDATE A FARVI FOTTERE! [ ]


[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI))

la stanza (degli ospiti) di Chi Vuole Scrivere Su Just Kids

IL RAGNO NELLO STIVALE (UNA SPECIE DI FIABA) di Jacopo F. Tapiro

V

enticinque gradi. Venticinque gradi, ripete il medico. Non lo sa nemmeno lei il perché, ma la prima cosa che le viene da fare è asciugarsi la fronte. Anche se non è per niente sudata. Venticinque gradi, pensa Ofelia. Almeno una protezione solare dieci, pensa. Si ricorda quando, da piccola, i genitori la obbligavano a restare almeno una mezz’oretta in spiaggia (il sole fa bene alle ossa, dicevano) e lei, alla prima occasione, correva sotto i tendoni del bar a gustarsi la sua bella granita al limone. Il medico, nel frattempo, ha intrecciato le dita di entrambe le mani e ci ha poggiato sopra il naso. Sembra annoiato. Ofelia ha già guardato le lastre appese alla parete, dietro la scrivania dell’ortopedico. Ha già ascoltato quelle poche, oscure parole che il medico le ha riservato. (Venticinque). La cosa buffa, però, è che l’unica cosa a cui riesce a pensare, ora, è il ragazzo che le preparava la granita quando andava al mare coi suoi. Prova a sforzarsi di ricordare di che colore fossero i suoi occhi, verdi o marroni. Non ci riesce. L’infermiera entra senza bussare. Ha in mano un corposo malloppo di burocrazia da sbrigare. Si mette in piedi, vicino al dottore, e gli fa segno nei punti dove è richiesta una sua firma. Ofelia continua a fissare un punto imprecisato. Ora si direbbe affascinata dalle penne che sbucano dal taschino della pettoruta infermiera.

La ragazza ci fa caso e si stranisce. Si mette a fissarla anche lei, con lo stesso sguardo con il quale si guarda, in metropolitana, il ragazzino down che ci si è seduto di fronte che continua a ispezionarsi il naso con il pollice, nonostante quello non ne voglia proprio sapere di entrare più in profondità. Il medico finisce di firmare i documenti, e l’operazione

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[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI)

deve essere stata molto faticosa, perché appare ancora più provato di quanto già non fosse. Si schiarisce la gola per attirare l’attenzione di Ofelia, che sembra persa sempre più dentro se stessa. Verdi, sì, ecco di che colore aveva gli occhi il ragazzo del bar! Accompagna la rivelazione con una leggera grattatina di testa e una specie di sorriso. Venticinque gradi, le torna in mente. Solo quando l’infermiera esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, i pensieri le si schiariscono e si ricorda che è della schiena di sua nipote che stanno parlando, e, quasi, le viene da piangere. L’infermiere spinge la sedia lungo il corridoio. Certo, non si può dire che sia un bel ragazzo, insomma, quell’acne su tutte le guance e i rotolini di grasso lungo tutto il girovita potrebbero creargli qualche problema in un ipotetico concorso di bellezza; ma a lei sta simpatico. Ha un buon odore, come il culetto pieno di borotalco di un neonato, ed è sempre gentile con lei. La prima volta che è stata in ospedale, mentre spingeva la sedia a rotelle in una scena molto simile a questa, lui ha detto che sarebbe pure ora che ci montassero un bel motore a questa ferraglia qui, e a lei è piaciuta molto come battuta. Forse sua nonna non avrebbe gradito quel tipo di umorismo, avrebbe

fatto finta di sorridere e, poi, la sera a cena con la figlia, si sarebbe lamentata della scarsa sensibilità del personale infermieristico e di come cadute di stile del genere dovrebbero essere evitate, ancora di più in centri specializzati e all’avanguardia come quello. “Scarsa sensibilità”, avrebbe detto, Carla ci avrebbe scommesso un occhio! A lei, invece, non avevano dato fastidio per nulla le parole del ragazzo. Aveva alzato lo sguardo timidamente e quando aveva incrociato gli occhi sorridenti dell’infermiere, con tutte quelle rughette ai lati, aveva abbassato la testa in tutta fretta e si era fatta scappare un mezzo sorriso, cercando, allo stesso tempo, di nasconderlo alla sua vista e di non arrossire. Ora, mentre Salvatore, è così che si chiama l’infermiere, la spinge, Carla si gira indietro a guardare la strana ombra che la sedia a rotelle, giocando con la spenta, plumbea luce di un opaco primo pomeriggio novembrino, forma sulle piastrelle verdi del corridoio lucido di pulizia. Guarda l’ombra e pensa che, a dodici anni, non vuole avere l’ombra di quel ragno metallico che zampetta sferragliando dietro di lei. Gli occhi le si fanno lucidi, ma riesce a tirare su le lacrime. E’ una cosa che ha imparato a fare già da un po’.

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[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI))

Un ragno, ecco cosa potrebbe diventare. Salvatore si ferma di fronte a una porta, dietro la quale la aspettano le ennesime lastre. Fa finta di frenare con la bocca, come le derapate che fanno le macchine nelle gare di Formula Uno che qualche volta le è capitato di vedere in tv, e le mostra il pollice in segno di vittoria. Carla gli sorride e lui le carezza la testa. Quando, poco dopo, il tecnico di laboratorio apre la porta e li fa entrare, Carla pensa che il momento più triste della giornata è stato quando, mentre Salvatore le passava la mano tra i capelli, ha intravisto, nei suoi occhi sorridenti, quella traccia di pietà mista a compassione che mai vi avrebbe voluto ritrovare. Venticinque gradi di scoliosi non erano uno scherzo. Questo lo sapevano tutti fin dall’inizio. Avevano pianto, sì, erano stati giorni terribili. Quando Carla, accompagnata dalla zia Ofelia e dai cugini, era tornata da quel centro ortopedico, che tutti dicevano essere il top della professionalità e della competenza, con una diagnosi così agghiacciante, era stata una botta tremenda. Sua madre, che aveva paura dei treni e per questo non era con loro durante quei giorni in clinica, l’aveva abbracciata. Non appena era entrata in casa, le era corsa incontro e l’aveva stretta a sé. Aveva già gli occhi rossi e, mentre la stringeva, non aveva resistito e si era rimessa di nuovo a piangere. Il padre le guardava, anche lui l’aveva aspettata alzato di fronte alla porta d’ingresso quando era suonato il citofono, senza sapere di preciso cosa fare. Si asciugava le mani sui pantaloni e si toccava il naso, null’altro. La nonna era qualche passo dietro. Alzata anche lei, con le mani conserte in grembo, si era messa un po’ in disparte perché aveva pensato che sarebbe stato inopportuno affiancare i genitori durante il loro primo incontro con Carla, dopo la scoperta di una situazione delicata come quella. Quindi, si era messa giusto qualche passo dietro, e ostentava un dolore silenzioso e tremendamente dignitoso. Quando la madre aveva finito di abbracciarla, Carmela, la nonna, le si era avvicinata e le aveva carezzato una guancia. -Andrà tutto bene...-, aveva detto. -Te lo prometto!-, aveva aggiunto dopo una breve pausa. A Carla, quella carezza e quella frase della nonna, le era parso di averle lette identiche in un romanzo. Più di tutto quella pausa, quella pausa a spezzare il ritmo

delle parole, da un lato la speranza innata delle umani gente nell’inconoscibile divino(“andrà tutto bene”), dall’altro quell’intensa, inequivocabile assunzione di responsabilità(“te lo prometto”). A dire il vero, a Carla sembrava addirittura di vederci la punteggiatura in quelle poche parole e, ci avrebbe giurato, vicino a “prometto” andava fissato proprio un bel punto esclamativo. Non ricordava bene il libro dove aveva letto la scena, perciò si concesse un po’ di fantasia e si immaginò, tutta vestita di bianco, sposa bellissima e radiosa di uno di quei romanzi rosa che leggiucchiava qualche volta nella casa di villeggiatura nei pomeriggi noiosi. La scena la divertì molto, e abbozzò un sorriso. La nonna fu sorpresa del suo mezzo sorriso, quasi arretrò spaventata. Si sarebbe aspettata un affettuoso “ti voglio bene” o, ancor di più, un dignitoso, austero e allo stesso tempo regale “grazie”(accompagnato da qualche puntino di sospensione) ma quel sorriso non era stato contemplato in nessuna delle sue possibili ipotesi. Carmela scriveva da quando era ragazza e se c’era una cosa che aveva capito, dopo tante letture e scritture, era che la dignità e l’amore umano si manifestano sempre attraverso un delicato, armonioso rapporto di gesti e parole. Quella reazione così poco letteraria della nipote l’aveva stordita. Non lo confessò nemmeno a se stessa, ma, a dirla proprio tutta, quel suo sorrisetto l’aveva proprio infastidita! Dopo che il padre le aveva rivolto qualche goffa frase, un come va smangiucchiato che aveva troncato a metà frase rendendosi conto della situazione, e qualche tentativo, malriuscito, di sdrammatizzare il tutto facendo il simpatico, Carla era corsa in bagno, lamentando un tremendo mal di pancia. Si era messa seduta, senza togliersi i pantaloni, sul gabinetto ed era restata a guardare le sue scarpe che strisciavano sulle piastrelle bianche. Qualche traccia di fango sotto la suola aveva lasciato una piccola scia nera e lei si divertiva ad allargarla. Sapeva bene che nessuno l’avrebbe rimproverata per quello, oggi. Sentiva ancora, dalla cucina, le voci rotte dai singhiozzi che alternavano le parole tragedia, dolore, ingiustizia, supplizio a dei suoni che non riusciva bene a decifrare. Roberto aspetta fuori. Carla è dentro con la dottoressa che le sta prendendo le misure per il busto. Potrebbe essere una soluzione o quantomeno un aiuto, hanno detto i dottori durante l’ultima visita. Ormai ci tornano ogni mese. Il più delle volte la

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[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI)

accompagna lui, quando è fuori per lavoro ci pensa la zia. Giovanna, sua moglie, ancora non ha superato la sua paura per i treni. Dice che ci sta lavorando su. L’ultima volta hanno provato ad andarci in macchina e Giovanna è stata dei loro, almeno all’inizio. Faceva un caldo terribile ma Giovanna preferiva tenere chiusa l’aria condizionata, perché aveva sentito alla radio, così disse quella mattina, che i filtri per il condizionamento possono sviluppare cellule tumorali nei polmoni. Lei non sudava molto e di quella piccola variazione se ne accorse meno degli altri. Alla terza ora di viaggio, aveva chiesto a Roberto di fermarsi in un autogrill. Era corsa in bagno e ne era uscita quasi un’ora dopo. -Portami indietro-, aveva detto. Non aveva dato particolari spiegazioni, se non un generico “questo viaggio mi ha distrutta”, quando ormai erano già quasi sotto casa. Roberto non aveva nemmeno provato a dissuaderla. Anzi, per accontentarla il prima possibile, aveva toccato più volte i centotrenta all’ora nei tratti meno trafficati di autostrada, sopravvenendo ad una delle regole fondamentali che Giovanna aveva instaurato fin dai tempi del fidanzamento, cioè di non superare mai il limite consentito. In vista della speciale situazione, Giovanna non aveva sindacato sulla velocità eccessiva e Roberto era stato molto fiero di aver optato per una scelta, sì azzardata, ma che si era rivelata, fuori di dubbio, azzeccata. Carla era rimasta tutto il tempo seduta dietro, le cuffiette dell’Ipod ficcate nelle orecchie. Le uniche parole che aveva detto erano state quelle alla barista dell’autogrill, alla quale aveva chiesto un succo alla pesca. Ora, mentre aspetta seduto su una sedia veramente scomoda, a Roberto viene in mente quel consiglio della moglie sull’aria condizionata. Ultimamente anche lui la uso molto meno, solo nelle situazioni di caldo veramente insopportabile, e ogni volta che sente il vento caldo che viene da fuori che gli graffia il viso, ringrazia la moglie per il tumore ai polmoni che, molto probabilmente, gli ha evitato. Giovanna è stesa sul letto. Pasquale le russa a fianco. Hanno provato a fare l’amore oggi, ma non ci sono riusciti. E’ la terza volta che succede questa settimana. -La peperonata è letale-, ha detto Pasquale rinfilandosi le mutande. Poi si è messo a dormire. Da quando lui l’ha convinta a tenere sempre spenta l’aria condizionata, sembra soffrire di più il caldo anche quando non è in macchina. Giovanna fissa la sveglia sul comodino. Confida in un

improvviso rallentamento del tempo, visto che tra poco meno di un’ora dovrà essere di ritorno a casa. Carla e Roberto torneranno verso le sette. Ha chiamato Roberto tre volte oggi pomeriggio. La nuova visita non sembra essere andata bene, i medici saranno più precisi dopo i risultati di alcuni esami, ma la situazione sembra essere peggiorata. Gli occhi le si fanno lucidi. Piccola mia, pensa. Pasquale che ronfa la distoglie dai suoi pensieri. Si diverte a contargli i peli che gli escono dal naso. Stanno insieme da quasi un anno. Non le interessa quello che la gente dice di loro. Pasquale, ora, è il suo uomo e il resto non conta. Amante=colui che ama, nulla più. Pasquale l’aveva conquistata con questo messaggino al cellulare. E, ormai, gli aveva affidato il suo cuore, aveva confessato, qualche sera prima, alla sua migliore amica. Si alza piano dal letto, cercando di fare il meno rumore possibile. Guarda di nuovo la sveglia e si porta i vestiti in cucina per non rischiare di svegliare Pasquale. Comprerà qualcosa in rosticceria per la cena. A Carla non piace molto la frittura, ma oggi ha avuto troppo da fare per prendere qualcosa al supermercato. Si siede e infila i sandali. Avverte un leggero pizzicore alla punta delle dita dei piedi, una leggera artrite che da qualche mese le dà qualche fastidio. Non può fare a meno di pensare a Carla, alla sua schiena, allo stridore ferruginoso della sedia a rotelle. -Piccola mia-, dice alla stanza vuota. Salvatore le fa ciao con la mano. La guarda allontanarsi nel corridoio con i genitori. Le voci arrivano soffuse e indistinte. Ha solo dodici anni, pensa. Non è giusto. Vaffanculo, pensa. Salvatore si siede nella sala d’aspetto e fissa la parete bianca. Pensa a un sacco di cose. Sa che ha una specie di cotta per lui e, per questo, le fa ancora più tenerezza. Ogni volta che lei torna per una nuova visita, cerca di farla ridere. Cerca di rendere quelle ore schifose e orribili meno schifose e orribili, ma non sa se ce la fa. Sta sudando e ha tutta la bandana fradicia. Continua a pensare e a fissare il vuoto. Vorrebbe fare qualcosa per lei. Va di fretta. Pasquale l’ha chiamata più di venti minuti fa. La aspetta al solito posto, devono cenare insieme. A casa c’è solo Carla. Roberto è al lavoro. Corre scalza in corridoio e apre la scarpiera. Scegliere le scarpe è sempre il momento più delicato dell’intera

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[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI))

|pic by fbphotofranz

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[IMMAGINARIO] LA STANZA (DEGLI OSPITI)

preparazione. Le torna in mente la sera di qualche settimana prima. Un giro per i negozi. Lui che indica un paio di stivali neri molto belli ed eleganti. -Lo stivale slancia le gambe delle donne in un modo veramente affascinante-, aveva detto. Giovanna pensa che sarebbe un bel pensiero indossarli stasera. Li pesca dal mobiletto e continua a vestirsi. Ora, però, c’è un piccolo problema. E’ una di quelle cose su cui sta lavorando, come prendere il treno, stare in posti affollati, aprire le porte di casa con le mani e non con i gomiti. Giovanna non tocca i lacci. Le danno una sensazione di sporco. L’immagine del laccio sottile che si lascia scamazzare dalla suola inconsapevole. Il putridume che si insinua nelle scanalature del cordino fino a diventare parte di esso. Giovanna non tocca i lacci e questi stivali hanno i lacci. Molti lacci, a dire il vero. Non usa quasi mai scarpe con i lacci, preferisce quelle aperte. Ma questa è un’occasione speciale. Di solito, quelle poche volte che le capita di indossare delle scarpe con i lacci, è Roberto che pensa ad allacciargliele. Roberto stasera non c’è. Carla guarda la tv nella sua stanzetta. Dopo la prima visita della settimana prima e l’inaspettata scoperta dei venticinque gradi della sua scoliosi, i medici le hanno fissato un appuntamento per il lunedì dopo. E’ urgente, molto urgente, hanno detto al telefono ai suoi genitori. Carla non ha capito molto bene cosa ha che non va la sua schiena. Ha fatto di tutto per cercare di non capirlo. L’unica cosa che sa è che ha paura. La madre entra quasi correndo nella sua stanza. E’ vestita in modo impeccabile, scollo da capogiro e trucco perfetto. Tiene un paio di stivali sospesi a distanza di sicurezza da sé, reggendoli con la punta degli indici. Li poggia a terra. -Potresti...per piacere?-, li indica. Carla alza lo sguardo verso di lei. Sa bene a cosa si riferisce la richiesta della madre. Cerca i suoi occhi. La mamma le sorride, un sorriso frettoloso d’impazienza. Non le fa per niente male la schiena in quel momento, ma Carla si porta una mano dietro a un fianco, stringendo una porzione di pelle tra le dita e stiracchiandosi con le spalle. Nei suoi occhi, un abbozzo, non sappiamo quanto finto o quanto vero, di dolore.

Forse lo fa apposta per farla sentire in colpa, forse non si rende nemmeno conto dei gesti che fa. Ma questo non è così importante. Si alza dal divano e si avvicina alla madre. Continua a tenersi la schiena con una mano. La madre non sembra farci caso. Ora è di fronte a lei, e sta quasi per inginocchiarsi. La madre continua a sorriderle. Se avesse un orologio al polso, lo starebbe guardando. -Potresti?-, le ripete. Carla si inginocchia. -Grazie mille!L’ospedale è deserto. L’unico rumore è quello della sedia a rotelle. Come di un gessetto su una lavagna. Salvatore spinge la sedia e le sta raccontando una barzelletta. E’ una barzelletta divertente ma lei non riesce a ridere. Non riesce a pensare al tedesco, all’inglese e al napoletano che vanno dal macellaio. L’unica cosa a cui riesce a pensare è quell’ombra che la segue ormai sempre più spesso, quel ragno metallico che le zampetta dietro ormai sempre più volte durante la settimana, perché camminare e stare in piedi diventa sempre più faticoso. Più di tutto, però, non riesce a non pensare a quel giorno in cui, forse, quel ragno diventerà lei e lei diventerà quel ragno. Si gira in continuazione e l’immagine della sua ombra nera sul pavimento verde la ossessiona e terrorizza insieme. Salvatore l’ha notato e all’ennesima volta che lei si gira a guardare dietro, smette di raccontare la barzelletta e si ferma nel corridoio. Si abbassa su di lei e le parla, in quel suo modo buffo e impacciato, senza mai smettere di ridere. -Sai una cosa? Se anche tu fossi un ragnetto, saresti il ragnetto più grazioso della terra-, le dice. Poi continua a spingerla lungo il corridoio. Arrossisce e un groppone gli si piazza in mezzo allo stomaco, al pensiero di come la bimba abbia potuto prendere quello che ha appena detto. Carla, invece, sorride: quelle parole sono la cosa più bella che abbiano fatto per lei da quando è cominciato tutto questo. [ ]

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[poesia] |scrap

|scrap di Cristiano Caggiula |pic by Elisa Serio

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[poesia] |scrap

GLI DEI DELLA TERRA

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ibran Kahlil, il “nostro profeta”, narra l’epitaffio scritto da un anonimo sulla sua tomba. Un profeta bagnato di oriente, benedetto dalle visioni sacrali di Blake, un medium tra il Cielo e la Terra. Gli dei della terra è un’opera poetica sublime, il cui significato anagogico si dispiega in un’ incalzante cosmogonia. Sin dalla prima pagina si è avvolti da una nube mistica, la potenza omnipervasiva degli dei, i loro capi che si erigono al di sopra del mondo, al di sopra del conosciuto. All’improvviso il Logos, la parola, il “tuono”, a opera del PRIMO DIO disgustato dall’odore mortale presente a meridione. Subito si manifesta la finitudine umana, deprorevole per un Dio, ed è quella natura mortale “arsa dalla sua stessa precaria fiamma”1, chiave del mondo, ancora una volta distante dagli dei, privata della possibilità di conoscenza di ciò che è divino. Ma il SECONDO DIO subentra, controbatte il primo, e ciò che gli confida è interessante: “Gli Dèi si nutrono di sacrifici, la loro sete si placa col sangue i loro cuoi s’acquietano con le giovani anime[..]”2 Un essere divino, che necessita la morte. Un essere divino che si nutre della morte, l’immortalità che sussiste nutrendosi del prodotto della morte. Una contraddittorietà profondo che lega il divino all’uomo, la trascendenza che si lega al sensibile, gli dei che hanno bisogno degli uomini. E successivamente, in questo dibattito al di là dell’essere, il PRIMO DIO manifesta la sua voglia di “più non essere”, disturbato da ciò che esiste desidera spogliarsi della sua natura divina e divenire vuoto, il nulla. Questa figura divina è sprezzante dei mortali, ripudia i loro sacrifici, ne è nauseato. Non c’è traccia di amore o provvidenza, ma un sorta di principio autocontemplativo, non esiste nulla di più grande e non può che essere egli stesso l’oggetto del suo pensiero o della sua “provvidenza”, perchè “[..]il mio amore per me stesso è senza limiti e senza misura.”3 Il TERZO DIO appare nell’opera come una figura ordinatrice, richiama all’ordine i suoi fratelli, distogliendoli da i loro discorsi, facendo volgere i loro pensieri alle cose della terra. È il baluardo dell’amore, una sperenza per l’umanità, sprona i suoi fratelli per far sì che “l’amore umano e fraglie domini il domani”4 Ciò che appare sin dalle prime pagine di questa grande opera, nulla ha da invidiare ai grandi poemi naturali del V secolo a.C. Non senza forzature, è possibile intravedere in questa tre divinità distinte la classica tricotomia del Dio cristiano in tre persone, o meglio, nel Primo Dio è possibile identificare il Logos o Verbo perchè è il primo a “parlare” e ad avere un tono distaccato dal creato, nel Secondo Dio, il vero e proprio “Demiurgo” che necessita i sacrifici degli uomini, legato ad essi e alle loro anamie, e infine, nel Terzo Dio lo Spirito Santo, privo della sua funzione strettamente provvidenziale, ma che esercita la sua provvidenza “ignorando”, donando loro la libertà del proprio futuro. [ ]

-----------------------------------------------------------------------------1 Kahlil Gibran, Gli dei della terra, Roma: Newton Compton, 1993 2 Kahlil Gibran, Gli dei della terra, Roma: Newton Compton, 1993 3 Kahlil Gibran, Gli dei della terra, Roma: Newton Compton, 1993 4 Kahlil Gibran, Gli dei della terra, Roma: Newton Compton, 1993

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[TEATRO-Libri] L’occhio

L'occhio di Sabrina Tolve

UNA LONTANA FEDELTA’

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n uomo solo al bar. Jazz. La voce calda d’una cantante e le dita impavide di un pianista. E poi ossessioni, rotture, disgregazioni, pulsioni, allucinazioni, la vita che si frammenta e si ricompone sotto lo schiocco netto di una frusta chiamata amore. O forse no. Forse l’amore non è il nesso centrale dell’opera. Forse l’amore non esiste, forse esistono solo gesti d’amore. Dedicati a chi, poi? Ecco, ci avviciniamo al nocciolo della questione. Un uomo solo. Un uomo che viene lasciato solo. Un uomo che viene lasciato solo da una donna, stanca della dicotomia padrone – schiava, stanca dei cliché, stanca dell’immagine che la donna dà di sé. Stanca delle donne che si vendono, ricattano, opprimono, perché non sanno esser donne altrimenti. Nel lasciarlo solo, la donna smembra l’iconografia di una delle protagoniste del teatro italiano: Filumena Marturano. E la piéce si snoda nell’imagery del femminino che quell’uomo non potrà mai comprendere a fondo, né penetrare come vorrebbe: Lulù la seduttrice inarrivabile, Cassandra, che ribalta il mito e diventa veggente mistica per scelta o per necessità, Salomè innamorata di Giovanni fino all’ossessione. E quando l’uomo, solo, s’interroga, interroga i suoi fantasmi e le sue proiezioni fino a restare spiazzato dalle proprie negligenze. Ha le sue colpe, per quell’amore finito. Il punto del discorso, il nesso, è in quella riflessione ultima che, senza il sabba onirico delle donne solo immaginate, sfiorate, mai avute, non sarebbe nata mai. L’amore è finito, la sua donna è andata. Con un altro. Dopo avergli chiesto la libertà di scegliere lui, ancora.

Con consapevolezza, non per abitudine. E forse, l’amore non è solo un gesto, né una moltitudini di azioni per serrare una persona a sé a tutti i costi. L’amore è anche e soprattutto volontà. La volontà di tenere una persona serrata a sé, pur senza vincoli o (op)pressioni: una volontà tangibile. E cos’ha fatto, quest’uomo, per tenere la sua donna a sé? Eccola, la chiusa. Quando il teatro interroga e chiede, fa domande e lascia spiazzati, quando il teatro lascia sulla nostra pelle le trame della poltrona e la polvere del palcoscenico, quando il teatro ci segna carne e spirito, allora diventa Teatro. E Alessandro Berdini e Paolo Fallai, rispettivamente regista e drammaturgo dell’opera, in questo sono maestri. [ ]

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[TEATRO-Libri] L'occhio

DIGERSELTZ IL CANNIBALISMO DELL’ATTORE

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la bulimia e l’anoressia, l’attrice finalmente si rivela permettendo al pubblico stesso di cibarsi di lei. Ed ecco l’attore di cui non si butta nulla, ecco l’attore di cui ci si ciba, ecco il cannibalismo. Ecco il pubblico che divora l’attore, a teatro. E il teatro diventa il ciborio sacro. Perché di sacro si parla. Perché il cibo è parte di un rito. Un rito che diventa ultima cena e nascita di Cristo, in un alternarsi ironico che ci spinge a guardarci dentro. Perché il cibo altro non è che l’immagine reale del nostro consumismo. Il mangiare diviene consumo e spreco e, in quanto tale, ci rende vittime di un bisogno che perde l’aureola della santità. [ ] |ph by amandaviewontheatre.wordpress.com

n eterno, infinito masticare. Parole, cibo, fosse anche il niente. Noi siamo la nostra bocca. Noi siamo quello che mangiamo, come lo mangiamo. Non più la vista, ma il gusto. Elviri Frosini, drammaturga, regista e unica interprete, madre di tecnicismi mirabili, spinge lo spettatore tra l’orrore più rude e il grottesco più amaro, irrorando il tutto di un’ironia formidabile. Trascina il pubblico – attonito – attraverso il cavo orale del mondo. Si è, finché si mangia. Finché ci si ciba. Mangio, divoro, ingurgito ergo sum. Spaziando da personaggi che si contraddicono, tra

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[spettacoli] attravers(arti)

Arte e natura sono un dio bifronte di Lucia Diomede

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na chiocciola di chiocciole per dirti: è qui, non ti sei sbagliato, è qui la lama, il server millenario scavato nelle rocce calcaree dall’acqua, che pullula di vita. Ti verrebbe di chiamarla “natura”. Poi ti rendi conto che nelle forme in cui è presente, nella loro disposizione, nella loro grandezza, talvolta nella loro forma, c’è anche la tua orma, il tuo lavoro, la tua presenza, la tua essenza, essere umano. E che anche tu, banalmente, ma fondamentalmente, dipendi dalla loro presenza, dalle loro sostanze, dal loro “lavoro” di trasformazione della terra, dell’aria, del sole, dell’acqua. Non senza un velo d’ironia, noti questo e altro nella mostra dal titolo “Arte e natura

sono un dio bifronte” nel bellissimo Parco Botanico “Lama degli ulivi”, presso i vivai Capitanio a Monopoli (BA), a cura di Antonio Frugis e Roberto Lacarbonara per la Fondazione Museo Pino Pascali, aperta dal 31 maggio al 2 giugno. Pensi all’intelligente operazione di attraversamento e reciproca valorizzazione tra arte e natura qui messa in atto, e rifletti che la soluzione alla continuità tra l’opera della “natura” e quella umana, semplicemente, non c’è, non è mai esistita, è solo una distinzione per consuetudine d’analisi, perché tu, persona, essere umano, non sei al di fuori della natura. “Arte” compresa, una delle tante attività umane. Non è certo una questione nuova. A te, essere umano-

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[spettacoli] attravers(arti)

artista, che “crei” un’opera e la poni nella lama, tra cavità rupestri, ipogei e curatissima disposizione delle numerose specie vegetali, pazientemente catalogate, ma poi la pioggia la bagna, il sole la scolorisce e la deforma, i ragni vi ricamano le loro ragnatele e le lumache vi tracciano la loro scia, sembra che possa chiamarsi ancora tua? E cosa puoi ancora chiamare “naturale” e cosa “artefatto” se la pioggia ti contende l’inaugurazione, le nuvole nere scuriscono la luce e cambiano i colori e, anzi, provvedono a fornirti uno sfondo che non immaginavi neanche, mentre i passeri si posano accanto ai tuoi, di creta. E il giorno dopo, il sole contraddice quel che ha fatto la pioggia sconvolgendo tinte e materiali e, di nuovo, tu, artista, non l’avevi previsto. La segnaletica chiocciola di chiocciole (L’altra natura di Massimo Ruiu) all’entrata spinge vertiginosamente a chiederti se la “tua natura” sia rimasta davvero “naturale”, o se, perso in scambi e relazioni virtuali, sia diventata anch’essa digitale. Quasi a fornirti un dispositivo di sicurezza nella discesa dentro te stesso, parallela a quella

nella lama e all’incontro con le opere, c’è il manufatto Senza titolo di Maria Grazia Carrieri: attorcigliata in una spirale che sale (o scende) dai rami dell’albero, c’è una liana di tubetti di pasta bruciacchiata, che non sai se definire naturale, visto che è “frutto” di un processo industriale e di un’ancora più industriale produzione del grano duro. Libidoglossum di Luigi De Palma e Martino Pinto, in acciaio, ceramica e cera, gioca con te, immettendoti concettualmente nel vortice del desiderio evocato da due dei significati di “lingua”, la parte anatomica, che rende possibile il secondo, la facoltà umana del linguaggio, sotto una magnifica jacaranda viola in fiore, che sottolinea il rosso delle ceramiche “linguali” e “linguistiche”. La poesia di Neonature X di Guillermina De Gennaro quasi ti commuove: volti asiatici femminili, dipinti su tela con lievi differenze, incastonati tra fiori, frutti, ragnatele e soprattutto spine di cactus. Pensi alla parabola evangelica del seme che cresce tra le spine, o a te che ti aggiri tra le mille spinose questioni quotidiane oltre che tra i cactus, o agli episodi di violenza alle donne, mentre noti che il ragno continua indisturbato a tessere la sua tela. Ti addolcisce, poi, Vorrei tenerti per mano, l’istallazione ironica di Claudio Cusatelli, in cui una “vera” dracena spilungona è collegata a una “vera” agave, piuttosto bassa, attraverso delle tavolette verdi in cera che simulano il sapone da bucato, su ciascuna delle quali vi sono incise le parole che danno il titolo all’opera. E poi Untitled di Giuseppe Teofilo, Welcome di Miki Carone, Golia di Dario Agrimi, Una cotta per la rossa di Iginio Iurilli, Gears di Michele Giangrande, Dolore di Giampiero Milella, Energia di Giulio De Mitri, Evil’s di Pierpaolo Miccolis. Sud di Daniela Corbascio ti sembra l’immagine più aggiornata di quello che è oggi il Meridione, tra il naturale e l’artefatto: un sottile tubo neon, luminescente benché nella grotta non siano previste prese di corrente, incastonato da ancestrali stipiti in pietra; attorno, il buio, costellato da straordinarie sorprese. [ ]

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|pic by Aldorindo Tartaglione

[immaginario] sommacco

verderame di Claudio Avella

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[sterilita’ del benpensare] verderame

ELOGIO DELLO SPERPERO

Caro il mio Pallore, non ho ancora finito. Sento di dover aggiungere qualcosa. Non so spiegare cosa abbia a che fare con la bellezza, con la natura e con le farfalle nello stomaco, ma sento che in qualche modo vi è legato: devi scarciofare! Ecco come fare: Togliere le foglie del carciofo, una ad una, farle schioccare quando le spezzi, come la lingua sul palato. Toglierne tante. Non lesinare: la chiave di tutto sta proprio qui. Se vuoi raggiungere il cuore del carciofo e mangiare la parte buona, devi sperperare tutte le foglie intorno. Non essere avaro. Sperpera per giungere alla parte più buona ... ... anzi, all’unica parte buona. Ma anche sperperare necessita delle sue regole, della sua procedura: le foglie vanno staccate dalla base, elimina le punte che rimangono, poi taglia via i resti con un movimento circolare del coltello, scava per eliminare le barbe che stanno nell’intimo del carciofo. Se non facessi così, potresti arrivare comunque alla sua essenza, ma nel modo sbagliato. Continueresti a masticare foglie verdi e gommose, amare ... non da amare. Nocive. Non lesinare. Ti devi dare ... Come? Leggiti dentro ... Trova la giusta libertà per scavarti dentro ... Trova una vanga ... una vanga da beccamorti. [ ]

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[sterilita’ del benpensare] la nuova era e' adesso

La nuova era e’ adesso di Sara Fusani

SUL RICOMINCIARE, CHE POI ALLA FINE E' SOLO UN ANDARE AVANTI

R

ecentemente ho lasciato l’Italia per provare a vedere come si sta in Francia, a Parigi. Alcuni amici mi hanno incoraggiato, mi hanno detto fai bene, vai, lascia questa valle di lacrime, allontanati finchè sei in tempo, e altri mi hanno chiesto un po’ più attoniti, perchè vai via? Ho risposto come se fosse ovvio che vado via perchè non ci sono opportunità, che il settore per cui lavoravo ha chiuso, che la mia carriera al momento se non è finita è davvero in una lunga pausa di riflessione, che non riesco a trovare lavoro in altri settori, che gli anni passano e la situazione continua a peggiorare e se non mi muovo adesso chissà fra qualche anno che disastro... e via con previsioni catastrofiche, che poi, a voler essere razionali, è abbastanza probabile si realizzino. E quando parlavo così mi si creava intorno un tifo da stadio, come se andando all’estero facessi per un secondo intravedere a chi resta la possibilità della luce in fondo al tunnel, della rinascita e del riscatto che in molti vorrebbero vivere sulla loro pelle. E di nuovo, insieme, facendosi da spalla l’un l’altro, giù insulti per il nostro paese. Come era facilmente immaginabile, i primi giorni dopo il viaggio, appena incontrate le prime difficoltà e appena

realizzato che mi ero davvero spostata all’avventura in un altro paese, il protagonista assoluto delle mie giornate è stato il panico. Avevo una sola domanda in testa: perchè sono qui? Ma chi me l’ha fatto fare? Mi sembrava di essere a un punto di non ritorno, come se avessi dovuto buttare via tutto il passato e ricominciare una nuova vita da zero, con tutta la fatica che comporta e con la sensazione di spreco enorme per i passi già fatti. Avevo paura e cercavo disperatamente di ritrovare un briciolo della rabbia vissuta negli ultimi anni, la rabbia di quando ho perso il lavoro: speravo mi potesse dare una spinta energica, speravo mi avrebbe motivato a trovare il coraggio per ricominciare. Ma niente. Allora ho cercato il dolore vissuto quando sono rimasta con le spalle scoperte e lo stato non mi ha aiutato, perchè in quanto precaria non meritavo di essere sostenuta in caso di necessità, e ho cercato di ricordarmi quanto mi ha spezzato il cuore e mi ha lasciato senza respiro scoprire di essere per il mio paese una cittadina di serie C, un numero che fa parte di statistiche tristi, da nascondere e di cui vergognarsi, una persona da incolpare e da insultare, addirittura, per la situazione drammatica che vive. Ma anche in questo caso, non

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[sterilita’ del benpensare] la nuova era e’ adesso

sono riuscita a trovare quella spinta che cercavo. Quindi mi sono seduta, e ho provato a scrivere una lettera all’Italia, una lettera per farle sapere quanto la odio, quando mi fa incazzare, quando mi ha deluso e quanto spero che i miei figli possano non conoscerla mai. Ho scritto qualcosa e ho cancellato, ho scritto altro e ho cancellato anche quello. Le emozioni negative che avevo vissuto erano vere però, e allora perchè non riuscivo a scriverle? Perchè sarà follia, ma ho scoperto che in fondo, a questa patria assassina le sono grata. Con tutti gli ostacoli che mi ha messo davanti mi ha costretto a continuare a formarmi, con tutte le lacrime che mi ha fatto versare mi ha obbligato a cercare un senso, quando ha fatto crollare tutto intorno a me mi ha costretto a essere per me stessa l’unico perno di sicurezza reperibile nelle emergenze. E non è poco per cui essere grati ed è tantissimo per riuscire a vedere oltre la rabbia. E proprio oltre la rabbia mi sono accorta che non sto ricominciando da zero, sto solo proseguendo su una strada che fa paura perchè ancora sconosciuta, e che nulla è andato

perso, ogni esperienza vissuta mi ha già arricchito. E allora ho pensato che se qualcuno dovesse chiedermi ancora perchè sono partita direi che il mio paese mi ha messo sui passi di un viaggio che prima di tutto è dentro di me, alla scoperta di tutto il possibile da realizzare, alla ricerca di tutti i limiti da superare, e che questa tappa geografica all’estero è un passo in più, magari definitivo o magari solo passeggero, e anche se ufficialmente si chiama ricominciare, alla fine è solo un passo in avanti. [ ]

|pic by Shordzi

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[sterilita’ del benpensare] cattivi pensieri

cattivi pensieri di Franco Culumbu

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[sterilita’ del benpensare] cattivi pensieri

LA PROSTITUZIONE

L’amore è tendenza al possesso perpetuo del bene” dice la sacerdotessa Diotima a Socrate. Ma soprattutto: “L’amore è amore della generazione e procreazione nel bello”. L’anelito umano verso l’immortalità è la ragione d’essere dello “sforzo” amoroso. Generare e procrearsi, sia nel corpo che nella mente, è il modo di noi mortali di diventare immortali come gli Dei. Questo ostentato prologo grecista risponde a una domanda importante: si può amare allo stesso modo (e, in senso lato, la stessa persona) per sempre? La risposta è no. No perché noi stessi non saremo gli stessi poiché ci rigeneriamo continuamente, sia fisicamente che nello spirito, nelle attitudini, nelle opinioni. No anche perché è l’amato a cambiare, alla nostra stessa stregua, sia nel corpo che nella mente, a evolversi se preferite. Quindi l’amore inteso nel senso comune non è la “tendenza al possesso perpetuo” come sopra, ma la “tendenza perpetua al possesso” dell’amato. Concetto di per sé non verosimile in quanto opposto agli umani istinti di rigenerazione e procreazione di cui sopra. Conclusione: l’amore unico e perpetuo non può esistere. Nel senso che o dopo un po’ si smette di amare perché non si riconosce più sé stessi o l’amato, e quindi ci si rimette sul mercato a cercare un altro amante. Oppure, dopo un po’ si ricomincia ad amare la stessa persona, rigenerando le ragioni e le sensazioni dell’amore originario, perché se non le si rigenerasse, se non si facesse in modo di re-innamorarsi, non si potrebbe più amare la stessa persona. Ora, in una relazione amorosa entrambi gli sbocchi appena citati sono possibili. Il secondo è quello che la società cristiana dell’Occidente ha preso a paradigma della monogamia, in quanto verosimilmente la monogamia è l’unico modo per creare nuclei stabili (le famiglie) per la generazione di prole e, in senso molto lato, per la sopravvivenza tutta dell’Uomo. Tuttavia, sebbene funzionale alla sopravvivenza della razza, la monogamia è pur sempre un “abito” sociale, una costrizione dell’uomo “civilizzato”, uomo civilizzato che ha bisogno di un amore che abbia parvenza di continuità e che garantisca procreazione sicura di nuove generazioni. Tutto questo sproloquio per dire: ma perché un uomo sposato che va a puttane (e viceversa) non è accettato socialmente (anzi è soggetto a gogna moralizzatrice) oggi, in una società Occidentale contemporanea

che dice di fare dell’apertura mentale, del cambiamento, della tolleranza le propria bandiera? E dai, su. Anche perché non mi pare giusto che se andavi a puttane (e puttani) nell’Antica Roma e in generale in parecchi posti dell’Antichità nessuno diceva niente, anzi fino a solo qualche decennio fa quasi era una prassi consolidata per lo sverginamento, e oggi mi fate tutte ste storie su Silvio e le ragazze dell’Olgettina e su Marrazzo che va coi trans che poveracci manco è detto che sono riusciti a usufruirne. In conclusione: mandatemi un’email col vostro codice fiscale e data di nascita, raccolgo firme per chiedere a Napolitano di ridare dignità morale ai rapporti extraconiugali e alle mignotte in generale. [ ]

Scrivi a franco.culumbu@gmail.com

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sex on di Catherine

Catherine VS incostanza 0-1 #illogicamarazionalepauradeldecollo #(a)normalicasualiincontri

“Non è insolito vederla percorrere convinta una strada, seguire un discorso perfettamente logico, ipotizzare all’orizzonte la via d’uscita e quando pensi che il “traguardo” sia ormai vicino ecco che invece si ferma, perché un’altra via neuronale le si è aperta davanti e ha messo in discussione le ipotesi da cui era partita. Tutto da rifare. In termini informatici è come un algoritmo NP, non deterministico, che non sai come terminerà e soprattutto se terminerà.” (G.C.)

U

ltimamente mi sono spesso chiesta quale sia in definitiva l’argomento di cui scrivo. A parte il nome della rubrica forse di sesso c’è ben poco. Di esplicitamente sesso, almeno. È anche vero però che tutto è sesso, o meglio il sesso in tutto si nasconde. Scrivo di persone, certo. Sentimenti, insicurezze, stranezze, passioni, scelte, idee, cerebralità. Volevo fossero le relazioni il centro dei discorsi, ma com’è noto quanto mi riguarda difficilmente può essere così netto, regolare, deciso una volta per tutte. Scrivo mentre scrivo, l’ho già detto. Il caos dei giorni e le confusamente inibite risorse intellettuali stavolta però mi hanno fregata. Non ho concluso il mio pezzo, l’attimo per sua natura è fuggito via e il tanto snobbato tempo ha avuto la meglio. Tuttavia, proprio non me la sento di non riempire questa pagina. Un po’ perché il mio egocentrismo non ha limiti e un po’ perché non vi illudiate di esservi liberati della “rubrica cazzara di Just Kids”, come affettuosamente l’ha definita una volta la mia geniale e verace direttrice editoriale. Riempirò questa pagina, con qualcosa di mio che però non è mio. JK | 122


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STORIE DI UN (A)NORMALE (QUASI) QUARANTENNE a Sevilla - Roma flight

M

a perché l’ho avvicinata e le ho chiesto pure il numero di telefono? E sì che ce ne vuole per farmi muovere, a me. Sì, quell’aspetto un po’ snob da donna che ostenta sicurezza in qualche modo mi attrae. Ma fammela un po’ vedere meglio, almeno per quel che riesco: è troppo coperta. Tette piccoline, lato b? Mah, non mi sembra niente di che, parametri di attrazione sessuale direi medio bassi. Eppure il mio sguardo torna a lei. Ha gli occhiali da sole, magari è strabica. Li toglie per un attimo… ha un bel viso e direi anche che è più carina senza occhiali da sole, secondo me quel modello di Ray-Ban che indossa non le sta così bene. Non è giovanissima, dai suoi occhi direi intorno ai 30 anni (meno male, le ragazze di 20 mi attraggono molto di questi tempi, ma cosa le avrei raccontato? Ma va beh, questo è un altro discorso). Si siede, c’è un posto libero proprio accanto a lei e io sono anche stanco; non mi fermo da una settimana. Mi siedo, le parlo, le dico la prima cazzata che mi viene in mente. Lei risponde seccamente, come per cortesia e non dà seguito. Si, “se la tira”: è stata giusta la mia prima impressione. Finalmente partiamo! Non ne posso più di stare in coda. Salgo in aereo, solita ressa per accaparrarsi il posto per quell’UNICO bagaglio a mano che sei riuscito a far passare faticosamente al controllo, adottando ogni tipo di tecnica di compressione di vestiti, souvenir e quant’altro, come chi viaggia su voli Ryanair è addestrato a fare. E vai ce l’ho fatta: trovato il posto per il mio bagaglio e anche per quello di una delle mie due compagne di viaggio. Proprio lì, dove l’aveva trovato anche lei. Io sistemo i miei bagagli e lei mi guarda come per dire “mi aiuteresti?”, io con naturalezza la aiuto, stavo già pensando di farlo. Come avrei potuto mancare di un gesto di galanteria verso una donna in difficoltà, l’avrei fatto per chiunque. Si siede lato finestrino, ci sono due posti liberi accanto a lei. Che faccio? Mi siedo qui? Ma le mie compagne di viaggio stanno più avanti e hanno anche tenuto il posto per me. Ok le raggiungo, tanto non credo sia

una persona che “vale la pena” conoscere. Provo a raggiungerle, c’è un casino di gente che ostruisce il passaggio. Non riesco, mi spazientisco e gli urlo da due file dietro : “io vado vicino ai bagagli”. Torno indietro, i due posti accanto a lei sono stranamente ancora liberi. Beh, direi che mi siedo lì. Mi sorride. Le parlo da subito, comportamento insolito per me. Parliamo, anzi, parla più che altro lei. Mi piace ascoltarla, sembra una donna intelligente e interessante e vedo anche dolcezza nei suoi atteggiamenti dietro quegli occhiali da sole. Io faccio domande, come faccio solitamente quando una persona mi suscita interesse. Lei di me chiede poco. Va beh, per lei è un “classico” incontro da aereo con una persona gradevole che sa ascoltare e con cui intrattenersi per il viaggio raccontando le “grandi gesta” compiute nella propria straordinaria vita. Mi racconta un po’ di lei e del suo viaggio in Portogallo appena terminato in compagnia di un amico (sono sempre in compagnia di un “AMICO” le donne di quell’età). Quindi: single per scelta o casualità o comunque NON con relazione stabile. Estimatrice del buon vino e del fumo (forse anche troppo), lavora per un grande gruppo editoriale e occupa anche un ruolo di responsabilità. Sembra contenta del suo lavoro e si vanta di essere “una brava e meritevole”. Le credo. Mi dice anche che ha concretizzato un progetto parallelo: collabora attivamente a una rivista musicale indi e scrive una rubrica sul sesso. Il “sex and the city dei poveri”, mi dice. Tutto molto interessante, forse anche troppo. Le dico che sono musicista, non sente o comunque non da seguito, magari non ha alcun interesse ad approfondire. Le dico che vivo in Toscana ma lei immediatamente riconosce dal mio inconfondibile accento siciliano che c’è troppo poco di “dantesco” in me. Anche lei è del sud, è calabrese, vive e lavora nella capitale ma dice di essere comunque legata alla sua terra di origine. E questo mi piace. “Ah, tra poco passi dalle mie parti per lavoro?”. Nel frattempo valuto: le do il mio biglietto da visita e le chiedo se le va di vederci in quell’occasione, così per

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fare due chiacchiere e bere un buon vino insieme. Ma ne avrò uno? Cerco, sembro un folle: non riesco a estrarre il portafogli dalla tasca, si è incastrato e io lotto con la mia giacca legata saldamente ai miei fianchi. Ma tipo slegarla no, eh? No, in quel momento non ci pensavo. Ma vaff.... estraggo dopo una lunga fatica il portafogli e niente biglietto, non ne ho manco uno o se c’è, non lo trovo tra i mille biglietti da visita e scontrini che popolano da tempi immemorabili il mio portafogli. Lo sapevo, non ce li ho mai quando mi servono. Le propongo il mio numero ugualmente e lei senza esitare mi dice ok. Ma che sto facendo? Ma perché lo sto facendo? È sicuramente una donna interessante ma non mi sembra affatto il mio tipo, e sono ancora distratto da una settimana passata tra le bellezze dell’Andalucia che comprendono, tra le tante, donne di straordinaria bellezza. Ci scambiamo i numeri di telefono e le email, mi chiede aiuto per inserire tutti i miei contatti nel suo nuovo

smartphone Android che conosce ancora poco. Mi dice che ci sentiremo. Va beh, si dice sempre così. Arrivo a Roma: scendiamo dall’aereo, dice che all’uscita c’è un amico (un altro) che la aspetta. La saluto, mi tende timidamente la mano e io dico “ci sentiamo”. Lei non sembra convinta, ma mi ricorda di guardare la rivista online, da efficiente promoter. Va via col suo amico e sparisce. Per tutto il tempo del viaggio non ha mai tolto gli occhiali da sole e non ho potuto guardare i suoi occhi, ma lei ha visto i miei. Chi sa se la rivedrò più, ma sono certo, senza poterlo giustificare, che sarebbe bello ricevere quella telefonata. “La rosa è senza perché”, come scrisse non mi ricordo più quale illuminato poeta. Fine della prima e forse unica puntata. Ps.: questa storia non è autobiografica, ma quasi. [ ] G.C.

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S. Il mondo non è buono. Il mondo è un uomo in canottiera che certe volte si mette la cravatta ma poi a letto non si toglie i calzini oppure, nella migliore delle ipotesi, lascia ciabatte in giro per casa. Ma questo è un aforisma superficiale che capovolto potrebbe diventare una donna perennemente in pre-ciclo che a letto ha il mal di testa oppure, nella migliore delle ipotesi, fa le scenate per una tavoletta del water non rimessa a posto. Non penso che gli aforismi dicano sempre la verità e non penso che il mondo sia buono. Se fosse buono non mi inventerei gente del passato riflessa nelle vetrine, sarei pienamente soddisfatta del mio lavoro e non esisterebbero i vigili urbani. Il mondo non è buono, ma capita che il mondo sia semplicemente la genuina storia di un quarantenne che si ritrova a chiacchierare con una trentenne. Capita che quelle chiacchiere diventino uno scambio di pensieri interessante. Grazie, mi dispiace di non aver tolto gli occhiali.

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