La Grafica Commedia

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WALTER VALTER TONI

Walter Valter Toni

ISBN 978-88-97441-26-7

Strizza gli occhi ;-)

LA GRAFICA COMMEDIA

Nato a Cesena nel 1963 viene battezzato col nome Walter, ma a quindici anni, facendo la sua prima carta d’identità, scopre che per lo Stato si chiama Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fa fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Da questo confronto nel 2010 è nato il libro dal titolo “Nella treccia la Speranza”, edito da Tau Editrice. Nel 1988 insieme a Franz Ramberti fonda a Rimini lo studio Kaleidon. Dopo essere stato docente di Lettering presso l’Istituto Pantheon di Roma e di Grafica presso l’ISIA di Faenza, dal 1997 al 2009 insegna Informatica Design all’ISIA di Urbino. Dal 1995 è membro della Apple Developer Association partecipando alla fase di beta-testing di programmi multimediali per Macromedia. Appassionato di calligrafia e Mac ha scritto nel 1998 “Vuota il cestino”. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

WALTER VALTER TONI “Non è un manuale, né un trattato di graphic design. Semplicemente ho scritto qualcosa sulla mia esperienza personale, raccontando il mestiere, i programmi e gli incontri con persone, che hanno fortemente influenzato la mia crescita professionale ed umana. Un libro sicuramente alla portata di tutti per capire finalmente che lavoro faccio.”

LA GRAFICA COMMEDIA

Un viaggio tra le memorie di un grafico e del suo Mac

€ 22,00

Su iTunes Store è disponibile la versione interattiva per iPad


WALTER VALTER TONI

Walter Valter Toni

ISBN 978-88-97441-26-7

Strizza gli occhi ;-)

LA GRAFICA COMMEDIA

Nato a Cesena nel 1963 viene battezzato col nome Walter, ma a quindici anni, facendo la sua prima carta d’identità, scopre che per lo Stato si chiama Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fa fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Da questo confronto nel 2010 è nato il libro dal titolo “Nella treccia la Speranza”, edito da Tau Editrice. Nel 1988 insieme a Franz Ramberti fonda a Rimini lo studio Kaleidon. Dopo essere stato docente di Lettering presso l’Istituto Pantheon di Roma e di Grafica presso l’ISIA di Faenza, dal 1997 al 2009 insegna Informatica Design all’ISIA di Urbino. Dal 1995 è membro della Apple Developer Association partecipando alla fase di beta-testing di programmi multimediali per Macromedia. Appassionato di calligrafia e Mac ha scritto nel 1998 “Vuota il cestino”. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

WALTER VALTER TONI “Non è un manuale, né un trattato di graphic design. Semplicemente ho scritto qualcosa sulla mia esperienza personale, raccontando il mestiere, i programmi e gli incontri con persone, che hanno fortemente influenzato la mia crescita professionale ed umana. Un libro sicuramente alla portata di tutti per capire finalmente che lavoro faccio.”

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venticinquekappa 2013 - Venticinquesimo di Kaleidon 2013 Kaleidon www.25kappa.it

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WALTER VALTER TONI

LA GRAFICA COMMEDIA Un viaggio tra le memorie di un grafico e del suo Mac

FaraEditore



ad Antonio Battistini maestro di luce


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README FIRST

Scrivere non è il mio mestiere: neppure da studente, quando si è costretti a farlo, mi sembrava una attività particolarmente adatta a me. Meglio disegnare, fotografare, suonare o cantare. È accaduto invece che mi ritrovo con due libri pubblicati e quando è capitato che qualche amico mi ha sollecitato a scriverne un’altro, è stata per me una grande soddisfazione, che mi ha spronato a provarci di nuovo. Il problema è che i due libri da me scritti sono profondamente diversi e sono perciò consapevole che finirò per deludere le aspettative di qualche amico. A chi dar retta? Ad Alessio, un grande “smanettone” di Mac che ho avuto come studente all’ISIA di Urbino, oppure a Marco, che mi lusinga con l’attesa per una nuova storia sulla scia di Nella treccia la Speranza? Nell’era in cui internet viaggia tranquillamente nelle nostre tasche, mi è parso poco interessante aggiornare Vuota il cestino, cioè scrivere un testo organico, un libro, seppur elettronico, che parli di programmi, desktop e computer. Su qualsiasi argomento basta avviare un ricerca su Google o Youtube e trovi consigli utili, lezioni interessanti, spesso con validi istruttori giovanissimi. 6

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Ho pensato allora che una bella idea sarebbe stata quella di mettere insieme argomenti molto differenti: per un attimo ho avuto la folle idea di scrivere qualcosa per riflettere in parallelo sulla genialità di Steve Jobs e di don Oreste Benzi, mettendomi alla ricerca di quegli elementi comuni, il loro ottimismo e desiderio di rendere più bello il mondo, che continuano ad affascinarmi e che hanno certamente influenzato alcune scelte della mia vita. Una sfida intrigante, di cui ho però immediatamente percepito il pericolo di cadere in una ennesima apologia di Apple. Sono consapevole di quanto io sia poco obbiettivo di fronte a quella mela. Non posso di certo negare che dietro quel morso ci sia stato sempre per me qualcosa di seducente che va oltre l’effettiva funzionalità, qualcosa di irrazionale che in questi ultimi anni ha poi contagiato milioni di persone. Oggi forse il tanto parlare di Apple un po’ mi infastidisce, quasi fossi geloso di un’infatuazione avuta a metà degli anni Ottanta, quell’amore a prima vista per un Macintosh quando ancora ero studente all’ISIA di Urbino, dove poi nel 1997 sono stato chiamato proprio ad insegnarne l’uso. Le cose nel corso degli anni sono molto cambiate. Quando iniziai ad insegnare mi misi a scrivere Vuota il cestino sentendomi una specie di solitario soldato giapponese confinato nella riserva dei “grafici” destinati primo o poi all’estinzione per il sopravvento di Win7

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dows. Le più grandi società software nate con Apple, come Adobe o Macromedia avevano iniziato in quel periodo a dare i primi segni di insofferenza per la mela, lasciando girare voci di abbandono della piattaforma Mac. Ma Steve Jobs era tornato proprio in quel periodo alla Apple non solo a togliere le strisce colorate dalla mela, ma a cambiare il destino di una azienda che con i suoi prodotti negli anni a seguire ha fortemente influenzato le abitudini di tanta gente, non solo il lavoro dei grafici. Tranquilli! Ho promesso di non tessere le lodi di Apple e non scriverò neppure di Steve Jobs. Dopo la sua morte lo hanno fatto in tanti, forse in troppi, forse a sproposito: anche su di lui sento molto forte il rischio di eccedere io stesso in considerazioni che viaggino sul binario dell’idolidiozia. Me ne sono accorto alcuni mesi fa quando per una di quelle strane coincidenze che la vita ti riserva, la secondogenita di Jobs, Erin, si è ritrovata, nascosta dal cognome di sua madre – forse per non scatenar facili entusiasmi – a bazzicare il liceo di mia figlia Sofia per un gemellaggio e un cortese scambio di ospitalità fra il Classico di Fano e la Castilleja School di Palo Alto. Sono stato colpito da una sorta di sindrome, infantil-paranoica che mi ha permesso di vedere come anche una persona sulla soglia dei cinquant’anni possa diventar vittima di un rincretinimento adolescenziale, pur di “toccare il lembo del mantello” di chi ha il DNA di Steve Jobs. Quindi basta anche con Jobs. State tranquilli! Se oggi dovessi scrivere un libro su qualcuno sarei più tentato di andare alla ricerca di personaggi come Leonardo Chiariglione, un italiano, sconosciuto al grande pubblico, che senza esagerare io accosterei ad Antonio Meucci, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Adriano Olivetti e Giulio Natta.

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Allora? Di cosa potrei scrivere? È proprio necessario che lo faccia? Ci provo, inizio e vediamo se ne esce qualcosa di buono. La scorsa primavera sono stato chiamato nel liceo di mia figlia a raccontare del lavoro che faccio. Parlare ai giovani del lavoro che si fa, trasmettendo, in un momento difficile come questo, un po’ di entusiasmo e speranza è stata una esperienza molto bella. Così dopo qualche giorno ho pensato che sarebbe stato interessante riuscire a scrivere qualcosa, che possa essere d’aiuto a chi vuol capire cosa si nasconde dietro un graphic designer, appassionato del suo mestiere e delle nuove tecnologie. Non ho la pretesa di scrivere un manuale o un trattato di graphic design. Del primo ne esistono già tanti che spiegano con precisione cosa sia un marchio, un depliant o un manifesto; per il secondo ci vuole una cultura grafica e una conoscenza artistica più ampia della mia. Semplicemente scriverò qualcosa sulla mia esperienza personale, sicuramente molto diversa da quella di altri grafici, raccontando il mestiere e gli incontri con persone che hanno fortemente influenzato la mia crescita professionale ed umana. Essere una specie di Virgilio che, passato ormai il “mezzo del cammin della propria vita”, si affianca ad un giovane liceale a cui è venuto in mente di fare il grafico, parlandogli prima un po’ dell’ISIA dove ho studiato e insegnato, per introdurlo poi nei gironi delle memorie del mio disco rigido, e fargli capire che non c’è nulla di infernale, ma anzi che tra quei bit e byte risiedono strumenti che oggi sono diventati fondamentali per questo affascinante mestiere.

MESTIERE> 9

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1ª TAPPA

NELLA GRAPHIC-VALLEY... UNA BELLA SCUOLA, TANTI BEI MESTIERI. 11

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1 UN BEL MESTIERE Mestiere: mi piace questa parola; rende l’idea di qualcosa 
 che usa la testa e sporca le mani.

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Tra tempere, inchiostri, ecoline, pennelli, tiralinee, aerografi, acidi, sviluppi fotografici, colle e taglierine, la manualità di un grafico è sempre stata importante per dare corpo e visibilità a idee che però non possono che nascere da una testa. Oggi si parla di click, touch, tap, ma ideazione e gestualità contano ancora molto, anche se abbiamo le mani meno sporche di un tempo. La parola “mestiere” mi piace più di “professione” perché mi sembra dare al lavoro del grafico una giusta connotazione artistica. Non a caso Bruno Munari ha scritto un libro “Arte come mestiere”. Devo confessare però che rispetto alla parola “arte” a volte provo un certo disagio, fatta eccezione proprio dell’approccio educativo di Munari o di alcuni meravigliosi insegnanti che ho avuto e di cui parlerò in seguito. È senz’altro un mio limite, ma gran parte dell’arte visiva contemporanea, anche quando onesta, risulta incapace di coinvolgermi, come fa per esempio la musica. Forse anche per questo mi riesce più facile paragonare il lavoro che faccio a quello di un buon artigiano che con cura costruisce e cesella strumenti per comunicare. Oppure, se vogliamo rimanere in ambito artistico col rischio di spararla grossa, mi sento vicino al periodo grandioso delle botteFoto di WVT - Mani di James Clought

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ghe rinascimentali. Può apparire presunzione, ma molti studi grafici che conosco mi sembrano dei grandi “pensatoi” in cui un gruppo di persone, al limite tra arte e scienza, espressività e tecnica, colori e matematica, mettono in gioco tutti i propri sensi, non solo la vista, per concretizzare idee di comunicazione. Luoghi dove, proprio come nelle botteghe, può esistere un “maestro” per esperienza, che traccia le linee guida dei progetti che vengono poi portati avanti da validissimi collaboratori: giovani che ricevono, danno tantissimo, e spesso superano i maestri. Oh quanti ne sono passati di bravissimi a Kaleidon! Della bottega rinascimentale parlai anni fa in una intervista per Radio Villa Franceschi, ma in realtà ho scoperto che non è un’idea poi così nuova ed originale. Recentemente mi è capitato di leggere in un libro che riporta dei testi di Leonardo Sinisgalli che confermano questo pensiero: si tratta di un articolo degli anni cinquanta preso dal numero 58 di Graphis, rivista svizzera tra le più importanti del settore: “Ieri un Masaccio, un Piero della Francesca, un Fra Angelico, 
 un Carpaccio e tanti altri uomini di genio raccontavano i misteri e i miracoli della religione cattolica; e oggi i loro nipoti “degeneri” esaltano le officine, i cantieri, i laboratori, come del resto avevano tentato, con minor ironia, prima della guerra mondiale i futuristi Marinetti e Boccioni”.

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Graphic Valley Tanti sono gli studi grafici, oggi come ieri, in cui convergono le più svariate sensibilità e professionalità: quelle più ingegnose nel creare immagini, segni, simboli, nel mettere insieme caratteri tipografici e disegnati, nel creare imballaggi, stand fieristici e arredi urbani, nello scrivere testi, come anche comporre musica o realizzare formule matematiche che possono diventare codice per comportamenti multimediali di un iPad. Nelle nostre zone, quelle che dal Montefeltro urbinate scendono verso la costa adriatica, da diversi anni hanno trovato sede molti studi di alta qualità, una sorta di Graphic Valley in cui operano i tanti discepoli di Albe Steiner, di Michele Provinciali, di Alfred Hohenegger e di Massimo Dolcini. Steiner non l’ho conosciuto per ragioni anagrafiche, Provinciali e Hohenegger li ho avuti come insegnanti, mentre Dolcini è stato mio collega all’ISIA per otto anni fino alla sua morte nel 2005, quando aveva solo sessant’anni. Massimo non è stato per me soltanto un collega, ma prima di tutto un punto di riferimento come per tanti grafici miei coetanei. Molte figure sono passate dallo studio “Fuorischema” per continuare poi in attività proprie: Piazzesi, Bonci Del Bene, Sonnoli, Tortoioli per citarne alcuni, solo perché con loro ho avuto qualche relazione. Anche io, appena uscito dall’ISIA nel 1987, avevo preso un accordo con Massimo per entrare nel suo staff, ma dovevo svolgere il servizio di leva obbligatorio e perciò ci demmo appuntamento a dodici mesi dopo. In realtà le cose andarono diversamente perché decisi nel febbraio del 1988 di fondare uno studio a Rimini insieme a Franz, compagno di studi e di appartamento a Urbino dal 1982 al 1986. Era un sogno che stava solo in parte diventando realtà sul quale in quegli anni spesso avevamo scherza15

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to insieme con altri amici che però hanno preso altre strade: Michele Mariani è ora art-director per Armando Testa e Daniele Ricco è un affermato pittore. Ricordo come fosse ieri la telefonata che feci a Massimo Dolcini da una cabina di Roma, dove svolgevo servizio presso gli uffici della Rivista Militare, per informarlo della mia rinuncia. Ero un po’ timoroso, perché mi sembrava una scelta “sgarbata”, quasi un tradimento per essermi tenuto caldo un posto per undici mesi, ed anche una decisione un po’ avventata perché stavo rifiutando una collocazione ambita da tanti giovani grafici neodiplomati. Massimo era un comunicatore eccezionale, con una sensibilità particolare, che purtroppo ho potuto apprezzare soltanto negli ultimi anni della sua vita. Del viaggio fatto insieme in Egitto all’inizio del 2005 ho ricordi molto belli: il suo entusiasmo quasi infantile di fronte ai profumi e ai colori delle spezie mi ricordavano molto Michele Provinciali. Ripenso con particolare affetto ad un confronto che abbiamo iniziato sulla fede, che trattavamo a puntate nei momenti di attesa, con la promessa di ritagliarci del tempo per parlarne in maniera più approfondita al ri- Egitto 2005: io, Franz, Massimo e Franco torno dal viaggio. Purtroppo il discor- Mariani direttore dell’ISIA fino al 2007 so è rimasto in sospeso per la sua improvvisa morte quattro mesi dopo, evento che in parte ha contribuito a distaccarmi dall’ISIA.

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L’ISIA, oltre ad essere uno dei più prestigiosi istituti di graphic design internazionali, è un luogo dove è possibile tessere relazione fantastiche con le persone. Io ho avuto la possibilità di provarle sia come studente dal 1982 al 1986, sia come insegnante dal 1997 al 2009. Io sono una persona che fa molta fatica a buttare le cose: penso sempre che un giorno possano servire. Ad esempio conservo fin dagli albori di internet tutte le email ricevute e inviate. In questo caso la scelta si è rivelata importante perché mi ritrovo con una sorta di pozzo immenso a cui attingere per riflettere e scrivere, anche un libro come questo. È come se avessi un diario pieno di arricchenti riflessioni di tanti amici. Di Massimo Dolcini, ad esempio, ho numerose email, perché era uno di quei colleghi che aveva la signorilità di rispondere sempre, sia che si trattasse di appunti sull’ISIA, sia che fossero semplici auguri che di tanto in tanto a me piace inviare condividendo pensieri, diciamo così, di natura esistenziale: # Carissimo Walter ho ricevo il tuo pensiero di Pasqua. Sono favorevolmente sorpreso della tua esternazione di fede, di dubbio, di ricerca della serenità e di tensione. Non so se questo sia un dono della fede o un trucco di Dio ma certamente questa è la vita. Quindi cento di queste Pasque. Buona Pasqua anche a te. Massimo #

Condivido questo saluto di Massimo, piuttosto che farvi vedere una delle sue innumerevoli produzione grafiche, proprio perché è attraverso queste pennellate nascoste che si ridà un volto alle persone per andare oltre alle solite immagini peraltro facilmente raggiungibili con Google.

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Al di là di questa simpatica parentesi vi riporto un altro paio di sue email che aiutano moltissimo a dire qualcosa in più dell’ISIA: scuola veramente unica. Non sono relazioni, ma appunti corposi e importanti, nella loro versione integrale e originale come mi sono arrivati. La prima è del 2003 quando l’Istituto stava riflettendo sulla opportunità di realizzare tre mostre-convegno su Steiner, Provinciali e Hohenegger. In questa email, che potete leggere toccando la bustina sotto, Massimo ne illustra le possibili caratteristiche e contemporaneamente ci aiuta a comprendere la sensibilità di questi tre maestri e l’influenza che hanno avuto sulla Scuola urbinate. Da: Massimo Dolcini Oggetto: ISIA Mostra Data: 7 ottobre 2003 13:18 L’ISIA di Urbino ha intenzione di realizzare tre mostre, con un’ipotesi di convegni o seminari, su tre maestri della grafica italiana e internazionale: Michele Provinciali, Albe Steiner, e Alfred Hohenegger. Michele Provinciali: La didattica dei sentimenti Albe Steiner: La ragione e l’etica Alfred Hohenegger: Il metodo e la cultura I tre maestri sono stati insegnanti “di peso” nella scuola di Urbino. Le tre mostre sono quindi da intendere come un percorso che dovrebbe collegare le tre personalità al fine di tentare di tracciare l’identità della scuola di grafica che è stata e resta tuttora la più prestigiosa in Italia. La relazione tra le tre personalità non è stata, all’ISIA, né organica né consequenziale, soprattutto dal punto di vista dei contenuti didattici. Per cui ritengo che sia utile prevedere tre mostre separate per non confondere i percorsi didattici personali che in realtà sono nati autonomi, condotti in tempi diversi o, se sincroni, indirizzati a fasce di ascolto diverse. Albe Steiner era stato, dal 1953 al 1970, coordinatore didattico unico per tutti e tre i corsi del Csag, quindi colui che ne ha determinato la strategia progettuale fondativa; Michele Provinciali si è soprattutto dedicato alla formazione degli allievi ‘alle prime armi’, quindi nel primo e secondo anno di scuola,

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realizzando appositamente un corso propedeutico molto coinvolgente e che in parte viene ancora svolto all’ISIA, se pur riveduto e corretto. Alfred Hohenegger ha invece insegnato ‘immagine coordinata’, simbologia e segnaletica nel terzo e quarto anno dell’ISIA; ha preparato gli allievi al mestiere del grafico iniziandoli alla professione e al mercato reali. I tre autori dovranno essere quindi analizzati sia per il loro lavoro di progettisti, sia per il loro rapporto con le grandi correnti culturali nazionali e internazionali ma anche per la loro formazione scolastica, i loro programmi, il loro rapporto con gli studenti nonché per le loro scelte di vita e per la loro umanità: fattori, questi, che inevitabilmente vengono trasmessi agli allievi dentro e fuori la scuola. Infine dovremmo indagare su come tutti questi aspetti si siano tra loro intrecciati nella stessa scuola. Sarà inevitabile sviluppare, all’interno delle tre mostre, alcune considerazioni sulla figura del “maestro” poiché tutti e tre gli insegnanti, pur con diverse sfumature e consapevolezza, si sono offerti e sono stati considerati come tali dagli allievi. [...] Massimo Dolcini

L’email completa la trovate in appendice al libro. Leggetela e date un’occhiata anche alla email successiva: un lungo intervento che Massimo fece in un forum che avevamo aperto per riflettere insieme agli studenti sul futuro della Scuola. Analizzando i punti di forza e di debolezza dell’ISIA, descrive molto bene l’Istituto e testimonia il suo attaccamento alla Scuola e la bella relazione che aveva con gli studenti. Dall’ISIA di Urbino non sono usciti solo grafici nel senso stretto del termine (ma poi grafico cosa vuol dire?), ma anche fotografi importanti, illustratori che hanno avuto riconoscimenti a livello internazionale grazie alla passione e grande umanità di insegnanti come Antonio Battistini, amatissimo docente di “Metodi e mezzi di rappresentazione”, mio relatore di tesi, a cui ho pensato di dedicare questo libro per l’affetto e la riconoscenza che provo nei suoi confronti. Tony, come veniva chiamato dagli amici, 19

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è scomparso pochi mesi fa, lasciando un vuoto immenso in chi lo conosceva. Persona eccezionale che ho voluto definire “maestro di luce”, sia per quella riflessa nei tuoi quadri, sia per quella risplendente nella sua persona; uomo capace di amare e di grande fede che ha usato per scalfire anche la mia incredulità. Tra un consiglio pittorico, un paziente richiamo a come muovere la mano per un segno gestuale, non disdegnava parole di saggezza profonda, che gli permettevano di aprire varchi nel profondo delle coscienze. “A te prima o poi il Signore ti pizzica” – mi diceva. A distanza di anni posso affermare che Antonio è stato un buon profeta, che mi ha aiutato a muovermi tra i misteri che accompagnano i miei pensieri. A volte mi vien da ringraziare il Signore (ho scritto un libro per questo), altre volte faccio molta più fatica a sentirmi su questa lunghezza d’onda: del resto se così non fosse non mi farei chiamare Walter Valter. Sicuramente un forte senso di gratitudine dovrei manifestarlo per i giorni passati vicino ad Antonio, nell’aiutarlo ad organizzare la bella mostra di amici incisori intitolata “Arte come dono”, che Tony ha fatto appena in tempo ad inaugurare prima di lasciarci dopo la lunga malattia. Quando gli ho proposto questo titolo, si è entusiasmato come un bambino. Non faceva che ripetere quanto gli sembrava geniale l’idea, manifestando una di quelle caratteristiche che invidio ai grandi maestri come lui: lo stupore. Se fossero esistite le gare di “stupore e meraviglia” il campionato lo avrebbe vinto di certo Pino Parini, “turista dell’esistenza” come gli piaceva definirsi, insegnante di una materia con un nome assai curioso: gestaltica. Parini con i suoi entusiastici “Ah, bellissimo!” è una persona senza tempo, capace di astrarsi in discorsi al limite tra arte, scienza e cibernetica che su di me, giovane studente, esercitavano un notevole fascino. Anche con Michele Provinciali capitava di vedere i suoi occhi fermarsi, ingigantiti dalle spesse lenti degli occhiali, e sentirsi dire “ferma tutto!”

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perché improvvisamente aveva trovato un’idea interessante, magari in maniera casuale. Michele mi pare lo chiamasse ironicamente il fattore “k”. Erano i primi anni di Kaleidon, lo avevo al mio fianco per progettare il “Festival della buona tavola” di Bellaria. Lavoravo al computer e ad un certo punto mentre muovevo e combinavo le cose sul monitor, saltò sulla sedia come avesse avuto un’apparizione, e quello che per me era un errore, lo bloccò in un simbolo che ci valse il premio Conqueror a Londra nel 1990. Disegno con cui abbiamo fatto anche un meraviglioso piatto in ceramica prodotto dalla bottega faentina “Gatti”. Da quando esiste l’ISIA si sono succeduti tantissimi bravi insegnanti che ne hanno fatto un Istituto di eccellenza, di fama internazionale. Su molti di loro, come su tanti esperti intervenuti in memorabili seminari e workshop, si potrebbero scrivere pagine intere. Questo prestigio in verità non è merito soltanto di chi insegna, ma anche Alcuni insegnanti dell’ISIA 2002-2003, fotografati per il sito di quei venticinque studenti che ogni internet. anno vengono selezionati e che riescono a creare una atmosfera magica che ancor oggi si respira in quell’antico monastero urbinate di Santa Chiara; una miscela creativa dovuta al rapporto e al confronto costruttivo fra giovani intellettualmente sempre vivaci e pieni di curiosità.

CURIOSITÀ> 21

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2 IDENTIKIT DI UN GRAFICO Curiosità e osservazione sono elementi base 
 e fondamentali per un grafico.

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Mia madre mi racconta che quando ero piccolo, molto piccolo, capitava che la spaventassi con improvvise urla entusiastiche tipo: “Mamma hai visto che hanno cambiato quell’insegna!” Avevo una particolare propensione per la segnaletica stradale e i semafori, che in effetti disegnavo anche nei giardini delle case al posto delle piante. Qualcosa mi ricordo di quella particolare curiosità e spirito di osservazione che in qualche modo presagiva una professione. Durante le scuole elementari ero infastidito da chi disegnava male i caratteri sbagliando gli spessori delle aste, per esempio quella centrale della “N” o la curva della “S”. Provavo una certa emozione di fronte ad una bella “R”, alla sua gamba destra quando era evidenziata come in certi lapidari romani. Ho iniziato molto presto a ricopiare caratteri. Mi divertivo un sacco a scrivere il listino prezzi del bar che gestiva mio padre, gli dedicavo sempre molta cura e attenzione, anche perché veniva incorniciato ed esposto per essere visto da tanta gente. Ed io sono sempre stato un po’ ambizioso, mi piacevano i complimenti per la buona mano che avevo. Otello Vitali, il mio maestro delle elementari, mi fece addirittura dipingere una intera parete della classe in cui rappresentai Gigi Riva in dimensioni naturali mentre calciava col 23

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potente sinistro. L’affresco, se così vogliamo chiamarlo, ricopriva tutto il fondo dell’aula perché disegnai pazientemente anche il pubblico dello stadio con le pubblicità ai bordi del campo. Era inevitabile che dopo le scuole medie iniziassi l’Istituto d’Arte di Urbino, come suggerito da Marisa Zoni, la professoressa di lettere, poetessa amica di Volponi e di alcuni maestri incisori insegnanti della prestigiosa “Scuola del libro”. Ma tra mal di autobus e scioperi frequenti, la stanchezza prevalse e cambiai scuola dopo solo un mese in favore del liceo scientifico della mia città. In realtà la goccia che fece traboccare il vaso, fu l’affermazione di un insegnante di incisione che un giorno disse che per essere artista non era necessario essere bravi disegnatori. Oggi posso capire che dietro quella affermazione potesse esserci un messaggio interessante, una provocazione degna di riflessione, ma ad un ragazzo di quattordici anni, abbastanza pieno di sé per le riconosciute capacità, quella frase diventò un pretesto, una intima conferma che era meglio cambiare scuola. È andata bene così, la fortuna non mi ha girato le spalle, e grazie ad un amico, Tiziano Cremonini, oggi illustratore “spaziale” di fama, sono venuto a conoscere l’ISIA di Urbino. Ho capito che quella era la mia strada, il luogo per “conservare lo spirito dell’infanzia”, come direbbe Bruno Munari, ma che aveva però il grande problema della “porta stretta”: solo 25 studenti vengono presi su centinaia di pretendenti. È molto probabile, anzi quasi certo, che chi arriva ventiseiesimo possa avere capacità superiori a chi lo ha preceduto, ci vuole sicuramente fortuna nella selezione. Ma è altrettanto vero che sentire dentro di sé un trasporto verso questa professione, qualcosa al limite della vocazione, ti dà una forza che aiuta la fortuna ad esprimersi. Arrivai all’esame per entrare all’ISIA che già, grazie a Tiziano, conoscevo molto di quella scuola, compresi i suoi insegnanti: di Umberto Fenocchio sapevo già le tavole a tempera nera che avrebbe richiesto, ma ave-

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vo già sentito anche del suo carattere (in quanto disegnatore di font il termine mi sembra quantomai appropriato). Questa mia conoscenza ha certamente aiutato la mia prestazione di fronte alla commissione: ero contento di dare un volto a nomi che già conoscevo, Battistini, Bernini, Marrè. In realtà proprio quest’ultimo, nella sua prima lezione, mi confidò che avevo fatto colpo sulla commissione più che altro per la passione per la musica e come contrabbassista. Valle a capire le commissioni d’esame! Per questo non è facile dare consigli, anche se in un certo senso, benché l’ISIA abbia subito negli ultimi tempi notevoli cambiamenti, con questo libro desidero ricambiare l’aiuto ricevuto da Tiziano per passare il testimone a qualche giovane che riconosce in sé le attitudini di grafico. Identikit di un grafico Uno degli errori frequenti, quando si vuole descrivere qualcosa, è dare per scontato che l’interlocutore abbia già gli elementi utili alla comprensione. Infatti, pur avendo dato alcune pennellate per delineare le caratteristiche del mestiere che faccio, mi rendo conto che qualcuno possa dire: “Interessante, ma ancora non ho capito bene che lavoro fai”. E già! Bel problema questo. Non so se Paolo, mio padre, sia salito in cielo ben consapevole di che lavoro facesse suo figlio. La parola “grafico” sembra avvolta da qualcosa di nebuloso che non rende chiaro il termine a chi non è del mestiere. Ma anche chi fa questo lavoro, ama organizzare incontri e convegni per trovare la propria identità professionale messa in crisi dalle evoluzioni tecnologiche, dai mutamenti dei processi comunicativi in cui siamo immersi. Proviamo a dare una risposta a queste domande: Chi è e cosa fa un grafico? Anzi quale è la giusta definizione di questo mestiere? Dire “grafico” è corretto? Cosa è scritto nella mia carta d’identità? 25

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Intorno al mio lavoro ho sentito affermazioni imbarazzanti fatte anche da persone di cultura, presidi, dirigenti, facendomi sentire nel disagio di spiegare aspetti molto superficiali del mio mestiere e con la sensazione di non essere compreso. Se dico architetto tutti immaginano qualcosa, mentre se dico “grafico”, soprattutto in Italia, le idee sono confuse. E quando ad un nome non coincide un concetto definito, qualcosa che si possa immaginare con chiarezza, mi sento spronato a studiarne le cause. I motivi non sono semplici. Certamente vi sono ragioni culturali, che hanno influenzato le arti figurative soprattutto in quei paesi che per primi si sono industrializzati, dove ad esempio, il concetto di “corporate identity”, di immagine aziendale coordinata, è divenuta una necessità comunicativa. Forse potremmo avventurarci a considerare aspetti più profondi che hanno creato un sensibilità particolare nei paesi anglo-sassoni, come il valore della scrittura, della parola in rapporto alla propria fede, ma non vorrei addentrarmi in terreni in cui potrei rischiare di dire castronerie. Sta di fatto che, se andate in Germania o nel Regno Unito, anche la più semplice insegna di un salumiere risulta impeccabile nel lettering, nello stile grafico, mentre da noi questa sensibilità non è certamente così diffusa. Del resto, fin dalle scuole elementari, il valore che un tempo veniva dato alla calligrafia è andato completamente perso, mentre non so se sia vero, ma in alcuni paesi del nord Europa viene ancora valutata dagli insegnati con un voto. Ragioni culturali quindi, che non giustificano, ma anzi sono una aggravante per un paese come il nostro che è culla dell’arte, e che comunque con Dudovich, Seneca, Testa e Munari ha avuto dei meravigliosi esempi di grafica pubblicitaria.

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Vi è poi un altro motivo che può spiegare la difficoltà a descrivere il lavoro del grafico: i cambiamenti velocissimi delle tecnologie e dunque delle tecniche. Questo può valere per tutte le professioni, ma nella comunicazione questi mutamenti non solo modificano il processo di elaborazione di un progetto, ma cambiano in maniera consistente anche le abitudini, le esigenze e i ritmi dei destinatari, il cosiddetto target di una comunicazione. Mi spiego: quando ho iniziato a lavorare, realizzare manifesti, impaginare libri e brochure era una delle principali attività. Anche oggi si fanno manifesti, libri e brochure, e per progettarli si utilizzano computer. I computer però non sono solo uno strumento con cui si è reso più veloce il lavoro, ma insieme a tanta altra tecnologia hanno dato vita ad una molteplicità di nuovi mezzi di comunicazione così che oggi manifesto, libro e brochure sono diventati, più di un tempo, uno dei tanti strumenti per comunicare. In altre parole nella comunicazione, più che in altri ambiti, la tecnologia è contemporaneamente strumento e fine. Si è iniziato in maniera rudimentale alla fine degli anni Ottanta: noi di Kaleidon nel 1996 siamo stati segnalati da Macromedia per un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole sul problema dell’AIDS. Una campagna che giocava sul “contagio positivo” delle informazioni in cui si invitavano i ragazzi a copiare e diffondere attraverso il floppy-disk una presentazione ani27

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mata e interattiva realizzata con Director. Fu per noi una sfida, neppure il committente ci credeva più di tanto, ma finì che alla conferenza stampa di presentazione si parlò più del floppy che di altro. L’evoluzione ha poi portato a lavorare per CD-Rom, internet, DVD, arrivando oggi a strumenti come gli iPad. Sono esempi questi per dire che l’attività del grafico è realmente molto fluida e chi come me è particolarmente attento alle tecnologie, si è spesso sentito chiedere se fosse informatico, programmatore. Il problema è proprio questo: benché il grafico sia essenzialmente un “progettista” della comunicazione, viene confuso con i mezzi che utilizza per comunicare. Se dici che progetti poster c’è chi ti chiede se hai una serigrafia – ammesso che si sappia cosa sia una serigrafia – se impagini libri la domanda è se hai una tipografia o se sei un fotografo. E quando spieghi che non produci, ma che pensi e progetti, allora ti rispondono: “Ah, ho capito: sei un pubblicitario!” Ecco, vuoi fare arrabbiare un grafico? Dagli del pubblicitario! È un po’ come dare dello psichiatra ad uno psicanalista. Lavorano entrambi negli stessi ambiti, a volte coincidono, ma partono da approcci diametralmente opposti. C’è molto terreno in comune, ma sono spesso così differenti che sembrano essere agli antipodi. È facile che un grafico appaia più simpatico, come fosse disinteressato ai numeri, alle statistiche e ai soldi, più vicino e sensibile alla cultura, alla comunicazione come espressione umana e artistica, tanto che al grafico si concede facilmente di presentarsi alle riunioni importanti vestito come vuole. Capite bene che ho esagerato, la realtà è molto più confusa, per fortuna. Come esistono psichiatri che sono anche bravi psicanalisti, sono esisti-

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ti pubblicitari come Armando Testa che erano fondamentalmente degli artisti, che hanno regalato pezzi veramente unici alla grafica. La pubblicità non può fare a meno della grafica, come non ne può fare a meno l’editoria, l’imballaggio, la segnaletica, il cruscotto di un auto, il pannello di un elettrodomestico, l’interfaccia di un sito, di un iPad, come un programma televisivo o il cinema. Ecco allora, per concludere, una mia definizione di grafico. Il graphic designer è solitamente un curioso, spesso appassionato di scienze umane quanto di tecniche e tecnologie, con una spiccata sensibilità rispetto a ciò che vede e sente. Il graphic designer è un progettista attento alle diverse forme di comunicazione visiva, a cui piace giocare con caratteri, immagini e colori non per un semplice formalismo estetico, ma per mettersi a servizio di coloro che hanno bisogno di promuovere le proprie idee, di organizzare contenuti o di dare indicazioni in maniera chiara ed efficace. Per un graphic designer saper disegnare bene è molto utile, saper fotografare sarà di grande aiuto, anche se poi nella professione entrambe le attività diventeranno più un hobby. Ma saper apprezzare i diversi stili con cui si può realizzare una illustrazione, capire le problematicità che ci sono dietro una scatto fotografico, dà al graphic designer la possibilità di assumere il ruolo di art Director. Art Director per una rivista, una agenzia pubblicitaria, un programma televisivo, una web-agency, ma anche di una azienda. La grafica è spesso arte che scruta le persone da vicino, si nutre di estetica, ma la funzionalità è il suo compito, per questo la grafica è design allo stato puro. Funzionalità delle informazioni, funzionalità della comunicazione. Oggi sempre più spesso la differenza tra un grafico e l’altro, che diventa poi il motivo per cui si viene scelti, non è tanto quello di dare risposte 29

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estetiche particolari, ma quella di trovare soluzioni di organizzazione dei contenuti che sono il frutto di lunghe discussioni, che aiutano il committente innanzitutto a capire meglio sé stesso e definire la propria identità, non solo quella visiva, anche se poi il lavoro finale sarà quello di trasferire tutto in immagini. È sempre stato così, ma oggi è ancora più evidente, tanto che tra le definizioni usate per accompagnare il nome di uno studio grafico c’è anche quella di strategic design. Proprio per questo è importante che il grafico abbia capacità visionarie sostenute da una propensione alla soluzione tecnica dei problemi. Senza estremizzare questo concetto credo che io e Franz abbiamo resistito 25 anni insieme perché in una qualche maniera ci siamo completati in questi ambiti di creatività e tecnica.

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CREATIVITÀ 
 E TECNICA>

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3 CREATIVITÀ E TECNICA La creatività è certamente una miscela 
 di capacità espressiva e capacità tecnica, e il confine tra queste 
 è un argomento molto interessante.

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Prima di terminare questa prima parte del libro fatta di memorie vere, quelle inserite in quel meraviglioso processore che assomiglia ad un cavolfiore racchiuso nella nostra scatola cranica, desidero approfondire un altro aspetto che, detto da uno appassionato di tecnologia come me, potrebbe apparire contraddittorio. Albe Steiner sosteneva che alla creatività non servono molti strumenti per esprimersi. Anzi, proprio in una condizione di minor disponibilità di mezzi possono venir fuori risultati migliori. Possiamo dargli torto? Assolutamente no. Alla quantità di strumenti non corrisponde certamente maggior creatività, proprio come alla quantità di oggetti non corrisponde la felicità: e per fortuna! In effetti quante volte mi son trovato di fronte al mio monitor a scrutarlo come fosse lo specchio di Biancaneve alla ricerca di una idea che solo dalla testa, mia o dei miei collaboratori, poteva uscir fuori. E se per Biancaneve quello specchio non era più un semplice strumento per truccarsi, ma di “riflessione” e “ragionamento”, quanti rischi corre un grafico come me di stringere il proprio campo visivo al monitor che ha di fronte? Ma è poi così importante avere tutta questa conoscenza tecnica? Soprattutto oggi, con strumenti 33

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informatici (visivi) nelle nostre tasche, il confine tra saper vedere, saper pensare, saper fare si è in realtà trasformato in un solco profondo? Come dovrebbe rispondere una scuola di alto livello come l’ISIA a tutte queste sollecitazioni? Domande che mi hanno coinvolto in maniera molto forte perché, nei dodici anni di insegnamento, mi sono spesso sentito chiamato in causa come docente, con una disciplina attraverso la quale desideravo aiutare gli studenti ad avere massima padronanza di uno strumento. Già nel 1998 nel mio libro scritto per gli studenti, Vuota il cestino avevo inserito questo appunto: Chiunque volesse divertirsi a suonare uno strumento musicale deve necessariamente passare per la strada del solfeggio e ripetere scale su scale. Così è per il computer. Benché la mela colorata ci abbia aiutato a rendere più simpatico un mondo fatto sostanzialmente di numeri, anche per utilizzare un Macintosh è necessario avere almeno una conoscenza di base di come è strutturato e funziona. Non bisogna essere laureati in informatica, perché sarebbe come dire che per essere un buon violinista si deve essere anche un buon liutaio. Ma conoscere lo strumento, con che materiale è fatto, che regole stanno dietro il suo funzionamento, questo sì. So che Steve Jobs si arrabbierebbe molto di fronte a questa affermazione, perché la sua filosofia ideativa, sia che fosse un Mac, o un iPhone, era quella di far sentire trasparente la tecnologia, ma a mio parere è difficile negare che anche il mondo Apple, massima espressione del concetto di usabilty, non sia immune da difficoltà tecniche.

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Come dicevo, si tratta di un argomento sul quale mi sono trovato a ragionare in diverse circostanze, soprattutto quando ho sentito messo in discussione il mio ruolo di insegnante. Ho vissuto momenti di disagio nei confronti di docenti che mal sopportavano la prepotente e veloce invasione di campo delle tecnologie, come se queste togliessero spazio alla progettualità, alla fantasia, alle idee. In una scuola in cui si insegna a pensare e progettare, cosa ci sta a fare una materia così tecnica? È proprio necessario un insegnante che ti dice che con il mouse non si fa “brum brum” come fosse una macchinina, ma lo si muove per ottenere determinati risultati? Non potrebbero bastare dei buoni manuali? Confesso che alla fine del 2009 ho deciso di lasciare l’ISIA con grande dispiacere perché tra i tanti cambiamenti in atto percepivo prospettive non in sintonia con questo mio pensiero. Non sono mai certo delle mie idee, ammetterlo potrebbe essere una buona base per essere tolleranti. Purtroppo in alcuni casi può diventare insicurezza o far sì che le risposte siano determinate da comportamenti istintivi, nel mio caso addirittura conseguenti ad un certo grado di permalosità. Era il 2001 quando scrissi ai colleghi questa email un po’ stizzita in cui emergono alcuni di questi ragionamenti. Da: Valter Toni Oggetto: Re: Collegio Docenti Data: 22 maggio 2001 11:05:09 Il consiglio dei docenti a me produce un effetto anestetizzante verso qualsiasi forma di comunicazione verbale. Sicuramente è anche colpa mia. Ma chi come me non ha spiccate capacità oratorie si sente a disagio quando vive la sensazione che gli interlocutori ascoltino solo se stessi, per rimanere aggrappati alle proprie sicurezze, alla propria realtà spesso virtuale (pur senza computer). A questo aggiungo un altro disagio: possibile che ogni occasione d’incontro, ad ogni discussione di tesi ne devo uscire con i sensi di colpa perché io mi diverto a lavorare col computer? Possibile che tutte le volte che si parla di web, di digitale mi sembra di essere circonda35

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to da monaci amanuensi che stanno discutendo se per colpa di Gutenberg prima o poi chiuderanno tutti i monasteri? Questo mondo può non piacere, ma sta cambiando. Dopo il carattere mobile, la fotografia, oggi la rivoluzione è l’elettronica. Non piace? Pazienza. A me l’anno scorso la Mondadori ha chiesto consulenze su “digital corpored identity”, normative per come coordinare l’immagine digitale. Lineagrafica continua a sfornare numeri monografici su web, interfaccia, digitale ecc. Allora cosa è la grafica oggi? A volte mi sembra che ci sia un aggrappamento a considerazioni per far diventare l’ISIA una sorta di agriturismo della grafica dove possono essere riscoperti i sapori antichi della tipografia. Se questo è il piano chiaro, definito, voluto, io potrei essere uno dei primi ad essere interessato, ma non mi pare che rispecchi l’effettive esigenze della comunicazione visiva di oggi. Mi chiedo: quale scuola si prepara a rispondere a Kataweb a l’Espresso ecc. ecc.? Firenze? Faenza? Roma? Europeo Design? Se è vero che non esistono in Italia scuole di fotografia, di pubblicità, questo è ancor più vero per il digitale. Basta vedere i risultati che ci circondano. Mi son fatto prendere la mano e corro il rischio di essere frainteso, forse deriso, anche perché io non ho le idee chiare. Io sono sicuro di essere affezionato alla carta, al profumo dell’offset più di altri che osteggiano il computer. Però la mia provoc-azione viene da una MIA sensazione, che forse nascerà da motivi personali, forse da una mancata empatia con le persone che compongono il corpo docente, ma comunque io la vivo. Le emozioni non sono ne giuste ne sbagliate, si hanno e basta. Sono dei segnali che vanno interpretati. Io le ho volute condividere per crescere con l’ISIA che amo, con voi e con gli studenti che sono il frutto della scuola. Con affetto

Come sempre Massimo Dolcini non si fece attendere e questa fu la sua risposta. Da: Fuorischema Data: Thu, 24 May 2001 16:26:59 +0200 A: Valter Toni Oggetto: da massimo dolcini A contributo scritto, risposta scritta… Caro Toni, mi hai obbligato a scriverti, anche se mi piacerebbe tanto che certe cose ce le dicessimo anche a voce, perché mi piacerebbe risponderti an-

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che con gli occhi e interagire colloquiando. Anche questo è un piacere. Ma se confermi che “scripta manent”, ti seguo anch’io. Credo di aver capito cosa mi hai scritto e sento di essere, in un certo senso, d’accordo con te. Ma credo che anche tu sia per il “primato del progetto”. Se così non fosse dovremmo insegnare in una scuola professionale. Ricordati le parole di Michele: un buon grafico è colui che progetta con le idee e si serve della matita o della tecnologia per palesarle, ma sono le idee che contano. Steiner e Provinciali hanno sempre privilegiato il grafico intellettuale al grafico tecnico. Questo non vuole dire che un buon grafico non debba conoscere la tecnica, anzi proprio il contrario, ma è la sua capacità di superarla che lo rende interessante. Nanni Valentini e Franco Bucci, che credo siano i due più importanti ceramisti italiani degli ultimi anni, non sanno tornire. Ma sanno guidare un torniante con la loro voce e con il disegno. La nostra scuola deve preparare dei progettisti. Oggi il progettista grafico si trova spesso al centro, come perno, del mondo della comunicazione. Gli si chiede non solo di progettare ma anche di guidare la progettazione di tutti coloro che coinvolgerà nel suo lavoro. Per sua natura non potrà essere mai uno specialista. Se lo fosse dovrebbe scendere in profondità in una sola materia e si posizionerebbe subalterno al direttore dei lavori. Io credo che il momento dell’apprendimento tecnico sia importante, fondamentale nei primi anni della formazione, quindi a scuola, ma di seguito è lo spessore umano che segnala l’autore. Quindi: ben venga la tecnica, ma anche l’umanità, che è una miscela di conoscenza, coscienza ed esperienza. Per la tecnica serve la scuola, per l’umanità serve la vita. Tutti, prima o poi, dobbiamo attraversare il deserto. E dipenderà da come ne usciremo vivi per farci capire chi siamo e cosa vogliamo. Sarei contento, comunque, se mi scrivessi ancora, ogni volta che senti il desiderio di farlo, mi piacerebbe approfondire l’argomento, dato che a scuola non ci vediamo mai, magari coinvolgendo anche Franz. Buon lavoro. Massimo

Regalo meraviglioso di Massimo, che alimentò ulteriormente il desiderio di capire come stava evolvendo un mestiere. 37

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Non a caso nel 2003, insieme ad Andrea Steinfl, l’amico del cuore conosciuto alla Rivista Militare nel 1987 e che da 25 anni mi stimola a guardare sempre oltre la punta del naso, un altro di quelli che come Provinciali, Dolcini, Battistini, ha la capacità di stupirsi e di entusiasmarsi anche difronte alle piccole cose, organizzammo un meraviglioso workshop all’ISIA di Urbino dal titolo: Blackout Circus. Una settimana intera di riflessioni, progetti e creatività in assenza di corrente elettrica. Potete immaginarvi lo sbigottimento degli studenti il primo giorno, tenuti all’oscuro dello svolgimento. Non potete invece avere la minima idea degli entusiastici risultati, sotto vari punti di vista, a cominciare da quello umano. Ma non dubitavo certamente di questo, perché ciò era accaduto anche nei precedenti workshop di Andrea, quello del 1997 sulla multimedialità “grafica in assenza di peso” di cui trovate un resoconto nella email in appendice al libro, e quello del 2001, sulla disubbidienza “requisito essenziale per addentrarsi nei nuovi spazi di comunicazione e interazione globale”. Per quanto fosse divertente non è mai stato facile addentrarsi in questo tipo di avventure: a volte ci si rendeva conto di essere come bambini che “gattonavano” alla ricerca di nuove piste, nuovi linguaggi del comunicare che ancora erano privi di grammatica.

Fate i bravi, non state troppo davanti al computer :-) Col rischio di banalizzare il problema, permettetemi di fare alcune considerazioni semplici, che possono mettere in guardia i giovani progettisti grafici da pericoli che nascono dallo stare tanto tempo di fronte al monitor. 38

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Quando all’inizio della nostra attività decidemmo, tra i primi studi, di acquistare un potente Mac, con una delle prime stampanti laser in commercio, la prassi del nostro lavoro prevedeva frasi del tipo: “vado al computer”. Un po’ come qualsiasi altro strumento lo si riteneva utile per certe determinate funzioni, soprattutto tipografiche. Oggi invece si passa la maggior parte del tempo, spesso l’intera giornata, davanti al computer e perciò uno dei pericoli più frequenti è sicuramente quello dell’isolarsi in maniera eccessiva dal contesto lavorativo, ma anche, visto dal punto progettuale, dell’astrarsi a tal punto che tutto inizia e tutto finisce dentro quel monitor. È sempre più facile oggi iniziare a progettare direttamente al computer. Questo non mi scandalizza: come in qualsiasi professione le prassi in vent’anni sono profondamente e inevitabilmente cambiate. Le idee ognuno se le fa venire come meglio crede, ma è bene però porre molta attenzione al processo e non rimanere ingannati, intrappolati, rischiando di ottenere, anche per banali motivi tecnici, dei risultati sbagliati e deludenti. Concentrati sempre sul rettangolo del nostro desktop si può rischiare di non immaginare in maniera corretta il prodotto finito per quello che sarà. Le sorprese a cui andremo incontro potranno essere davvero spiacevoli: può succedere con un manifesto, con un libro, ma anche con una presentazione che verrà videoproiettata in un salone poco oscurato. Quante volte ciò che appare sul nostro monitor, super calibrato, iper definito, ultra costoso, rischia di essere depresso da una carta altrettanto costosa, ma che assorbe molto l’inchiostro, oppure da un proiettore con una lampada poco luminosa in una sala che non si riesce ad oscurare adeguatamente. Ho diversi esempi di pericoli sventati in extremis, che riprenderò nel capitolo dedicato alla fase produttiva.

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Se quindi può essere per qualcuno la scelta giusta iniziare con un bel bozzetto di carta, non va mai dimenticato che in molti casi il lavoro finirà comunque sulla carta, ad esempio di un poster per catturare l’attenzione di un distratto automobilista fermo ad un semaforo. È sempre corretto contestualizzare il prodotto nel suo ambiente e non accontentarsi neppure di un ok dato dal cliente dopo aver visto un PDF: può accadere che in seguito cambi giudizio per la difficile lettura di quel manifesto affisso accanto a tanti altri. Altri pericoli, tipici degli smanettoni come me, sono: quello di provare una sorta di godimento sul processo, di come tecnicamente abbiamo raggiunto un certo risultato, dimenticandoci che questo sarà del tutto trasparente al destinatario della comunicazione; oppure essere talmente rigidi sulle prassi di sviluppo, quelle corrette suggerite dal manuale, da essere più attenti ad avere file puliti e leggeri, rispetto alla qualità del risultato finale stampato. A volte sono proprio alcune trasgressioni, che come professore avrei potuto chiamare “errori”, che invece danno spessore alla comunicazione. Il fine del nostro lavoro, non è realizzare file perfetti, ma comunicare!

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4 COMUNICARE La comunicazione è una caratteristica peculiare dell’essere umano: potremmo scrivere libri su libri toccando temi filosofici, psicologici, sociologici e religiosi scomodando persino la Santissima Trinità.

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Negli ultimi anni la comunicazione è un argomento che mi ha affascinato moltissimo perché studiandola è possibile capire meglio anche la storia, soprattutto quella del secolo scorso, essendo la comunicazione diventata a tutti gli effetti una forma di potere, trasversale al potere politico e al potere economico. Un potere diluito, per citare il titolo di un libro, forte nei regimi totalitari, come anche nelle moderne democrazie dove il risultato delle elezioni è determinato da un ristretto numero di persone indecise, che possono oscillare da una parte all’altra il giorno prima del voto. Ma ancor di più sono interessato ad approfondire questi temi perché, partendo dalla consapevolezza che “è impossibile non comunicare”, si riesce a conoscere meglio la propria identità e qualche volta anche a risolvere alcuni conflitti con sé stessi e gli altri. Se non mi fossi impegnato con mia moglie a migliorare la comunicazione, sono sicuro che la nostra relazione sarebbe stata molto più difficile e mi chiedo come avremmo potuto superare i momenti più faticosi della vita senza aver cercato di mettere in pratica l’elemento base di una buona comunicazione: l’ascolto. Se mi lascio andare sul tema dell’ascolto potrei scrivere due capitoli interi, di come questa virtù esercitata male crei grovigli e tanto malessere. Un detto irlandese dice che abbiamo una bocca e due orecchie, perché dovremmo ascoltare il doppio di quanto parliamo, mentre Goethe affermava che se parlare è un bisogno, ascoltare è un talento. Un conto è sentire, un conto è ascoltare. Per sentire basta l’orecchio per l’ascolto è necessaria una testa disposta a cambiare. Questo vale per qualsiasi forma di comunicazione, anche quella visiva. Gli occhi non bastano per guardare.

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Ascoltare, guardare... d’accordo. Ma cosa? Su questo, Michele Provinciali è stato per molti grafici il miglior maestro, perché il suo insegnare era rivolto alla riattivazione di tutti i sensi, non solo la vista e l’udito. Ricordo una lezione in cui chiese a tutti di urlare forte, procurando una paura bestiale nei bidelli che entrarono di soprassalto nell’aula temendo che fosse accaduto qualcosa di grave. Oppure un’altra volta ci invitò a salire tutti sui banchi per avere una visione diversa, un po’ come nel film L’attimo fuggente, ma noi lo abbiamo fatto nel 1983. Michele invitava sempre gli studenti a leggere molta letteratura, poesia, e avrebbe eliminato dalla biblioteca dell’ISIA le riviste di grafica che definiva riviste porno-grafiche, forse perché inducono nella tentazione di un più o meno inconscio plagio. La maestria più vera di Michele era la lettura profonda della realtà, l’ascolto delle cose, degli oggetti che ci circondano; perfino quelli più banali riacquistavano diritto di ascolto. Un vero maestro che riusciva ad entrare in relazione con un contenitore di plastica raccolto in spiaggia, facendolo diventare opera d’arte parlante. Un comportamento poetico, ma con alto valore etico, oggi diremo ecologico, ma io penso anche spirituale. Mi viene in mente il salmo “la pietra scarta dai costruttori è divenuta testata d’angolo”. È chiaro che le riviste di grafica le guardavamo eccome, e credo che non sia del tutto sbagliato essere informati per non cadere in un atteggiamento snob, e pensare di essere gli unici ad essere bravi.

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Fin qui ho parlato di un ascolto poetico, creativo. Esiste poi anche un ascolto più tecnico comunque importante per un grafico. È quello che va fatto nei confronti del target, i destinatari della comunicazione. Non di rado capita che noi grafici nel nostro delirio di onniscienza, nell’ordine ascoltiamo: noi stessi; i colleghi simpatici che parlano bene del nostro lavoro (magari su una rivista); i clienti che pagano bene; e quasi mai i destinatari. Invece un grafico bravo che vuole operare per una comunicazione efficace deve essere consapevole della differenza che c’è tra “comunicare” e “informare”. Informare significa dare una notizia, un segnale, un segno. Comunicare significa dare una informazione, inviare un messaggio per generare in una qualche maniera una ricevuta di ritorno (feedback), che può essere data in diverse forme: attraverso una risposta esplicita, o da un comportamento che potrà essere analizzato, interpretato e valutato. Questa è una ragione fondamentale per cui è importante saper esercitare una buona capacità di lettura e di ascolto.

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L’informazione utilizza un andamento lineare tra emittente e ricevente.

La comunicazione si sviluppa in una dinamica circolare, consentendo un progressivo approfondimento del rapporto e quindi l’avvicinamento all’obiettivo finale dell’intervento.

Il modello che meglio rappresenta un processo comunicativo è quello elicoidale (F. E. X. Dance, A Helical Model of Communication), in cui possiamo cogliere la reciproca crescita di emittente e destinatario della comunicazione.


Contenuto e forma Liquidare l’argomento in poche battute mi sembra quasi blasfemo. Ma un accenno per un giovane studente credo sia doveroso, se non altro perché è l’essenza del nostro mestiere: dare forma a contenuti. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto (cosa si dice) e di relazione (come si dice). Il secondo classifica il primo: la scelta di un carattere dà senso alle lettere di un logotipo, di una rivista, di un libro; l’intonazione della voce, diventa più importante di ciò che si dice, trasformando le stesse parole in comando, in elogio, in complimento Lo stesso contenuto cambia significato con forme In questa composizione tipografica le scelta del o in offesa. Una frase letta diverse. carattere può definire il senso di un rapporto. da un attore di teatro, da un comico, da un politico assume un valore diverso. Il significato di “quanto sei carina!” non è determinato dalle parole, ma esclusivamente dall’intonazione della voce. Tutto questo per dire che se, da un lato è giusto pensare Molto bella questa composizione di Lubalin che poetica e che con le stesse parole rimanda a che il contenuto è fonda- definirei significati che non necessitano di spiegazione. mentale, è la sostanza delle cose, non si può sottova45

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lutare la forma perché in gran parte dei casi è la forma a determinare il significato e il valore del contenuto. Ecco la ragione per cui è giusto affermare che fare buona grafica non significa semplicemente fare della cosmetica, ma piuttosto dare forma a idee per aiutarle ad essere espresse e comprese.

G R A F I C A

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C O M U N I C A Z I O N E

V I S I V A

È la forma che rende un contenuto: riconoscibile cioè sufficientemente distinto; adeguato ovvero comprensibile al pubblico; coerente rispetto ai contenuti della comunicazione; uniforme nelle sue applicazioni e nel tempo. Sulla comunicazione non mi spingo oltre, perché ho sì un po’ di esperienza e di passione, ma le conoscenze che riLa prima brochure di Kaleidon del 1991 tengo di avere sono simili a quelle di un vecchio Bignami e percepisco forte il rischio di banalizzare concetti importanti che renderebbero un discorso su McLuhan simile a quello fatto al bar sulla miglior formazione della nazionale. Prima di passare ad argomenti più tecnici, vorrei concludere questo capitolo proponendovi una domanda non di poco conto, che se vogliamo, possiamo considerare una questione etica del lavoro del grafico. Si tratta di una questione che nei primi anni di lavoro ha trovato motivo di confronto anche con mio padre, quando desiderava capire me-

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glio che lavoro facessi. La domanda è questa: un grafico può lavorare per chiunque? Ci sono motivi, oltre alla disponibilità di tempo o di denaro, per i quali un grafico possa dire ad un possibile committente: questo lavoro non posso farlo? La risposta che io do è: “giusta la seconda!” Ci sono valori, concezioni, pensieri etici e politici che non possono essere svenduti per trenta denari. Mio padre, barista, mi diceva: io sono di sinistra, ma il caffè lo servo anche ad uno di destra. Ci mancherebbe che non fosse così, sarebbe razzismo. Ma quando in ballo ci sono le idee, il lavoro del grafico diventa quello di prestare la propria testa perché queste diventino visibili, di fornire gambe perché queste camminino lontano e per me sarebbe estremamente difficile fare questo. Non solo difficile, ma anche ingiusto. Non nego il dialogo fra pensieri diversi, chi mi conosce sa quanto questo mi affascini, e quante volte ho avuto la fortuna di cambiare idea, a volte un po’ radicale, a volte un po’ papalino. Ma essere un distributore di visioni grafiche valide per chiunque a me non piace. Sono scelte che ogni tanto mi son trovato a dover affrontare. Non troppo spesso, per fortuna, anche se l’inganno sottile e l’autogiustificazione sono sempre in agguato, ma grazie al cielo io e Franz su questo ci siamo sempre aiutati e abbiamo trovato la massima sintonia. E questo vale più dell’aumentare il fatturato.

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iconografia • la mandorla • i sigilli “Spicca su tutti l’immagine dell’Immacolata concezione nella più classica delle sue rappresentazioni iconografiche. Essa è rappresentata sulla luna illuminata a spicchio ed è avvolta da una corona di fiamme in forma di mandorla in un cielo stellato.”

Università di Urbino Dal 2003 al 2006 è stata realizzata l’immagine dell’ateneo marchigiano in funzione del quinto centenario dalla fondazione e della promozione all’iscrizione alle diverse facoltà.

IL LOGO > costruzione

Questa rappresentazione sacra è posta sull’arma d’origine della Famiglia dei Montefeltro (bandato d’azzurro e di oro, con la seconda banda caricata di un’aquila nera spiegata) che da secoli è stata mutuata dal Comune di Urbino come suo stemma.

Frutiger

Mantinia

Il Mantinia, disegnato da Matthew Carter nel 1993 è un carattere ispirato alle lettere dipinte e incise da Andrea Mantegna uno degli artisti del Rinascimento italiano che più si interessò alle forme delle lettere e che tra i primi si applicò allo studio dell’epigrafia imperiale romana.

IL LOGO

il logo del V centenario

il logo del V centenario

Disegnato tra il 1968 e il 1976 da Adrian Frutiger fu inizialmente applicato alla segnaletica dell’Areoporto internazionale di Parigi. Per le sue qualità di chiarezza e leggibilità non comuni in un alfabeto senza grazie è diventato uno dei caratteri più apprezzati e rappresentativi degli ultimi anni.

il logo del V centenario la campagna – lo slogan

MILLE CINQVE CENTO SEI

MILLE CINQVE CENTO SEI

MILLE CINQVE CENTO SEI

MILLE CINQVE CENTO SEI

MILLE CINQVE CENTO SEI

MILLE CINQVE CENTO SEI

eventi Apertura ufficiale delle celebrazioni del 50° di fondazione dell’Università degli Studi “Carlo Bo”. Inaugurazione solenne dell’anno accademico 2005-2006 con lezione inaugurale di Umberto Eco

IL VECCHIO E IL NUOVO Il progetto di comunicazione per il 1506 ha puntato a definire una linea di continuità tra il passato e il futuro dell’ateneo, tra vecchio e nuovo, tra classicità e modernità, tra ricerca e sperimentazione.

eventi

Conferimento della laurea ad honorem in Lingue e Culture Straniere

29 Giugno 2006

Nuovo Magistero, via Saffi, 15 Aula D1 ore 11,30

Conferimento della laurea ad honorem in Lingue e Culture Straniere

1 luglio 2006

Nuovo Magistero, via Saffi, 15 Aula D1 ore 11,30

Facoltà di Lingue e Letterature Straniere

Facoltà di Lingue e Letterature Straniere

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PASSEPARTOUT

Nel gennaio 2007 una delle più importanti softwarehouse nel settore dei gestionali d’impresa si è affidata a Kaleidon per il coordinamento della propria immagine.

Senza creare una nuova immagine, sono state definite le regole per garantire uniformità e leggibilità del simbolo e del logotipo in tutte le possibili applicazioni.

Lo stesso è stato fatto per l’immagine dei prodotti che è stata uniformata non solo dal punto di vista estetico, ma anche seguendo alcuni criteri logici.

È stato definito tutto il sistema di icone, non solo quello identificativo dei singoli prodotti ma anche quello delle diverse funzioni di ogni applicazione.

La comunicazione più importante di un prodotto è il prodotto stesso, e quando si parla di software è ciò che appare sul monitor.

Avere curato l’interfaccia non è stata una scelta solo di carattere estetico ma nella maggior parte dei casi funzionale per facilitare l’utilizzo del software.

Per la comunicazione dell’azienda si è scelto di lavorare intorno alla figura di Passepartout, il servo fedele, protagonista del romanzo più noto di Jules Verne, “Il giro del mondo in 80 giorni”.

Tutta la documentazione, le schede, i manuali sono stati allineati alla nuova immagine.

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La nuova immagine di Gruppo Lavoro necessario

La nuova immagine di Gruppo Prima fase

Un compito non facile anche perché in questa prima fase si dovevano trovare soluzioni che permettessero la convivenza di marchi esistenti, creati in momenti diversi, con caratteristiche e qualità differenti.

Il compito della prima fase è stato quello di trovare soluzioni che permettessero ad ogni società del gruppo, di essere percepite non più come singole aziende, ma come parte di un insieme il cui valore è superiore alla somma dei singoli elementi. Non si è trattato quindi di un problema estetico, ma strategico, un’occasione importante per migliorare la comunicazione, innanzitutto verso le BCC sparse nel territorio nazionale, presentandosi con più chiarezza come società portatrici di valore oltre che di servizi.

La nuova immagine di Gruppo Comunicare le società e i prodotti: il Tangram

La nuova immagine di Gruppo Un quadrato in movimento

L’oggetto è sempre lo stesso - un quadrato diviso in sette parti - ma le combinazioni ottenibili tramite i pezzi sono infinite.

Il gioco di linee tracciate diagonalmente ci ha permesso di individuare forme di contenimento tra cui il quadrato.

Il Tangram simboleggia una filosofia legata alla costante mutazione delle cose, tutto cambia e si trasforma: la sostanza tuttavia, rimane identica.

Questa particolare forma evoca leggerezza e dinamicità: ricorda la figura di una vela sospinta dal vento in poppa, richiama l’energia e la tensione verso il futuro che anima il Gruppo.

Il Tangram identifica quindi l’idea di Gruppo e la sua capacità di rimanere al passo con i tempi, di sapersi mettere in discussione, aggiornarsi ed evolversi, mantenendo tuttavia saldo il legame con le proprie origini e i propri valori.

Gruppo bancario Iccrea: identità visiva

Un nuovo carattere

L’obiettivo della nuova immagine coordinata voluta da Iccrea Holding è quello di rendere immediata e riconoscibile l’appartenenza al Credito Cooperativo offrendo contemporaneamente una più chiara identità all’insieme delle fabbriche del Gruppo bancario. A questo scopo è stato appositamente disegnato un carattere tipografico originale che consente di personalizzare i nomi delle diverse società secondo questo schema:

Gruppo bancario Iccrea: identità visiva

Gruppo bancario Iccrea: identità visiva

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Il logo BCC appare scritto nella consueta forma tipografica in Gill Sans e la “doppia C” viene inscritta nella forma della vela caratteristica dell’appartenenza al Gruppo.

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Cooperativo. Opera esclusivamente tramite la rete degli sportelli delle Banche di Credito Cooperativo, cogliendo le esigenze specifiche del sistema e sfruttando tutte le sinergie con le altre Società del Gruppo bancario Iccrea.

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BCC Gestione Crediti ha per oggetto l’assunzione di mandati da parte delle BCC e dei loro clienti per il monitoraggio, la gestione e il recupero di crediti ad andamento anomalo nonché l’offerta

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Iccrea BancaImpresa è la banca corporate del Credito Cooperativo. Iccrea BancaImpresa presidia tutte le aree del leasing. Con i finanziamenti sostiene i progetti di crescita delle imprese, anche agricole, ed assiste gli imprenditori con i servizi e la consulenza nel campo della finanza straordinaria e, nel comparto estero, con attività di sostegno all’import/export ed all’internazionalizzazione.

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Logotipi

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Comunicazione sul Web

Gruppo bancario Iccrea: identità visiva

Comunicazione di Marketing

La comunicazione rivolta al mercato è quella che appare più evidente all’esterno. In questo senso la identità visiva ha già trovato diverse applicazioni.

© 2009 Kaleidon

Gruppo bancario Iccrea: identità visiva

Rivista del Gruppo bancario

Sedi operative: Roma - Udine - Bologna - Padova - Firenze

Gruppo bancario Iccrea

N.0 

Periodico del

Gruppo bancario Iccrea

N.1 

Periodico del

Gruppo bancario Iccrea

N.2

Anno I - n.0 - Giugno 2012

Caterina Fattori

Periodico del

Anno II - n.2 - Gennaio 2013 - Diffusione gratuita.

Centri supporto operativo

Il Patto tra BCC e a supporto Il modello industrialeL’innovazione del Gruppo bancario Iccrea Gruppo bancario Iccrea della partnership Anno I - n.1 - Ottobre 2012 - Diffusione gratuita.

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© 2009 Kaleidon

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5 LAVORARE Persino avere la bella fortuna di fare un lavoro che piace, 
 può avere il rovescio della medaglia.

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Non tantissimi anni fa, un tema ricorrente quando si parlava di lavoro era la riduzione degli orari; in Italia è persino caduto un governo su questo argomento. Quando ero studente all’ISIA, ricordo che in uno dei suoi sermoni il prof. Romano Barboro ipotizzava un futuro dove tutti avremmo lavorato meno, con più tempo libero da dedicare ai propri interessi e alla famiglia. Erano pensieri, un po’ ingenui, che ponevano grande fiducia sullo sviluppo di tecnologie che avrebbero aiutato l’uomo; e non possiamo certo negare che queste non abbiamo fatto enormi passi avanti. Ma allora, cosa è accaduto, se la realtà di oggi sembra l’opposto di questo futuro auspicato? Come mai la nostra vita non sembra altro che un correre dietro a scadenze, a urgenze, ad impegni, con al nostro fianco quel compagno di viaggio che ha l’antipaticissimo nome di stress? Dove è finito tutto questo tempo libero? Come mai il canto, che tanto amavo, mi sono ridotto ad esercitarlo soltanto sotto la doccia, e l’unico strumento che suono è il campanello di casa quando ho dimenticato le chiavi?

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Il mondo che ci circonda... altro che liquido come lo ha definito Bauman! A me sembra un vero e proprio mare in tempesta dove tante persone, a tutti i livelli, appaiono impaurite e stanche e non fanno altro che correre, correre, per non far affondare navi che hanno perso la rotta. Perché tutto questo? Se all’inizio di questo libro ho detto che è difficile scrivere un manuale, è ancor più vero che pretendere di dare risposte a queste domande sembra ormai compito dei pazzi. Ma per fortuna in giro qualche pazzo c’è, perché riprendere il timone è necessario, indispensabile. In molti casi si tratta di fare delle scelte, a volte talmente grandi, che giustamente l’amico Marco Guzzi, uno di quei pazzi che a me piace molto, le ha definite “passaggi epocali”. Scelte che ci coinvolgeranno in maniera collettiva, anche se passano necessariamente al vaglio delle nostre coscienze personali, per diventare decisioni concrete. Ad esempio, tornando sui binari dei motivi di questo libro che racconta del lavoro che faccio, ritengo molto importante dedicare alla professione tanto tempo, senza però mai esagerare, anche quando lo si ama. Lo dico proprio perché ho la fortuna di fare un mestiere bello, e per questo non vorrei farmi inghiottire dal lavoro e non lasciare spazio ad “altro”. Tempo che diventa salute e nutrimento anche del lavoro stesso. Aver messo da subito, fin dagli inizi di Kaleidon, un po’ di paletti come ad esempio che il sabato non si lavora, dedicarci all’insegnamento, creare spazi di crescita per noi stessi e per i dipendenti: sono tutte belle scelte fatte sempre in sintonia da me e Franz, che sicuramente ci hanno reso meno ricchi, ma mentalmente più sani e felici.

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Ok, qualcuno starà mugugnando che questa sembra una “predica”, che mi aiuta a farmi “bello”, così da accalappiarmi la vostra benevola considerazione. Può essere, ma io ci credo profondamente e ormai, visto che quest’anno compirò 50 anni di vita e 25 di lavoro, sento di aver acquisito la giusta maturità interiore per scrivere ciò che provo. Mi auguro che i lavori e la vita possano testimoniare almeno in parte quanto sto scrivendo, anche perché in fondo non sono riflessioni nuove. Questi pensieri sono stati il terreno fertile per il festeggiamento del ventesimo compleanno di Kaleidon nel 2008 con un evento che abbiamo intitolato “Pausa”, creando un’occasione per fermarci un po’ a riflettere. È nata una bella collaborazione con l’Istituto Musicale “Lettimi” di Rimini cha ha dato vita ad una mostra, ancora oggi presente nella scuola, e ad una giornata particolare documentata nel video qui a fianco. Nel catalogo che abbiamo realizzato, e che potete sfogliare cliccando qui a destra, ogni persona che ha avuto a che fare con Kaleidon ha regalato una propria interpretazione di “pausa”. Da parte mia il contributo è stato il testo che ripropongo nella pagina seguente. venti anni di

Kaleidon

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Pausa ritmata Il desiderio di affrontare i progetti con grande attenzione e cura credo sia stata una delle principali caratteristiche di Kaleidon in questi venti anni, dedicando ad ogni lavoro una buona quantità di “pause” riflessive, in maniera proprio del tutto contraria allo stile frenetico che il lavoro di oggi vorrebbe imporci. Tirare un po’ le somme e verificare i risultati non è per niente facile, soprattutto quando questi sono riferiti a sé stessi. Se a questo aggiungiamo il fatto che, sia io che Franz, come del resto un po’ tutte le persone che in una qualche maniera hanno collaborato con noi in questi anni, siamo riluttanti alle celebrazioni, si capisce che l’evento di un compleanno per lo studio avrebbe potuto facilmente essere dimenticato. Sarebbe stato così, se non fosse venuto in mente a Patrizia questo nome “pausa”, che ad ognuno di noi ha aperto la mente a significati, a desideri incredibilmente ampi, che spaziano su territori così diversi, dalla musica a possibili scelte di vita, a tal punto che è facile cadere nella banalizzazione del termine. Ma pur correndo questo rischio cercherò di dare un senso alla mia “pausa”. Per prima cosa “pausa” è staccare la spina dal lavoro ogni fine settimana, proprio come ha fatto il buon Dio il settimo giorno, per dedicare il meglio di sé alla famiglia. “Pausa” è trovare il tempo per spegnersi un po’ e ricaricarsi di energia: l’importante è trovare un buon carica-batterie. “Pausa” è utilizzare il viaggio quotidiano in treno per scrivere una email agli amici. “Pausa” significa riappropriarsi del presente e non vivere frastornati tra rimpianti passati o angosce future. “Pausa” non è fermarsi a mangiare un panino a pranzo, ma piuttosto svegliarsi presto la mattina per iniziare meglio la giornata, e pensare agli impegni alla luce di cosa veramente conti nella vita, una vita che mi piacerebbe vedere come una grande sinfonia, dove ogni “pausa” serve a metter in evidenza i suoni intrecciati unici e irripetibili della nostra esistenza, sia quelli gioiosi, sia quelli tragici, in preparazione di quella che sarà la nostra ultima inevitabile grande “pausa finale”. In questo senso il poster che ho realizzato si ispira ad un momento recente della mia vita, una “pausa” che mi ha coinvolto in maniera profonda e del tutto particolare. Ho avuto il grande dono di essere vicino a mio padre il 31 dicembre scorso, mentre lasciava questa terra, e di vivere questo distacco come mai mi sarei aspettato, fortemente ricco di significati. Troppo avrei da raccontare, ma tutto per me si riassume in un rosario di legno che in quella notte ho tenuto stretto fra la mia mano e quella di Paolo, mio padre.

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Dopo aver volato con piacere su questioni che toccano particolarmente il mio cuore, e su cui ho anche scritto Nella treccia la speranza, ritorno sui binari del mestiere per collegarmi ai capitoli che seguono e che hanno una tonalità molto più tecnica. Parlerò di computer e software, perché lavorare bene, senza essere vittime dello stress, richiede anche la conoscenza degli strumenti che si maneggiano. Con passione ho vissuto anni magnifici all’ISIA proprio ad insegnare questo. Ho l’occasione qui di ripercorrere quel periodo e di raccontare un po’ di quelle lezioni che, accompagnate dal soporifero ronzio del videoproiettore nel buio delle enormi aule dell’edificio pensato da Francesco di Giorgio Martini, avranno dato la possibilità ad alcuni studenti di comprendere qualcosa in più sul mestiere, ad altri di riposarsi un po’ per le gioiose serate nella bella città universitaria di Urbino.

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2ª TAPPA

SULLA SOGLIA 
 DEL MIO DISCO FIN TROPPO RIGIDO 59

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Oh! Eccoci finalmente come promesso sulla soglia del mio Macbook 17 pollici che mi accompagna sempre come una protesi. È un hardware piuttosto potente, acquistato nell’ottobre 2011 con le migliori caratteristiche, per sostituire un altro 17 pollici che utilizzavo da circa due anni e mezzo. Sì, grosso modo è questa la media con cui aggiorno lo strumento di lavoro. Per quale motivo si cambia un computer? Confesso subito il peccato della passione per l’oggetto. Questo capita oggi con l’elettronica, come da sempre succede con qualsiasi cosa che desideriamo possedere e maneggiare, macchina fotografica, strumento musicale o anche libro che sia. Riflettendo su quanto sostenuto da Albe Steiner di cui ho già scritto nel primo capitolo, rispetto ai mezzi limitati che non diminuiscono la creatività, ripenso al primo Mac comperato. Era il 1988: investimento di 20 milioni di lire effettuato grazie ad un finanziamento a fondo perduto della Regione Emilia Romagna per aziende i cui proprietari avevano una età inferiore ai 29 anni. Bei tempi! Un Macintosh II con 2 megabyte (non giga) di RAM, e un disco rigido di addirittura 40 megabyte (non giga), un monitor Viking 19 pollici in bianco e nero (senza neppure i grigi) e una stampante Apple LaserWriterNT. Mi piace ricordarlo soprattutto per i più giovani lettori che oggi si ritrovano a maneggiare giga su giga in punte di spillo e forse non hanno la percezione dei grandi passi avanti fatti. È infatti su queste cose che si notano le più grandi differenze con gli anni passati, mentre su tante altre le differenze sono meno evidenti. Di certo i nostri abiti non sono quelli immaginati nei film anni Settanta che si avventuravano 60

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nel nuovo millennio. Ricordo con piacere questi dati anche a me stesso perché da quella prima strumentazione acquistata sono usciti libri, copertine, manifesti che conservano il loro valore, a conferma che prima di tutto, ciò che conta sono le idee. Quindi che necessità c’è di rincorrere continuamente la tecnologia, acquistare, bene che vada, un computer ogni due anni e mezzo? La prima ragione è dovuta al software, ai sistemi operativi, alle applicazioni (a proposito, sapete che solo recentemente ho notato che il termine applicazione ha in sé un pezzo di mela “appl-e”?). Qualcuno potrebbe obiettare che anche per i programmi vale la stessa riflessione fatta sull’hardware e tutte queste evoluzioni segnate dai numeri 1.0 2.0... 12.0 e via di seguito, non sono poi così necessarie. I primi manifesti, le prime copertine le abbiamo fatte con FreeHand 1.0 e sono ancora dignitose. I libri impaginati con PageMaker 2.0 si leggono molto bene ed hanno una buona tipografia.

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I programmi sono continuamente in evoluzione. Si potrebbe sostenere che la principale ragione sia dettata da motivi commerciali per legare noi utenti a investimenti continui.

Dalla versione dei fratelli Knoll alla CS6 le diverse icone di Photoshop.

In parte è vero, certi aggiornamenti possono indurre a pensare questo. Ma è innegabile che con il passare del tempo ci troviamo fra le mani strumenti sempre più potenti e sofisticati per rispondere ad esigenze fino a pochi anni fa impensabili. Si pensi soprattutto al video-editing, ovvero alla possibilità di montare film in altissima risoluzione FullHD: ciò che oggi è possibile produrre con un portatile e un programma da un migliaio di euro, non molto tempo fa era possibile solo con costosissime workstation. Sono enormemente aumentate le finalità degli strumenti. Il primo computer sembrava avere la funzione di sostituire i trasferibili Letraset, per poi evolversi in modo da bypassare le fotocomposizioni. In seguito si è cominciato a correggere cromaticamente le fotografie, fino a diventare dei veri e propri banchi di regia per video professionali ad altissima definizione. Molti grafici, meravigliosi progettisti miei coetanei, hanno fatto non poca fatica a dover ragionare al di fuori della carta. Ma è pur vero che il buon utilizzo del carattere, l’uso della grafica è da sempre apprezzato anche in un bel video, in una sigla televisiva, nei titoli di testa di un film. Michele Provinciali, l’insegnante che ha maggiormente influenzato gli stu62

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denti dell’ISIA “anni Ottanta”, si vantava della bella collaborazione con Michelangelo Antonioni proprio per i titoli di testa di qualche suo film. È innegabile che oggi, rispetto ad un paio di decenni fa, la grafica la ritroviamo in moltissime situazioni al di fuori della carta. Ma di questo ho già scritto, e qualcosa aggiungerò alla fine del libro.

Immagine tratta da un depliant Apple che ci fu dato nel 1988 all’acquisto del nostro primo Macintosh.

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2 ROBA DURA Addentriamoci come nel meraviglioso film 
 “Viaggio allucinante” di Richard Fleischer, 
 per capire meglio cosa c’è dentro un computer.

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Avendo questo libro una finalità didattica, dedicherò un po’ di spazio per spiegare in maniera semplice cosa significano alcuni termini, spesso proposti anche all’acquisto di un computer, ma senza che l’acquirente abbia effettiva consapevolezza di cosa viene suggerito dal venditore. Lo farò con qualche esempio forse non proprio ortodosso, come quando insegnavo e cercavo di aiutare quei poveri studenti che si erano iscritti all’ISIA pensando che avrebbero usato solo pennelli e matite (quindici anni fa ancora capitava). In base al vostro grado di conoscenza vedete voi se saltare o meno questa parte. Oppure leggetela se vi incuriosiscono le storielle che andavo a raccontare a quei ragazzi che a fatica sopportavano una materia fatta anche di numeri e oggetti molto piccoli ma ben saldati fra loro, e che formano una specie di scatola magica. Quando ero piccolo nei film di fantascienza si parlava di “cervello elettronico”. I francesi preferiscono chiamarlo “elaboratore”, molti lo chiamano più semplicemente PC (personal computer), per indicare un calcolatore di grande potenza, ma comunque personale in contrapposizione alle grandi centrali di calcolo. Il personal computer ha la sua prima grande diffusione di massa alla fine degli anni Settanta 65

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con i Commodore, ma le sue radici affondano a ben vent’anni prima grazie agli studi fatti, pensate un po’, in Italia dalla Olivetti. Questo mi provoca una buona dose di rabbia, perché ti fa capire come la capacità industriale dei successori di Adriano Olivetti abbia vanificato un patrimonio tecnico e culturale enorme, abbia buttato all’aria la genialità di un uomo, la cui visione industriale e sociale non credo abbia avuto uguali neppure nella Silicon Valley. Il termine PC nel mondo Apple è caduto in disuso da quando nel 1984 Steve Jobs ha presentato il Macintosh, il primo computer relativamente potente dall’approccio amichevole dotato di interfaccia grafica e mouse. Da allora un computer Apple viene semplicemente chiamato Mac, identificando nel termine PC tutto il resto e quindi soprattutto il mondo Windows. Andate a vedere le meravigliose pubblicità di qualche anno fa “I am a Mac, I am a PC” e ve ne farete una idea divertente. Comunque lo chiamiate ogni computer ha delle parti comuni: cerchiamo brevemente di elencare e capire a cosa servono. Innanzitutto il microprocessore, il centro del cervello elettronico, che permette di elaborare le informazioni, trasformare i dati che vengono inseriti, calcolare complesse operazioni (perché alla base di tutto ci sono sempre dei numeri, anzi solo due numeri 0 e 1). La velocità di calcolo e l’architettura di un processore sono il primo elemento per determinare la velocità di un computer; dopo scopriremo altri fattori importanti. La velocità di calcolo espressa con una unità di misura in hz /Mhz/Ghz è importantissima, ma non esclusiva. Cerco di spiegarmi con un esempio: avere un’auto con un motore che può raggiungere i 1000 km orari è pressoché inutile se non hai il resto della vettura che lo sostiene o se non ci sono strade che

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permettono di superare i 100 km/h. Così è per un microprocessore, il cui disegno strutturale diventa altrettanto importante. Anni fa la gara fra Mac e PC basava molto la sfida su questi argomenti. RISC contro CISC. IBM-Motorola-Apple contro Intel, con gli innovativi PowerPC che avevano prestazioni superiori a parità di velocità semplicemente perché sceglievano la strada più breve. Anche in questo, Apple ha giocato molto a livello pubblicitario, rappresentando e ridicolizzando Intel con tecnici che si ustionavano nel maneggiare i propri microprocessori. Poi le lotte titaniche tra i giganti dei componenti Hardware della Silicon Valley ha modificato queste sfide. Oggi anche i Mac utilizzano microprocessori Intel che differenziano le proprie prestazioni per velocità di calcolo e struttura basata su più nuclei di processore montati nella stessa CPU (dualcore, quadcore), un po’ come succede con un motore che ha più turbine. Memoria Tutto ciò che viene elaborato dal microprocessore non avrebbe alcuna utilità, sarebbero solo dati numerici, impulsi elettronici senza vita, se non avessero un luogo dove poter esprimersi ed esistere. Questo luogo viene chiamata memoria. Fondamentalmente ne esistono di due tipi: una operativa, utile esclusivamente a lavorare, quasi fosse un contenitore dove caricare tutte le informazioni che saranno elaborate dal microprocessore; un’altra per creare un archivio dei dati elaborati e far sì che questi dati perdurino nel tempo anche quando il computer viene spento. La prima memoria viene chiamata RAM (Random Access Memory), la seconda è quella che quando compriamo un computer viene identificata con il disco rigido (hard disk), anche se i sistemi di archiviazione sono delle più svariate tipologie, compresi i CD, DVD, e nastri magnetici simili a quelli per registrare 67

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musica. Proprio dalla musica potremmo prendere per analogia una spiegazione che ci aiuta, se non proprio a capire, ad intuire. Il microprocessore potrebbe essere lo strumento musicale che suona, la RAM è il luogo dove viene suonato il concerto, la registrazione è la memoria del concerto conservata nel tempo. Oppure, scusate ma trovare analogie è per me un divertimento, le lame di un frullatore sono il microprocessore, il contenitore è la RAM, il frigorifero il luogo dove viene conservato il frappé. Convincente? Mah, forse però qualcosa si intuisce. Quindi ricapitolando, molto grossolanamente abbiamo detto che le prestazioni del computer sono determinate prima di tutto dal microprocessore e dalla memoria, che distinguiamo in operativa e in quella utile all’archiviazione. Sto esponendo le cose in maniera molto approssimativa sperando che gli esperti non rabbrividiscano difronte a certe semplificazioni. Qualcuno potrebbe obiettare che la memoria che ho definito di archiviazione sia in realtà anch’essa operativa perché i programmi la usano non solo come “album dei ricordi”, ma per scrivere e leggere continuamente dati utili a fare il nostro lavoro. Questo è vero, sopratutto per la elaborazione di immagini di grande formato ad alta risoluzione o di video in piena definizione: la RAM non sarebbe sufficiente e quindi viene presa in prestito parte della memoria del disco rigido per svolgere la stessa funzione, anche se quest’ultima ha una velocità molto inferiore. Velocità? La memoria ha velocità? Certamente. Anche se la principale caratteristica è espressa in termini di quantità, i famosi byte, per determinare la prestazione di un computer sono molto importanti anche i tempi di scrittura e lettura dei dati. Torniamo per un attimo al nostro frullatore. Se per inserire e togliere gli ingredienti posso farlo solo attraverso un piccolo foro i tempi di lavorazione del mio impasto saranno certamente supe-

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riori rispetto ad un apparecchio con una grande apertura. Così i tempi di lettura/scrittura di un disco rigido sono importantissimi a determinare la velocità di un computer perché l’elaborazione dei dati avviene sì tramite il microprocessore, e attraverso la RAM, ma la letture e la registrazione su disco è un processo continuo e perciò avere dischi molto veloci nel trasferire i dati è importantissimo soprattutto quando il nostro lavoro consiste, l’ho già detto, ma parlando di grafica è bene ripeterlo, nel trattare documenti di grandi dimensioni come foto ad altissima risoluzione, e soprattutto nel montaggio di video in piena definizione. I fattori che determinano questa velocità di trasferimento sono diversi. Senza entrare nello specifico ne cito due fondamentali, lasciando ad altre fonti la possibilità di soddisfare la vostra curiosità: - la velocità dell’interfaccia di collegamento. - la velocità di rotazione del disco espressa in numero di giri al minuto (4.200, 5.400, 7.200, 10.000 e 15.000 giri al minuto). Personalmente non ho mai avuto la possibilità di utilizzare dischi di velocità superiore a 7.200 giri, ed anche per ragioni fisiche immagino che si sia raggiunto un limite difficile da superare. Per questo motivo, da pochi anni, possiamo apprezzare enormi vantaggi attraverso l’utilizzo di una nuova tipologia di memoria chiamata SSD (solid-state drive), definita impropriamente “dischi allo stato solido” perché di circolare come un disco non hanno proprio nulla, se non il fatto che vanno a sostituire i dischi tradizionali sopra descritti. Questa memoria è l’evoluzione delle ben note e diffuse Flash memory che da diversi anni sostituiscono i rullini nelle nostre macchine fotografiche. Non essendo vincolate dalla rotazione di un disco le SSD raggiungono velocità superio69

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ri oltre 50 volte rispetto ad un normale disco rigido e per questo concordo con chi ritiene che si tratta di una delle novità più interessanti in campo informatico degli ultimi anni. Soddisfiamo ora la curiosità di chi vuol sapere con quale computer lavoro, quali caratteristiche ha, magari confrontandolo con il mio primo Mac per capire il salto enorme fatto. Il mio MacBook acquistato alla fine del 2011 ha un microprocessore Intel Core i7 con velocità di calcolo di 2,5 GHz, 16 GByte di Memoria RAM e un archivio interno composto da due dischi: un HDD da 750 GByte e un SSD da 256 GByte che ho aggiunto io al posto del masterizzatore DVD. In questo secondo disco ho installato il sistema operativo e tutti i programmi che ora si avviano realmente in un solo secondo: fantastico! Il mio primo Macintosh II, acquistato nel 1988 e che conservo come il primo cent di Paperon de’ Paperoni, ha un microprocessore Motorola 68020 con velocità di calcolo di 16 Mhz, 2 MB di RAM, e un disco rigido da 40 MB. Per valutare in maniera grossolana questi parametri basta ricorrere alle banali equivalenze studiate alle scuole elementari. 1 Hz significa una oscillazione (un calcolo) al secondo, quindi 1 kHz = 1000 oscillazioni, 1 MHz = 1 milione, 1 Ghz = 1 miliardo, 1 Thz = 1000 miliardi.

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Discorso simile, ma con qualche complicazione per via del calcolo binario sul byte che è l’unità di misura della memoria, dove 1kB non equivale a 1000 ma a 1024 perché 1kB = 210 , 1MB = 220 , 1GB = 230 , 1TB = 240. Aiuto! Qualcuno si sta perdendo? Tranquilli non voglio fare un libro di matematica, ma solo dare qualche elemento per capire cosa abbiamo fra le mani. Spesso oggi per semplificare le cose si misura la capacità di un iPod, di un iPhone come di qualsiasi disco, in quantità di canzoni, di foto, o di video. Ma ci vuole poco a capire che sono numeri indicativi che dicono quasi nulla perché tutto poi dipenderà dalla qualità, dalla durata di una canzone, dalla dimensione e dalla definizione di una foto e di un video. Fino a qui ho descritto il computer nel cuore, nelle parti essenziali del motore. Ma gli appassionati di auto sanno che una vettura la si apprezza anche per tanti altri elementi, sia tecnici che di design che ne determinano qualità e prezzo. Senza ruote un’auto fa poca strada, anzi non ne fa proprio. Un computer senza scheda video sarebbe la stessa cosa. Gli appassionati di formula uno sanno quanta importanza abbiano le gomme, mentre chi la formula uno la pratica come video gioco sa che ciò che conta è avere una buona scheda video per apprezzare al meglio le immagini 3D. Anche qui si tratta di numeri, la capacità di rendere i colori, con quale fedeltà e velocità. La fedeltà è più legata alla qualità del monitor, ma senza addentrarci ulteriormente in tutte le caratteristiche e tutti i componenti di un computer, capite che nel suo complesso gli elementi da valutare sono tanti. A differenza di chi usa PC, dove le combinazioni di assemblaggio sono infinite, l’utente Mac ha meno problemi perché un Mac è solo Apple, 71

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non esistono compatibili costruiti da altri, né tantomeno la possibilità di mettere insieme i pezzi da soli: quindi le scelte sono relativamente contenute in un ristretto numero di possibilità, ma quasi sempre al top dell’innovazione e della qualità. Si pensi ai nuovi portatili con schermo Retina ad altissima definizione che, come sempre nelle nuove uscite Apple, hanno forse l’apparente difetto di essere troppo avanti. L’uscita del primo iMac colorato nel 1997 sbalordì per prestazioni e design, ma scandalizzò molti per l’assenza del floppy-disk. Oggi la tendenza di Apple è quella di ritenere la connessione a qualsiasi rete gestibile senza l’ausilio di cavi passando il più possibile per il WiFi; una scelta che a qualcuno provoca perplessità e insicurezza. Dato che abbiamo iniziato questo discorso continuiamo ad esaminare il mio MacBook, quali sono i suoi ingressi e a cosa servono. Le porte più comuni presenti in qualsiasi computer sono le USB (Universal Serial Bus). Questa tecnologia nata nel 1996 serve a collegare mouse, tastiere, dischi esterni, scanner, pennette di memoria, iPhone, iPad e tanto altro. Il mio portatile gestisce la seconda generazione, le cosiddette USB 2 che si differenzia dalla prima per le prestazioni di velocità di 480 Mbit/s (60 MByte/s). Dal 2007 siamo alla versione 3 che ha prestazioni di velocità che raggiungono addirittura i 4800 Mbit/s, ma solo recentemente hanno trovato spazio nei prodotti Apple, montate sia nei nuovi MacBook Air che nei nuovi MacBook Pro Retina. Per Apple in questi anni il cavallo di battaglia è stata la porta Firewire, presente anche nel mio portatile con velocità 800 Mbit/s, ma in evidente dismissione come testimonia l’assenza nei portatili di ultima generazione. Il nuovo fiore all’occhiello di Apple è la tecnologia studiata insieme ad Intel denominata Thunderbolt attraverso la quale si collegano monitor

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esterni, video, rete, dischi, tutto ad una velocità di 10 Gbit/s bidirezionali e quindi in teoria ogni connettore è in grado di ricevere e trasmettere 20 Gbit/s, ma con la potenzialità di essere sviluppato per poter essere espanso fino a 100 Gbit/s. Un computer ha anche altri fori e periferiche (prese per microfono, cuffia, altoparlanti, DVD/CD, tastiera, mouse e trackpad) tutte importantissime ma che sono evidentemente fin troppo note, meglio passare subito ad un nuovo capitolo su ciò che è immateriale: il software.

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3 CALCOLO ERGO SUM Senza software, anche un Mac sarebbe solo un insieme 
 di plastiche, metalli, circuiti e silicio.

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Fino a questo punto abbiamo parlato di oggetti che possiamo toccare con mano, magari ricchi di elementi microscopici come un processore, ma solidi, visibili. Ora ci accingiamo a descrivere l’immateriale, ciò che esiste ma che ha una consistenza paragonabile al pensiero. “Cogito ergo sum”, “penso dunque sono” diceva Cartesio. Mi auguro che non possa mai accadere che un computer arrivi autonomamente a questo grado di riflessione che aprirebbe scenari inquietanti, ma il paragone ci serve a capire che l’essenza di un computer passa attraverso tutta una serie di comandi che messi insieme determinano il cosiddetto software. Senza software, gli strumenti descritti nel capitolo precedente, sarebbero niente più che pezzi di silicio, metalli e plastiche ben assemblati e magari dal design raffinato come un Mac. Classificare questa massa di dati che popola un computer è necessario, ma potrebbe risultare operazione non immediatamente comprensibile, e quindi permettetemi di utilizzare una classificazione basata più sulla mia grossolana esperienza, piuttosto che descrizioni scientifiche.

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Una banale classificazione delle informazioni memorizzate in un computer potremmo farla rispetto alla funzione che questi dati svolgono, e quindi vi propongo la seguente distinzione: • sistemi operativi • programmi • risorse • documenti A loro volta i programmi, che sono un argomento centrale di questo libro, io li classificherei in: • operativi • di supporto • utility Questa suddivisione dei programmi potrebbe risultare arbitraria perché fa riferimento alla mia attività di grafico: ciò che io ritengo di supporto o semplice utility, in altri campi potrebbe risultare al centro del proprio operare. Sistemi operativi Un sistema operativo è l’insieme di tutte quelle informazioni che servono ad un computer per avviarsi, rimanere attivo e permettere quindi ad altri programmi di operare. È perciò un componente fondamentale senza il quale qualsiasi computer, benché acceso perché collegato alla energia elettrica, risulterebbe come un corpo completamente inanimato senza alcuna possibilità di funzione. I sistemi operativi più noti sono Unix, MacOS, Windows.

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Il primo è considerato il sistema operativo per eccellenza, anzi più che un sistema è una vera e propria famiglia di sistemi operativi per certi versi simili, ma con alcune caratteristiche diverse. Tra questi Unix-based, Linux è oggi il più noto e diffuso per non essere vincolato da licenze chiuse, essendo cioè open source, libero. Anche MacOs alla fine degli anni Novanta, dopo il ritorno di Steve Jobs alla guida di Apple, ha abbandonato l’originale architettura nata nel 1984 con Macintosh per dar vita al progetto di derivazione Unix, denominato MacOSX, dove X sta per decimo, ufficialmente messo in commercio il 24 marzo 2001. Da allora, dopo la prima versione denominata 10.0 sono uscite altre otto versioni tutte contraddistinte oltre che da un numero, anche dal nome di un felino: Puma, Jaguar, Panther, Tiger, Leopard, Snow Leopard, Lion e l’ultimo Mountain Lion. Del terzo sistema operativo, Windows, che dire? Riuscirò ad evitare le antiche polemiche sul plagio? Su Bill Gates antipatico e copione? Ma sì, siamo oramai superiori a queste cose. E comunque non credo che abbia bisogno di particolari presentazione il sistema operativo di Microsoft nato nel 1985 che continua ad essere il più diffuso al mondo. Non ho molto da dire perché il mio utilizzo è minimo, ridotto alla sola fase di test dei prodotti multimediali, o di come viene visualizzata da un utente Windows una pagina internet o una lettera in Word. Niente di più posso aggiungere se non che io Windows lo avvio all’interno del mio Mac utilizzando un software cosiddetto emulatore, Fusion, che può aprire contemporaneamente più sistemi operativi in finestre diverse e di cui darò qualche informazione in più nei prossimi capitoli.

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Programmi operativi Alla seconda categoria di software appartengono tutte le applicazioni, i programmi che usiamo per scrivere, per disegnare, per ritoccare le fotografie, per impaginare, per la multimedialità, ecc. Fino a qualche anno fa ognuna di queste esigenze aveva almeno un paio di possibilità di scelta, determinate da preferenze personali, che nascevano per lo più dal programma con cui si era iniziato. Tipica ad esempio era la “rivalità” tra due programmi come Illustrator e FreeHand che avevano funzioni molto simili nel disegno cosiddetto vettoriale. Altra tipica scelta che un grafico anni Novanta doveva fare era quella tra PageMaker o XPress per la impaginazione editoriale. Da un po’ di anni queste rivalità sono state appiattite soprattutto dopo che Adobe ha acquisito Macromedia, la software-house concorrente. In realtà tra i programmi per elaborare le immagini fotografiche non c’è mai stata concorrenza e da oltre vent’anni Photoshop è considerato leader incontrastato. In questo senso la Adobe potrebbe risultare antipatica per il monopolio assunto nel settore ma dobbiamo riconoscere che oltre a saper far bene il suo business, Adobe è da sempre molto attenta alle esigenze della grafica producendo programmi sempre impeccabili e altamente professionali. Quando nel 1999 smise di sviluppare PageMaker dando vita a InDesign, un programma definito provocatoriamente “XPress-killer”, possiamo dire che Adobe ha fatto un altro goal. Nel capitolo che dedico ai programmi, illustrerò meglio alcuni di questi software, secondo l’uso che ne faccio nel mio lavoro. Programmi supporto Alcuni programmi li ho definiti “di supporto” perché sono applicazioni che non possiamo considerare al centro dell’attività di un graphic-designer, ma in supporto nel lavoro quotidiano, a volte anche in maniera deter-

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minante. Ad esempio, tutti quei programmi che attraverso la rete internet rendono possibili relazioni a distanza, come Skype, ma anche gli stessi browser come Safari, Firefox o Chrome, i programmi per leggere ed archiviare la posta elettronica, come Mail, Thunderbird o Outlook. Programmi utility Un’altra categoria di programmi l’ho definita “utility”, perché sono software che essenzialmente svolgono la loro funzione aiutandoci a fare qualcosa: per esempio a mantenere il computer sempre in ordine, oppure a gestire migliaia di caratteri senza perderci, o anche a formattare o riparare correttamente un disco rigido. Risorse Le risorse sono dati che inseriamo nel computer che solitamente vanno ad interagire con il sistema operativo rendendolo più potente rispetto a certe funzioni standard. Più potente non necessariamente significa più veloce. Anzi in alcuni casi una grande quantità di risorse appesantiscono l’operatività di tutto il sistema, tanto da rendere il lavoro insopportabilmente rallentato. Uno di questi casi è l’uso delle font, ovvero mettere a disposizione del nostro lavoro grandi quantità di caratteri; di questo scriverò più avanti in maniera più dettagliata. I documenti Tutto ciò che noi elaboriamo con un programma, che produce visivamente nel nostro monitor un disegno, un libro, un poster, una foto, un video, ecc. sarebbe fatica sprecata se non potessimo conservarlo allo spegnimento del computer, se non potessimo trasferire il lavoro da un computer all’altro, o duplicarlo in numerose copie. Tutto questo è possibile perché 79

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tutte le informazioni in formato digitale del nostro lavoro vengono salvate nella memoria del nostro disco rigido, un contenitore ordinato di dati che tecnicamente chiamiamo con il termine inglese “file”, in italiano detto anche “documento”. Questa descrizione avrà già sollecitato il sorriso di qualcuno: “Vabbé Walter, ci hai presi proprio per scemi? Vuoi che ci sia qualcuno che nel 2013 non sappia queste cose?”. Posso assicurarvi che nella mia esperienza di insegnante, ho avuto studenti bravissimi, ai quali però certe questioni, anche elementari, non risultavano per niente chiare e quindi spendere qualche parola sull’argomento può essere utile. Se non serve: meglio. Ogni programma produce documenti diversi, che oltre ad avere il nome che abbiamo scelto per identificarlo, sono riconoscibili da una icona caratterizzante, determinata automaticamente dall’applicazione con cui è stato creato. È bene precisare che questo passaggio non avviene in maniera identica in tutti i sistemi operativi. Windows ad esempio riconosce il formato di un file in base all’estensione, ossia tre o quattro lettere poste dopo il nome del file seguite da un punto (.doc .txt .png ...). Essendo Windows il sistema operativo più diffuso è diventata prassi comune anche in altri sistemi operativi come MacOs o Unix applicare il metodo dell’estensione per rendere universalmente riconosciuti i documenti e distribuirli attraverso internet. Questa estensione potremmo decidere di renderla nascosta, lasciando dedurre la tipologia del file solo dall’icona. Ma attenzione: quando l’estensione è visibile può essere facilmente cambiata insieme al nome, e tale operazione renderebbe il documento illeggibile perché confonderebbe il computer che cercherebbe di aprile il file con il programma sbagliato. Solitamente ogni programma registra due tipologie di documenti: proprio e di interscambio. I primi sono quelli che contengono tutte le informazioni relative alle potenzialità di quel programma, i secondi sono invece

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utili per far sì che quel documento possa essere aperto, utilizzato, inserito in altri programmi. Facciamo un esempio: realizzando una immagine con Photoshop io creo un documento ricco di tante informazioni come fosse un panino ricco di strati (una foto di base, una immagine più piccola sovrapposta, una scritta con un’ombra che si sovrappone in semitrasparenza alla foto, ecc.). Nel momento in cui salvo, scegliendo il formato proprio che è riconoscibile dalla estensione .psd, alla riapertura avrò nuovamente tutti gli strati del panino modificabili perché è come se avessimo ripreso il documento esattamente come lo avevamo lasciato quando lo avevamo chiuso. Se invece scelgo di salvarlo con una tipologia di documento di interscambio, per esempio .jpg per essere utilizzato da qualsiasi altro programma di grafica, il panino è come se venisse pressato, e perciò riaprendolo con Photoshop apparentemente lo vedremmo come lo avevamo lasciato, ma non sarà più diviso nei suoi ingredienti (tecnicamente chiamati livelli, ma di questo parleremo più avanti quando descriverò Photoshop nello specifico). I documenti possono essere classificati secondo la tipologia (p.e. file grafici, file audio, file video, file testo, ecc.) ognuna delle quali contiene numerose tipologie di documento con caratteristiche diverse, che sono proprie del programma o universali di interscambio. documenti grafici .png .bmp .gif .jpg .psd ... documenti di testo .txt .doc .docx .rtf ... documenti audio .aif .mp3 .wav ... documenti video .mov .avi .mpeg .wmv .mp4 .3gp .flv ...

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Entrerò nello specifico dei documenti di impaginazione o di altre tipologie di file quando parlerò dei programmi che utilizzo. Ora ritengo sia opportuno dedicare un capitolo per descrivere in maniera generale come utilizzare e salvare le immagini cercando di mettere un po’ di cose in chiaro.

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4 UNIRE O RIEMPIRE I PUNTI? Immagini bitmap e vettoriali a confronto

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Ăˆ giusto dedicare un capitolo alle immagini perchĂŠ quando parliamo di immagine digitale è facile fare confusione in quanto ve ne sono di diversi tipi: quelle che creiamo direttamente al computer, quelle importate con uno scanner o realizzate con una macchina fotografica digitale, quelle tecniche, quelle pittoriche, quelle 3D, quelle in movimento, quelle destinate ad essere stampate, quelle che rimarranno sempre dentro un computer per essere visualizzate con un monitor o un video proiettore. Tutte hanno in comune l’essere una rappresentazione numerica, ossia digitale, ma ognuna di queste merita una descrizione particolare. Iniziamo con ordine e suddividiamo innanzitutto le immagini digitali in due grandi categorie: immagini bitmap, immagini vettoriali.

Le immagini bitmap, chiamate anche immagini raster, utilizzano una griglia di piccoli punti, detti pixel.

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Immagini © 2012 Quercetti & C. S.p.A.

Come fosse il gioco della battaglia navale, a ciascun punto di un’immagine bitmap viene assegnata una posizione specifica ed un valore di colore. Per analogia potremmo paragonare questa tecnica, fatta di punti colorati a quei chiodini colorati che da bambini inserivamo in un rettangolo di plastica bianca pieno ti tanti piccoli fori.

Le immagini vettoriali invece consistono di linee rette e curve definite da oggetti matematici chiamati vettori (curve di Bézier). I vettori descrivono le immagini in base alle loro caratteristiche geometriche. Ad esempio, quando disegnate un cerchio di tre centimetri in un programma vettoriale, il programma crea il cerchio basandosi sulla sua forma e sulle sue dimensioni e non su una mappa di punti colorati come nelle immagini bitmap. Facciamo qualche esempio che utilizzavo all’ISIA per gli studenti che facevano più fatica a comprendere questa importante differenza. Immagino che tutti abbiate avuto sotto mano la “Settimana enigmistica” e in un momento di estremo relax, abbiate riempito con la penna quelle immagini con figure contrassegnate da un puntino, poi siete passati alla figura affianco e avete tracciato delle linee per unire i punti seguendo dei numeri e ottenere così 85

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un disegno. Bene, il risultato della prima immagine è parente stretta di una bitmap, il secondo di un disegno vettoriale. Non vi ho convinti o non conoscete la “Settimana enigmistica”? Provate allora a pensare di decorare un tessuto, io non l’ho mai fatto ma ho visto mia madre tante volte farlo: se utilizzo la tecnica del punto croce è come lavorassi con il bitmap; se invece infilo l’ago in un punto e tendo il filo per cinque centimetri, la linea che ottengo è più simile alla grafica vettoriale. Questo secondo banale esempio ci consente di capire che una immagine bitmap ha come caratteristica fondamentale la risoluzione (quanti puntocroce riesco ad inserire in un centimetro?) mentre in una immagine vettoriale il filo che tendo è visivamente sempre uguale a prescindere dalla trama sottostante. Alla classica domanda cosa sia meglio, vettoriale o bitmap, non c’è risposta perché tutto dipende dall’uso che ne dobbiamo fare. Le figure geometriche, o le illustrazioni anche molto complesse e ricche di dettagli possono essere vettoriali. Le fotografie non possono che essere bitmap e dipendenti quindi dalla risoluzione. Anni fa dovevo dedicare diverso tempo a spiegare l’importanza di questa caratteristica. Oggi, con la grande diffu-

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sione delle macchine fotografiche digitali il numero dei pixel è diventato un concetto comune, che spesso provoca anche un po’ di rabbia perché dopo un acquisto esce immediatamente un nuovo modello con un numero maggiore di megapixel. Le immagini vettoriali le potete spostare, ridimensionare o cambiare di colore senza perdere la qualità dell’immagine proprio perché sono indipendenti dalla risoluzione, non sono cioè definite da un numero fisso di pixel, e quindi con qualsiasi stampante vengono ridimensionate automaticamente in modo da apparire sempre dettagliate e nitide: la qualità del risultato dipenderà unicamente dalla qualità della stampante. Ne risulta che le immagini vettoriali rappresentano la scelta migliore per i caratteri e per i logotipi, che richiedono linee nitide rappresentabili in qualsiasi dimensione. Va tenuto presente che i monitor sono comunque costituiti da un retino di pixel, e quindi sia le immagini vettoriali che le immagini bitmap vengono rappresentate a video come una mappa di pixel. I programmi per il disegno vettoriale convertono le loro forme in pixel per la visualizzazione, ma ingrandendo l’immagine i contorni rimangono sempre dettagliati anche nelle curve, mentre entrando in una foto si vedranno grandi quadratoni che riproducono il ridimensionamento dei pixel della foto. 87

I monitor sono costituiti da un retino di pixel che assumono una colorazione diversa dovuta alla intensità dei colori principali della sintesi additiva (Red Green Blue).

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Quindi lavorare con immagini bitmap significa modificare gruppi di pixel e non oggetti o forme come nelle immagini vettoriali. Con questi gruppi di pixel si possono rappresentare gradazioni di forme e di colore infinitesime, ed è per questo che le immagini bitmap costituiscono lo strumento più comune per immagini fotografiche o illustrazioni che simulano il disegno pittorico. Ogni pixel assume una colorazione possibile tra milioni di varianti. In realtà anche questa è stata una conquista tecnologica graduale. Come vi ho raccontato, il mio primo Macintosh II aveva una scheda grafica in bianco e nero, senza neppure le tonalità di grigio. Questo significava che i pixel avevano solo due possibilità, accesi o spenti, quindi o bianchi o neri. Tecnicamente quella scheTabella colore a 8 bit = 256 colori da grafica veniva chiamata a 1 bit, dove 1 non è il numero di colori (infatti sono due: bianco e nero), ma l’esponente posto sopra queste due possibilità, ovvero 21 = 2. Circa un anno dopo cambiai la scheda con una più evoluta definita a 8 bit. Per il ragionamento espresso poco fa, non significa che i colori diventavano 8, ma passavo da una scheda 21bit = a una scheda 28bit ovvero 256 colori. L’anno seguente il passo fu grandioso (e costoso) per una scheda a 24 bit, ovvero 224bit corA 24 bit = 16 Milioni di colori rispondente a oltre 16 milioni di colori.

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Questa potenzialità riproduttiva dei colori viene chiamata profondità del pixel, è comunque una simulazione della realtà attraverso valori numerici, la cui fedeltà dipenderà dalla qualità degli strumenti utilizzati. Non a caso, monitor che quando sono spenti appaiono identici, quando sono utilizzati possono risultare molto differenti, o sensibili alla posizione da cui lo guardiamo. Queste differenze giustificano prezzi molto diversi. Un altro importante aspetto riguardante i monitor è questo: quando stiamo elaborando immagini per la stampa, queste solitamente sono in quadricromia, cioè composte dalla miscela dei colori primari cyan, magenta, giallo e nero, che svolgono la loro funzioSINTESI SOTTRATTIVA ne per riflessione, la cosiddetta sintesi sottrattiva visibile quando ad essere illuminato è l’ambiente (un disegno su un foglio di carta lo vediamo se abbiamo una luce accesa). I monitor invece lavorano con luce propria non riflessa, sommando quindi i colori primari rosso, verde e blu, della sintesi additiva, la cui inattività è assenza di energia che non genera nulla, e quindi visivamente perSINTESI ADDITIVA cepiamo il nero, mentre l’addizione alla massima potenza dei tre colori genera la luce più chiara, ovvero il bianco. I più attenti avranno notato che la sintesi sottrattiva è composta da tre colori, mente la quadricromia ha in più il nero. Il motivo è molto semplice e anche facilmente verificabile: mescolando i tre colori primari in percentuali 89

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In queste due pagine sono presentate combinazione di quadricromia utilizzando tre impostazioni dierenti di generazione del nero: massima/media/nessuna. In questa pagina tutte le combinazione sono in totale assenza di nero. Nella pagina seguente le stesse combinazioni con l’aggiunto del nero.

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uguali si ottiene come risultato un colore molto scuro che però non sarà nero come descritto dalla teoria. L’immagine sarebbe cromaticamente quasi completa, ma apparirebbe poco incisiva. Per questo motivo è necessario aggiungere il nero, inchiostro oltretutto quasi sempre necessario per stampare il testo. Rispetto al nero si potrebbero aggiungere altre considerazioni, a cominciare dalla quantità di nero generata in fase di creazione della quadricromia che può essere controllata dai parametri delle impostazioni colore in Photoshop. Non vorrei aver creato confusione, ma questa differenza fra composizione sottrattiva e additiva è da tenere sempre ben presente: sono conoscenze che hanno risvolti molto pratici in fase produttiva e ci servono per capire che non possiamo fidarci mai abbastanza di ciò che vediamo riprodotto da un monitor, se il risultato finale sarà stampato su carta. Della risoluzione abbiamo già parlato a grandi linee con delle analogie elementari per capire l’importanza di questo fattore. Permettetemi ora di essere più tecnicamente preciso sperando di non annoiarvi troppo. La risoluzione di una immagine consiste nel numero di pixel visualizzato per unità di lunghezza. Poiché in questo campo i “padroni” sono gli americani la risoluzione viene solitamente misurata secondo la cultura anglosassone in pixel per pollice (ppi - pixel per inch). Un’immagine ad alta risoluzione contiene più pixel, che sono di conseguenza più piccoli, rispetto ad un’immagine delle stesse dimensioni con una risoluzione inferiore. Ad esempio, un’immagine di 1 pollice per 1 pollice con una risoluzione di 72 ppi contiene complessivamente 5184 pixel (72 pixel di larghezza x 72 pixel di altezza = 5184). Poiché le immagini a risoluzione elevata usano un numero maggiore di pixel per unità di superficie, possono riprodurre

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particolari e transizioni di colore più dettagliati durante la stampa rispetto alle immagini a risoluzione più bassa. Una volta che un’immagine è stata digitalizzata o creata con una determinata risoluzione, l’aumento successivo della risoluzione attraverso un programma (p.e. Photoshop) non produce un miglioramento della qualità in quanto il programma non farà altro che distribuire la stessa informazione di pixel tra un numero maggiore di pixel. La risoluzione migliore per un’immagine dipende dall’utilizzo che se ne vuole fare. Per un’immagine che dovrà essere stampata, l’uso di una risoluzione troppo bassa origina un effetto di pixelizzazione, cioè pixel di grandi dimensioni che producono un risultato visivo molto grossolano. L’utilizzo di una risoluzione troppo alta (cioè pixel di dimensioni inferiori rispetto a quello che serve) aumenta la dimensione del file e può richiedere più tempo del necessario per la stampa o la distribuzione tramite internet. Chiaramente per dimensione del file di un’immagine digitale non si intende la misura di base e di altezza, ma il “peso” espresso in kilobyte o megabyte di cui abbiamo già parlato, e che è proporzionale al numero totale di pixel nell’immagine. Un’immagine di due centimetri per due centimetri a 200 ppi contiene quattro volte il numero di pixel di un’immagine di due centimetri per due centimetri a 100 ppi, ed il file è quindi quattro volte più pesante. La dimensione del file costituisce un fattore importante non solo per determinare lo spazio su disco necessario a memorizzarlo, ma anche per la velocità utile a modificarlo e soprattutto distribuirlo tramite internet.

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La risoluzione di una immagine espressa in ppi non va confusa né con la capacità riproduttiva di una stampante, espressa in punti per pollice “dpi” (dot per inch) né con la frequenza del retino. La retinatura di una immagine viene utilizzata da sempre, anche prima dell’avvento del computer, per ottenere le tonalità degli inchiostri nella stampa industriale, per esempio offset. In quest’ultimo caso il retino viene tradizionalmente misurato dal numero linee per unità di misura (pollice o centimetro) e quindi siglato come lpi o lpc. È un argomento che può procurare equivoci e non è facile neppure trovare analogie simpatiche. Potrei dire che nel puntocroce la frequenza del retino (lpi) è data dalle dimensioni delle croci, mentre la capacità riproduttiva (dpi) dalla dimensione del filo che è chiaramente sempre più piccolo della croce. Il paragone forse non è dei migliori e potrei confondere ulteriormente la questione della risoluzione. Più propriamente potremmo dire che una comune stampante utilizza più punti (in una getto d’inchiostro più gocce), per rappresentare un singolo pixel, e quindi: - con ppi ci si riferisce al file, alla immagine digitale, al software, - con dpi si parla di questioni relative all’hardware (stampanti, monitor) e alla loro capacità riproduttiva, alla densità delle singole gocce di una stampante a getto di inchiostro; - con lpi si determina il retino per la stampa industriale. Essendo questa una cultura riproduttiva più tradizionale è meno influenzata dal sistema di misurazione anglosassone è facile trovare uno stampatore che vi chiederà se stampare il vostro depliant a 60 o 70 linee: in questo caso sta facendo riferimento al cm e non al pollice.

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A conclusione di questo capitolo dedicato alle immagini riporto un elenco in ordine alfabetico dei tipi file di immagine più diffusi. Ce ne sono tanti, riporto solo quelli che conosco e quelli di interscambio, ossia universali e non specifici di programmi come PSD (Photoshop) o AI (Illustrator). BMP Ad un utente Mac non capita mai di scegliere questo formato, ma può capitare di ricevere immagini .bmp perché è il formato standard di Windows. Se state utilizzando Photoshop e volete salvare un’immagine in questo formato, potete specificare il formato Microsoft Windows o OS/2 e una profondità per l’immagine compresa fra 1 bit e 24 bit. Questo tipo di compressione non elimina il dettaglio dall’immagine. GIF CompuServe Graphics Interchange Format è un formato di file da molti anni usato per visualizzare grafica e immagini bitmap in scala di colore ovvero non più di 256 colori, usato quasi esclusivamente in documenti html e altri servizi online. Gif è un formato compresso sviluppato per ridurre al minimo il tempo di trasferimento tramite internet. Quando salvate un’immagine come gif, potete specificare come apparirà mentre viene scaricata. Selezionate “interlacciato” per visualizzare l’immagine gradualmente, aumentando il dettaglio man mano che viene scaricata. È possibile specificare l’aspetto di aree trasparenti nell’immagine. Esiste un particolare modo di salvare una sequenza di immagini gif tutte in un unico file creando un effetto di animazione.

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EPS Il formato di file immagine Encapsulated PostScript è supportato dalla maggior parte dei programmi di impaginazione e di illustrazione e fino a qualche anno fa era insieme al TIFF il formato preferito per queste applicazioni perché era l’unico che poteva contenere contemporaneamente elementi vettoriali e immagini bitmap, ed esportare da Photoshop immagini con tracciati vettoriali di ritaglio che permettono di rendere trasparenti alcune parti scontornate. JPEG Il formato Joint Photographic Experts Group è uno dei migliori modi per visualizzare fotografie in internet. Diversamente dal formato gif, jpeg mantiene tutte le informazioni dei colori di un’immagine RGB. Inoltre jpeg utilizza uno schema di compressione che riduce la dimensione del file identificando ed eliminando i dati non essenziali per la visualizzazione. Ma poiché questo schema di compressione jpeg elimina dei dati, viene definito un sistema a perdita di informazioni. Ciò significa che un’immagine, dopo essere stata compressa e decompressa, non sarà identica all’originale. Un livello di compressione maggiore produce un file più leggero e un’immagine di qualità inferiore, mentre un livello di compressione minore produce un’immagine di qualità superiore. Nella maggior parte dei casi, un livello di compressione con l’opzione di “Qualità massima” produce un risultato non diverso dall’originale.

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PDF Il formato Portable Document Format merita un capitolo a parte, e qualcosa approfondirò più avanti descrivendo Acrobat. È stato sviluppato da Adobe nel 1993 per descrivere le immagini, ma anche documenti complessi di impaginazione. Eredita le funzionalità dell’EPS di includere sia bitmap che elementi vettoriali, garantendo in più un’ottima visualizzazione con Acrobat Reader che è distribuito gratuitamente ed ha funzioni di ricerca e navigazione nel documento PDF attraverso collegamenti ipertestuali. PICT Non più importante come un tempo, lo inserisco più per rispetto della storia perché è stato il formato più usato dalle applicazioni di grafica e di impaginazione di Macintosh come file intermedio per il trasferimento fra le applicazioni. Il formato Pict era particolarmente efficace per la compressione di immagini che contengono grandi aree di colore a tinta piatta. PNG Il formato Portable Network Graphic è un formato nato alla fine del 1997 appositamente per il Web e la multimedialità. Come il formato gif comprime senza perdere di qualità, supporta però anche i milioni di colori come il formato jpeg, ma a differenza di quest’ultimo permette di determinare aree che siano trasparenti anche con contorni morbidi semitrasparenti. Esiste un particolare file png che è esclusivo del programma Adobe Fireworks che contiene molte informazioni relative a funzionalità di questo programma.

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RAW Raw non è una sigla, in inglese significa “crudo”, “grezzo”. Non è un formato immagine vero e proprio ma una particolare tecnica di memorizzazione dei dati grezzi , non interpretati, registrati dal sensore di una macchina fotografica digitale. Questi dati oltre a descrivere una immagine nella migliore qualità possibile contiene tutte una serie di informazioni relative allo scatto fotografico come la macchina utilizzata, il diaframma, il tempo di esposizione, la sensibilità ISO, ecc. I formati Raw sono quindi molteplici e proprietari delle diverse industrie fotografiche (Nikon: NEF - Canon: CR2 - Olympus: ORF - Pentax: PEF - ecc.) TIFF Il Tagged-Image File Format è un formato per immagini bitmap sviluppato nel 1986 da Aldus, la software-house nota per aver ideato FreeHand e PageMaker. Viene usato per lo scambio di immagini tra applicazioni e piattaforme diverse. TIFF supporta la compressione LZW, un metodo per rendere più leggeri i file senza perdite di dati lasciando quindi inalterati i dettagli dell’immagine.

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5 HO PROPRIO UN BEL CARATTERE “Le diversità tra carattere e carattere sono sempre minime in sé, 
 e pure l’occhio lo avverte e ne gode...” 
 Da una lettera del 1925 di Pastonchi ad Arnoldo Mondadori.

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Ho raccontato nella parte iniziale di questo libro che disegnare alfabeti, copiare caratteri, è stata una mia passione fin dall’infanzia che ho continuato a coltivare per lungo tempo anche prima di diventare studente all’ISIA. Ricordo una certa emozione quando qualcuno mi regalò un catalogo di trasferibili Letraset, che ho sfogliato per diversi anni con molta attenzione. Molti grafici che hanno grosso modo la mia età sono stati attratti negli anni Ottanta dal sistema Macintosh, perché vedevano in quel piccolo attrezzo non solo un grande sostituto dei costosi trasferibili, ma addirittura la possibilità di non dover andare più nei service di fotocomposizione. In effetti il successo di questo sistema innovativo ha rappresentato tipograficamente parlando una vera e propria rivoluzione, con molti vantaggi per il lavoro del graphic-designer, e qualche effetto collaterale. I vantaggi credo siano ben evidenti: migliaia di famiglie di caratteri tutte a disposizione a portata di click non sono poca cosa.

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Gli effetti collaterali sono però diversi, non tutti gravi, ma sufficientemente fastidiosi per richiedere una descrizione. Il più evidente è “aver dato le perle ai porci”. Aver messo cioè a disposizione di qualsiasi utente di computer, non necessariamente un graphicdesigner, uno strumento con cui strapazzare, mostruosizzare, il faticoso lavoro di chi i caratteri li ha disegnati con tantissima cura, cultura e rispetto della secolare tradizione tipografica. Caratteri allungati, allargati, distorti, messi in prospettiva, ombreggiati, sfumati, hanno rappresentato un periodo terribile ai miei occhi e non hanno fatto altro che peggiorare la scarsa cultura tipografica nel nostro paese. Non che in altri paesi gli effetti di titolazione proposti da Word, non abbiano creato obbrobri, ma ho come l’impressione, forse sbagliata, che in Italia il terreno per cadere nel cattivo gusto fosse più fertile. Gli stessi graphic-designer, spesso non hanno rappresentato un esempio di virtù, dando sfogo in maniera troppo euforica alla loro mania di possesso di font, utilizzando in molti casi una quantità spropositata ed immotivata di caratteri all’interno di uno stesso progetto. Ma questo è un problema di cultura e di tecnica, un po’ come usare Photoshop con troppo entusiasmo senza aver visto una immagine di un grande fotografo o non aver passato un po’ di ore in camera oscura. Conoscere la storia dei caratteri, saperli classificare (a me è servito sempre molto lo schema di Aldo Novarese), essersi sporcati un po’ le mani con il piombo di qualche lettera tipografica, provando a comporle a distanziarle con antichi trucchi del mestiere, aiuta ad apprezzare i caratteri ed accostarli con la dovuta cognizione di causa.

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Anche Steve Jobs, nel celeberrimo discorso alla Stanford University, ha confermato quanto ho appena scritto: tutto sarebbe stato diverso se lui stesso non avesse frequentato un corso di calligrafia: Il Reed College all’epoca offriva probabilmente la miglior formazione del Paese relativamente alla calligrafia. Attraverso tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai dei caratteri serif e san serif, della differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, di che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era artistico, bello, storico e io ne fui assolutamente affascinato. Nessuna di queste cose però aveva alcuna speranza di trovare una applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo tutto per il Mac. È stato il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica. Se non avessi mai lasciato il college e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o font spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. 103

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Un altro effetto collaterale dovuto all’abbondanza di font è di tipo tecnico. Avere a disposizione migliaia di font, oltre che essere indice di insicurezza o di mania di “possesso”, può procurare un appesantimento del nostro computer, rendendolo decisamente meno performante. Ciò è dovuto al fatto che ogni carattere installato diventa una risorsa che il sistema operativo mette a disposizione di tutti i programmi che andremo ad utilizzare. Per ovviare a questo rallentamento, il sistema operativo, come anche alcuni programmi importanti, generano una particolare memoria chiamata cache (memoria tampone) in cui vengono registrate le informazioni fondamentali per velocizzare i processi. Tuttavia la cosa migliore, che consiglio vivamente, è quella di non rendere attive tutte le font che abbiamo copiato nel computer, ma soltanto quelle più comunemente e diffusamente utilizzate. Per rendere attivi i caratteri in quasi tutti i sistemi operativi è sufficiente inserirli in una apposita cartella chiamata Fonts, che può essere nella cartella sistema, nelle cartelle Library di sistema o di qualsiasi utente. Nel Mac l’attivazione può essere fatta anche attraverso un apposito programma chiamato Libro Font. Esistono anche altri software a pagamento di terze parti, che permettono una gestione dei caratteri più precisa e ordinata, come ad esempio il vecchio e caro Suitcase oppure FontExplorer che sto utilizzando da qualche anno con sufficiente soddisfazione. Alla classificazione storica dei caratteri, tipo quella già citata di Aldo Novarese, oggi dobbiamo aggiungere una nuova categoria di font che sono state realizzate appositamente per dare il meglio di sé in un monitor, dove notoriamente la lettura non è agevole come sulla carta. Alcune di queste vengono chiamate font di sistema, perché vengono installate insieme al sistema operativo. È logico che per ogni sistema le società proprietarie hanno pensato bene di usare caratteri diversi, anche quando fossero simili: se

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Mac usa Curier, Helvetica e Times era logico che Windows optasse per Curier New, Arial e Times New Roman. Internet ha necessariamente appiattito un po’ queste differenze dando vita ad una serie di caratteri definiti appunto web font, come il Georgia, il Trebuchet e il Verdana che troviamo in tutti i sistemi operativi. Dal punto di vista tecnico esistono diverse tipologie di font, che fino alla fine degli anni Novanta erano totalmente incompatibili tra i sistemi operativi. Font Bitmap Prima che Adobe introducesse il PostScript (linguaggio che permette la descrizione di un disegno vettoriale) le font erano soltanto di tipo bitmap disegnate quindi da una matrice di punti. Per questo motivo venivano chiamate anche “font a dimensione fissa”, in quanto rappresentate correttamente solo in alcune dimensioni, solitamente 9, 10, 11, 12, 14, 18, 24, 36 punti. Questo tipo di font non permette una stampa ad alta risoluzione in quanto le dimensioni fanno riferimento alla risoluzione del video, ovvero di 72 dpi, mentre una stampante di buona qualità necessita almeno di 300 dpi. Type1 Con l’avvento del PostScript, Adobe introduce la font definita Type1 composta da due tipi di file da tenere obbligatoriamente vicini per consentire il corretto funzionamento: in un file sono inserite le informazioni bitmap indispensabili per essere visualizzato sui monitor ed essere richiamato nei menù dei programmi, mentre nell’altro file sono contenute le informazioni vettoriali da inviare alle stampanti che hanno la capacità di inter105

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pretare il linguaggio PostScript e stampare quindi alla massima risoluzione i caratteri di qualsiasi dimensione. Con questo sistema la qualità di stampa è unicamente determinata dalla qualità della stampante. TrueType Alla fine degli anni Ottanta, Apple entra in competizione con Adobe creando una propria tipologia di formato font chiamato TrueType, composto da un unico file in cui sono contenute le informazioni sia bitmap che vettoriali. Le differenze con le Type1 sono apprezzabili soprattutto da un tipografo o un grafico esperto. Personalmente ho notato alcune piccole diversità nella spaziatura tra i caratteri e nella resa a video che mi hanno fatto preferire le Type1 per la stampa e le TrueType per la multimedialità, ad esempio nella realizzazione di CDRom con Director. OpenType Un’evoluzione del TrueType può essere considerata la tipologia di caratteri definita OpenType sviluppato da Microsoft e portato avanti da Adobe che oggi fornisce le proprie font in questo formato. Sono diverse le caratteristiche di OpenType che lo rendono il formato più interessante: la codifica basata su Unicode permette di utilizzare il font per qualsiasi lingua o per più lingue allo stesso tempo; possono essere utilizzati sia su sistemi Macintosh, Windows e Unix; ogni font può avere fino a 65.536 glifi; i font possono contenere caratteristiche tipografiche avanzate, che permettono crenature particolari e la sostituzione automatica di coppie di caratteri con le legature, per esempio: fi fl ff ffi e ffl.

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Fino al sistema operativo MacOs 9, le differenti tipologie di font erano facilmente identificabili dalle icone diverse.. !

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Da quando esiste il sistema operativo MaOsX le icone delle font sono molto simili. Solo ingrandendole si nota una piccola scritta che ne indica la tipologia: FFIL (Font File) è solitamente il contenitore dei caratteri bitmap, ma anche di TrueType, che nel sistema operativo precedente aveva come icona una valigetta (suitcase), LWFN è il corrispondente file vettoriale utile alla stampa, TTF sono le font TrueType, OTF invece sta per OpenType Font. Esistono anche le TTC (TrueType Collection) un’estensione del formato TrueType che permette di combinare più tipi di caratteri in un singolo file utile anche per le lingue orientali e infine le DFont (Datafork TrueType) un tipo di carattere utilizzato da Apple solo con Mac OS X non compatibile con Windows. Oltre a queste caratteristiche di natura tecnica va aggiunto che le font, come qualsiasi prodotto, hanno chi le progetta e le disegna, chi le produce e chi le commercializza. Ci sono font che possono essere acquistate da fornitori diversi, mentre altre sono in esclusiva presenti solamente in certi cataloghi. I produttori più diffusi sono: Adobe, Font Bureau, Font Shop, Linotype, Neufville, Bitstream, Émigré, T-26, Elsner & Flake, DsgnHaus, Red Rooster, International Type Founders. Tutte queste differenze che ho descritto, sia di carattere tecnico rispetto alla tipologia del file, sia sul produttore e distributore, potrebbero sembrare approfondimenti superflui, ma in realtà possono essere causa di gravi problemi. Può capitare infatti di utilizzare una font con lo stesso nome 107

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e ottenere risultati differenti in interlinea e spaziatura che potrebbero determinare l’aumento del numero di pagine. Un classico esempio è il carattere Gill Sans che produce risultati grafici visibilmente diversi a seconda che si utilizzi la versione inserita nel sistema operativo oppure quella di Adobe o di altri fornitori. È questo uno dei motivi per cui in molti casi, a conclusione di un lavoro quando si consegna tutto alla stampa, ci si sente più sicuri se si convertono i testi in tracciati. Ma questo non sempre è possibile. Va aggiunto per attenuare l’ansia che sto generando con questo discorso, che un uso sapiente di Acrobat non dovrebbe comportare alcun problema: ma bisogna comunque stare attenti. Anche quando si fanno presentazioni con Keynote o altri programmi multimediali può capitare nel passaggio di mano di un lavoro, che utilizzando la stessa font ma in versioni diverse Type1 o OpenType, si ottengano leggere differenze che sono evidenti soprattutto quando i testi sono allineati ad immagini o ad altri oggetti grafici. Più avanti scriverò qualcosa sui software che si usano per realizzare caratteri, una attività questa che purtroppo in Italia non ha la giusta e meritata considerazione. Ma iniziamo appunto a parlare di programmi.

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3ª TAPPA

GIROVAGANDO 
 DI PROGRAMMA IN PROGRAMMA 109

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Non spaventatevi dall’immagine dei floppy-disk, anche se mi piace andare indietro con la memoria, non partirò da così lontano. È un’immagine tratta dal depliant che mi fu dato all’acquisto del mio primo Macintosh nel 1988, quando ogni programma risiedeva in un floppy-disk da 800 kbyte. Come ho già scritto nella premessa, questo libro non vuole essere un manuale da prendere troppo sul serio, ma come un racconto di esperienze personali, utili in quanto tali e nulla più. Dopo la lunga carrellata del capitolo precedente sulle immagini, non posso che iniziare a parlare di Photoshop, mi verrebbe da aggiungere, il principe. Eh già! È proprio un signor programma che mi accompagna fin dalla sua nascita in quell’ormai lontano 1990. Come si dice di un ragazzino prodigio: “l’ho visto crescere”.

Adobe, fondata nel 1982 da Warnock e Geschke, era già ben nota a noi grafici “smanettoni” per due motivi: aveva inventato il linguaggio postscript (alla base del disegno vettoriale e delle prime stampanti laser), aveva creato alla fine del 1986 un programma ancora oggi molto diffuso: Illustrator. Io in realtà non sono mai stato un fan di questo programma tanto che non ne parlerò in questo libro. Ecco perché continuo a ribadire che questo non è un manuale.

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Non si arrabbino i fan di questo programma, sono ben consapevole di lasciare un grande vuoto, ma preferisco sempre parlare di ciò che conosco. Un tempo avrei dedicato pagine intere a FreeHand, il concorrente, grande rivale di Illustrator, che però dal 2004 non è più stato sviluppato e oggi, con i nuovi sistemi operativi, non è più possibile aprire. Se FreeHand non si riesce ad usare, e di Illustrator non intendo parlare, qualcuno potrebbe chiedersi di cosa scriverò. Il mio lavoro è principalmente di impaginazione e di creazione di oggetti vettoriali semplici, e ciò che un tempo svolgevo con FreeHand, oggi lo realizzo con molta soddisfazione con un’altra importante creatura di Adobe, InDesign, una vera meraviglia, nata nel 1999 in sostituzione di PageMaker. Ma iniziamo ad entrare un po’ più nel dettaglio dei programmi e cominciamo quindi con Photoshop.

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1 PHOTOSHOP Come ho scritto nella parte introduttiva di questo libro, studiare all’ISIA ha da sempre dato la possibilità ai futuri grafici, di sperimentarsi nelle diverse discipline del comunicare. Di esami di fotografia ne ho dati ben quattro, e per realizzare la mia tesi ho passato una quantità smisurata di ore in un bagno di casa mia che avevo adibito a camera oscura per sviluppare fotografie a colori, che per richiesta di precisione e per assenza totale di luce, è cosa ben diversa e più complessa dello sviluppare in bianco e nero. Avevo acquistato strumenti a basso costo per il mantenimento della temperatura, dei tamburi autorotanti che sembravano pezzi derivanti da lavatrici, che avevano trasformato il bagno, per la disperazione di mia madre, in una sorta di macchina del professor Baltazar. Ho voluto fare questa premessa per farvi capire quale sia stato il mio grado di soddisfazione nel trovarmi di fronte ad un programma come Photoshop, ad avere potenzialmente tra le mani uno strumento capace di fare tanto di più di ciò che facevo in camera oscura, senza stare al buio, senza la preoccupazione dei gradi centigradi e di respirare chissà quali vapori. Era lì tutto a portata del mio mouse. È però vero che quella esperienza fatta sul campo aveva messo nelle mie mani una capacità di gestire le immagini fotografiche che nessun manuale di Photoshop mi avrebbe dato. Del resto un programma come Photoshop non poteva che nascere da chi aveva grande esperienze di fotografia. I fratelli Knoll, gli ideatori del programma, erano figli di un fotografo, e si narra che svilupparono questo software per agevolare il lavoro del padre. Prima di Photoshop avevo già iniziato a divertirmi con un programma dal nome significativo “Digital Darkroom” a cui credo Photoshop si sia for112

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temente ispirato (p.e. la bacchetta magica), era però una camera oscura digitale solo per il bianco e nero. Di Photoshop credo che la prima volta me ne parlò Andrea, l’amico di cui vi ho scritto nella prima parte del libro, raccontando dei workshop all’ISIA. Ancor prima di fondare lo studio a Vienna, Nofrontiere, si era già ritagliato spazi importanti nel design a livello europeo. Forse proprio per questi contatti, gli passavano tra le mani da oltre Oceano software interessanti e ancora non in versione definitiva. Ho un vago ricordo di un suo racconto, forse di quando lavorava alla rivista Village oppure per la Swatch, in cui mi chiedeva se avevo conosciuto un software molto potente, di gran lunga superiore all’unico programma a colori che conoscevamo per dipingere immagini bitmap: Pixelpaint. Photoshop 1.0 si presentò subito nel migliore dei modi. Fu amore a prima vista. Gli strumenti di disegno e ritocco fotografico si dimostrarono validi, potenti, precisi, capaci di simulare effetti reali a cui io non ero per niente abituato dentro un monitor. Pensate che tra le mie fasi, le mie passioni studentesche, c’è stata pure quella dell’aerografo, probabilmente influenzato da Tiziano Cremonini. Ricordo che Romano Marrè, mio professore di fotografia, un giorno mi disse: “Quando avrai finito l’ISIA, potresti venire a fare un seminario sul fotoritocco”, perché in quel periodo mi divertivo a intervenire sulle foto con aerografo, pennelli super-appuntiti e chine cinesi. Posso dire grazie a Marrè della stima, e dell’esser stato nei miei confronti buon profeta, anche se come insegnante mi son trovato tra le mani strumenti completamente diversi. In realtà lui aveva le idee chiare. Già nei primi anni Ottanta ci avvisava che il futuro sarebbe stato digitale,

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cosa che avrebbe secondo lui mandato in crisi la Kodak e i suoi allevamenti in argentina, utili a creare gelatina per le pellicole fotografiche. Il primo Photoshop lavorava con immagini a colori RGB. Aveva già la possibilità di trattare immagini CMYK, ma con un metodo ancora rozzo che non permetteva di elaborare e visualizzare l’immagine in quadricromia, ma solo divisa in singoli canali di colore: cyan, magenta, giallo e nero. Mentre scrivo siamo alla versione 13.0 che appartiene al pacchetto di programmi Adobe chiamato CS6. Ogni passaggio di versione è sempre stata fonte di soddisfazione per le migliorie aggiunte. Una delle prime fu proprio la possibilità di lavorare con più facilità le immagini di quadricromia. Dei passaggi importanti ricordo la versione 3.0 che introduceva i livelli. Prima, tutto ciò che veniva fatto andava a modificare i pixel della immagine, con i livelli veniva apportata una miglioria estremamente importante che ha dato grande libertà e ha facilitato il lavoro. Chi già conosce un po’ Photoshop si immagina cosa volesse dire lavorare in assenza di livelli. La versione 5.0, portò invece la novità del testo rieditabile. Fino a quel momento succedeva che, scrivendo una parola, questa venisse immediatamente trasformata in pixel, in immagine non più modificabile dal punto di vista tipografico – carattere, stile, dimensione. Ora invece la scrittura produce un livello particolare di testo che rimane sempre modificabile fino a che si continua a salvare il file in formato .psd. Altri formati immagine per l’interscambio con altri programmi, come ad esempio il jpeg o il png schiacciano tutti i livelli in uno unico, e così pure il testo diventa parte dell’immagine.

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È evidente che rispetto alle numerose potenzialità del Photoshop odierno, come ad esempio gli strumenti di elaborazione 3D, è difficile che si usi questo programma in tutte le sue funzioni. L’uso che ne faccio io è determinato dalle esigenze di lavoro, che sono quasi sempre le stesse: correzione cromatica e di esposizione delle foto; pulizia, eliminazione di parti o ritocco selettivo; applicazione di filtri che automaticamente rendono una immagine più suggestiva ed efficace. Ognuna di queste operazioni può essere fatta in maniera discreta, giusto il necessario per migliorare l’immagine, o anche in maniera pesante tanto da diventare una vera e propria tecnica espressiva. Quest’ultima operazione ha sempre dei forti rischi perché Photoshop mette a disposizione una buona quantità di filtri automatici di caratterizzazione pittorica o con effetti molto particolari e suggestivi che se però vengono utilizzati senza un criterio preciso, così tanto per il gusto di fare, rimangono fine a sé stessi, e banalizzano molto il lavoro. Realizzare una documentazione completa sull’utilizzo di Photoshop richiederebbe ore di filmati e libri di centinaia di pagine. Sono spiegazioni che si trovano facilmente sia nella documentazione ufficiale fornita sul sito della Adobe, sul manuale interattivo del programma, ma anche in numerosi video su Youtube che presentano le personali esperienze dei tantissimi utenti di questa eccezionale applicazione. Per aiutare chi non ha mai visto Photoshop, in una pagina della versione elettronica di questo libro, attraverso qualche semplice video, mi limito a mostrare una panoramica veloce delle principali funzioni che rappresentano un centesimo delle tante funzioni che fanno di Photoshop il programma più utilizzato nella grafica.

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Correggere, l’esposizione di una immagine, darle più brillantezza, attenuare le ombre sono operazioni spesso necessarie per rendere una immagine più incisiva.

Estrapolare un elemento dell’immagine, duplicandolo e lasciandolo indipendente come livello in modo da potergli applicare effetti speciali e filtri.

Sono moltissimi i comandi che permettono di correggere cromaticamente le immagini.

I filtri pittorici sono tanti, e personalizzabili, ma dopo un iniziale entusiasmo, consiglio sempre di non abusarne.

Una volta terminato il lavoro l’immagine potrà essere salvata utilizzando uno dei formati di cui abbiamo scritto in un capitolo precedente. Va precisato tuttavia che se rimaniamo nell’ambito di utilizzo di programmi Adobe appartenenti alla CS6, l’interscambio può avvenire anche fra documenti salvati nel formato proprio. InDesign importa file PSD e questo risulta molto comodo perché, come abbiamo detto, il formato proprio mantiene il file modificabile in tutti i suoi aspetti, in tutti gli elementi che lo compongono (p.e. livelli, testi editabili, effetti, ecc.)

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2 INDESIGN Il passaggio dal 1999 al 2000 non portò problemi ai sistemi informatici, il tanto temuto millennium-bug non ebbe effetti importanti, tuttavia per molti grafici fu un anno di passaggio importante. All’inizio della mia attività nel 1988, il programma che avevo scelto per impaginare si chiamava Aldus PageMaker, ma nel giro di poco tempo lo abbandonai per quello che unanimemente veniva considerato un vero applicativo professionale, Quark XPress, che fin dai primi anni Novanta era entrato prepotentemente in uso nelle redazioni dei giornali, notoriamente attenti nel richiedere strumenti di massima efficacia e di alta produttività. Nel frattempo Aldus terminò il suo percorso vendendo i due gioielli, FreeHand diventò Macromedia e PageMaker diventò Adobe. Quest’ultimo, malgrado gli aggiornamenti e le migliorie, non riuscì a trovare più l’interesse di un’utenza che non fosse di taglio basso. Fu così che Adobe decise di fare un grande salto ripensando ad un programma interamente nuovo per rispondere alle esigenze del design sfruttando al meglio le potenzialità dei computer di ultima generazione. Ecco così che alla fine del 1999 nasce InDesign, definito dalle riviste del tempo “XPress-killer”; in effetti a questo termine, che potrebbe ricordare un film di 007, possiamo aggiungere: “missione compiuta”. Nel 2002 InDesign era il programma di impaginazione più diffuso in ambiente MacOs. Vediamo ora quali sono i punti forza di questo programma, tenendo presente che, come per Photoshop, mi è difficile poter dire di conoscerlo ed utilizzarlo in tutte le sue potenzialità.

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Le principali finestre utilizzate in InDesign.

Strumenti

Pagine

Impostazioni Effetti

Campioni colore Stili

Collegamenti

Contorna con testo Tracciati

InDesign è un programma di impaginazione editoriale, quindi la realizzazione di libri, riviste, giornali trova in questa applicazione lo strumento ideale. La possibilità di gestire con semplicità anche oggetti grafici piuttosto complessi, lo ha reso in molte circostanze un valido sostituto di FreeHand, soprattutto quando quest’ultimo veniva utilizzato per impaginare manifesti, pieghevoli od opuscoli di piccole dimensioni. In questi casi molti grafici come il sottoscritto, orfani di FreeHand, hanno preferito InDesign a Illustrator, che rimane senza dubbio leader nel disegno vettoriale e per la realizzazione di illustrazioni complesse, ma risulta troppo pesante e rigido in certi passaggi, soprattutto nel trattamento di testi lunghi. Va aggiunto il fatto che un elemento importante di InDesign è la forte integrazioni con tutti gli altri prodotti della Adobe CS6, e quindi, come è possibile importare un file PSD, gestendone livelli e trasparenze, si possono inserire file di 118

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Illustrator che potranno essere rielaborati in momenti successi dal programma “proprietario”. È molto importante a tale riguardo che sia ben chiaro il funzionamento dell’importazione di file esterni all’interno di InDesign. Mentre in programmi noti e diffusi come Microsoft Word, la scelta predefinita di importazione comporta che i file inseriti diventino parte integrante del documento di Word (aumentandone quindi il peso e permettendo la cancellazione del file esterno importato), con InDesign, così come era per PageMaker e sempre è stato per Quark XPress, la scelta predefinita è quella di importare l’immagine creando un collegamento con il file esterno, che dovrà quindi essere sempre presente in una precisa collocazione di cui InDesign dovrà tener traccia. Per fare questo, il miglior modo è tenere ordinati tutti i documenti in una cartella chiamata Link nella stessa posizione del documento di impaginazione. Può capitare che in una fase creativa, vuoi perché particolarmente ispirati, vuoi per l’urgenza della consegna, l’impaginazione avvenga con molta fretta pigliando qua e là le foto sparse nel nostro computer, e sentiamo come un peso ingombrante il dover rimanere attenti perché i file siano tutti nella stessa cartella. InDesign per questo problema ci viene in aiuto con una operazione che si chiama “Crea pacchetto”, una funzione che realizza per noi una copia precisa e ben ordinata all’interno di una cartella che conterrà il file di InDesign, le immagini utilizzate, le font e una breve descrizione tecnica. Altro fattore molto importante è la possibilità di esportare in formato PDF con parametri del tutto personalizzabili in maniera perfettamente integrata.

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Oggi la creazione di un PDF ha ampliato fortemente l’ambito di utilizzo. Fino a poco tempo fa erano in massima parte realizzati per due motivi: creazione di documenti da inviare in stampa, oppure creazione di documenti da distribuire, come ad esempio un manuale per un programma. Oggi con l’evoluzione degli smartphone, l’avvento dei tablet e il forte utilizzo dei PDF come documento di diffusione tramite internet, anche questo secondo aspetto di creazione di file PDF multimediali, trova in InDesign uno strumento ideale. In realtà il grande salto fatto negli ultimi due anni è la possibilità data ad InDesign di essere lo strumento al centro della creazione di prodotti editoriali digitali per iPad e tablet in genere. Sistema denominato Adobe Digital Publishing Suite che affascina enormemente persone come me che si divertono con le tecnologie e adorano la bella “tipografia”, intesa come uso intelligente e curato del carattere e non come sistema di stampa. Di questo scriverò più avanti. Voglio sottolineare ancora una volta che queste sono sempre considerazioni che si basano su una esperienza tutta personale. Non ho più scelto di utilizzare XPress per ragioni economiche oltre che pratiche. Non si può essere sempre aggiornati su tutto, ed è quasi certo che il programma di Quark abbia grandi potenzialità che io oggi non posso apprezzare. Continuo a ricevere informazioni tramite email su questo programma che spesso mi tentano, soprattutto anche in relazione allo sviluppo di riviste per iPad. Ma il mio lavoro non è quello di testare i programmi. Sapessi già usare InDesign, in tutte le sue potenzialità, sarebbe un grande risultato.

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3 ACROBAT Adobe Acrobat Pro e il processo di stampa. Ripenso a quando insegnavo e iniziavo a parlare di Acrobat agli studenti: non so che effetto facesse il mio racconto sulle origini di questo programma, che prendevo sempre alla larga, e come un vecchio nonno, iniziavo a descrivere le prime versioni, e gli intenti di questo strumento che è diventato uno degli standard più diffusi e utili non solo in campo grafico. Inizialmente infatti i miei ricordi vanno verso una tipologia di documento denominato PDF, “Portable Document Format”, che trovò subito l’interesse dei grafici per una importantissima caratteristica: la portabilità, ovvero la facilità di condividerlo con tutti senza tante preoccupazioni di font, di programmi, di computer diversi. Quando il PDF è nato agli inizi degli anni Novanta, internet non era ancora disponibile, tuttavia la distribuzione dei file attraverso supporti magnetici (floppy disk, cartucce SyQuest, ecc.) oppure con i modem collegandoli direttamente tra numeri telefonici, stava diventando una esigenza molto sentita in ambito grafico. Prima dell’avvento del computer, un grafico buttava giù l’idea, progettava il risultato definitivo, ma poteva spingersi verso la produzione degli esecutivi in maniera molto limitata in quanto aveva bisogno di strumenti e competenze tecniche tipiche delle arti grafiche industriali. Grosso modo succedeva che si andava dallo stampatore con l’idea di progetto ed insieme a lui lo si costruiva con grossi e costosi macchinari. Piano, piano con il computer tutto questo è venuto meno modificando radicalmente il processo. Ma come spesso accade, i miglioramenti risultavano meno semplici del previsto, e per un grafico poco appassionato e attento all’uso del computer ciò che avrebbe dovuto essere un aiuto diven121

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tò una condanna: font non caricate, programmi non aggiornati allo stesso livello, per non parlare di sistemi operativi diversi per versione o addirittura per piattaforma Mac/Win sono stati una vera croce per molti, determinando errori di elaborazione e stampe completamente sbagliate. Acrobat nacque per risolvere tutto questo: a prescindere dall’uso di FreeHand o Illustrator, PageMaker o XPress, caratteri diversissimi e computer vecchi o nuovi, Mac o Windows, con un PDF si eliminano tutti i problemi. In realtà questo lo si faceva già creando file EPS (Encapsuled Post Script), ed in effetti il PDF non è altro che una evoluzione di questo file reso più facilmente utilizzabile e leggibile. Il nome già rende l’idea e dà il senso alla tipologia di questi documenti: EPS è una “capsula di informazioni”, PDF “format per documenti trasportabili”. Fin dall’uscita della prima versione, il sistema Acrobat era composto da tre programmi: uno per creare PDF, chiamato Distiller perché il processo prevedeva l’elaborazione di un file EPS “distillato”; un’altro programma per elaborare, modificare i PDF, inizialmente chiamato Exchange, oggi invece semplicemente denominato Acrobat Pro; e infine un programma per la semplice lettura dei PDF e la ricerca dei contenuti, chiamato per questo Acrobat Reader. La scelta strategica che ha fatto diventare il PDF lo standard più diffuso per la distribuzione dei documenti è stata quella di rendere il “reader” completamente gratuito. Questo scelta, associata alla alta qualità del prodotto, è stata determinante perché non vincolava nessun utente finale ad acquistare o copiare illegalmente alcun programma. Per capirci: se in un sito internet abbiamo la possibilità di scaricare documenti che ci interessano, se questi sono .doc ovvero Microsoft Word noi siamo costretti ad avere questo programma per poterli leggere e stampare, e quindi

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avere una licenza d’uso di un software non gratuito. Acrobat Reader invece è gratuito. Gratuito non è il software per creare e modificare i pdf, anche se è vero che molti programmi hanno oggi la possibilità di crearli, senza evidentemente tutte le potenzialità di un software dedicato come il pacchetto Acrobat Pro. Tra queste potenzialità oggi vanno tenute particolarmente in considerazione quelle che permettono di creare veri e propri documenti multimediali con testi, immagini, suoni e video che possono essere consultati con estrema facilità attraverso i comandi più elementari della interattività. Si creano dei veri e propri ipertesti (termine oggi meno utilizzato per indicare un sistema di lettura nuovo negli anni Ottanta che non fosse più sequenziale, pagina dopo pagina, ma saltellante attraverso parole chiave chiamate “Link” colleganti). Strategia alla base di tutta la navigazione in internet, per cui è oggi superfluo parlarne. Ma non lo era fino a quindici anni fa. Vediamo ora quali sono i processi produttivi più frequentemente utilizzati.

PDF per la stampa La qualità e la tipologia delle immagini è una delle caratteristiche fondamentali a cui porre attenzione. Sia che si usi il “Distiller”, sia che si crei direttamente da InDesign, possono essere utilizzati i parametri predefiniti che nella maggior parte dei casi vanno bene per ottenere un risultato soddisfacente. Consiglio sempre di concordare con il proprio stampatore i parametri migliori, perché non tutti i sistemi sono ugualmente compatibili. Personalmente il parametro che uso più di frequente è quello denominato [Qualità tipografica] che a differenza di [Stampa di alta qualità] trasforma 123

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le immagini, la grafica e i testi in colori di quadricromia, mentre il secondo li lascia in RGB ed è più utile per un passaggio di bozze che devono essere stampate con stampanti laser o getto d’inchiostro. Entrambi i sistemi riducono le immagini a 300 dpi, trasformandole in jpeg di massima qualità per creare file buoni, ma abbastanza leggeri. La [Qualità tipografica] inserisce anche i riferimenti di conversione colore rispetto all’uso della carta e degli inchiostri. Ognuno di questi parametri può essere modificato con un proprio valore personale.

PDF per il web Il giusto equilibrio fra qualità e pesantezza del file è la scelta da fare per un PDF destinato ad essere distribuito tramite internet. In questo caso le immagini dovranno essere lasciate in RGB con un livello di compressione medio o bassa qualità. La risoluzione non superiore a 150 dpi può essere ridotta anche a a 72 dpi. Sono possibili valori inferiori che però alterano l’immagine in maniera troppo evidente. Ai PDF destinati alla distribuzione spesso si aggiungono parametri di protezione che ne limitano la stampabilità, la modifica o la copia dei contenuti.

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PDF interattivo L’interattività è una caratteristica molto interessante di Acrobat, da tenere in seria considerazione come valida alternativa ad altri sistemi, quando si devono creare CDRom o DVD con contenuti di diverse tipologie (immagini, suoni e video). La produzione di questo tipo di file è oggi semplificata dal fatto che InDesign può creare ed esportare direttamente PDF interattivi, che però oggi, domani chissà, risultano non compatibili nelle funzioni di navigazione con i tablet e non possono quindi essere considerati un sostituto della produzione fatta con la Adobe Digital Publishing Suite. PDF portfolio Portfolio non è altro che un contenitore di file di vario genere (Pdf, Word, Excel, immagini, video) molto facile da realizzare con alcuni preset di navigazione accattivanti ma limitatamente modificabili. Quindi, come il PDF interattivo, è un sistema da tenere in considerazione nella realizzazione di CDRom o DVD. La creazione del portfolio è possibile soltanto attraverso Acrobat Pro e non direttamente da altri programmi come InDesign.

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4 DREAMWEAVER E FIREWORKS A metà degli anni Novanta la creazione di siti web incominciò a diventare un lavoro interessante. Si trattava di una novità affascinante per la comunicazione e, come sempre accade, in questi casi la definizione delle competenze ha creato un po’ di confusione soprattutto nel committente, che non sapeva bene a chi rivolgersi per realizzare il proprio sito: ad un programmatore, ad un grafico, a nessuno dei due? Sono nate così nuove figure professionali – web designer, web master, ecc. – ma sono nati anche programmi appositi per aiutare, sia i grafici che non potevano conoscere nel profondo i nuovi linguaggi di programmazione, sia gli informatici che non potevano ridurre il valore del sito alla semplice funzionalità e alla pulizia del codice. Io mi sono avvicinato a questo mondo con Adobe Pagemill, che credo abbia avuto quantomeno il merito di essere il primo software semplice che ha permesso di creare siti web semplici e graficamente puliti. Microsoft proponeva in quegli anni Frontpage, ma non l’ho mai utilizzato quindi taccio, anche perché se dovessi parlarne in base ai risultati che ho visto in giro per la rete non sarei benevolo. Lasciato PageMill, e passato per esperienze su programmi come Golive (prima Cyberstudio poi Adobe) e NetObject, mi sono definitivamente accasato nel 1998 su Dreamweaver un programma creato da Macromedia sulle ceneri di Backstage. Con l’acquisizione di Macromedia da parte di Adobe, nel 2005 Dreamweaver è stato inserito nel pacchetto Creative Suite sostituendo definitivamente Golive.

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Le principali finestre utilizzate in Dreamweaver.

Strumenti

Documento Inserisci

Finestra Codice

Progettazione

Stili

Proprietà

File

Quando uscì Dreamweaver si presentò subito come un software veramente innovativo per la creazione di siti internet perché permetteva di sviluppare pagine web in modo visivo senza rinunciare al controllo completo sulla programmazione html, e senza alterare il codice sorgente come invece avveniva fino a quel momento con altri programmi visivi, generando la rabbia degli sviluppatori, che si dovevano preoccupare dell’incompatibilità dei diversi codici html generati da piattaforme diverse. Dreamweaver ha sempre integrato anche altri linguaggi, D-html, JavaScript, ecc., con cui è possibile creare livelli e animazioni. Con menu intuitivi come i behavior si possono realizzare effetti mouseover, trasmissione dati, esecuzione di suoni, comandi di visualizzazione immagini, ecc. Tabelle e Frame sono create in Dreamweaver direttamente con il mouse grazie ad appositi pulsanti. Il posizionamento preciso (pixel per pixel) ed il supporto di CSS Cascading Style Sheet, permette un controllo totale 127

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sull’aspetto delle pagine html, font, linee, spazi, colori, sfondi, tabelle, frame ecc. Un’altra caratteristica di Dreamweaver è costituita dal fatto che permette di gestire il contenuto di un sito web in senso globale. Le modifiche o gli aggiornamenti apportati ad un oggetto del sito vengono estese a tutte le pagine dell’intero sito che lo contengono. Questa funzione di Dreamweaver snellisce considerevolmente il tempo necessario per la gestione del lavoro. Fireworks Descrivendo Photoshop abbiamo già affermato l’assoluta preminenza di questo programma su tutti gli altri quando parliamo del trattamento delle immagini. Nel corso degli anni ci sono stati diversi tentativi di nuovi software per riappropriarsi di una piccola fetta di mercato: ricordo un interessante xRes, ideato dalla Fauve Software, passato poi in mano a Macromedia, per gestire file di grandissimo formato con tempi di lavorazione notevolmente ridotti. Photoshop è nato per trattare immagini fotografiche in maniera professionale e la finalità principale è sempre stata la stampa. La creazione di immagini specifiche per il web è possibile, lo si usa molto spesso perché si riescono a realizzare jpg, gif e png di ottima qualità, ma non è mai stato uno strumento completo, tanto è vero che la stessa Adobe ad un certo punto ha sentito l’esigenza di avere un software specifico che si integrasse meglio con programmi di html e permettesse anche di creare gif animate. Nacque così ImageReady, mentre Macromedia ideò Fireworks, perfettamente integrato con Dreamweaver, nel quale si trovano non solo strumenti grafici di disegno e ritocco fotografico, ma anche tutto ciò che serve per creare immagini in movimento, con collegamenti ipertestuali e comportamenti in

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JavaScript, tipo effetti dovuti alla sovrapposizione del mouse su una immagine. Con l’acquisizione di Macromedia, Adobe ha deciso di eliminare i programmi doppioni: niente più FreeHand in favore di Illustrator, niente più Golive per Dreamweaver e fine quindi anche per ImageReady sostituito da Fireworks che risultava superiore e più facilmente allineato al programma scelto per l’html. Tra le caratteristiche di Fireworks che ho riscontrato importanti, oltre alla particolare integrazione con Dreamweaver, ve ne sono altre che personalmente ho trovato particolarmente utili: - perfetta integrazione con Director, che riesce a considerarlo come editor esterno importando i file png e lasciandoli intatti nei livelli e nelle maschere, permettendo così successive modifiche. - esportazione ottimizzata di diversi tipi di png, tra i quali a quelli 8 bit, 256 colori ma con maschera in canale alfa sempre a 8 bit, e quindi con semitrasparenze.

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5 FLASH A metà degli anni Novanta un amico brasiliano che si chiama Americo, mi presentò FutureSplash, un programma innovativo per l’animazione, utilizzato addirittura anche negli studi della Disney. La novità interessante era la possibilità di creare sequenze di immagini vettoriali e quindi con risultati incredibili in termini di fluidità e leggerezza del file. Macromedia ebbe immediatamente buon fiuto quando nel 1996 lo fece suo, cambiandogli però il nome in Flash e proponendolo come un nuovo standard per il web, tanto che in pochi anni divenne parte integrante di quasi la totalità dei browser. Flash è un software veramente completo e per certi versi anche molto complesso al quale si sono dedicati molti designer non solo per realizzare banner e animazioni per il web, ma anche per creare complessi siti multimediali ed anche CD-Rom interattivi. Personalmente io non sono mai riuscito ad appassionarmi a Flash perché ho continuato a preferire Director di cui scriverò in seguito. Flash da diversi anni è stato adottato anche come strumento per visualizzare video e questo sembrava essere il definitivo sigillo di un successo inattaccabile, prima che uscissero iPhone e iPad il cui sistema operativo iOS non è stato aperto alla possibilità di visualizzare animazioni e video Flash. Sui motivi di questa scelta circolano diverse teorie, come i presunti problemi di vulnerabilità del sistema, o l’eccessivo consumo della batteria, ma anche per una antica rivalsa di Steve Jobs nei confronti di Adobe che alla fine degli anni Novanta trascurò lo sviluppo di software per il Mac, che in realtà era stato alla base del suo iniziale successo, motivo per cui decise

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Le principali finestre utilizzate in Flash.

Strumenti Azioni

Proprietà

Scena

Libreria

Linea temporale

in quel periodo di realizzare un software come FinalCut in contrapposizione a Premiere. La scelta di non integrare Flash in iOS, è stata permessa dallo sviluppo di un linguaggio chiamato html5, che al di là del nome che lo farebbe apparire come una semplice evoluzione dell’html4, è in realtà un potente salto in avanti verso un nuovo sistema di descrizione di pagine web, un salto talmente grande che ancora è in fase di definizione e si dice che sarà concluso nel 2014. Anche altri sistemi operativi per tablet diversi da iPad hanno di seguito preferito l’html5, e credo che siano molti gli sviluppatori web che abbiano accolto con favore questa scelta, perché tutto sommato sono sempre stati molti quelli che non hanno mai gradito essere condizionati dalla presenza del plug-in di Flash. 131

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Tutto ciò ha comportato una modifica di strategia e di rotta di Adobe nei confronti di Flash, con il quale oggi è possibile esportare i propri contenuti Flash in formati diversi da .swf e compatibili con iOS sia in html5, sia in .ipa che è il formato nativo delle applicazioni per iPhone e iPad. Questa “conversione dei contenuti” avviene attraverso un nuovo metodo di sviluppo denominato AIR. Sono usciti anche software che convertono vecchi file .swf in html5, utili soltanto per animazioni semplici senza interattività come i banner. Iniziando un nuovo progetto è meglio utilizzare software specifici come Hype o Adobe Edge, inserito nel nuovo sistema Adobe Edge Tools & Services creato da Adobe proprio per rispondere a questo tipo di esigenze. Questa descrizione veloce non entra nei particolari di Flash, ma era necessario accennare a un software che ha fatto un importante pezzo di storia del visual design. Non mi spingo oltre perché non è strumento con cui sono abituato a lavorare, se non per interfacciarmi con validi collaboratori che necessariamente lo hanno usato e lo usano ancora per portare avanti importanti progetti multimediali e interattivi.

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6 DIRECTOR Photoshop e InDesign sono i programmi senza i quali è oggi impensabile concepire il mio lavoro quotidiano, ma se devo fare una classica dei software che ho preferito in questi 25 anni di attività, metto senza dubbio al primo posto Director. Un software che considero veramente unico per come è stato concepito, in maniera così intelligente e chiara da poter essere utilizzato sia a livelli semplici, sia a livelli complessi di programmazione ad oggetti, permettendo così lo sviluppo di incredibili prodotti multimediali. Nel 1988 avevo iniziato a fare i primi studi di programmazione per prodotti interattivi utilizzando un software delle Apple che si chiamava Hypercard. Quasi fosse un grande gioco ho dedicato delle nottate, perché effettivamente mi divertivo a trovare soluzioni interessanti senza essere un programmatore. È stato il mio primo approccio alla scrittura di righe di comando, per fare cose sostanzialmente inutili, ma che mi sono servite ad entrare nella mentalità e nella logica base dei comandi semplici. Alcuni mesi dopo, avendo iniziato a lavorare per la Colgate-Palmolive dove, cosa più unica che rara in Italia, esisteva già una rete aziendale di Mac in rete, mi capitò tra le mani una versione beta di un programma che tutti a quel tempo chiamavano semplicemente Macromind. Ma quello era il nome della softwarehouse, il suo nome vero era VideoWorks che venne poi modificato nel 1990 in Director (in inglese significa “regista”), il primo programma veramente multimediale, nato per Macintosh e poi sviluppato anche per Windows. 133

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Macromind nel 1992 si fuse con Authorware, per dar vita alla ormai più volte citata Macromedia, senza dubbio la realtà più importante in quegli anni insieme ad Adobe nella creazione di programmi per la grafica. Ho iniziato ad utilizzare Director per creare animazioni. La prima l’abbiamo realizzata io e Franz, sentendoci un po’ dei piccoli Hanna e Barbera di Romagna, per il Dicastero della Pubblica Istruzione di San Marino nell’Anno della sicurezza stradale: diventò uno spot trasmesso nella TV di stato sammarinese con una macchinina animata, ispirato alla grafica del poster che avevamo già realizzato. Director è subito diventato un valido strumento che abbiamo utilizzato per presentazioni complesse: ad esempio, per i bilanci delle banche con grafici animati che venivano proiettati durante le assemblee con effetti molto interessanti, che non avevano nulla a che vedere con ciò che avresti potuto realizzare con PowerPoint di allora, ma neppure quello di oggi. Le vere soddisfazioni sono venute in seguito: decisi di studiare più a fondo il linguaggio di programmazione “Lingo” di Director, utilizzandolo per realizzare punti informativi interattivi che facevano uso di touch-screen, ma soprattuto per produrre CD-Rom sia in ambito didattico che informativo. Insieme a Roberto Cecchi, che dopo essere stato studente all’ISIA ha collaborato per qualche anno con Kaleidon, credo che siamo riusciti a divertirci nel trovare soluzioni che con un pizzico di presunzione ritengo fossero all’avanguardia, almeno rispetto al panorama italiano di quel periodo. Fondamentalmente il programma è strutturato in ambienti operativi ben distinti che permettono all’utente di aver ben chiara la differenza degli strumenti, delle azioni e dei risultati. Come in tutti i programmi di ani-

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Le principali finestre utilizzate in Director.

Cast library

Strumenti

Finestre grafiche Behavior

Stage

Script Score

Proprietà

Message

mazione, esiste un palcoscenico, ovvero una finestra chiamata stage, una timeline molto chiara da comprendere e modificare dove vengono inseriti tutti gli “attori” recitanti. Questi “attori”, ordinati in maniera molto chiara in una finestra denominata cast, possono essere immagini, disegni, suoni, video, animazioni Flash, altre animazioni Director, ma anche pezzi di codice che ti fanno percepire in maniera chiara cosa significhi programmare ad oggetti, la cosiddetta OOP “Object-oriented programming”. Forse sto facendo apparire la cosa fin troppo semplice, ed in effetti penso che ci siano stati diversi studenti all’ISIA che abbiano sopportato con non poca fatica alcune mie “soporifere” lezioni accompagnate dal fruscio del video proiettore. In realtà ho un bel ricordo di esami interessanti sia come concept, ma anche come prodotti finiti pronti alla navigazione, ben funzionanti e perfino emozionanti.

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Da quando Director è marchiato Adobe viene puntualmente dato per morto come se questo software non rientrasse piĂš nei piani industriali della azienda. Poi quando meno te l’aspetti, magari a distanza di anni, esce una nuova versione. Ăˆ accaduto proprio in questi giorni, costringendomi nei tempi supplementari ad aggiornare il libro, per informare della grande novitĂ della versione numero 12, con cui è possibile pubblicare file .ipa ovvero destinati a iOS, il sistema operativo per iPhone e iPad. Vista la conoscenza che ho del programma era una cosa che speravo, e quindi mi sono messo immediatamente a fare alcuni piccoli test su iPad che sembrano funzionare. Per il resto trovo quasi commovente, ma non per questo positivo, che un programma abbia la stessa interfaccia di tanti anni fa, che in alcune finestre ricorda addirittura il System 5, con un aerografo a gocce grosse tipo MacPaint, e la possibilitĂ di esportare immagini soltanto in formato PICT. Malgrado ciò Director e sempre Director! BjhZd YZa hVaZ

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7 PREMIERE Video editing Come ho già scritto più volte, questo libro non ha la pretesa di essere un manuale, ma solo una carrellata sui programmi utili presenti nel mio Macbook. In realtà, se dovessi scrivere di tutti i programmi presenti, dovrei fare un lavoro troppo lungo e quindi mi limito a descrivere quelli che in una qualche maniera sono importanti per il lavoro che faccio. Noterete ad esempio con non sono presenti programmi di grafica 3D, perché non ho mai avuto la necessaria pazienza sia nella modellazione, sia nell’attesa dei “rendering” che con i computer di un tempo significava ore e ore di lunga attesa. Non che non fossi molto affascinato dai risultati, spesso vere e proprie meraviglie, di chi invece questa pazienza la esercitava con maestria. Ricordo nel 1992 quando andai a trovare Andrea Steinfl nel suo studio di Vienna, Nofrontiere, e rimasi a bocca aperta di fronte ad un albero iperrealista costruito dal suo collaboratore e vecchio amico Gianca. La classe non è acqua e Giancarlo Lari si è ritrovato di lì a poco negli Stati Uniti presso la Digital Domain ad animare le sequenza del Titanic mentre affonda. Tutto questo per dire: molto fascino da parte mia, ma nessuna esperienza. Fino a qualche anno fa sarebbe stata la stessa cosa per quanto concerne il video, il montaggio, e la realizzazione di effetti visivi. Ma la grande evoluzione tecnologica in questo campo è riuscita ad abbattere il limite della mia impazienza e quindi, da un po’ di tempo a questa parte, non di rado mi ritrovo a montare video con Premiere Pro. 139

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Le principali finestre utilizzate in Premiere.

Monitor

Sorgente Progetto

Strumenti

Effetti

Video

Timeline

Audio

In realtà Premiere l’ho iniziato ad usare tanti anni fa quando dovevo ottimizzare alcuni piccoli video da inserire nei CD-Rom realizzati con Director. Attività sporadica ma utile soprattutto per raggiungere un giusto compromesso tra qualità e peso del file che sarebbe dovuto entrare nella capacità limitata di un CD. La storia di Premiere e di altri programmi per montaggio video, per gli appassionati di vicende della Silicon Valley ha degli aspetti interessanti, perché, come ho già accennato scrivendo di Flash, sembra proprio che intorno a questi programmi si siano scatenate vere e proprie battaglie e ripicche che hanno poi determinato la scelta e la creazione di software che sono poi diventati uno standard per chi lavora nel video, sia a livello amatoriale con iMovie, sia a livello professionale con FinalCut. FinalCut è nato nella seconda metà degli anni Novanta dalla mente di Randy Ubillos, padre delle prime tre versioni di Premiere. Inizialmente il gruppo di lavoro coordinato da Ubillos venne assorbito da Macromedia 140

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per passare poi definitivamente nel 1999 in Apple divenendo così la prima vera alternativa al sistema Avid. FinalCut ha dato poi il nome ad un pacchetto “FinalCut Studio” che è un insieme di programmi, tra cui Motion e Soundtrack, tutti utili alla realizzazione di video ed effetti di altissima qualità, un tempo possibili soltanto con sofisticate e costosissime attrezzature. Nel frattempo Adobe Premiere, alla ricerca di una nuova identità, schiacciato tra due fasce da altri programmi più semplici per il livello amatoriale, più performanti nel livello professionale, cambia nel 2003 non solo nome in Premiere Pro, ma viene completamente riscritto, proponendosi insieme ad AfterEffect come una accoppiata di vincente in ambito professionale, ma solo in ambiente Windows. Adobe si proponeva al mondo video con due programmi allo stesso modo dell’ambiente grafico: Premiere stava ad InDesign come AfterEffects a Photoshop, questa l’analogia da sempre portata avanti per presentarsi con ottime referenze al mondo della grafica. Ma il mondo della grafica, malgrado le alterne vicende di Apple, non ha mai abbandonato la mela, ed anche molti professionisti video erano stati ormai convertiti dalle potenzialità di FinalCut. E così Adobe non poté fare a meno di riportare nel 2007 Premier Pro ed AfterEffects in ambiente Mac, lì dove erano nati nel 1991. Oggi la versione CS6, aiutata anche dalle scelte di Apple che ha riscritto completamente FinalCut in una forma che, a detta di molti, assomiglia più ad un iMovie professionale, ha suscitato il favore di molti video-editor, ed anche il sottoscritto, come dicevo all’inizio di questo capitolo, si ritrova sempre più spesso ad utilizzarlo.

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Il lavoro che svolgo è piuttosto semplice: tagliare, mettere titoli e sottopancia, creare movimenti, zoomate, transizioni e qualche piccolo effetto fanno parte di una attività ad integrazione di progetti più ampi di presentazione e di realizzazione di oggetti multimediali destinati al web ed oggi soprattutto ad iPad. Le maggiori difficoltà non sono tanto nel conoscere gli strumenti utili all’editing sopra descritti; il programma fra l’altro è anche in lingua italiana e con una interfaccia sufficientemente semplice, composta da una grande timeline dove avviene tutto il lavoro di montaggio. Il difficile è più nel sapersi muovere fra i parametri di importazione ed esportazione dei video. È necessario avere un po’ di conoscenza sui codec, i formati, le dimensioni, la frequenza dei frame per secondo e di trasferimento dei dati a seconda della destinazione d’uso del video. Browser, tablet, sistemi operativi, velocità di internet, tantissime sono le variabili che si intrecciano e che richiedono una attenzione particolare affinché ciò che abbiamo realizzato nella nostra timeline, venga poi visualizzato allo stesso modo. Non semplicissimo, ma si fa. Anche se confesso di aver trovato intorno a questo problema tantissima ignoranza anche da parte di chi, a differenza di me, lavora esclusivamente intorno al video. Premiere Pro al momento della esportazione propone delle impostazioni predefinite per facilitare questa operazione. Il formato che personalmente mi ritrovo ad utilizzare più frequentemente è H.264 che produce un .mp4 nelle diverse possibilità a seconda della destinazione d’uso: VideoTV, DVD, broadcast, tablet, iPad, iPhone nei diversi modelli, oppure differenziato nei canali web di distribuzione come YouTube o Vimeo.

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Per le immagini statiche ho proposto nei capitoli precedenti una descrizione dei diversi formati grafici possibili. Riassumo ora per grandi capi anche quelli che sono i formati video con cui mi ritrovo più spesso ad operare, consapevole che non è il mio lavoro principale e che ve ne saranno quindi altri importantissimi che sono probabilmente utilizzati in ambiti professionali specifici per la produzione video. .mp4 L’estensione .mp4 si riferisce ad una tipologia di file video/audio compresso con codec MPEG-4. In questo libro mi piace aggiungere di tanto in tanto qualche curiosità, e non potrò evitare quindi di sottolineare il fatto che quello che viene considerato uno dei codec più diffusi, è l’evoluzione numero 4 del formato Moving Picture Experts Group, sigla del comitato tecnico costituito nel gennaio 1988 dall’ingegnere italiano Leonardo Chiariglione, incaricato di definire standard per la rappresentazione in forma digitale di audio, video. Nello specifico MPEG-4 Part 10, denominato 143

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MPEG-4 Advanced Video Coding, abbreviato in MPEG-4 AVC, rappresenta il formato comunemente denominato H.264. Questo codec video rilasciato per la prima volta da Apple nel 2005 all’interno di QuickTime è certamente tra i più diffusi e nella produzione finale di un filmato troviamo in Premiere molte impostazioni predefinite che facilitano l’esportazione per le diverse destinazioni d’uso. .mov È un tipo di file creato da Apple denominato QuickTime che funge da formato contenitore di tracce composte da audio, video, effetti o testo. La prima versione venne rilasciata nel 1991. Le tracce contengono le informazioni che verranno decodificate dai codec adeguati. La traccia media contiene informazioni che possono risiedere in altre parti del file, su altri file o nella rete. .avi Audio Video Interleave, è un formato contenitore creato da Microsoft nel 1992 come standard video per il sistema operativo Windows. AVI può contenere uno o due flussi audio e un flusso video. Non supporta alcun formato di sottotitoli che perciò devono essere inseriti dentro il video. .wmv Windows Media Video è una tecnologia proprietaria di Microsoft per lo streaming di file video. Fa parte della piattaforma Windows Media. A partire dalla versione 7, utilizza una sua versione modificata dello standard MPEG-4. Di solito WMV utilizza il contenitore AVI quando si usa per la codifica Windows Media Video 9 VCM per Windows.

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.flv / .f4v Flash Video è un formato usato per inviare video su internet usando Adobe Flash Player che può anche essere incapsulato in file Swf. Fino alla versione 9 di Flash Player, Flash Video faceva riferimento a un formato file proprietario con estensione .flv che è stato evoluto in .f4v. Questo formato è utilizzato dalla maggior parte dei siti come YouTube, Google Video, e molti altri, anche se l’avvento dell’html5 ne sta diminuendo la diffusione.

Audition e Amadeus Lavorare per la multimedialità e per il video necessita chiaramente un minimo di conoscenza nella manipolazione di file sonori che sono stati registrati con le più diversificate strumentazioni, e soprattutto direttamente con le videocamere. La sincronizzazione video e audio avviene all’interno dei programmi di montaggio come Premiere, ma correggere, eliminare fruscii, suoni indesiderati, ecc. richiede programmi specifici. Di questi, nel corso degli anni, ad un livello superficiale ne ho utilizzati diversi, ma cito soltanto quelli più importanti. Il primo, per dovere storico, sono obbligato a ricordarlo anche se dal 2005 non è più sviluppato dopo l’acquisizione di Adobe della Macromedia. Si chiamava SoundEdit. È importante citarlo perché è praticamente nato con il Macintosh, accompagnando tutti i primi appassionati utenti che volevano inserire audio in progetti realizzati con Hypercard, Director o Authorware. Il secondo programma che utilizzo anche oggi, si chiama Amadeus. L’ho scelto perché per certi versi mi pare essere un buon erede del sopra citato SoundEdit, ed il rapporto qualità/prezzo mi è parso soddisfacente.

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Non poteva infine mancare un programma della Adobe, che per anni nel suo pacchetto Creative Suite ha proposto Soundbooth, mentre dall’ultima versione CS6 troviamo Audition. Si potrebbe pensare che si tratti di una novità, o di un semplice cambio di nome, in realtà Audition è un programma con radici che risalgono al 1990 e, con questo nome, esistente già dal 2003 marchiato Adobe. Non so quali siano i motivi che hanno portato Adobe ad aver preferito l’uno rispetto all’altro, ma immagino ci siano ragioni valide simili a quelle che hanno fatto scegliere Illustrator rispetto a FreeHand, o Dreamweaver rispetto a GoLive. Tra le caratteristiche molto interessanti di Audition sottolineo la perfetta integrazione con Premiere, che apre il programma semplicemente chiedendo una modifica della traccia audio. I formati audio di interscambio più comuni da me utilizzati sono: .aif L’Audio Interchange File Format è un tipo di file utilizzato per memorizzare registrazioni audio su personal computer. Il formato è stato sviluppato dalla Apple basandosi sull’Interchange File Format della Electronic Arts. Il file .aif contiene dati audio che non sono compressi. .mp3 Credo che si tratti del tipo di file più diffuso e conosciuto al mondo. È un formato di compressione audio, sviluppato dal gruppo MPEG, in grado di ridurre drasticamente la quantità di dati richiesti per memorizzare un suono, rimanendo comunque molto fedele alla qualità di un file originale non compresso.

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.wav WAVEform audio file format è un formato audio sviluppato da Microsoft e IBM simile al formato .aif e senza compressione dei dati. .aac Advanced Audio Coding è un formato di compressione audio creato dal gruppo MPEG che fornisce una qualità audio superiore al formato MP3 a parità di fattore di compressione.

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8 KEYNOTE Una delle attività frequenti di un grafico è quella di creare presentazioni per sé o per altri. Ho scritto già che uno dei primi motivi per cui ho utilizzato Director è stato quello di realizzare video per bilanci di banche, slide animate informative in ambito sanitario, commerciale ed educativo. L’alternativa più diffusa era quella di utilizzare PowerPoint, ma sapete quanto nel graphic design, non solo per il sottoscritto, vi sia difficoltà ad utilizzare prodotti Microsoft, e non solo per un discorso di “tifoseria”. C’è sempre stata un’impronta di basso livello nei template, nei modelli predefiniti, con caratteri tipo il Comic Sans o l’uso di clip-art, che hanno sempre interrogato molto chi come me lavora nella grafica, sui motivi del profilo così basso dell’azienda fondata da Bill Gates. Di certo non gli mancavano i soldi, e non penso neppure la cultura, anche se è indubbio che Jobs avesse da sempre manifestato un’attenzione all’arte, all’estetica e alla tipografia fin dall’uscita del primo Macintosh (come ha ben raccontato nel famoso discorso alla Stanford University). Non sono invece d’accordo con Jobs quando con una battuta disse che, se Gates avesse fatto uso di qualche “acido” i prodotti Microsoft sarebbero stati migliori. Ci sarebbe voluto ben altro! Questa introduzione per dire che, a parte questo uso forse improprio di Director o di Flash, l’esigenza delle presentazioni non veniva coperta da software particolarmente “eccitanti” e di facile utilizzo.

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Le principali finestre utilizzate in Keynote.

Diapositive master

Barra degli strumenti Documento Grafica

Diapositive Transizioni Diapositiva

Paragrafo Hyperlink

La risposta di Apple è uscita nel 2003 con KeyNote, il nome che veniva dato alle manifestazioni pubbliche in cui Jobs proponeva le novità. Veri e propri eventi che sono diventati appuntamenti attesi nel mondo non solo dell’informatica. La filosofia di KeyNote è molto simile a quella di PowerPoint, tanto è vero che un .ppt o un .pptx può essere aperto per poi essere modificato e salvato in .key. La differenza sostanzialmente sta nella facilità d’uso e nella potenzialità di effetti grafici, animazioni, transizioni che hanno immediatamente attirato l’attenzione dei grafici. Mi diceva Andrea poco dopo l’uscita di KeyNote, che ormai era diventato il programma da lui maggiormente utilizzato per pianificare le idee, scrivere e presentare i progetti. Confermo che anche io mi sono trovato per lunghi periodi ad elaborare i miei pensie-

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ri con questo programma, come probabilmente molti utenti Microsoft fanno da anni con PowerPoint. Una volta creata la presentazione, il documento necessita del programma per essere visto, e questo potrebbe essere considerato il suo grande limite. In realtà è possibile attraverso il formato QuickTime creare un filmato con tutti gli effetti e le transizioni che rendono le presentazioni particolarmente “seducenti”. È una possibilità molto interessante se non fosse che la produzione di file pesantissimi non sempre sempre rende facile la di-

stribuzione tramite CDRom per il rallentamento dovuto al trasferimento di grandi quantità di dati sul video interattivo. Vi è poi la possibilità di esportare il progetto come file PDF o pagina html, che naturalmente non riproducono i movimenti delle animazioni,

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né le transizioni che rendono particolarmente affascinanti le presentazioni di KeyNote. La buona conoscenza di questo programma, mi ha portato da qualche anno a questa parte, a trovarmi di frequente in una divertente posizione vicina alla regia di grandi convention, meeting dove c’è sempre da imparare tantissimo dalle molteplici professionalità che devono obbligatoriamente collaborare per la buona riuscita dell’evento. Sempre più spesso capita al nostro studio di dover organizzare queste manifestazioni curandone i contenuti che poi finiscono in slide di particolare effetto scenico che si alternano alle riprese live dell’evento. KeyNote è un programma che fa parte di un pacchetto che si chiama iWork, che vorrebbe essere la risposta Apple al pacchetto Microsoft Office. Infatti oltre a KeyNote sono presenti in iWork altri due programmi: Pages e Numbers che rispettivamente sostituiscono Word ed Excel. Curiosità: sapevate che Excel fu creato da Microsoft per Macintosh nel 1985 e solo nel 1987 divenne un programma per Windows? Il programma equivalente per MS-Dos si chiamava Multiplan. Curioso, no?

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9 WORD Devo ancora conoscere qualcuno, soprattutto tra i grafici, che riesca a parlarmi con grande soddisfazione di questo programma, ma devo anche incontrare qualcuno che non lo abbia mai usato. È certamente il programma più diffuso al mondo tanto che spesso per i neofiti di computer Word è Office, Word è il computer. Non mi metterò certo a parlare di questo software cercando di spiegarne funzioni e caratteristiche specifiche, vista la complessità delle funzioni e la pretesa di fare un sacco di cose. Nato con i primi personal computer, sviluppato da subito anche per il primo Macintosh per scrivere testi, nel corso del tempo si è trasformato in un programma molto sofisticato, e con molti automatismi che in certe situazioni lo rendono particolarmente complesso e di utilizzo non del tutto immediato. La logica che c’è dietro spesso mi sfugge e non mi pare rispondere a quei criteri di semplicità che dovrebbero essere alla base di un programma di scrittura. Un esempio: con qualsiasi altro programma sviluppato contemporaneamente per Mac o Windows, una volta entrato nell’interfaccia operativa, non fai più caso a quale sistema operativo stai usando. Photoshop, InDesign, Premiere, e tutti gli altri software di Adobe, possono avere gli stessi manuali, con qualche annotazione differente sui comandi da tastiera e qualche altra caratteristica determinata dal sistema operativo. Con i programmi Microsoft: apriti cielo! Sembra di utilizzare software completamente differenti. Provate a lavorare con Word, oppure PowerPoint. Se siete abituati con un Mac e aprite lo stesso programma con Windows il lavoro si trasforma nel gioco del nascondino, in una continua ricerca dei comandi, che uno s’immagina ci siano, ma navigando a vista fra i menù, si perde un sacco di tempo. 152

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Dopo questa presentazione non proprio gratificante immagino che la domanda che sorge spontanea è: “Ma perché usi Word? E perché lo usi addirittura sia con Mac che con Windows?” Sono costretto ad utilizzare Word perché, come ho già detto, si tratta del programma più diffuso al mondo, utilizzato nella maggior parte degli ambienti lavorativi, in quasi tutti gli uffici. Non per niente il nome del pacchetto è Office. Con l’avvento di stampanti a basso costo che danno risultati che competono con le stampe in tipografia, sempre più di frequente mi viene chiesto di realizzare modelli di Word per stampare in proprio carte intestate, moduli, certificati, buste, relazioni e bilanci. Mentre fino a qualche anno fa avere computer e stampante in ufficio significava aver eliminato la macchina da scrivere, da diversi anni vuol dire aver sostituito la stampa industriale offset. Le carte intestate sempre più di rado vengono stampate in tipo- Quando si crea un modello di carta intesta risulta molto utile l’utilizzo degli stili, che permettono la formattazione grafia, e per questo a noi automatica dei testi. 153

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grafici viene richiesto di realizzare modelli in Word, in cui siano inseriti gli elementi dell’immagine coordinata, ma anche una serie di automatismi che facilitino la composizione delle lettere. Ad esempio, differenziare automaticamente il primo dal secondo foglio, con il marchio societario di diverse dimensioni e i dati riportati solo in prima pagina. Fare una buona carta intestata, completa e funzionale non è per niente banale, bisogna avere una buona conoscenza di come si usano le sezioni, le intestazione e i piè di pagina. Un lavoro importante che negli ultimi anni abbiamo realizzato con Word è stato quello di rendere indipendenti alcuni nostri clienti nella scrittura dei propri bilanci, permettendo loro di realizzare in autonomia dei prodotti che, come ha detto uno stampatore, non sembrano neppure realizzati con Word. In questo caso aver spinto all’uso di questo programma non è stato determinato dallo “stampare in proprio”, ma per evitare il passaggio di una nuova impaginazione da parte dello studio grafico con InDeIccrea Holding S.p.A. - Relazione e Bilancio 2007

Relazione del Consiglio di Amministrazione

Il governo delle relazioni con il mercato

ad esercitazioni sul campo, con l’individuazione di obiettivi da raggiungere sul mercato prima di tornare in aula. Tale attività vede coinvolte, coordinate dalla capogruppo, risorse di Aureo Gestioni, BCC Vita, Iccrea Banca e SeF Consulting.

L’attività di Area Mercati, nell’anno 2007, è proseguita contribuendo a determinare l’evoluzione del Sistema d’Offerta del Gruppo Bancario Iccrea per Aree d’Affari, con lo scopo di creare valore per le BCC. Si è impegnata, inoltre, nell’individuazione delle linee strategiche di marNel Segmento Corporate: Durante l’estate ha preso keting e di comunicazione del Gruppo Bancario, per lo l’avvio l’attività crediti in Banca Agrileasing, contribuensviluppo di un’offerta armonica ed organica nell’ambito do al progressivo completamento dell’offerta corporate dei tre segmenti: retail, corporate ed istituzionale. della controllata. Area Mercati ha partecipato alla fase di Al fine di presidiare e presiedere alla corretta evoluzioindividuazione delle necessità da soddisfare, ha prestato ne del Sistema d’Offerta il Consiglio d’Amministrazione il proprio apporto nella definizione del profilo del servizio, Iccrea Holding S.p.A. della capogruppo ha individuato il ruolo di Coordinatoha affiancato l’attività della Società nella presentazione e re di Segmento, oggi ricoperto da tre dei Direttori Area nella veicolazione dell’informativa. A seguito della crisi di STATO PATRIMONIALE Mercato. Essi hanno il compito di sintetizzare le esigenze liquidità nata nel periodo estivo, si è contribuito alla indi mercato nell’ambito dei tre segmenti d’offerta. La loro dividuazione di soluzioni atte a sostenere l’operatività di Voci dell’attivo attività è prevalentemente nazionale e collaborano con gli Banca Agrileasing, in sinergia con Iccrea Banca e con il Cassa e disponibilità liquidedelle Banche di Credito Cooperativo. In 10. nella altri DAM nella individuazione dei temi emergenti, coinvolgimento rilevazione delle criticità e delle aree di miglioramento, in finanziarie ambito interaziendale ha preso l’avvio il progetto estero/ detenute per la negoziazione 20. Attività vista di un’azione propositiva e di coordinamento internazionalizzazione Gruppo Bancario Iccrea, che Attività finanziarie disponibili per la del vendita 40.unitario delle Società del Gruppo. coinvolge anche l’offerta corporate di Gruppo. 60. Crediti verso banche Durante l’anno si sono conclusi progetti avviati nello PartecipazioniNel Segmento Istituzionale: è divenuto operativo il scorso esercizio e nuovi se ne sono aperti. Fra i100. più significativi possono essere ricordati: portale dell’Informativa Finanziaria di Gruppo, che rap110. Attività materiali presenta un utile strumento per le Banche di Credito Co120. Attività immateriali Nel Segmento d’offerta retail: è continuato il percoroperativo anche in un’ottica MiFID e riunisce l’informativa 130. Attività fiscali so di completamento dell’offerta nel credito al consumo, prodotta da Iccrea Banca, Aureo Gestioni e BCC Vita. È a) correnti con una partnership per il finanziamento dietro cessione stata portata a compimento la prima versione del Catadel quinto dello stipendio; si è provveduto alla rivisitalogo Elettronico dei Prodotti del Gruppo Bancario che ha b) anticipate zione dell’accordo per il finanziamento dei mutui visto collaborare con Area Mercati tutte le Società che ofAltre attività 150. casa, con la relativa attivazione del brand . Si è frono prodotti e servizi nei segmenti Corporate e Retail. Totale dell’attivo affiancata Iccrea Banca sul programma d’avvio del Progetto 8000, con un’attività di animazione del mercato circa Per quanto concerne i meccanismi di coinvolgimento il passaggio al microchip. È entrato a regime il progetto delle Banche di Credito Cooperativo e di animazione del Voci2007 del passivo e del patrimonio netto “Formazione Integrata Finanza”, che mette a disposizione mercato, l’anno è stato segnato dal consolidamento di alcuni dei collaboratori delle BCC sia conoscenze di tipo Debiti verso banchestrumenti, quali: 10.teorico, sia di prodotto, fino a strumenti di vendita consulenziale e

80.

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100. 110. 120. 130. 160. 180. 190. 200.

Passività fiscali a) correnti b) differite Altre passività Trattamento di fine rapporto del personale Fondi per rischi e oneri b) altri fondi Riserve da valutazione Riserve Capitale Azioni proprie (-) Utile (Perdita) d’esercizio (+/-) Totale del passivo e del patrimonio netto

t

la newsletter elettronica Insieme, che ha raggiunto 3.946 utenti con 15 numeri;

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gli incontri di Insieme un’Altra Musica!, fra la Capogruppo, le Federazioni e le banche associate, con l’obiettivo di informare direttamente le BCC sui progetti di Gruppo, è un’occasione per condividere i percorsi intrapresi e valorizzare le peculiarità territoriali;

t

è entrata a regime la prima Sede di Prossimità del GBI. Il Centro Supporti Operativi per le BCC del Veneto, inaugurato il 16 marzo 2007, è divenuto il punto di riferimento di attività e di animazione del mercato, un luogo a cui le BCC si riferiscono, non solo nella quotidiana attività della banca, ma perché capace di portare valore aggiunto, sia con attività che coinvolgono tutto il Gruppo o i vari Segmenti, sia con attività che riguardano le singole Società; in questo senso, il Centro di Padova è diventato un’esperienza pilota, da replicarsi laddove si creino le condizioni per una ristrutturazione della presenza sul territorio. Solo per fare un esempio, le sale comuni della nuova Sede di prossimità ECONOMICO dal 16 marzo al 31 dicembre 2007 hanno ospitato: 52 incontri con le BCC o di coordinamento fra le Voci Società presenti nel territorio del Nord Est

i Comitati Commerciali, che hanno quale obiettivo il creare valore per le BCC, supportandone lo sviluppo attraverso il sostegno del GBI e la supervisione della Federazione; rendendo coerenti le CONTO strategie commerciali delle Società del GBI con quelle delle BCC; monitorando le diverse esigen2007 2006 ze, criticità e livelli di performance riscontrati dalle 3.045 7.414 di prodotto e di mercato; Interessi attivi e proventi assimilati 10. BCC per ogni segmento realizzando un29.473.640 sistema integrato di informazioni La collaborazione si è creata con le Federazioni lo0 Interessi passivi e oneri che assimilati 20. commerciali concernenti le cali ha portato i Direttori Area Mercato ad essere coinvolti 28.362.320 26.835.390 il Sistema di Offerta e 30. Margine di interesse BCC; in numerose attività delle Federazioni stesse, consenten14.123 5.464.495 loro di portare Commissioni attive all’attenzione della dirigenza delle BCC 40. do 575.821.575 t 637.213.459 il progetto “La BCC incontra il Gruppo Bancario prodotti, servizi, iniziative del Gruppo e raccogliere indicaCommissioni passive 50. Iccrea”, zioni e suggerimenti di questi organismi. 332.118 nuovo strumento 351.988 di conoscenza e di in60. Commissioni nette contro Il supporto di gestione commerciale e della relazione 271.326 fra le strutture 250.877imprenditoriali residenti a Lucrezia Romana e le BCC; Iccrea eHolding, EasyDAM, è evoluto ulteriormente, inDividendi proventi simili 70. di 250.548 943.167 tegrando report di sintesi e strategici in grado di creare Risultato netto dell’attività didelle negoziazione 80. un 96.064 t 125.673 i Tavoli dei Referenti Territoriali, sono lo strumento quadro approfondito relazioni delle Società conUtili (perdite) da BCC cessione riacquisto di: locali, al fine di dare 100. trollate utile per coordinare e valorizzare la presenza delle con le e leo Federazioni 124.875 847.103 Società che operano nei vari territori. Animati dai ai Holding uno strumento per le attività in 45.061.179 36.047.344 b) vertici attivitàdella finanziarie disponibili per la vendita DAM, sono momenti di incontro, di progettazione essere. 711.508.118 675.195.890 120. Margine di intermediazione e coordinamento fra le reti delle Società sul terriIl presidio della comunicazione di marketing si è ultetorio. Da essi sono scaturite nuove sinergie, occaapprofondito, grazie ad una specifica ed unita140. riormente Risultato netto della gestione finanziaria sioni di collaborazione, sostegno reciproco ed una ria attività di comunicazione, individuando linee guida ed 150. Spese amministrative: 2007 2006di gruppo dei primi e più diretti maggiore identità attività/strumenti e supporti di marketing comunicazionaa) del spese per il personale rappresentanti 70.557.462 del Gruppo Bancario Iccrea con le le Gruppo Bancario Iccrea, avendo cura di sviluppa83.599.777 BCC; re cultura e metodologia di comunicazione b) una altrecomune spese amministrative

467.590 439.429 28.161 38.574.606 383.061 278.442 278.442 22.856.631 25.185.305 512.420.012 (1.311.192) 29.053.886 711.508.118

4.676.415 4.621.134 55.281 25.690.677 561.166 1.677.019 1.677.019 22.973.181 21.859.318 512.420.012 (1.311.192) 16.091.832 675.195.890

160. Accantonamenti netti ai fondi per rischi e oneri 170. Rettifiche/riprese di valore nette su attività materiali

676.774

200. Costi operativi 250. Utile (Perdita) della operatività corrente al lordo delle imposte Imposte sul reddito dell’esercizio dell’operatività corrente

2006

467.103

(3.200.921)

(3.250.553)

(2.524.147)

(2.783.450)

1.620.997

1.119.302

(16.196)

(72.879)

1.604.801

1.046.423

37.742.618

25.637.161

70.028 75.000

326.624 (436.893)

75.000

(436.893)

36.968.300

23.789.865

36.968.300

23.789.865

(17.596.689)

(15.483.971)

(11.025.954)

(10.187.325)

(6.570.735)

(5.296.646)

335.371 23

180. Rettifiche/riprese di valore nette su attività immateriali 190. Altri oneri/proventi di gestione

260.

Bilancio 2007

2007

(103.184) (233.951)

0 (121.565) (228.017)

5.721.742

4.120.833

(11.876.711)

(11.712.720)

25.091.589

12.077.145

3.962.297

4.014.687

270. Utile (Perdita) della operatività corrente al netto delle imposte

29.053.886

16.091.832

290.

29.053.886

16.091.832

Utile (Perdita) d’esercizio

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sign. Quindi il nostro lavoro di grafici è stato quello di realizzare un modello iniziale ben impaginato graficamente, fatto di sezioni già suddivise, e fogli stile di paragrafo e di carattere per ottenere una impaginazione comunque di buona qualità.

La finestra dei fogli stile nelle tre differenti versioni di Microsoft Word: Office 2003 per Windows XP, Office2007 per Windows Vista e Office2011 per MacOsX

Chiaramente, la maggior parte degli utenti lavorano con Windows, quindi nel confezionare un modello di Word e per garantire un sufficiente supporto, a volte anche formativo, è necessario conoscere il programma nel sistema operativo usato dai clienti. In questo senso voi pensate che le difficoltà siano dovute solo ai differenti Word fra Mac e Windows? Purtroppo no! Word 2003 e Word 2007 sembrano programmi di società diverse, e alcuni automatismi degli stili e dei temi fra un file .doc e un file .docx sono diversi, anche all’interno dello stesso programma. Ma questo è Word.

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10 PER DISEGNARE CARATTERI Ho raccontato della mia passione per i caratteri: una attenzione e una sensibilità innata, che non so proprio da chi mi sia stata tramandata. Il computer, con le migliaia di font che mette a disposizione, rappresenta quindi una specie di grande paese dei balocchi, dove passerei ore a sfogliare l’intero catalogo dei caratteri, una quantità esagerata di cui utilizziamo solo una minima parte. Tuttavia, un po’ per passione, un po’ per reali motivi stilistici, può nascere l’esigenza di disegnare un nuovo carattere. Nel 1925 il poeta Francesco Pastonchi scrisse una lettera ad Arnoldo Mondadori per convincerlo a far produrre un nuovo carattere per la collana da lui diretta: “Le diversità tra carattere e carattere sono sempre minime in sé, e pure l’occhio lo avverte e ne gode...” Nonostante i continui tentativi di Mondadori di optare per soluzioni già pronte e quindi più economiche, alla fine il nuovo carattere venne approntato, disegnato da Edoardo Cotti sotto la direzione di Pastonchi. Questa vicenda è rappresentativa del nostro paese. A differenza di altri stati come l’Olanda o quelli anglosassoni, il progettista di caratteri fa fatica a ricevere soddisfazioni dal proprio lavoro perché la richiesta è da sempre molto limitata. Sono poche le aziende e le case editrici disposte ad investire nella produzione di un carattere proprio, mentre all’estero è una sensibilità ed una richiesta certamente più frequente. Eppure di progettisti bravi ce ne sono stati e ce ne sono: dal già citato Aldo Novarese, a Piero De Macchi, agli insegnanti che si sono succeduti all’ISIA come Umberto Fenocchio e Giò Fuga: tutti figli della tradizione

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tipografica italiana che ha origini antiche e importanti. Chi non conosce Bodoni o ancor prima la grande attività editoriale del Rinascimento? James Clough, noto calligrafo inglese che da molti anni vive in Italia, mi raccontava che proprio a Fano, la città in cui vivo, nel 1503 Francesco Griffo disegnò per Ghershom Soncino uno dei primi corsivi tipografici. Una storia, quella della nascita del corsivo, molto intrigante che merita di essere conosciuta anche per aspetti che vanno al di là di quelli stilistici; aiuta a comprendere, ad esempio, che la paternità di una idea, i diritti d’autore, non sono questioni nuove, tipiche di una economia postindustriale dei giorni nostri, ma che anche nel Rinascimento vi sono state diatribe sul copyright, proprio come accade oggi tra i colossi dell’informatica. La paternità del corsivo viene diffusamente data ad Aldo Manuzio. In realtà la vicenda fu più complessa. Questo importante tipografo, editore e umanista veneziano, nel 1500 diede il via ad una collana di libri di successo, di dimensioni ridotte, maneggevoli, leggeri, cosiddetti “da bisaccia” ovvero tascabili, in cui per la prima volta veniva utilizzato un nuovo carattere inclinato a destra, che Francesco Griffo aveva disegnato per Manuzio a imitazione della scrittura corsiva in uso presso le cancellerie dell’epoca. Ne derivò un carattere che venne chiamato, in omaggio alla nazione, italico, nome con il quale ancora oggi si identificano in maniera più generica i corsivi: italic in inglese o italique in francese. Manuzio capì subito la portata di questa novità tipografica e volle assicurarsi i vantaggi commerciali che il nuovo carattere prometteva; il 23 marzo 1501 il Senato concesse a Manuzio il privilegio per l’utilizzo del corsivo, mentre dal 17 ottobre 1502 venne esteso a tutti i caratteri disegnati dal Griffo, al quale era così impedito di avvalersi delle proprie stesse invenzioni presso altri tipografi o editori. Si trattò a tutti gli effetti di un brevetto a danno dell’effettivo autore, al quale non veniva riconosciuto alcun vantag157

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gio economico. Questo probabilmente contribuì al guastarsi dei rapporti con Manuzio e così Griffo lasciò Venezia alla fine del 1502 per andare a Fano al servizio di Soncino, per il quale egli incise un corsivo molto simile a quello aldino, soltanto leggermente più pesante, attenuato nelle legature. Con questo carattere il Soncino stampò nel 1503 Le rime del Petrarca, pubblicate con una dedica a Cesare Borgia in cui il tipografo si produsse in una famosa diatriba circa l’originalità dei caratteri “aldini” ideati e creati dal Griffo. Griffo era ormai famoso sia per l’abilità tecnica maturata, sia per l’invenzione e il perfezionamento del corsivo, il cui primato lo stesso Manuzio aveva tentato di sottrargli invano. Oggi, nel XXI secolo, per disegnare caratteri esistono programmi specifici con cui è possibile arrivare alla produzione di una vera e propria font da utilizzare, distribuire come qualsiasi altra font presente nel sistema operativo o acquistata da un catalogo. Nella mia esperienza di grafico ho prodotto alcune font spesso per passione e sperimentazione che poi abbiamo utilizzato in qualche lavoro, come ad esempio il Bic e il Karamond usati nel 1997 in un CDRom per il Museo Etnografico di Santarcangelo di Romagna. La prima l’ho chiamata Bic perché si tratta della riproduzione di una mia grafia veloce fatta con la penna a sfera.

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Alla seconda invece abbiamo dato il nome di Karamond, in versione regular e corsivo, perché le lettere sono state tratte da un antico Garamond di un vecchio libro stampato con caratteri a piombo.

Queste font le ho create facendo prima una digitalizzazione con lo scanner delle immagini. Poi ogni lettera è stata “vettorializzata” ricalcandola automaticamente per ottenere le curve di Bézier. Infine, utilizzando il programma Fontographer sono state inserite nelle apposite caselle di riferimento per abbinarle alle lettere dell’alfabeto così da ottenere, alla conclusione del processo, una vera e propria font PostScript, compatibile e stampabile con qualsiasi LaserWriter. Oltre che caratteri alfabetici una font può contenere segni grafici particolari. Nel 2004 abbiamo realizzato un interessante progetto di simboli per la comunicazione di Adriacongrex; per facilitarne l’uso da parte di tutti i dipendenti abbiamo creato una font chiamata ACX.

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Nel 2008, nell’ambito della realizzazione della nuova immagine coordinata del Gruppo bancario Iccrea, abbiamo creato un carattere istituzionale esclusivo, derivato dalle versioni “medium” e “bold” del Formata, con cui sono stati riscritti tutti i logotipi delle società affiancati al nuovo simbolo del gruppo e al disegno di un tangram dagli angoli arrotondati. È nato così il Formatangram.

abcdefghijklmnopqrstuvwxyz ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ abcdefghijklmnopqrstuvwxyz ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ

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Per la creazione di tutti questi progetti abbiamo utilizzato due programmi alternativi: Fontographer e Fontlab. Fontographer è noto soprattutto per essere stato il primo programma ad utilizzare le curve di Bézier, addirittura ancor prima di Illustrator e di FreeHand; anzi, quest’ultimo fu sviluppato proprio dalla Altsys corporation sulla base dell’esperienza di Fontographer. Dopo l’acquisto da parte di Macromedia, Fontographer non ha avuto importanti aggiornamenti per rispondere alle esigenze delle nuove font OpenType, tanto che i progettisti dovettero convertirsi in breve tempo al più completo FontLab, ritenuto professionalmente più avanzato. Nel 2005, prima della acquisizione di Macromedia da parte di Adobe, FontLab ha acquisito i diritti di Fontographer per svilupparlo come programma alternativo al proprio, di più facile e veloce utilizzo, alla portata di tutti i graphic designer. Le principali finestre utilizzate in Fontlab.

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11 FILEMAKER Chi mai potrebbe pensare che FileMaker, insieme ad Hypercard, è stato uno dei primi programmi da me utilizzati? In quelle nottate di tanti anni fa in cui passavo le mie prime ora sul Macintosh II, ho dedicato non poche ore a capire qualcosa di quello che è stato per tanto tempo considerato il principe dei database visuali. Database significa base di dati, detta anche banca dati, o contenitore di dati, che vengono scritti e conservati in un determinato modo da essere poi letti e consultati con facilità e velocità secondo criteri scelti dall’utente. Un database può essere un indirizzario, una raccolta di ricette, un catalogo di tutti i libri di una biblioteca e su su fino ad archiviazioni molto complesse di dati che oggi sono diventate il sistema di gestione di tutti i contenuti che troviamo nei siti internet. Ma di questo parleremo più avanti, descrivendo Wordpress. La storia di FileMaker va a braccetto con quella di Macintosh. Dei vari intrecci societari della Silicon Valley con cui non voglio tediarvi, dico solo che questo programma nasce nel 1985 e, dopo un paio di passaggi di proprietà, diventa un prodotto della Claris, azienda creata da Apple per lo sviluppo di software. Tale rimane dal 1988 al 1997 quando Claris viene chiusa insieme a diversi suoi programmi, ma vista la diffusione ed il continuo successo di FileMaker venne creata una società che ancora oggi porta il nome del programma FileMaker Inc. Come per gli altri programmi non è mia intenzione descrivere in maniera riduttiva e banale la creazione di un documento, in questo caso di un

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database. Racconto soltanto qualche esperienza interessante. Me ne vengono in mente due. La prima è stata progettata per uso interno dello studio. Si tratta di un vero e proprio gestionale che avevo congegnato per tenere in ordine i nostri conti attraverso una serie di file differenti tutti collegati tra loro: uno per la fatturazione, uno per le uscite, uno per i soldi in banca. È un progetto che risale ai primi anni di Kaleidon che poi piano piano ho sviluppato fino ad integrarlo con altri pezzi di database, sempre collegati fra loro, che tenessero traccia delle commesse, dei progetti nel loro iter, quantificando anche le ore di lavoro di ognuno di noi che lavora a Kaleidon. Un po’ per pigrizia, un po’ per fatica nell’essere puntuali quando si trattava di inserire i dati, questa seconda parte non ha mai avuto un buon ritorno in termini di effettiva utilità, tanto è vero che – storia proprio di questi giorni – vista l’intensità del lavoro e del numero di persone in Kaleidon, abbiamo pensato di dirottarci ad un sistema dedicato alla gestione del lavoro degli studi grafici e delle agenzie di pubblicità. Un altro lavoro molto interessante realizzato con FileMaker è stato un sistema virtuoso di registrazione dati collegato con XPress, quando ancora lo preferivo all’appena nato InDesign. Avevo creato un documento FileMaker in cui una azienda che produceva e commercializzava prodotti biologici poteva inserire tutti i dati (nome, prezzi, ingredienti, caratteristiche, codici, ecc.) che sarebbero poi andati a finire in catalogo/listino di numerose pagine. La cosa veramente interessante è stata quella di essere riusciti a ridurre notevolmente i tempi di produzione e di uscire in questo modo puntuali per una importantissima fiera, quando ancora pochi giorni prima non si sapeva con precisione cosa si sarebbe potuto inserire nel catalogo. Prima di tutto l’azienda inseriva i dati in FileMaker mano a mano che arrivavano i prodotti e faceva questa operazione a distanza attraverso inter163

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net. Ciò è permesso dal fatto che FileMaker può lavorare in rete sia attraverso il programma stesso, ma anche utilizzando un normale browser per l’inserimento dei dati. Una volta terminata questa fase abbiamo impaginato tutti i dati con un semplice click utilizzando un particolare plug-in chiamato Xtags che attribuiva automaticamente ad ogni elemento del prodotto il giusto stile grafico, la giusta collocazione nella pagina con la relativa foto. Chiaramente il semplice click era stato opportunamente programmato con un linguaggio proprio del software chiamato Xdata. Se non avessimo pensato ad un sistema del genere, non avremmo vinto la sfida di riuscire a impaginare e stampare il catalogo a pochi giorni dal Sana, l’importante fiera di prodotti biologici.

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12 SISTEMI OPERATIVI VIRTUALI Le problematiche descritte a proposito dei test necessari quando si creano documenti Word porterebbero a pensare che in ogni studio ci debbano essere computer con diversi sistemi operativi e diversi programmi installati per verificare la visualizzazione ed il comportamento dei file realizzati. La questione è ancor più importante quando si parla di multimedialità per la necessità di fare tantissimi test sui diversi sistemi operativi e non solo su due generici ambienti Mac e Windows. Ogni sistema è soggetto a periodici aggiornamenti che portano con sé tante modifiche che rendono la vita veramente difficile agli sviluppatori. Senza parlar male di Microsoft delle evoluzioni o involuzioni dei vari Windows, anche Apple ci ha abituato a momenti rivoluzionari che hanno portato a migliorie spesso interessanti, lasciando però per strada pezzi importanti: penso al passaggio da MacOs a MacOSX con tutti i suoi felini e a quanti software sono risultati incompatibili che per noi erano necessari. Non parliamo poi del web, dove alla fatica dello star dietro ai sistemi operativi si aggiunge quella dei browser, un argomento da affrontare con nervi saldi, tanta pazienza e soprattutto preparazione. Ma ritorniamo alla domanda se è necessario avere tanti computer per testare i nostri file di Word o un sito nei diversi browser. Ebbene la risposta è no, perché esistono software che ci vengono in aiuto per utilizzare più sistemi operativi in una stessa macchina. Lavorare in maniera “virtuale” è possibile da tanto tempo, uno dei primi software si chiamava appunto VirtualPC riusciva a caricare nel Mac altri sistemi e ad aprirli in una finestra. L’ho usato per diversi anni, ma la differenza di architettura dei processori 165

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dei due mondi (PowerPC e Intel), non permetteva performance interessanti e tutto risultava terribilmente lento anche con macchine piuttosto potenti. La svolta è stata quando Apple decise di adottare i processori Intel tanto che da quel momento in poi su un Mac si ha la possibilità di installare anche Windows. Sì, avete capito bene, è quasi un paradosso, tanto è vero che non conosco nessuno che abbia un Mac senza godere del suo sistema operativo. Insieme a questo nuovo processore Apple fornisce un software che si chiama Boot Camp che permette di assegnare una parte del proprio disco rigido a Windows così da poter decidere all’avvio del computer se lavorare con MacOs o Windows. Oltre Boot Camp sono nati anche software che operano con la logica di VirtualPC, come Parallels o VMware Fusion che danno la possibilità di lavorare addirittura con più sistemi operativi contemporaneamente inseriti in diverse finestre. Non di rado mi sono trovato con WindowsXP e WindowsVista contemporaneamente avviati con Word2003 aperti in uno e Word2007 aperto nell’altro, per vedere come si comportavano i file .doc da noi realizzati. E le sorprese non sono mai mancate: immagini con contorni sgranati a causa di file .png o .eps non compatibili, linee di testo interlineate in maniera differente, diverso risultato di fogli di stile apparentemente identici, incompatibilità di font nella gestione dei corsivi che diventano semplicemente inclinati, e chi più ne ha ne metta. Dopo aver iniziato ad utilizzare Parallels, sono passato a Fusion, perché c’è stato un periodo in cui il secondo garantiva prestazioni migliori, permettendo ad esempio di scegliere non solo quanta RAM dedicare al sistema operativo, ma anche il numero dei “core” del microprocessore.

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Le principali finestre utilizzate in VMware Fusion.

Menù impostazioni Impostazioni

Windows XP

Libreria

Windows Vista

Non ho più seguito il confronto fra i due programmi, ma ho letto che oggi a grandi linee sono equivalenti. Con VMware Fusion è possibile non solo aprire più Windows contemporaneamente, ma anche Linux, Unix e addirittura anche MacOsXServer. Per un breve periodo è stato possibile avviare contemporaneamente anche versioni differenti di MacOSX, e questa era una soluzione interessante che avrebbe ad esempio permesso Franz di aprire nel proprio Mac, il suo amato FreeHand non più apribile con l’uscita di Lion. Ma la politica di Apple non permette assolutamente virtualizzazioni del suo sistema e quindi ha imposto immediatamente a VMware di togliere questa possibilità, lasciandola solo alla versione Server di MacOS.

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Oltre a Parallels e VMware Fusion esistono anche altri programmi meno imponenti e impegnativi che riescono ad aprire i software nativi per Windows senza creare particolari partizioni o installazioni. A me capita di usare WinOnX, che trovo utile per avvii veloci di piccole utility, come ad esempio il nostro Kropper, un software creato insieme a Roberto Cecchi sia per Mac che per Windows e che per alcune incompatibilità non è piÚ possibile aprire con Lion.

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4ª TAPPA

NEI GIRONI PRODUTTIVI, TRA CHILI DI CARTA E CHILI DI BYTE 169

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1 BRIEFING E PRODUZIONE Ăˆ fondamentale prestare cura ad ogni fase del lavoro, e dare massima attenzione all’inizio e alla conclusione.

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La realizzazione di un progetto richiede buone intuizioni, conoscenze tecniche e brave persone che collaborano. E per poter salvaguardare e migliorare quel tempo a disposizione di cui ho già parlato, e non diventare vittime dello stress, è fondamentale prestare cura ad ogni fase del lavoro, con la giusta attenzione sia quando si inizia, sia quando si avvicina la conclusione. Purtroppo capita di iniziare un progetto con clienti che mettono a disposizione idee molto confuse, e trasformano il lavoro del grafico in una sorta di “psicoterapia” dove la prima cosa da capire sono le ragioni profonde, i motivi veri per cui si è deciso di modificare l’immagine. A volte questo è interessante, ma spesso comporta tanta, ma tanta fatica non sempre ripagata. Dietro il redesign di un marchio c’è il desiderio di una ristrutturazione dell’azienda, che spesso, prima di tutto, dovrebbe passare per la ridefinizione dei ruoli, dei prodotti, dei mercati: tutti elementi che non solo determinano le scelte del grafico, ma richiedono la sua collaborazione, perché il grafico sovente ha una capacità di dare “visione” e “prospettive” a concetti che altrimenti rimarrebbero tali.

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In realtà oggi, per la ben nota crisi che non risparmia nessuna professione, per chi lavora nella comunicazione non è per niente facile essere cercati, e si è interpellati proprio per la capacità di dare risposte a problematiche che vanno ben oltre la grafica. È sempre più importante diventare professionisti di quello che oggi viene chiamato “design strategico”, creando dei rapporti con i clienti in cui non si è più percepiti come fornitori di servizi, ma partner che addirittura, quando si è bravi, anticipano il cliente nelle proprie necessità. Iniziare bene, dicevamo, è molto importante. Certo, questo non significa che bisogna avere le idee da subito ben definite, ci mancherebbe. Ma un briefing preciso, che abbia come prospettiva la chiarezza, va preteso dal cliente e da noi stessi perché aiuterà il progetto, ci permetterà di evitare di rincorrerlo con affanno e aggiustarlo con continue pezze, compromessi, cancellature che alla fine deprimono il risultato. Facile a dirsi, meno a farsi, ma è un principio che va ricercato. Come va tenuta alta l’attenzione quando si avvicina la conclusione del lavoro perché, anche dopo un processo ben sviluppato, i problemi possono giungere alla fine. In alcuni casi arrivano dall’esterno (una tipografia frettolosa e non ben attrezzata, uno sviluppatore internet non proprio all’altezza), ma può accadere che la responsabilità sia invece la nostra per una sorta di rilassamento di fronte al traguardo. Un po’ come, a me capitava spesso, da studente si dovevano studiare trenta pagine e finivo per trascurare le ultime due, mettendo a rischio tutte le fatiche e il buon risultato per quelle pesantissime ultime due pagine. È normale: alla fine dell’impaginazione di un libro, della realizzazione di un DVD, o di qualsiasi progetto che richiede tempo, si arriva stremati e stanchi col desiderio di concludere quanto prima. Ma capite bene che an-

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dare in stampa, lasciando il risultato finale alla sorte può essere la rovina del nostro lavoro; non dedicare il tempo necessario a noiosissimi test di un progetto multimediale equivale a voler sperimentare il gioco alla roulette russa. Quindi precisione nel briefing e attenzione a tutte le fasi del progetto aumentano le possibilità che il risultato del nostro lavoro sia di buon livello, e quando non lo fosse, ci preservano da responsabilità che possono essere di altri fornitori. Nelle pagine seguenti cercherò di presentare alcune di queste fasi che spesso ci troviamo ad affrontare al termine di un progetto e che richiedono la nostra attenzione anche quando il lavoro è passato in mano ad altri professionisti.

Dario era uno di quegli studenti che mi prendeva sul serio, e nell’iniziare un progetto ci metteva subito la testa :-)

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2 STAMPA Arte grafica è stata spesso usata come sinonimo di stampa.

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A questo argomento, sarebbe giusto dedicare un libro intero: ciò che state leggendo vuole essere soltanto un assaggio utile per orientarsi fra tanti temi che poi, chi vorrà, troverà modo di approfondire in altra maniera. Il primo libro su cui ho studiato grafica, Graphic Design di Alfred Hohenegger, dedicava ampi spazi ai diversi sistemi di stampa, partendo dalla storia dei procedimenti con matrice a rilievo (xilografia>tipografia), in incavo (calcografia>rotocalco), e piana (litografia>offset). Oggi, senza nulla togliere a questi approfondimenti storici e tecnologici che sono fondamentali nella formazione di un grafico, volendo raccontare qualcosa in poche righe sulla stampa che è quotidianità nel mio lavoro, farei una distinzione tra stampa industriale (nella maggior parte dei casi offset) e stampa digitale. Si tratta di procedimenti riproduttivi profondamente diversi che hanno in comune solo il fatto che il risultato finale sarà una miscela dei colori di quadricromia (cyan, magenta, giallo e nero), ma la tecnologia che c’è dietro è completamente diversa. La stampa industriale funziona attraverso la realizzazione di matrici dette lastre, che vengono montate su costo175

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sissime macchine che possono raggiungere dimensioni enormi tanto da essere collocate in grandi capannoni. Il costo di questo processo di stampa è determinato innanzitutto dalla realizzazione di queste matrici (quattro nel caso della quadricromia), dalla loro messa in macchina, dall’ammortamento dei macchinari, dal tecnico che li manovra, dagli inchiostri e dalla carta. Non bisogna essere degli esperti in economia per capire che si tratta di un tipo di stampa non conveniente per basse tirature: più copie facciamo e meglio ammortizziamo i costi sopra descritti riducendo enormemente il prezzo di ogni copia. La stampa digitale invece non richiede alcun tipo di matrice, ma viene pilotata direttamente dal computer come una normale stampante da ufficio e quindi il costo di ogni singola copia dovrà essere moltiplicato per il numero delle stampe richieste. Anche in questo caso non è difficile comprendere che si tratta di un sistema adatto per basse tirature. Dal punto di vista della qualità delle immagini oggi con il digitale stiamo raggiungendo ottimi risultanti, impensabili fino a qualche anno fa. Vi sono però alcuni grandi limiti come ad esempio quello di una disponibilità di carte utilizzabili molto limitata, mentre l’offset ci permette una libertà pressoché infinita: patinate lucide, opache, uso mano, riciclate delle più svariate tipologie e grammature che non pongono limiti alla fantasia del grafico, ma richiedono una attenzione particolare in fase di realizzazione degli impianti fotolito. La stampa offset funziona per trasferimento di inchiostro da una lastra metallica al foglio di carta. Essendo le immagini composte da tanti punti uno affianco all’altro (retinatura), accade che questi piccoli punti cambino

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di dimensione a seconda che la carta sia più o meno assorbente. Per capirci: ben diverso è il risultato di una goccia di vino rosso caduta su carta tipo “Scottex” rispetto ad una carta per disegno tecnico; così grosso modo accade all’inchiostro su tipologie di carte diverse per la stampa. Quando insegnavo portavo sempre come esempio una esperienza che mi è capitata diversi anni fa quando non avevo prestato particolare attenzione a questo problema. Avevo realizzato una serie di etichette per prodotti biologici in cui erano presenti delle bellissime illustrazioni di frutta, brillanti e vivaci quando le visualizzavo nel monitor del computer. Quando poi in fase di stampa si decise, come era logico che fosse per un prodotto biologico, di utilizzare una bella carta tipo “acquerello”, gradevole alla vista e al tatto per la sua ruvidezza, il risultato fu catastrofico: le pesche sembravano marce, il rosso era diventato marrone per via dell’assorbimento della carta che allargava i puntini di inchiostro quanto basta per rendere l’immagine drammaticamente più scura. Ho scelto di ristampare tutto quanto, dopo aver corretto le immagini, effettuando una taratura specifica del monitor sulla base dell’etichetta sbagliata. È stata una esperienza molto importante che ancora oggi torna utile, anche se le variabili che possono influire sul risultato di stampa, sono tante e non sempre governabili. Basta cambiare stampatore per ottenere risul-

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tati diversi, benché le tecnologie sofisticate e precise con cui lavoriamo oggi dovrebbero limitare al minino le differenze. E comunque, da una ventina di anni a questa parte, cioè da quando il computer viene utilizzato negli studi grafici, l’iter di un processo di stampa è grosso modo sempre questo: quando abbiamo completato l’impaginazione e avuto l’approvazione del cliente, si inviano i file .pdf ottimizzati per la tipografia presso un service fotolito che realizza gli impianti per la stampa. Se i documenti sono stati realizzati correttamente, il service non deve far altro che creare le lastre per la stampa, realizzare una prova a colori e farsi pagare. È probabile che i primi lavori non vengano eseguiti perfettamente per cui si possa andare incontro a sorprese sgradite. I riferimenti utili per la stampa

Barra tonalità grigi

Barra colore

Crocino di registro

Segni di taglio Raffilo per pagina al vivo

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Un buon laboratorio fotolito ha la capacità di accorgersi se vi sono errori grossolani (soprattutto nel trattamento delle immagini) e quindi di avvertire il grafico prima della stampa. Gli impianti realizzati verranno portati poi alla stamperia, solitamente offset, che realizzerà tante copie del nostro progetto. Si potrebbe dedicare un ampio spazio al discorso delle prove di stampa che sono utilissime sia per una verifica del progetto da parte del grafico, sia come parametro di confronto per il tecnico che manovra la macchina offset. Scrivo solo qualche breve considerazione che può risultare utile per chi è alle prime armi: da alcuni anni a questa parte le prove colore non sono altro che prove digitali che simulano il risultato finale, ma dal punto di vista tecnico non sono delle vere prove che assicurano il risultato al 100%, perché non sono ottenute dalle stesse matrici con cui verranno incise le lastre. Infatti se una pellicola anche di un solo colore dovesse essere danneggiata, la prova digitale non mostrerebbe il difetto, come invece avveniva con le prove realizzate con gli impianti, i cosiddetti “cromalin”. Anni fa mi capitò una pellicola completamente graffiata che non avrei scoperto con una simulazione digitale. Meglio ancora sarebbero le prove realizzate con piccole macchine manuali chiamate tirabozze, il cui risultato è molto simile a quello reale perché si usano le stesse carte e gli stessi inchiostri dell’offset. Si tratta di prove molto costose utilizzate oggi soltanto per prodotti di grande valore, libri d’arte, di moda, dove il risultato deve essere garantito nella più alta qualità. Confesso che da molto tempo non vedo prove di questo tipo. Per la maggior parte dei nostri lavori sono sufficienti le normali e più economiche prove digitali, anche perché queste – cosa importantissima – sono garantite dalla professionalità di bravissimi stampatori come Aristide, con cui collaboro da oltre venti anni. 179

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3 NON DI SOLA CARTA Sono innumerevoli i progetti che non finiscono 
 su un foglio di carta, ma viaggiano veloci come bit.

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Anni fa, neppure tanti, avrei dedicato una bella sezione del libro per spiegare come si crea un buon master CDRom o DVD per renderlo compatibile con Mac e PC. Sarei stato preciso nel raccontare come si creano belle icone personalizzate da applicare ai file e come si fa per avviare un CDRom automaticamente dopo il suo inserimento. Avrei descritto con cura tutti questi passaggi perché per un progetto multimediale si trattava di una serie di attività che richiedevano molta attenzione e che spesso facevano la differenza del prodotto in termini qualitativi: i primi secondi sono molto importanti per mettere a suo agio l’utente e ricavarne così il suo giudizio favorevole. Come dicevo ai miei studenti, citando Michel Platini in una vecchia pubblicità di orologi: “C’est la précision qui fait la différence”. Ma l’informatica ci ha abituato che ogni tecnologia che per un certo periodo rappresenta una grande novità rivoluzionaria, nel giro di qualche anno è destinata ad uscire di scena. È valso per i floppy disk, per i compact disk, e da qualche anno anche i DVD sono stati messi in crisi da internet per lasciare spazio a tutto ciò che viaggia in rete. Per questo motivo non entrerò più di tanto nel merito di questa produzione. Qualcosa ho già detto descrivendo Director, uno 181

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dei software preferiti, raccontando della esperienza fatta intorno alla creazione di progetti multimediali. Oggi questo tipo di lavoro è molto meno richiesto e quindi lo spazio che ho a disposizione lo dedicherò per spiegare qualcosa che riguardi la pubblicazione di un sito web. In un primo momento avevo pensato di parlarne all’interno della descrizione del programma Dreamweaver, poi ho ritenuto opportuno dedicargli una parte tutta sua in questa sezione dove provo a spiegare le fasi produttive conclusive dei progetti, anche perché questi passaggi avvengono grazie a programmi un po’ particolari, che non si installano sul proprio computer, che non appaiono con una propria icona nel dock, e quindi non possono rientrare nel tour organizzato fra i gironi del mio disco rigido. Da alcuni anni la gran parte dell’attività web che svolgiamo nel nostro studio viene esercitata attraverso sistemi gestionali di contenuti come Wordpress, strumento creato nei primi anni del Duemila per realizzare blog, che mi è stato presentato alla sua nascita dal caro amico Federico Parrella. Federico insieme a Roberto Cecchi sono da me definiti scherzosamente “i discepoli prediletti che hanno superato il maestro”, perché sono professionisti bravissimi che ho avuto come studenti al primo corso ISIA quando sono entrato come insegnante: con loro oggi ho un rapporto di profonda amicizia oltre che professionale. Dicevo quindi che Wordpress è nato per gestire blog; vorrei dare per scontato che si sappia cosa sia un blog. Ma in molte occasioni di lavoro mi rendo conto che c’è tanta confusione, che le idee sono veramente poco chiare soprattutto in persone di una certa età, e perciò aggiungo qualche

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riga per capire meglio la differenza che c’è tra un blog e un sito concepito in maniera “tradizionale”. Il termine blog deriva da web-log e significa “diario in rete”. È molto curiosa l’origine di questo termine che risale addirittura al fatto che log in inglese significhi “pezzo di legno”, “ciocco”, che veniva legato ad una corda con nodi equidistanti per misurare la velocità delle imbarcazioni. Le rilevazioni, il numero di nodi all’ora, venivano scritte in un diario di bordo (journal) chiamato appunto anche logbook (libro del ciocco di legno), e semplicemente abbreviato anche in log. Il termine è stato poi utilizzato in campo informatico per indicare un file in cui in maniera cronologica ed automatica vengono registrate tutte le operazioni effettuate (gli accessi ad un sito, anomalie ed errori di sistema, ecc.). Venne così naturale alla fine degli anni Novanta, chiamare web-log, poi contratto in blog, un modo con cui molte persone iniziavano ad essere presenti con un proprio diario nella rete, dove inserivano in maniera cronologica propri pensieri, riflessioni, informazioni tecniche, ecc. Per fare questo di per sé sarebbe sufficiente anche scrivere in html o l’utilizzo di programmi come Dreamweaver o Frontpage, ma è chiaro che un sistema di facile inserimento dei contenuti, limita le preoccupazioni di chi scrive perché non si deve interessare del “contenitore tecnologico” e della “cornice grafica”. Macromedia ha provato a rispondere a questa esigenza con un sistema interessante chiamato Contribute, che agganciandosi ai template di Dreamweaver facilita la creazione e la modifica diretta dei contenuti tramite ftp in maniera trasparente. Anni fa noi lo abbiamo utilizzato ottenendo risultati interessanti, ma con il passare del tempo si corre il rischio di creare troppi grovigli di link, difficile da dipanare.

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Quindi, un vero sistema di gestione dei contenuti, facile e veloce, deve necessariamente passare per linguaggi di programmazione, come ad esempio il PHP, e database come MySql, sistemi diffusissimi open source alla base di Wordpress. Abbiamo detto che Wordpress è nato per facilitare l’attività dei cosiddetti blogger. In realtà Wordpress in questi dieci anni di vita, ha trovato il favore di tanti professionisti che non solo lo hanno utilizzato per il suo scopo originale, ma lo hanno sviluppato a tal punto da farlo diventare un CMS (Content Management System) per siti web tradizionalmente concepiti, dove la parte “cronologica”, il “diario”, è solo uno degli aspetti che lo compongono. Ecco perché oggi è il sistema più utilizzato nel mio studio. La maggior parte dei siti, aziendali o istituzionali, hanno aree dove si descrivono i prodotti e i servizi offerti, si evidenziano le novità, e si mantengono i rapporti con gli utenti. Tutte queste parti hanno bisogno, per essere facilmente aggiornate, di un sistema di gestione facile ed automatico dei contenuti (CMS), che può essere creato ad hoc, cucito in maniera sartoriale, da bravi programmatori che conoscono bene PHP e MySql, oppure basarsi su sistemi “precotti” che facilitano e velocizzano tantissimo il processo del lavoro a persone come me, e come molti grafici, che non conoscono bene i linguaggi di programmazione. È chiaro che qualsiasi base precotta può avere dei limiti. Diciamo che Wordpress è una ottima base simile ad una pizza congelata preparata da altri, sulla quale noi possiamo sbizzarrirci con ingredienti e un nostro stile nel decorarla: possiamo decidere di essere semplici con un filo d’olio e un po’ di rosmarino, ma anche comperare ingredienti di alta qualità, oppure con grande fantasia fare di necessità virtù, ed utilizzare ciò che abbiamo di avanzo nel frigo. Massima libertà!

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Sì, il paragone con la pizza mi sembra azzeccato perché con Wordpress, abbiamo tante opportunità a diversi livelli, lavorando con “temi” grafici, plug-in che ne potenziano le funzioni, widget che facilitano l’inserimento di oggetti. Oggi nella rete troviamo dei veri capolavori fatti con Wordpress: del vecchio e caro blog è rimasto solo qualcosa di invisibile, nascosto nel codice. Come si installa e come funziona Wordpress. Il procedimento che io utilizzo non è molto difficile, bastano pochi passi da seguire con precisione. Bisogna innanzitutto avere a disposizione un web server in cui sia funzionante il linguaggio PHP, e un database MySql. Pur funzionando con server Microsoft, io ho trovato meno problemi con server Linux. Solitamente quando si descrivono le tecnologie necessarie per attivare Wordpress si utilizza l’acronimo LAMP, che sta ad indicare Linux, Apache, MySql, PHP. Linux = sistema operativo del computer Apache = software web server per lo scambio di informazioni HTTP MySql = database PHP = linguaggio di programmazione per la realizzazione di pagine web dinamiche. Tutte queste tecnologie open-source, vengono fornite a basso costo gestionale da tutti i service provider.

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Dopo aver acquistato questo servizio solitamente attraverso un canone annuale, e aver scaricato dal sito di Wordpress l’ultima versione di questo pacchetto, tramite FTP lo si carica decompresso nel server. Finita questa operazione, l’attivazione è semplice perché con il primo tentativo di visualizzazione del file principale index.php non si vedrà ancora alcun sito, bensì un pannello di configurazione guidato in cui si dovranno inserire alcuni dati forniti dal service provider: il nome del database, il nome dell’utente del database, la password del database il numero ip. ovvero l’host del database. Aiuto! Forse qualcuno si sta spaventando? Non preoccupatevi è più facile a farsi che a dirsi, tanto che il rischio, in cui pure io sono caduto, è farsi prendere la mano e dall’entusiasmo e installare troppi Wordpress per la rete spesso completamente inutili. Una volta completata l’installazione, il sito sarà immediatamente utilizzabile sia nella parte gestionale (back-end), sia nella parte visibile al mondo (front-end). Il back-end di Wordpress è a mio avviso qualcosa di veramente molto semplice, navigabile attraverso un menù intuitivo che secondo me è uno dei suoi punti di forza. Le pagine web che si generano con Wordpress sono di due tipi: gli articoli e le pagine. I primi vengono presentati in maniera predefinita secondo un ordine cronologico (ricordate che il sistema è stato concepito come gestionale per blog), le seconde, definite pagine, vengono invece collocate nella struttura a menu del sito, ed è per questo che in queste si inseriscono

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le informazioni più istituzionali, quelle che si aggiorneranno con meno frequenza, mentre gli articoli non rappresentano altro che le news. Gli articoli hanno la possibilità di essere catalogati per categorie, facilitando così sia un inserimento ordinato, che la navigazione dell’utente, permettendo oltretutto un diverso tipo di layout grafico a seconda dell’argomento trattato. Anche in questo caso più facile a farsi che a dirsi. Non è necessario essere programmatori laureati, ma è chiaro che la conoscenza dei linguaggi, essere aiutati da chi ne spadroneggia il codice, permette una libertà operativa che, come ho già detto, ha permesso di creare con Wordpress siti web di altissima qualità. Questa è la nostra attività principale quando siamo anche produttori di siti web. Molto spesso, soprattutto per lavori di una certa rilevanza, come quelli per le società del Gruppo bancario Iccrea, noi siamo solo gli artdirector e i progettisti grafici; tutta la parte tecnica viene gestita da aziende informatiche che con competenza cuciono in maniera sartoriale il sito sulla base delle nostre indicazioni e delle esigenze del cliente.

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4 NON DI SOLO COMPUTER

Un mondo in tasca, a portata di mano... a portata dell’uomo?

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Un computer, anche se portatile e bello come un MacBook, con qualsiasi programma utilizzato, rimane sempre un computer. Invece uno smartphone o un tablet ha la capacità, a volte quasi magica, di diventare trasparente e trasformarsi nello strumento che si sta utilizzando: una mappa, un navigatore satellitare, una bussola, un accordatore musicale, una rivista, un libro, una televisione, ecc. Quando impariamo ad utilizzare bene un iPhone è come se sparisse rispetto alla sua funzione; secondo me se continuiamo a vedere l’oggetto iPhone significa che quella App non ci serve. Questa particolare caratteristica è molto importante e deve essere tenuta presente perché, oltre alla facilità d’uso di questi strumenti, in parte spiega il vertiginoso successo degli iPhone e iPad, e che non poteva lasciar indifferente il mondo della comunicazione e della grafica. Soprattutto l’editoria si è immediatamente dovuta attrezzare per rimanere al passo con i tempi scanditi dalle uscite di questi nuovi strumenti. Quello degli smartphone e dei tablet è un territorio in cui la programmazione sta al centro dello sviluppo dei progetti, e la buona relazione fra design ed informatica è alla base del buon risultato e del successo di un prodotto. 189

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Da qualche mese assistiamo in questo ambito a grandi novità. Sta accadendo un po’ quanto è avvenuto con il web: dopo un inizio fatto prevalentemente di programmazione, stanno nascendo software visuali per creare App senza scrivere linee di codice (si fa per dire!). Se nella premessa di questo libro ho scritto che il problema dei manuali di informatica è la loro veloce data di scadenza, ciò è ancora più vero se pensassimo di scrivere un manuale sulla realizzazione di App. Ad esempio uno dei sistemi più in voga in questo momento nel settore editoriale, neanche a dirlo della Adobe, il cosiddetto Digital Publishing, subisce continui sviluppi con un ritmo inferiore al mensile. Lavorare in questo ambito non significa acquistare un programma e aggiornarlo una volta ogni uno o due anni, ma rimanere sempre con le antenne accese sulle continue novità che tendono a migliorare i prodotti. Ripeto: sono consapevole che ciò che sto scrivendo in questo momento, comodamente seduto sul treno che da 25 anni mi porta ogni giorno a Rimini, nel giro di pochissimo tempo potrebbe risultare vecchio. Ma qualche punto fermo desidero condividerlo, perché anche questo fa parte oggi del nostro lavoro, lavoro che per venire alla luce richiede massima attenzione alle fasi conclusive di pubblicazione. Un grafico che si voglia avventurare nella frontiera di smartphone e tablet, lo farà per realizzare, o più facilmente per collaborare alla produzione di una App con funzioni specifiche, oppure di una rivista, o di un libro digitale. È evidente che, se si tratta di un lavoro editoriale, la competenza del grafico sarà più che scontata, tanto è vero che è proprio in questo settore che sono nati software di sviluppo che rendono autonomi i grafici nella produzione. Vediamo meglio di cosa si tratta, soprattutto in merito al mondo iOS, il sistema operativo per iPhone e iPad.

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Il principale strumento per la realizzazione di App, è un tool di sviluppo della Apple che si chiama XCode, che viene fornito a tutti coloro che sono iscritti a Apple Developer Programm. Pur affascinato da XCode non l’ho mai utilizzato perché è necessaria una buona conoscenza del linguaggio ObjectivC che richiede una preparazione e una continua pratica a cui non potrei mai dedicarmi se non trascurando il mio lavoro di grafico. Averci però messo il naso è stato utile. Con questo programma si sfruttano le massime potenzialità dei sistemi operativi Apple, sia App per iOS che software per MacOSX. Molte App una volta caricate svolgono tutte le funzioni indipendentemente dal fatto che l’iPhone sia collegato ad internet. Altre invece devono continuamente caricare dati dalla rete e quindi non sono utilizzabili se l’apparecchio non è collegato. Per lo sviluppo di una certa tipologia di App non è necessario utilizzare XCode, ma è sufficiente una buona conoscenza di html5, CSS e JavaScript, linguaggi con cui è possibile creare App anche per Android, Windows Phone, Blackberry, webOS e Symbian. Oltretutto stanno nascendo anche programmi “visuali” che possono facilitare molto la relazione tra sviluppatori e designer. Mi riferisco per esempio ad Hype, un piccolo ma efficientissimo programma che similmente a Flash, utilizzando timeline e scene, riesce a produrre file html5 molto interessanti senza scrivere alcuna riga di codice. Anche Flash ha aggiunto alcune funzionalità in questo senso, ma in realtà Adobe ha sviluppato un sistema, Edge Tools & Services, che insieme ad altri servizi interessanti come Phonegap, permette di produrre App per tutti i tipi di smartphone e tablet, non solo Apple.

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Editoria digitale. L’editoria digitale si divide sostanzialmente in libri e pubblicazioni periodiche. Queste ultime possono avere qualsiasi frequenza di uscita. Alla prima categoria appartengono gli eBook, o anche ePub che si possono ottenere in diversi modi, ad esempio esportandoli da InDesign o da Pages, il programma di Apple equivalente a Microsoft Word. Per la realizzazione di libri esiste dall’inizio del 2012 un software gratuito molto interessante realizzato da Apple che si chiama iBooks Author, attraverso il quale, con la stessa immediatezza e facilità di KeyNote, è possibile realizzare incredibili libri interattivi e multimediali che possono essere letti solo con iPad, e con molta facilità e velocità essere inseriti nell’iBookstore di Apple per una distribuzione gratuita o a pagamento. Questo libro che stai leggendo è impaginato con questo programma. Proprio recentemente sono rimasto molto colpito dal fatto che dopo aver richiesto la pubblicazione del libro “Buona Impresa! Un giro d’Italia differente” ho dovuto attendere soltanto due giorni per vedermelo messo in distribuzione su iTunes. Dopo solo un giorno ho addirittura ricevuto quello che si chiama un ticket, ovvero una richiesta di correzione, per il fatto che avevo dimenticato la “s” finale nella parola “iBooks”, e che essendo un termine registrato sarebbe stato meglio non utilizzarlo affatto. Mi auguro che questo libro che sto scrivendo trovi la stessa facilità per arrivare in distribuzione. Un libro realizzato con iBooks Author, se gratuito, può anche essere distribuito attraverso un proprio canale privato, ad esempio in un sito web. In nessun modo potrà però entrare nei circuiti di distribuzione alternativi come Amazon o Android Marketplace: per questi ci vuole altro.

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Adobe Digital Publishing Suite Quella che oggi per praticità viene chiamata Adobe DPS è senza dubbio una delle novità più interessanti nel settore grafico editoriale. Basti andare nel sito di Adobe, o frequentare le presentazioni organizzate su questo tema per toccare con mano la grande partecipazione di pubblico. Posso affermare che dopo gli anni di Director di cui ho già scritto, quello del Digital Publishing è un ambito che solletica molto la mia passione di designer-multimediale. Ciò è dovuto al fatto che il Digital Publishing rappresenta una sorta di sintesi di tutti i miei maggiori interessi. Grafica, tipografia, fotografia, video, interattività, trovano in questo ambiente un veicolo straordinario di grande potenzialità. Solitamente il lavoro nasce da un progetto di impaginazione già realizzato con InDesign e opportunamente riadattato alle dimensioni orizzontali e verticali di un tablet o di uno smartphone. Come vedete, in questo caso, non limito il campo ad apparecchi Apple perché la Adobe DPS permette di sviluppare per tutti i maggiori distributori: Apple Store, Amazon Kindle Fire e Android Marketplace. Il sistema Adobe permette di scegliere se il risultato finale del nostro lavoro di impaginazione debba essere una App singola, un App chiosco, oppure entrare a far parte come pubblicazione all’interno della App chiamata Edicola già presente nel sistema in maniera predefinita. Questa differenza riguarda solo la parte conclusiva del lavoro riferita alla distribuzione, mentre il lavoro fatto con InDesign è pressoché identico. Una App Singola è la forma di distribuzione più adatta ad un catalogo, ad una brochure, ad un annuario, a tutto ciò che non vuole mettere in evidenza la periodicità della pubblicazione. Una volta terminata l’impaginazione e realizzato un documento che tecnicamente viene definito folio, il 193

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sistema di pubblicazione DPS realizzerà due tipi di App, una che utilizzeremo per i nostri test, l’altra da inviare ad Apple per essere prima approvata e poi distribuita attraverso Apple Store. Gli utenti che scaricano l’App la troveranno nel proprio iPhone o iPad insieme a tutte le altre icone e premendola si aprirà il lavoro impaginato. Avviando una App chiosco, a differenza di quella singola appena descritta, non aprirà immediatamente la pubblicazione, ma presenterà l’ultimo numero insieme a quelli arretrati della rivista scelta. Il vantaggio di questa formula è quello di avere ordinati in maniera precisa i numeri acquistati, ed essere avvisati con un push alert dell’uscita di un nuovo numero quando si è sottoscritto un abbonamento. L’ulteriore possibilità dell’Edicola è simile al chiosco. La differenza sta nel fatto che non si scarica una App da collocare fra le altre, ma verrà automaticamente inserita fra altre riviste sugli scaffali dell’Edicola. Un vantaggio molto importante del chiosco e dell’Edicola è la maggior facilità e velocità nella distribuzione: mentre ogni App singola deve essere sempre approvata da Apple e bisogna quindi attendere parecchi giorni prima che sia raggiungibile dagli utenti, attraverso un chiosco o attraverso l’Edicola i numeri delle riviste sono immediatamente disponi-

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bili perché la distribuzione avverrà direttamente attraverso i server di Adobe, che per questo servizio richiede un costo fisso per ogni file scaricato. Stop, mi fermo. Non so se questa carrellata può essere servita a darvi un’idea chiara, perché so che può risultare un discorso un po’ complesso finché non lo si sperimenta. Non mi spingo oltre perché il rischio di scrivere qualcosa che tra breve muterà è molto alto. Spero di aver comunque stuzzicato un po’ la curiosità verso un mondo che merita l’attenzione del graphic design. Come avrete notato parlando di tablet non ho trattato Acrobat, di cui ho già scritto in precedenza. È uno strumento interessante anche per diffondere libri e riviste in maniera elettronica. Esistono esperienze importanti in questo ambito, ben note e diffuse come il servizio gratuito fornito da issuu.com. Ma si tratta a mio avviso ancora di un semplice ponte fra carta ed elettronica, pratico e facile, ma non rappresenta la vera evoluzione di un linguaggio potente come quello descritto sopra che richiede una progettualità propria e un approccio molto particolare.

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VIVA LE SARDE FRITTE

Siamo giunti alla fine. Mi auguro che questo viaggio fra memorie vissute e memorie elettroniche sia servito a qualche giovane lettore per farsi un’idea, per capire se una scuola come l’ISIA sia una scelta da valutare per il proprio futuro. Ne esistono anche altre simili, come lo IED, lo IUAV, o altri corsi universitari di cui però non so dire molto, se non che nello studio Kaleidon sono passati validi collaboratori provenienti, ad esempio, dalle Accademie di Belle Arti. Ad altri lettori meno giovani che non conoscevano questo mestiere spero di aver dato qualche chiarimento, raccontando anche dell’evoluzione avvenuta in questi anni. A programmatori e informatici chiedo di non essere troppo severi nel giudizio, se ho banalizzato alcune questioni che riguardano il loro lavoro per renderle maggiormente comprensibili. Ai miei colleghi chiedo invece di guardare con occhio benevolo questo mio sforzo, che è stato anche una sincera dichiarazione d’amore per il lavoro che facciamo, con l’augurio che anche in Italia trovi la giusta considerazione non sempre riconosciuta. Ho pensato a lungo a come concludere questo libro perché, per ogni cosa, la fine è importante per lasciare il “buon sapore”. Ma il viaggio non è finito e oltretutto vorrei evitare di chiudere con un mio solito pistolotto moralistico. Quindi lascio volentieri spazio ancora una volta a Massimo: credo che questa email, scritta poco prima di lasciarci, sia il miglior modo di concludere con entusiasmo, ottimismo e “buon sapore”, le tante questioni trattate: anche se non piacciono le sarde. 196

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Da: Massimo Dolcini Oggetto: ce la faremo Data: 09 marzo 2005 15:36:53 A: Valter Toni Toni ce la faremo e bene. Ne sono convinto e grazie ai colleghi che come te, e come me, fanno bene le loro lezioni e vanno ben oltre a quello che gli viene richiesto. Sono sincero e non sono in vena di complimenti e autogratificazioni. Siamo circondati da persone che non danno tutto quello che possono. Anche amici vicini e buoni nell’animo sono scarsi nel loro rapporto con la scuola. Ho infatti voluto l’incontro di ieri perché da alcuni mi aspetto molto, da altri mi aspetto solo che al momento opportuno ci diano il loro sostegno con il voto e ci seguano perché si fidano. Ma come ben sai non basta la buona volontà è indispensabile che entrino in campo l’intelligenza, e quella ce l’ha data il Primo Motore, e alcune scelte giuste che dobbiamo per forza costruire. Chi non fa non sbaglia. Ma meglio sbagliare che non fare. Quindi facciamo. Un esempio. L’Adi nazionale, dietro mia indicazione, sta organizzando un gruppo di lavoro sull’insegnamento del design in modo da poter confrontare i metodi tra le scuole europee. Bene, da questo punto di vista avremo un buon aiuto e un costante aggiornamento che da soli non riusciremmo ad avere. Ma il lavoro grosso sarà quello più riflessivo e interno alla scuola che nasce dalla nostra capacità di far mediare la didattica e il lavoro professionale che ben conosciamo. Ci serviremo di tutti quelli che ci possono illuminare e perché no anche di Andrea, che sa esprimere delle ottime qualità, ma che va preso con le pinze e ascoltato per quello che di buono ci può dare. Resta sempre da chiarire chi vogliamo formare. Non basta dire voglio formare un meraviglioso professionista. Anche Hitler e Al Capone lo erano. Io preferirei formare un uomo competente ma anche soddisfatto della vita e possibilmente felice e utile anche agli altri oltre che a se stesso. Per fare questo ci vuole una squadra che sappia essere moralmente ben strutturata, ma anche curiosa, colta, intraprendente che rischi e provi a tracciare nuove strade e sappia, al caso, fare anche marcia indietro. Nessun pregiudizio e tanto buon senso e coraggio. Cosa avranno gli altri che non possiamo avere noi? Certamente esiste anche il caso, o la fortuna se preferisci, e se arriva va colta e se non arriva, sollecitata. E basta con questo computer. È uno strumento necessario e anche molto, molto interessante ma non ci risolve tutti i problemi. È tutto qui. Nessuno, credo, si illude del contrario. Vediamo se possiamo impiegarlo per sollecitare la creatività e la soddisfazione nella vita. Se sì, bene; se no, mettiamolo da parte e usiamolo per quello che ci può dare. Non antropofizziamolo: è un oggetto! Ti ricordi quando per fare un filetto nero lo si tracciava cinque volte più grande, lo si ritoccava 197

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e lo si fotografava? Passavano due ore. Ben venga chi mi risolve lo stesso problema in 10 secondi. Forse qualcuno se lo è dimenticato. Ma di che cosa farne del filetto il nostro amico digitale non ce lo dice anche se sembra averne tutte le competenze. Ma fermiamoci qui, non avere i sensi di colpa perché lo sai usare bene. Devi esserne contento così come io non soffro perché sono un poco handicappato alla sua presenza, ma mi basta affiancare un buon operatore e risolvo il mio problema. D’altronde per fare il mio lavoro io non debbo lavorare quotidianamente con il computer. E neanche il presidente Ciampi lo usa... e Ciampi mica è scemo. Quindi pensiamo ad una scuola che elargisca insegnamenti per essere soddisfatti e competenti, gli studenti e noi. Io credo che sia possibile farlo e anche in tempi brevi anche se qualche callo lo dovremo purtroppo schiacciare. Ma sempre in buona fede e pensando di fare la cosa giusta. Abbiamo altre possibilità? Chiamiamo un Deus ex Machina che ci risolve tutto? Ma esiste veramente un tal Noumeno? Ce la faremo, ne sono certo. Anzi in parte ce l’abbiamo già fatta. Pensa al viaggio in Egitto e ti sentirai bene. Io mi commuovo ogni volta che ripenso al colore dell’erba degli orti che affiancavano la strada per andare da Kamal. Era così tenera. Vorrei fare una lezione sull’erba egiziana altro che Bodoni o sezione aurea. Viva le sarde fritte. A presto MD

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APPENDICE EMAIL COMPLETE

Da: Massimo Dolcini Oggetto: ISIA Mostra Data: 7 ottobre 2003 13:18 L’ISIA di Urbino ha intenzione di realizzare tre mostre, con un’ipotesi di convegni o seminari, su tre maestri della grafica italiana e internazionale: Michele Provinciali, Albe Steiner, e Alfred Hohenegger. Michele Provinciali: La didattica dei sentimenti Albe Steiner: La ragione e l’etica Alfred Hohenegger: Il metodo e la cultura I tre maestri sono stati insegnanti “di peso” nella scuola di Urbino. Le tre mostre sono quindi da intendere come un percorso che dovrebbe collegare le tre personalità al fine di tentare di tracciare l’identità della scuola di grafica che è stata e resta tuttora la più prestigiosa in Italia. La relazione tra le tre personalità non è stata, all’ISIA, né organica né consequenziale, soprattutto dal punto di vista dei contenuti didattici. Per cui ritengo che sia utile prevedere tre mostre separate per non confondere i percorsi didattici personali che in realtà sono nati autonomi, condotti in tempi diversi o, se sincroni, indirizzati a fasce di ascolto diverse. Albe Steiner era stato, dal 1953 al 1970, coordinatore didattico unico per tutti e tre i corsi del Csag, quindi colui che ne ha determinato la strategia progettuale fondativa; Michele Provinciali si è soprattutto dedicato alla formazione degli allievi ‘alle prime armi’, quindi nel primo e secondo anno di scuola, realizzando appositamente un corso propedeutico molto coinvolgente e che in parte viene ancora svolto all’ISIA, se pur riveduto e corretto. Alfred Hohenegger ha invece insegnato ‘immagine coordinata’, simbologia e segnaletica nel terzo e quarto anno dell’ISIA; ha preparato gli allievi al mestiere del grafico iniziandoli alla professione e al mercato reali. I tre autori dovranno essere quindi analizzati sia per il loro lavoro di progettisti, sia per il loro rapporto con le grandi correnti culturali nazionali e internazionali ma anche per la loro formazione scolastica, i loro programmi, il loro rapporto con gli studenti nonché per le loro scelte di vita e per la loro umanità: fattori, questi, che inevitabilmente vengono trasmessi agli allievi dentro e fuori la scuola. Infine dovremmo indagare su come tutti questi aspetti si siano tra loro intrecciati nella stessa scuola.

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Sarà inevitabile sviluppare, all’interno delle tre mostre, alcune considerazioni sulla figura del “maestro” poiché tutti e tre gli insegnanti, pur con diverse sfumature e consapevolezza, si sono offerti e sono stati considerati come tali dagli allievi. La rivisitazione dei maestri costituirà, dunque, anche l’analisi dell’identità dell’ISIA di Urbino condotta in tre momenti separati. Ritengo fondamentale che l’identità dell’ISIA venga finalmente individuata e analizzata, oggi più che mai, proprio nel momento particolare che la scuola di Urbino sta attraversando alla ricerca di un suo modo di proporsi, nella conferma o nel cambiamento delle sue caratteristiche peculiari, all’interno delle nuove regole che l’ambiente universitario le imporrà. L’ISIA è una scuola non facile da definire perché gli insegnanti che sono i principali attori della sua identità - quasi tutti liberi professionisti - non hanno modo di incontrarsi e confrontarsi sul passato e sul futuro della scuola. Non si parlano né si frequentano perché operano nella scuola in momenti diversi e non abitano nella città. Quindi non si confrontano, se non in rare occasioni, e non hanno la possibilità oggettiva di sviluppare insieme una tendenza culturale, forte e originale, con la consapevolezza di realizzarla, nell’interesse della scuola. Questo disorientamento che nasce appunto dalla mancanza di frequenza collegiale c’è sempre stato all’ISIA ed è una sua caratteristica, a tal punto che non sappiamo se negativa o positiva, poiché la didattica dell’ISIA in un qualche modo va avanti e funziona. Il direttore, chiamato appunto ‘coordinatore’, la segreteria e gli allievi, nei quattro anni di frequenza obbligatoria sono, nella realtà, gli effettivi coordinatori della didattica perché sempre presenti in ogni momento significativo della vita scolastica. L’ISIA procede con successo nell’educazione dei giovani grafici, il mercato del lavoro ci conforta in tal senso. La scuola forse potrebbe funzionare meglio se il progetto che le è sotteso lo si riuscisse a discutere, a vivere e a inventare con maggiore partecipazione. Steiner, Provinciali e Hohenegger hanno lasciato tracce formative indelebili nell’ISIA investendo, con la tensione positiva dei loro insegnamenti, anche gli allievi che non li hanno mai conosciuti. I contenuti didattici ideati dai tre maestri, eredità indiscutibile, il flusso delle loro idee e la considerazione dei loro comportamenti, che circolano ancora nella scuola, di recente sono stati resi più evidenti dalla presenza di alcuni ex allievi che oggi si sono ad essi avvicendati nell’insegnamento. La loro presenza segna decisamente una nuova stagione per la scuola, anche se ancora non riesce a definirsi con chiarezza perché passato, presente e futuro vengono vissuti come fenomeno in movimento non ancora stabilizzato e storicizzato. Le tre mostre saranno quindi un’occasione per cercare di delineare la storia della scuola attraverso l’operato dei suoi docenti, con la finalità di mettere a fuoco i caratteri fondanti e dunque l’identità, pur in evoluzione, dell’istituzione.

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Oggi la figura del maestro non ha più molta fortuna, e non solo all’ISIA, sostituita da un nuovo concetto che si ricollega piuttosto all’idea di squadra. Una squadra in cui gli attori, come nella nazionale di calcio, si allenano e giocano in luoghi separati e solo saltuariamente si confrontano nello stesso campo in occasione degli incontri internazionali. Le mostre quindi non rappresenteranno solo la raccolta ragionata delle immagini e delle idee di ciò che i tre maestri hanno realizzato nella professione e all’ISIA ma (almeno nel caso di Provinciali e Hohenegger) ma saranno da intendersi come l’inizio di un progetto di nuova scuola perché esse stesse progettate con la loro collaborazione, prevedendo anche artefatti appositamente creati e una partecipazione critica degli protagonisti dell’ISIA, allievi e insegnati. Suggerirei di allestire una mostra all’anno iniziando da Provinciali, facendo seguire poi Hohenegger e Steiner. Mostra e convegno con e su Michele Provinciali sul tema La didattica dei sentimenti Elementi di progetto per una nuova scuola di grafica Mostra e convegno per fine maggio 2004. Propongo di partire da un brano dell’intervista a Michele Provinciali rilasciata a Simone Sciocchetti per la sua tesi sostenuta il 4 ottobre, 2003 sul tema “Requiem per la grafica”. (ultima domanda dell’intervista) D. Mi sbaglio se definisco il mestiere di grafico un mestiere negli ultimi anni “esploso” e poi “scoppiato”? R. Purtroppo si è più che altro inflazionato, perché c’è stato un grande allargamento, che permane, prosegue e si allargherà sempre di più. Poi ci sarà sicuramente una grossa crisi. Siamo in procinto di perdere molti valori. Ma non volevo parlare di questo, non tanto per ovviare a momenti di tristezza che sono profondamente utili: non si può, infatti, non avere un momento di tristezza durante la giornata, non è possibile, ma mi riferisco al fatto che se vi fosse una concentrazione di giovani e di docenti all’interno di un’istituzione, ci si potrebbe difendere molto meglio. Lo sparpagliamento degli intimisti, il randagismo è pericolosissimo… I Russi lo hanno capito intorno al 1917, quando a Leningrado, scrive Anna Akhmatova, frequentavano questo locale che si chiamava “Il cane randagio”. Ma i russi hanno una natura molto diversa dalla nostra, sanno vivere lunghi inverni, in solitudine, hanno un profondo senso dell’amicizia. Se si potesse creare questa convergenza emotiva, fondata su cose che danno vibrazioni e che arricchiscono la nostra vita, e potessimo portarla all’interno di un’istituzione, in un clima di parità tra studenti e docenti, allora ci difenderemmo molto meglio e avremmo più possibilità di portare avanti il discorso della grafica. Incontreremmo certamente delle difficoltà enormi per farlo, perché saremmo sul margine operativo tra sogno e realtà. Quante accuse si farebbero nel caso cercassimo di creare una scuola di questo tipo, dove tutti potessero trovarsi attorno a ciò che più interessa… 201

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più tardi arriverebbe il momento in cui, ognuno di noi, potrebbe intraprendere una propria strada ma sempre con un suggello, con una difesa, con una sorta di muro a proteggerci le spalle… Non so se avete afferrato il punto… cioè, la solitudine, che è estremamente importante, ci lega all’emozione verso una determinata cosa e ci accomuna a un gruppo di persone, un gruppo in espansione che abbia il senso dell’appartenenza, un’appartenenza non più ideale, ma esistenziale. Questo sarebbe il punto di partenza, ma occorrerebbe anche un’istituzione a garantire i nostri sforzi. Per esempio la scuola. La mostra e il convegno Non si tratta, in sede di mostra e di convegno, di presentare in modo finito le nostre idee su come vorremmo che fosse la nuova grafica. Idee che verranno precisate a conclusione del lavoro, ma di verificare dove e come individuare il terreno adatto per la rinascita o la riscoperta di questo mestiere. Michele Provinciali individua proprio nella scuola il sito fertile su cui lavorare. Ma vorrei invitare a considerare la scuola non come un luogo astratto, ma un ambiente in cui convivere quotidianamente con tensione per trasmettere e acquisire la conoscenza e l’esperienza del mestiere del grafico. La scuola è un luogo dove si tengono le lezioni, dove si studia e si lavora. Gli insegnanti e gli allievi seguono in una scansione temporale prefissata dagli orari esperienze che si succederanno per anni. La nuova ISIA sarà un progetto che andrà realizzato e non un concetto astratto. Non è quindi inopportuno porsi alcune domande di tipo pratico le cui risposte ci serviranno per orientarci sia nel progetto sia nella prassi. Perché sentiamo l’esigenza di rifondare l’ISIA? A chi sarà rivolta la nuova scuola? In che cosa consisterà il progetto della nuova didattica. Quali sono i pilastri fondamentali su cui costruire l’edificio didattico? Cosa fanno le altre scuole in tal senso? Qual è il mercato dell’istruzione grafica universitaria in Italia? Quale è la disposizione degli studenti e degli insegnanti verso la scuola che vogliamo rifondare? Qual è l’idea di base, semplice da dire e da apprendere, segnaletica e forte, che ci possa servire da guida per comunicare ciò che ci accingiamo a fare? Quali sono i tempi di attuazione del progetto?

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Questi sono gli argomenti del dibattito che già da tempo i professionisti e gli insegnanti di grafica tentano di chiarirsi, dentro e fuori l’ISIA di Urbino. Questi saranno gli argomenti della mostra e del convegno che vorrei realizzare con e su Michele Provinciali, sulla sua idea di didattica appena tracciata che lui definisce “dei sentimenti”. Chiedo per il momento un parere sull’impostazione del lavoro di progetto a cui successivamente spero seguano le adesioni per chi fosse interessato a realizzarlo. Massimo Dolcini

************************************************** Da: Massimo Dolcini Oggetto: Forum Notification Data: 12 febbraio 2003 14:46:22 CET A: valter@kaleidon.it Facciamo il punto Cerco di dare un contributo alla discussione nel Forum che mi pare corra il rischio di diventare un luogo di lamentazioni superficiali. La discussione deve avere un ordine di argomentazioni da trattare a seconda della loro complessità e urgenza. L’elenco degli argomenti che propongo dovrà essere rimpinguato da allievi e insegnati. L’obiettivo deve essere quello di arrivare ad un punto di dialogo chiarificatore per poter poi intervenire migliorando o confermando lo stato di fatto dell’ISIA. Divido l’elenco in due parti: punti di forza e punti di debolezza. Preannuncio che non potrò essere breve. Punti di forza 1. Scuola di tradizione. L’ISIA non è nata oggi. Ci sostiene una lunga storia (dal 1861, anno di nascita della Scuola del libro) e quindi l’esperienza. La scuola sembra essere avvolta in un‚atmosfera, benefica credo, che le permette di superare situazioni altrimenti insostenibili. L’atmosfera che la favorisce è appunto il risultato di più elementi e tra essi lo spessore della tradizione. Questo è un vantaggio nei confronti di altre ISIA che invece hanno iniziato da zero negli anni Settanta. Mi rendo conto che il termine “atmosfera” sia generico e non razionale ma non ne trovo un altro più appropriato. 203

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2. Numero chiuso. Il numero chiuso offre alcuni vantaggi e alcuni svantaggi. Di certo ci permette un rapporto diretto e frequente tra allievi e insegnanti. In alcune facoltà (Politecnico di Milano) le lezioni si tengono sovente in sale cinematografiche appositamente affittate perché non esistono luoghi abbastanza capienti per tenere una lezione con tutti i frequentanti. 3. I laboratori. Quasi tutte le altre scuole non hanno laboratori per fare pratica progettuale e le lezioni sono sempre di tipo frontale e teorico. La possibilità di operare sotto il controllo dell’insegnante è una caratteristica positiva che tutti ci invidiano, anche se la possibilità di frequentare i laboratori non è ottimale. Il laboratorio significa provarsi nell’espletazione del progetto, significa in fondo poter progettare. Senza i laboratori si fanno solo discorsi campati in aria. 4. Le tasse scolastiche. Alcune scuole private costano svariate migliaia di euro all’anno offrendo risultati scadenti sotto molti punti di vista. 5 Una scuola bella. Il complesso architettonico che ci ospita è di grande qualità. Questo aspetto ritengo sia di primaria importanza. I luoghi che ogni giorno ci accolgono sono benefici nei nostri confronti e essi stessi ci educano. 6. Scuola prestigiosa. Finito il corso, gli studenti che si presentano a cercare il loro primo impiego sono solitamente ben accolti perché l’ISIA e Urbino sono noti per la qualità delle prestazioni didattiche nel settore della grafica. E‚ ovvio che la cartella di presentazione dei lavori che ogni allievo deve preparare per presentarsi al datore di lavoro è anche più importante della scuola di provenienza. Di recente, con l’adozione del lavoro in diretta con veri committenti - terzo e quarto anno-, l’ISIA permette agli allievi di offrirsi, anche in questo campo, con le carte in regola. 7. Rapporto con gli insegnati-professionisti Il fatto che molti insegnanti svolgano una reale attività di libera professione permette agli allievi di sapere in tempo reale cosa succede in prima linea, fuori dalla scuola. E‚ possibile quindi iniziare gli studenti, con un atterraggio morbido, al mondo del lavoro senza traumi. 8.

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Seminari Gli insegnanti in genere, e quelli dell’ISIA in particolare, non sanno tutto e di tutto. Ma all’ISIA è possibile ascoltare altre voci, attraverso i seminari, su argomenti affini o laterali a quelli previsti dal programma. Questo non avviene sempre nella altre scuole. 9. Esami di ammissione Il grande numero delle domande di ammissione sancisce la notorietà dell’ISIA di Urbino. Le altre ISIA hanno richieste che corrispondono circa al 30% delle nostre. Quindi in Urbino abbiamo la possibilità di condurre una buona selezione. Ma come spesso avviene, fare una selezione oggettiva è impossibile e non di rado si prendono lucciole per lanterne.

10. Rapporto flessibile L’ISIA di Urbino non è una scuola burocratica. Il rapporto docente discente si basa sulla flessibilità di ambo le parti. Ciò permette di aderire alle richieste degli allievi e a quelle degli insegnanti senza intermediazioni e costrizioni. Altro. Punti di debolezza 1. Urbino è una città isolata Urbino è una città meravigliosa. Adatta a studiare e a concentrarsi sul lavoro ma è lontana dagli eventi che riguardano il nostro mestiere. Tutto ciò dovrebbe comunque essere superabile anche perché le scuole che sono nei grandi centri urbani non sono migliori dell’ISIA di Urbino. 2. Non coordinamento degli insegnamenti Gli insegnanti dell’ISIA sono, nella maggior parte dei casi, liberi professionisti. La loro permanenza nella scuola è spesso ridotta al minimo indispensabile per fare lezione. Quindi gli insegnati si incontrano tra loro raramente. Ciò impedisce di costruire una scuola forte dal punto di vista dell’identità, avanzata nella strategia didattica e cosciente della propria personalità culturale. Nello stato attuale non è possibile fare diversamente ma credo che la presenza dei liberi professionisti sia un punto di forza molto importante. Negli anni Sessanta la presenza di Albe Steiner determinava, in quanto riconosciuto maestro, un polo di attrazione per tutto il corpo inse205

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gnante. La scuola quindi veniva orientata dal suo insegnamento. Con Provinciali si è continuato ad avere un riferimento carismatico forte che orientava la didattica. Ma dopo di loro c‚è stato un progressivo decadimento della figura del maestro tale che ha indotto la direzione dell’ISIA ad assumere al posto del maestro un coordinamento del gruppo di lavoro formato da tutti gli insegnanti. Ma il gruppo di lavoro per funzionare si deve incontrarsi per confrontarsi . Questo in Urbino non avviene se non episodicamente e semmai solo a piccoli gruppi. 3. Comitato didattico scientifico Spesso il comitato è lontano dalle aspettative della scuola (allievi e insegnanti) ma ha il vantaggio di vedere le cose dall’esterno e di prendere le sue decisioni senza il coinvolgimento con i fatti interni. Ma il comitato didattico scientifico sarà forse liquidato con la riforma. 4. Didattica altalenante Gli allievi hanno sempre accusato il fatto che non tutti gli anni siano periodi pieni dal punto di vista didattico; si sente dire che si perde tempo, che alcune cose si ripetono, che alcuni insegnamenti sono vaganti, alcuni inutili e altri scarsi. Non ritengo che gli allievi siano sempre in grado di valutare gli insegnanti e i programmi per un semplice motivo di inesperienza e non possibilità di essere oggettivi. Questo non significa che non si possa tentare di dialogare ma tenendo sempre presente il bene della scuola. Lascio agli studenti l’invito a dichiarare la loro posizione al riguardo facendo uso di una lettura del problema in modo equilibrato e rispettoso. 5. Laboratori ad intermittenza Spesso ci si lamenta che i laboratori non sono sempre disponibili e, se lo sono, ciò avviene durante le ore di lezione di altri insegnanti. Per cui gli allievi, non potendo fare riferimento al dono dell’ubiquità, chiedono orari suppletivi per poterli frequentare. Quando frequentavo l’ISIA c‚era lo stesso problema che in parte è stato superato dal fatto che gli allievi hanno provveduto ad organizzarsi in casa propria con gli strumenti necessari a lavorate- ieri la macchina fotografica e l’ingranditore, oggi il computer e la stampante. 6. Lavoro vero, lavoro simulato E‚ in uso da alcuni anni impegnare gli allievi degli in un lavoro di progetto reale. La necessità di un rapporto con un vero committente è anche dal Comitato didattico scientifico. Non sono in re tale necessità ma sono portato a credere che tutto sere positivo se non ci fosse di mezzo l’aspettativa

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ultimi due anni stato sostenuto grado di valutaciò potrebbe esdel cliente che


pensa che l’ISIA non sia una scuola, con i suoi modi e i suoi tempi di lavoro, ma uno studio efficiente che è in grado di dare risposte professionali immediate. Questo atteggiamento è, a mio parere, negativo perché la scuola non è uno studio. Se anche lo fosse non dovrà mai immettersi nel mercato e fare concorrenza agli studi professionali veri offrendo prestazioni a costo zero. La scuola ha i suoi ritmi, le sue pause i suoi obiettivi. Questo stato di ambiguità viene peggiorato quando il „committente‰ non sa cosa e come chiedere all’ISIA un intervento progettuale. In mancanza di informazioni il tempo scolastico trascorre inutilmente e gli studenti non trovano opportunità di iniziare a lavorare. Questo aspetto della didattica dovrà essere certamente approfondito. 7. Stage post scolastici L’ISIA di Urbino non organizza e sviluppa come altre scuole il rapporto tra scuola e mondo del lavoro attivando una ricerca di opportunità di stage aziendali per i suoi allievi. Alcune scuole europee hanno individuato alcuni „amici e sostenitori della scuola‰ che danno la loro disponibilità per far compiere esperienze di lavoro post scolastico nei loro atelier. 8. Momenti di incontro L’ISIA di Urbino, più sensibile di altre scuole nel rapportarsi con il mondo esterno alla scuola, non impiega comunque abbastanza energie per momenti, interni ed esterni, di incontro in cui sia possibile discutere delle problematiche tipiche di una scuola di progettazione. Il suo rapporto con le scuole italiane ed europee è limitato. Le occasioni di mostre sono saltuarie. La sua comunicazione istituzionale è divenuta obsoleta. Ma nessuno ci vieta di attivarci in tal senso. La scuola è sempre stata disponibile agli incontri con gli esterni.

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Da: Andrea Steinfl Oggetto: Resoconto Workshop Data: maggio 1997 Seminario operativo COMUNICARE IN ASSENZA DI PESO Acrobazie della comunicazione visiva con e senza rete. Urbino, 5.6.7.8 maggio 1997. Art director: Andrea Steinfl, grafico Coordinatore: Francesco Ramberti grafico e docente ISIA Urbino Esperti: Valter Toni, grafico e docente ISIA Urbino Morgan Russel, (U.S.A.) giornalista e media expert Arnauld Boulard, (Parigi) programmatore Tiziana Panizza, sceneggiatrice autrice di ipertesti Enrico Signoretti, amministratore di sistemi Il concetto, che prende spunto dai workshop sulla connected intelligence di Derrick de Kerkhove a cui ho preso parte a Lisbona, si è sviluppato all’ISIA su diversi progetti intorno ad unico tema - quello della scuola. Questo tema se da una parte ha chiamato profondamente in causa tutti gli studenti su un soggetto con cui si confrontano quotidianamente, dall’altra ha fatto affiorare alcuni dei limiti che gli stessi studenti hanno nei confronti dell’istituzione scolastica. Gruppo A OTTOVOLANTE MORBIDO Il punto di partenza per il gruppo A era quello del WORKSHOP IN PROGRESS, vale a dire della creazione di un luogo di sperimentazione continua. Il gruppo ha creato una applicazione interattiva che si pone come obiettivo la stimolazione creativa e la creazione di idee. Un vero e proprio software che lavora per associazioni più o meno libere costruendo una sceneggiatura casuale, montando insieme frammenti multimediali, immagini, suoni, testi che vengono inseriti all’interno del motore dagli stessi studenti. Ci troviamo di fronte ad una applicazione che è insieme memoria dell’ISIA, navigazione istintiva, ricerca di linguaggio, sampling e hip-hop, insomma un quasi-psichedelico frammento di creatività figlia del nostro tempo in cui tutto è materiale disponibile per creare il nuovo. Gruppo B IL CANDIDATO IDEALE Il gruppo B aveva come briefing la creazione di un supporto multimediale leggero, su dischetto, che avesse come obiettivo la comunicazione dell’Isia all’esterno. Un supporto da regalare a tutte le persone che in una maniera o nell’altra venissero in contatto con l’Isia. Il gruppo B ha affrontato e risolto il tema con grandissima eleganza e creatività, recuperando un vecchio documento di presentazione della scuola

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in cui si descriveva, con burocratica pignoleria, la figura del candidato ideale della scuola di Urbino. Questo documento, involontariamente ridicolo, ha fornito la base per la sceneggiatura di una applicazione multimediale di “scherzi e variazioni tipografiche”. Prodotti interamente nella durata del workshop, suoni, animazioni, immagini ed addirittura una esibizione corale del gruppo orchestrato da Valter Toni, si alternano nell’applicazione multimediale costruendo un oggetto dall’interfaccia trasparente e di grandissima comunicatività. Un esempio di vera avanguardia che è difficile, se non impossibile, trovare in scuole che alla comunicazione della loro creatività destinano budget non indifferenti. Gruppo C L’INSTALLAZIONE MULTIMEDIALE Creare un luogo che parli dell’ISIA fuori dall’ISIA, utilizzando le tecnologie multimediali. Ah quanto ha sofferto il gruppo C, capitanato dal buon Arnauld Boulard, mago della programmazione, allievo di Boulez all’IRCAM e responsabile della realizzazione del cdrom del Luovre! Hanno sbattuto la testa contro il concetto base fino a poche ore dalla fine per poi esplodere in un interessantissimo esempio di comunicazione moderna: l’Isia in telepresenza. Una serie di schermi trasportano al di fuori delle mura del convento la vita, i volti, i lavori degli studenti dell’ISIA - finestre su un mondo in cui l’espressione personale è tutto ed in fondo un palcoscenico in più, agli studenti per esibirsi... Gruppo D Il sito Internet Creare un luogo sulla “rete delle reti” che parli dell’Isia non è un’impresa facile. Bilanciare l’energia anarchica degli studenti con l’istituzione, evitare la massificazione, esaltare l’individualità, dar vita ad un liquido luogo che ogni giorno cambia e riuscire a comunicare il luogo del convento così immutabile nei secoli - insomma un briefing difficile da scardinare e che ha messo a dura prova le sinapsi connesse del gruppo D e di Morgan Russell cantastorie del ciberspazio e che alla fine ha regalato un risultato sicuramente interessante in alcune sue intuizioni ma che avrebbe avuto bisogno di maggiore tempo per trovare il respiro giusto. Il GruppoD ha affidato al bar della scuola e al suo indiscusso bardo/proprietario il compito di guidare l’ospite via modem alla scoperta della scuola, dei suoi vizi e delle sue virtù. Gruppo E DIRE FARE BACIARE Il Gruppo E si è confrontato con la necessità di creare un cd-rom, che a scadenza annuale avrebbe comunicato a chiunque si confronti con la comunicazione visiva dal punto di vista professionale, la capacità immaginativa degli studenti di Urbino. Quindi una operazione di immagine e di promozione personale. Anche qui il gruppo è riuscito ad appropriarsi profondamente di un nuovo linguaggio proponendo una sceneggiatura molto interessante e “porte d’ingresso” alle diverse sezioni tut209

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t’altro che banali o scontate. Il cursore del Tempo con cui è possibile accelerare o rallentare l’applicazione, metafora dello stress pre-esami o dei periodi di rilassamento è solo una delle originali invenzioni scaturite dal cilindro pensante del gruppo E. Gruppo F Intranet Dar vita ad una rete interna all’ISIA è stato un banco di prova di grande difficoltà per il gruppo E, che si è confrontato soprattutto con l’immane lavoro di architettura delle informazioni, realizzando, aldilà del prototipo e dell’interfaccia, una dettagliata analisi delle necessità e delle funzionalità richieste da una intranet scolastica. Il gruppo F, forse un po’ più frustrato degli altri per la mancanza alla fine di una applicazione “spumeggiante” che dimostrasse il sudore di tre giorni di lavoro, è quello che però più degli altri ha toccato con mano la necessità per i designer multimediali di essere prima di tutto architetti informatici, grandi organizzatori di gerarchie di informazioni e che questo lavoro è alla base di qualunque processo di creazione di applicativi interattivi. Vorrei anche ricordare: le sere tardi all’Isia, una prima mondiale / la cena e i pasti insieme a studenti e docenti / il correre dei rappresentanti dei diversi gruppi su e giù per le scale e i momenti di concitazione che hanno riempito i giorni del workshop / il fatto che si parlavano in una maniera o nell’altra tanti diversi inglesi ed italiani / e soprattutto che questo workshop ha dimostrato, se ancora ce n’era bisogno che sono finiti i tempi del professore sulla cattedra e degli studenti che eseguono compitini, i tempi dei docenti che riciclano ogni anno vecchie storie e che non sono in grado di esporsi in prima persona alla partecipazione di un progetto: con questo workshop che potrebbe esistere tutto l’anno, abbiamo dimostrato che la ricchezza di scambio di esperienze che si ha in situazioni come queste in cui tutti si mettono in discussione, è anni luce superiore a qualsiasi altra esperienza “educativa”. Se a “scendere in piazza” sono i docenti, se anche loro affrontano in classe il problema di “non avere una soluzione in questo preciso istante” quando una soluzione “è la sola cosa che serve in questo preciso istante”, se la collaborazione ha veramente un senso pratico, allora le cose cambiano e si impara più velocemente, tutti quanti. Una libera dispersione di energia, questo è stato il workshop, e sono contento di averlo fatto, tutti nessuno escluso hanno dato quello che avevano di più profondo, di più vero, di più prezioso.

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TERMINI E NOMI

come docente di Iconografia Ricerca e Creazione dell’Immagine e, infine, come docente di Illustrazione. Nel 2001 è nominato Accademico all’Accademia Raffaello di Urbino. Dal 2002 al 2004 insegna Illustrazione Incisa ai Nuovi Corsi Internazionali per l’Incisione Artistica.

Anti-Alias Metodo per far apparire più regolari i contorni di un’immagine attraverso l’aggiunta di colori intermedi lungo i bordi. Approfondimenti La rete è veramente ricca di siti internet che permettono di approfondire i temi trattati in questo libro. Senza considerare youtube, dove è possibile trovare di tutto, anche informazioni non corrette, ritengo molto utili i corsi messi a disposizione da Adobe, spesso in lingua inglese. Un’interessante fonte sono i documenti consultabili gratuitamente nella sezione iTunesU dedicata alla didattica e alle università. Esistono anche videocorsi a pagamento molto chiari, come ad esempio quelli di Teacher-in-the-box.it. Segnalo infine Boscarol.com, un sito internet gestito da Mauro Boscarol, un esperto di computer, arti grafiche e fotografia digitale, che fornisce informazioni e approfondimenti utilissimi sui temi riferiti alla stampa e alle gestione digitale del colore.

Benzi Don Oreste Sacerdote riminese nato nel 1925 fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, morto nel 2007 definito da Benedetto XVI “un infaticabile apostolo della carità”. Un vero uomo di pace sempre vicino ai poveri la cui santità è testimoniata dalle tante opere fatte in vita. Consiglio di approfondire la sua esperienza attraverso il sito della Comunità www.apg23.org . Di don Oreste ho raccontato anch’io qualcosa nel libro “Nella treccia, la Speranza”. 2010 - Tau Editrice Chiariglione Leonardo Leonardo Chiariglione nato nel 1943 è un ingegnere italiano, fondatore, presidente ed organizzatore del gruppo MPEG (Moving Picture Experts Group), a cui aderiscono trecento esperti, in rappresentanza di venti paesi da tutto il mondo e provenienti da diversi settori dell’audio e video digitali. Non vive a Palo Alto né a Cupertino, ma in un paesino ai piedi delle Alpi piemontesi. Parla però sette lingue, tra cui il giapponese. (L’importanza di conoscere le lingue!).

Battistini Antonio Antonio Battistini artista, è stato docente per molti anni sia all’Istituto d’Arte, che all’ISIA di Urbino. Nato a Vergineto in provincia di PesaroUrbino nel 1941 è morto nel settembre del 2012 dopo una lunga malattia. Dal 1967 al 1972 insegna Arte Pubblicitaria all’Istituto Statale d’Arte di Ascoli Piceno, dal 1972 al 1975 All’Istituto Statale d’Arte di Urbino.Dal 1975 al 1999 è titolare della cattedra di Disegno dal Vero e Composizione Illustrativa per la Sezione di Tecniche Incisorie all’Istituto Statale d’Arte di Urbino. Dal 1976 al 2004 è chiamato all’ISIA di Urbino; nei primi anni per insegnare Mezzi e Metodi di Rappresentazione, poi

CISC Con complex instruction set computer si indica un’architettura per microprocessori formata da un set di istruzioni contenente istruzioni in grado di eseguire operazioni complesse come la lettura di un dato in memoria, la sua modifica e il suo salvataggio direttamente in memoria tramite 211

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• H.263 • H.263v2 • Indeo 3/4/5 • KVCD • MJPEG • MPEG-1 Video • MPEG-2 Video • MPEG-4 Advanced Simple Profile Video • DivX • XviD • 3ivx • MPEG-4 Advanced Video Coding • x264 • Nero Digital • Sorenson AVC Pro codec, nuova implementazione Sorenson • Ogg Tarkin • On2 VP3, VP6 • Pixlet • RealVideo • VC-1 • Ogg Theora • WMV • ASF (Parte di Windows Media) • WAX (Parte di Windows Media) • JPDM JPDMovie

una singola istruzione. Il termine è nato per distinguere l’altro paradigma dominante nei microprocessori, il paradigma reduced instruction set computer (RISC). Codec Codec si occupa di codificare e/o decodificare digitalmente un segnale analogico (tipicamente audio o video), affinché possa essere salvato e richiamato per la riproduzione oppure trasmesso a distanza su un canale di comunicazione. I codec video effettuano anche una compressione dei dati in modo da ridurre l’elevata quantità di dati che compone un flusso video. La maggior parte dei codec video adottano tecniche di compressioni lossy (a perdita di informazioni) in modo da poter ridurre i dati necessari per trasmettere i flussi video anche di 20 volte o più, ma esistono anche dei codec utilizzati per applicazioni professionali che utilizzano compressioni lossless (senza perdita di informazione). Nel sistema operativo Mac OS X i codec sono gestiti dal sistema QuickTime che li utilizza come plug-in con estensione .component memorizzati nella cartella QuickTime che si trova nella cartella Libreria. Codec video (fonte Wikipedia). Compressione senza perdita dei dati • CorePNG • H.264 (High Profile supporta la codifica senza perdita) • Huffyuv • MSU Lossless Video Codec • Lagarith • LCL • Tscc TechSmith Camtasia losslesscoder • CamStudio Lossless Codec • Castelli

CPU L’unità di elaborazione centrale. Curva di Bézier Tipo di curva (il nome deriva da Pierre Bezier) definita matematicamente da due punti estremi, detti punti di ancoraggio, modificabili attraverso maniglie di controlli associate ad ogni punto. Questo tipo di curva è alla base di una immagine vettoriale. Dolcini Massimo Massimo Dolcini (1945–2005). Ha iniziato la professione di grafico nel 1969, anno in cui si è diplomato al Corso Superiore di Arte Grafica di Urbino, dove è stato allievo di Albe Steiner e di Michele Provinciali. Nel 1971 ha avviato con il Comune di Pesaro un rapporto di consulenza

Compressione con perdita dei dati • Audio Video Standard (AVS) • Cinepak • Dirac(BBC) codec open source sviluppato dall’emittente di Stato Inglese • H.261

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che ha costituito, per quel periodo, un caso unico in ambito internazionale di progettazione dell’immagine di una amministrazione locale. Sin dagli inizi il lavoro di Dolcini e dello studio Fuorischema si è infatti caratterizzato per la specializzazione nella “grafica di pubblica utilità”. Fino al 2005, anno della sua improvvisa morte, è stato docente presso l’ISIA di Urbino.

Gestaltica La psicologia della Gestalt (dove la parola tedesca Gestalt significa forma, schema, rappresentazione), è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania (nel periodo tra gli anni ‘10 e gli anni ‘30), per poi proseguire la sua articolazione negli USA, dove i suoi principali esponenti si erano trasferiti nel periodo delle persecuzioni naziste. Con particolare riferimento alle percezioni visive, le regole principali di organizzazione dei dati percepiti utili per spiegare diverse illusioni ottiche sono: 1. buona forma (la struttura percepita è sempre la più semplice); 2. prossimità (gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze); 3. somiglianza (tendenza a raggruppare gli elementi simili); 4. buona continuità (tutti gli elementi sono percepiti come appartenenti ad un insieme coerente e continuo); 5. destino comune (se gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati quelli con uno spostamento coerente); 6. figura-sfondo (tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come oggetto sia come sfondo); 7. movimento indotto (uno schema di riferimento formato da alcune strutture che consente la percezione degli oggetti); 8. pregnanza (nel caso gli stimoli siano ambigui, la percezione sarà buona in base alle informazioni prese dalla retina).

Dudovich Marcello Marcello Dudovich (1878-1962) è stato uno dei padri del moderno cartellonismo pubblicitario italiano. Da Trieste si trasferisce a Milano nel 1897, dopo aver frequentato le scuole “Reali”, istituto d’arte professionale. Viene assunto come litografo alle Officine Ricordi, grazie all’amicizia del padre con il famoso cartellonista Leopoldo Metlicovitz, e viene incaricato di realizzare bozzetti per la pubblicità. A Torino, tra il 1917 ed 1919, crea per il cinema diversi cartelloni e lavora per varie aziende (Carpano, Fiat, Pirelli, Alfa Romeo e le Assicurazioni Generali). Per La Rinascente di Milano realizza diversi manifesti (tra il 1920 e il 1929) e nel 1922 viene nominato direttore artistico dell’Igap. Nel 1930 disegna il celebre manifesto per i copertoni Pirelli. Dopo la Seconda guerra mondiale lascia un po’ da parte l’attività pubblicitaria e si dedica alla pittura. Fratelli Knoll Nel 1987 Thomas e John Knoll, diedero inizio allo sviluppo del software più importante nel mondo della fotografia: Photoshop. Figli di Glenn Knoll (fotografo), crearono il programma intrecciando conoscenze nel campo informatico, il sapere della camera oscura e l’esperienza del padre nel campo della fotografia. Il programma era naturalmente sviluppato con sistema Macintosh, e come la maggior parte dei programmi del tempo risiedeva in un floppy disk da 1,44 MB. Nel 1990 il lavoro dei fratelli Knoll viene acquisito da Adobe, e così esce in commercio Adobe Photoshop 1.0. La prima versione del software per sistema Windows risale al 1992, Adobe Photoshop 2.5.

Griffo Francesco Francesco Griffo, (Bologna, circa 1450 – 1518) è stato un disegnatore di caratteri noto tra l’altro per aver disegnato il primo corsivo tipografico. La compattezza del corsivo (che divenne generalmente noto come “italico”) permise la pubblicazione di libri in formato più piccolo, dunque più maneggevoli e meno costosi. Nello stesso 1501 Manuzio, desideroso di assicurarsi i vantaggi commerciali che il nuovo carattere promette213

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va, ottenne dal governo veneziano il monopolio dell’utilizzo del corsivo, e l’anno successivo anche la sua estensione all’uso di tutti i caratteri disegnati da Griffo. Questo forse contribuì al guastarsi dei rapporti tra i due, visto che Griffo non traeva alcun beneficio dai privilegi concessi a Manuzio. Griffo lasciò Venezia alla fine del 1502 e andò a Fano da Soncino.

IUAV Università IUAV di Venezia Jobs Paul Steven Una decina di anni fa questa nota era necessaria mentre ora è un atto dovuto alla completezza del libro per dire che Steven Paul Jobs è nato nel 1955 e morto nel 2011. Noto per aver fondato insieme con Steve Wozniak la Apple Computer Inc. da cui è stato allontanato nel 1985, per tornarvi nel 1997, aprendo di fatto una nuova ed entusiasmante era, per le tante innovazioni tecnologiche.

Hohenegger Alfred Alfred Hohenegger è nato a Dachau nel 1928. Dopo aver studiato violino presso il Conservatorio di Monaco di Baviera, si è dedicato alla pittura e ad un’arte che iniziava allora a muovere i primi passi: la grafica. In Italia dal 1954, Hohenegger si è collocato subito tra i più significativi grafici della scena internazionale: è stato cofondatore e direttore artistico di varie riviste del settore, ha insegnato per molti anni comunicazione visiva a Roma, Napoli e all’ISIA di Urbino. Musicista, pittore, autore di saggi e romanzi, Hohenegger, dopo quasi quaranta anni a Roma, opera oggi in Umbria. Sono suoi “Graphic design”; “Forma e segno”; “La diagonale”; “Il lato complice”; “Verba volant, scripta manent- Cos’è la scrittura?”; “Memorie vagamente professionali”; “Il violino inquisito”; “Lo scriba re - Metamorfosi della scrittura”.

Manuzio Aldo Aldo Pio Manuzio (1449 – 1515) è stato un editore, tipografo e umanista italiano. È ritenuto il maggior tipografo del suo tempo e il primo editore in senso moderno. Introdusse numerose innovazioni destinate a segnare la storia della tipografia fino ai nostri giorni. Il contributo forse più significativo di Aldo Manuzio alla moderna cultura della scrittura fu la definitiva sistemazione della punteggiatura: il punto come chiusura di periodo, la virgola, l’apostrofo e l’accento impiegati per la prima volta nella loro forma odierna, nonché dell’invenzione del punto e virgola. È scomparso invece il “punto mobile”, usato da Aldo per chiudere le frasi interne al periodo. Manuzio è considerato anche l’inventore del carattere corsivo (corsivo italico o aldino), che si richiamava alla scrittura carolina allora ritenuta di epoca romana, e usato per la prima volta nel 1501 per la sua edizione di Virgilio e poi nel 1502 nella sua edizione di Dante (il corsivo si chiama italique in francese e italics in inglese proprio a causa della sua origine nella tipografia veneziana di Manuzio). Esecutore di questo primo corsivo fu l’incisore dell’officina di Aldo, Francesco Griffo. I suoi libri si riconoscevano dal suo marchio con un’ancora e un delfino.

Hz /Mhz/Ghz L’hertz (simbolo Hz = 1/s) è l’unità di misura del Sistema Internazionale della frequenza. Prende il nome dal fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz che portò importanti contributi alla scienza, nel campo dell’elettromagnetismo. IED Istituto Europeo del Design ISIA Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Scuola di design strutturata a livello universitario in triennale e biennale specialistico. Ne esistono quattro con sede e indirizzi diversi a Urbino, Roma, Firenze e Faenza.

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Munari Bruno Bruno Munari (1907-1998) è stato “uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica del XX secolo, dando contributi fonda214


ziano per l’estremità arrotondata delle grazie e per il piede dell’asta appena concavo. • Transizionali - hanno grazie orizzontali e sottili, terminano con un’asta la cui base ha andamento lineare. Il Times New Roman è un tipico esempio di carattere Transizionale. • Bodoniani - hanno un rapporto di spessore esasperato tra le aste. Hanno grazie che si uniscono con l’asta verticale della lettera, formando un evidente angolo retto. • Scritti - detti anche calligrafici. Imitano la scrittura a mano. Assumono pertanto caratteristiche assai eterogenee in relazione al tipo di strumento di scrittura che si imita. Possono essere suddivisi in calligrafici legati o non legati. • Ornati - sono caratteri con decorazioni. Formati generalmente dalle solo lettere maiuscole, utilizzati come capilettera. • Egiziani - sono riconoscibili per le grazie ad angolo retto. • Lineari - detti anche bastoni. Sono i caratteri di concezione più moderna, privi di grazie e spessori delle aste uniformi, al giorno d’oggi chiamati comunemente sans serif. • Fantasie - gruppo difficilmente classificabile, comprendente tutti i caratteri che non rientrano nelle precedenti categorie.

mentali in diversi campi dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco. È considerato uno dei protagonisti dell’arte programmata e cinetica, ma sfugge per la molteplicità delle sue attività e per la sua grande ed intensa creatività ad ogni definizione, ad ogni catalogazione Novarese Aldo Aldo Novarese (1920 – 1995) Artista completo, fotografo, pittore e illustratore, ma il suo interesse si manifestò soprattutto nella realizzazione di caratteri tipografici. Per oltre quarant’anni Novarese legherà il suo nome a quello della fonderia Nebiolo. Negli anni cinquanta progetta il Garaldus, il Juliet, il Cigno, il Recta, l’Egizio, il Microgramma, uno dei più famosi di Novarese progettato insieme a Butti, e numerosi altri caratteri “fantasie”, quali Slogan, Ritmo edEstro. Creò anche una versione italiana del carattere Helvetica, il Forma, tentativo della Nebiolo di contenere l’incombente successo del carattere svizzero creato da Hoffmann e Miedinger nel 1957 destinato a sbaragliare la concorrenza. Nel 1956 anche Novarese propose una classificazione che suddivide i caratteri in dieci distinte famiglie, secondo la caratterizzazione storica, estetica e del disegno (soprattutto del piede del carattere). • Lapidari - si rifanno ai caratteri romani antichi. Hanno grazie triangolari che formano un angolo acuto con la linea di base. • Medievali - chiamati anche gotici. Erano i caratteri tipici del periodo di Gutenberg, ma oggi di difficile lettura. Hanno estremità allungate caratterizzate da angoli accentuati. Le grazie sono definite “a punta di lancia rivolta verso il basso”. • Veneziani - derivano dai caratteri romani antichi, come i Lapidari, ma da questi si differen-

Olivetti Adriano Adriano Olivetti (1901 – 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, fu uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra. Sotto l’impulso delle fortune aziendali e dei suoi ideali comunitari, Ivrea negli anni cinquanta raggruppò una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda, chi all’interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Nel 1949 Olivetti si convertì al cattolicesimo “per la convinzione della sua superiore teologia”. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea. Studioso di urbanistica, diresse il piano regolatore della Valle d’Aosta e fu anche presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica. 215

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Valerio Morpugno, i fratelli Castiglioni e i fratelli Arbizzoni. Dal 1971 è docente al corso superiore di grafica di Urbino che prenderà poi nome ISIA di Urbino fino al 1991 quando lascerà la cattedra a Franz Ramberti. Michele Provinciali, fece lunghi viaggi in Persia, dove una pista nel Dasht-e Kevir porta il suo nome.

Parini Pino Nato nel 1924 ha studiato pittura e scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 1962 è membro fondatore del Gruppo V (da “Visione”) che prenderà poi il nome di Gruppo di Ricerca cibernetica, operante in stretta collaborazione con il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dell’Università di Milano diretto da Silvio Ceccato. Dal 1964 ha insegnato educazione artistica, dal 1978 al 1989 ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, dal 1982 fino a metà degli anni 90 presso l’ISIA di Urbino, dove ha partecipato anche al Workshop “Blackout circus” con Andrea Steinfl nel 2003.

Ramberti Francesco Francesco Ramberti, detto Franz, nasce a Santarcangelo di Romagna il 24 marzo 1963. Frequenta il liceo Artistico a Ravenna e l’ISIA di Urbino diplomandosi nel 1986 con Michele Provinciali. Dal 1991 insegna Propedeutica alla Progettazione e successivamente Basic Design presso l’ISIA di Urbino, dove insieme ad Andrea Steinfl e Valter Toni è stato promotore di work-shop multimediali su temi specifici in collaborazione con importanti realtà della comunicazione internazionale. Dal 2004 al 2009 è membro del consiglio accademico dell’ISIA di Urbino ricoprendo il ruolo di coordinatore del corso triennale. Insieme al fratello Alessandro nel 1993 ha fondato la casa editrice Fara Editore. Vive a Rimini con Cristina, Samuele, Damiano, Giacomo, Benedetta, Leonardo e Martino.

Professor Baltazar Protagonista di un cartone animato creato tra il 1967 e il 1974 dal croato animatore Zlatko Grgić presso la Zagreb Film studio. Provinciali Michele Nato a Parma nel 1923, si laurea nel 1947 a Urbino in seguito frequenta a Chicago l’Institute of Design. Nel 1954 è inviato alla X Triennale di Milano come grafico e coordinatore della sezione “Industrial design”. Nel 1955, in collaborazione con Gino Valle, riceve il premio Compasso d’oro per l’orologio Solari. Opera con enti e aziende di spicco nazionale ed internazionale: Zanotta, Kartell, Sic Mazzucchelli, Cassina, Arflex, Velca, Gavina, Simon, Snaidero, Pirelli, DeBi, Cedit, Faver, Impruneta, Ente Vini di Romagna, Rai, Banca d’Italia, Vogue Condé Nast, Player’s, Benson & Hedges, Iperen, Soriano, Jacorossi, Fratelli Alinari. Nel 1956 fonda lo studio CNPT assieme a Giulio Confalonieri, Ilio Negri e Pino Tovaglia. Nel 1964 porta a termine per la birra Splügen Braü uno dei primi progetti di immagine coordinata mai realizzati in Italia. L’incontro con Vittorio Gregotti segna il vertice del suo stile “impaginativo”. Nel 1975 vince il “Silver award” dell’Art Director Club di Londra con l’opera Le sedie di Mackintosh. Collabora, per allestimenti e ambienti, con gli architetti Giò Ponti, Alberto Rosselli, Vico Magistretti,

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RISC Reduced Instruction Set Computer, indica una filosofia di progettazione di architetture per microprocessori che predilige lo sviluppo di un’architettura semplice e lineare. Questa semplicità di progettazione permette di realizzare microprocessori in grado di eseguire il set di istruzioni in tempi minori rispetto a una classica architettura CISC. Seneca Federico Federico Seneca (1891-1976). Nato a Fano, città in cui vivo, è stato uno dei più importanti cartellonisti pubblicitari italiani. Dopo gli studi all’Accademia di belle arti di Roma, si trasferisce a Milano dove incontra Marcello Dudovich. Dal 1919 al 1935, collabora con la Perugina e la Bui216


toni per le quali, col ruolo di direttore artistico, cura l’immagine grafica e crea manifesti pubblicitari d’ispirazione cubista, purista e con elementi riconducibili al Depero futurista come la famosissima immagine per i Baci Perugina. Nel 1933 apre un proprio studio, sempre a Milano, e lavora fino al 1935 per Italrajon, Fiat e Cinzano. Per quindici anni interrompe la propria attività. La riprenderà nel 1950, occupandosi delle campagne pubblicitarie di Agipgas, Pibigas, Energol, Lane BBB e ancora Cinzano.

Steiner Albe Albe Steiner (1913 – 1974), nipote di Giacomo Matteotti, è stato una figura di riferimento per la grafica italiana degli anni cinquanta e sessanta, con uno stile caratterizzato dalla continua ricerca di massima chiarezza e leggibilità del linguaggio visivo e da un’assenza di formalismi, convinto sostenitore della necessità di una relazione tra arte e impegno politico e sociale. Nel 1948 comincia ad insegnare alla Scuola Rinascita. Continua la sua attività di grafico lavorando per numerose riviste (Domus, Metron, Edilizia moderna), per alcune delle più importanti case editrici italiane (Feltrinelli, Einaudi, Zanichelli), per molti dei giornali italiani di sinistra (l’Unità, Il Contemporaneo, Vie Nuove, Rinascita, Movimento operaio, Rivista storica del socialismo, Studi storici, Tempi moderni, Problemi del socialismo, L’Erba voglio, Mondo Operaio, Italia contemporanea), e per alcune aziende (Pirelli, Olivetti). Dal 1950 al 1954 è art director della Rinascente. E sempre negli anni cinquanta è docente dell’Umanitaria. Successivamente tiene corsi all’Università di Venezia, all’ISIA di Urbino e negli Istituti d’Arte di Parma, Roma e Firenze. Nel 1963 disegna il primo logo della Coop. Collabora con enti e istituzioni culturali come la Rai, il Piccolo Teatro, la Triennale di Milano, il Teatro popolare italiano, Italia ‘61, la Biennale di Venezia. È stato socio fondatore dell’Associazione per il Disegno Industriale e membro dell’Alliance Graphique Internationale e dell’International Center of Typographic Arts.

Sinisgalli Leonardo Leonardo Sinisgalli (1908 – 1981) è stato un poeta, ingegnere e pubblicitario italiano. È noto come poeta ingegnere, per il fatto che in tutte le sue opere ha sempre fatto convivere cultura umanistica e cultura scientifica, fu collaboratore della Pirelli, della Finmeccanica, dell’Olivetti, e Direttore Generale dell’ENI. Sistema binario Il sistema numerico binario è un sistema numerico che utilizza 2 simboli, tipicamente 0 e 1, invece dei 10 del sistema numerico decimale tradizionale. Di conseguenza, la cifra in posizione n (da destra) si considera moltiplicata per 2 (n-1) anziché per 10 (n-1) come avviene nella numerazione decimale. Soncino Ghershom Tipografo ebreo morto nel 1533 che ha operato per diversi anni nella città di Fano. Uno dei primi corsivi tipografici fu disegnato nel 1503 da Francesco Griffo per Ghershom Soncino. Griffo aveva lasciato la tipografia di Aldo Manuzio per recarsi a Fano presso il tipografo Soncino. Qui egli incise un corsivo molto simile a quello aldino, soltanto leggermente più pesante. Con questo carattere il Soncino stampò nel 1503 “le rime” del Petrarca, pubblicate con una dedica a Cesare Borgia in cui il tipografo si produsse, tra l’altro, in una famosa diatriba circa l’originalità dei caratteri “aldini” ideati e creati dal Griffo.

Steinfl Andrea Nato nel 1965, dopo gli studi allo IED di Roma e aver fatto insieme a me il servizio militare, inizia la propria attività nel 1987 come direttore artistico presso lo studio G&Z. Dal 1989 al 1991 svolge la propria attività per Thundesign, RAI, Swatch Lab e come art director della rivista innovativa Village. Nel 1990 a Vienna è cofondatore e direttore creativo di Nofrontiere Design, dove sviluppa progetti di comunicazione interattivi multimediali e progetti di design per la Lego, Lotto, Apple Europe, Microsoft, Scienti217

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nuale “Vuota il cestino”, la seconda il libro “Nella treccia la Speranza”. In questo libro, a vario titolo, sono intervenuti entrambi. Questo è la ragione della doppia firma.

fic American, RAI, Procter & Gamble, Siemens, Swatch, televisione austriaca ORF, Flammarion, Santa Cruz Snowboards. È stato freelance art director presso Saatchi & Saatchi, design director di Yond/Athena2000 e docente presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Nel 1998 ha fondato ants.org seguendo progetti per Engineering, Fiat, Arion Bookshops, Fatal Error, RAI, RAI SAT, La7, Mondadori, Telecom, OVO, Oredaria Art Gallery, Angelo Nardelli, ArtForward, Marangoni Institute, Vodafone, Ascanio Celestini, Unicredit Bank, VBL, Playvalley. Nel 2003 è co-fondatore con Antonella Marra di LOLA con cui è attualmente direttore creativo per Università Luiss, Elite Model Look Paris, Pitti Immagine Firenze, Babelgum London and NY, Golden Typhoon China, seguendo progetti per: Engineering, Emi Music, FIAT Automobiles, Telbios - Ospedale San Raffaele, Wind Telecomunicazioni, S&B, SMP+, SEAT Pagine Gialle.

Workstation Letteralmente significa “stazione di lavoro”, ma con questo termine si intendono computer ad alte prestazioni per poter assolvere compiti altamente professionali che richiedono grandi potenze di calcolo come ad esempio il CAD, la ricerca scientifica, la produzione audio/video. È dunque sinonimo di un computer più potente di un normale personal computer domestico.

Testa Armando Armando Testa (1917 – 1992) è stato un pubblicitario, disegnatore, animatore e pittore italiano. L’agenzia pubblicitaria da lui creata è ancor oggi fra le prime, per fatturato e attività, operanti in Italia. Nel corso di una lunghissima carriera, degni di particolare menzione sono Caballero e Carmencita protagonisti di un famoso Carosello televisivo per Lavazza. Altre famose pubblicità sono state quelle per il digestivo Antonetto, la birra Peroni, i televisori Philco, i cappelli Borsalino, l’abbigliamento Facis, l’olio Sasso, il Punt e Mes, la Pirelli, la carne in scatola Simmenthal, i liquori della Martini & Rossi. Walter Valter Sono stato battezzato col nome Walter, ma a quindici anni facendo la carta di identità scopro di chiamarmi Valter. Ci rimasi male. Oggi scherzando, ma non troppo, affermo che questa è la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. La prima ha scritto il ma-

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BIOGRAFIA

ne APT della Regione Marche, l’Azienda USL e i Comuni di Rimini, Riccione e Cattolica. Nel 1990 riceve a Londra il premio Conqueror per l’immagine del Festival della Buona Tavola realizzato insieme a Michele Provinciali. Nel 1993 e 1995 lo studio viene premiato dal Comune di Roma per il progetto “Comunicare Roma”. Dal 1989 cura l’immagine della BCC Romagna Est, svolgendo consulenze anche per altre Banche di Credito Cooperativo. Per Colgate Palmolive Europe ha realizzato Talent progetto che ha coinvolto le maggiori università europee.

50 anni di vita Nato a Cesena nel 1963 grazie all’amore di Paolo e Rina, viene battezzato col nome Walter, ma a quindici anni, facendo la sua prima carta d’identità, scopre che per lo Stato si chiama Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fa fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Da questo confronto nel 2010 è nato il libro dal titolo Nella treccia la Speranza, edito da Tau Editrice. Dopo la maturità scientifica e un po’ di studi musicali si diploma nel 1987 presso l’ISIA di Urbino con una tesi dal titolo “Note dal conservatorio”, relatore Antonio Battistini. Nel 1988 è docente di Lettering presso l’Istituto Pantheon di Roma e dal 1994 al 1997 di Grafica presso l’ISIA di Faenza. Dal 1997 al 2009 insegna Informatica Design all’ISIA di Urbino. Dal 1995 è membro della Apple Developer Association partecipando alla fase di beta-testing di programmi multimediali per Macromedia. Appassionato di calligrafia e Mac ha scritto nel 1998 Vuota il cestino, manuale di computergrafica. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

Anni duemila. In questi anni ha realizzato importanti progetti per grandi aziende (Mondadori, Gaggenau, Alfa Lum, Galter, Conbio, QC&I, Passepartout); associazioni di volonariato e culturali (Comunità Papa Giovanni XXIII, Centro Culturale Paolo VI); per la Diocesi di Rimini; per diverse cooperative sociali tra cui il Millepiedi; per le Università di Parma, di Urbino, per la quale Kaleidon ha curato l’immagine degli eventi per il V centenario dal 2005 al 2007. Dal 2001 cura Villafranceschi.it, punto di riferimento per l’arte contemporanea locale. Dal 2002 per alcuni anni è stato consulente di Promozione Alberghiera, realizzando importanti progetti per Adriacongrex. Dal 1999 al 2006 ha coordinato la grafica del “Premio Ilaria Alpi”. Nel 2005 e nel 2007 per Cittaeducativa e il Centro Studi Erickson ha collaborato all’organizzazione del Convegno Internazionale “Facciamo le paci”. Nel 2006 la Regione Emilia-Romagna ha assegnato il “Premio per i progetti di Relazione con i cittadini” ad un lavoro realizzato per il Comune di Savignano sul Rubicone. Dal 2007 è responsabile dell’immagine di “Rimini Venture 2027”, piano strategico del

25 anni di Kaleidon Lo studio Kaleidon nasce a Rimini nel 1988 per iniziativa di Franz Ramberti e Valter Toni. L’attività si rivolge in un primo tempo alla grafica editoriale, realizzando copertine e collane di libri per Rizzoli, Mondadori, Gruppo Editoriale Fabbri e Orsa Maggiore. Successivamente Kaleidon si occupa della gestione di progetti comunicativi più complessi, soprattutto in ambito culturale ed educativo, per il Museo etnografico di Santarcangelo, il Dicastero all’Istruzione e Cultura di San Marino, l’Ecomuseo del Sale di Cervia, alcu219

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Comune di Rimini che ridisegna la città dei prossimi venti anni. Ha curato la comunicazione della Fondazione “Carlo e Marise Bo”, del Block60, di Diennea, softwarehouse, con la quale ha svolto anche attività di ricerca. Tra alcune interessanti attività editoriali degli ultimi anni segnaliamo alcuni libri dedicati ad importanti eventi: Giacomo Leopardi, mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin; Voi sarete oggi spettatori, sul progetto “Calandria” di Luca Ronconi; Specchi, mostra nell’ambito del Festival della Scienza di Genova; L’utile manifesto, mostra dedicata a Massimo Dolcini; Michele Provinciali, volume dedicato al maestro del design italiano e infine Urbino, un ateneo in forma di città, libro sull’Università di Urbino.

Multimedia Tra i numerosi progetti multimediali rivolti alla didattica e alla formazione segnaliamo l’ultimo cdrom del 2008 realizzato in collaborazione con Andrea Canevaro e Silvia Sanchini per Edizioni Erickson dal titolo “Lo scontro è l’occasione per fare pace...” Altri progetti multimediali: - Musa, museo del sale di Cervia, 1996 - Etien, museo etnografico di Santarcangelo di Romagna, 1997 - Progetto prevenzione AIDS, AziendaUSL Rimini e LILA, 1997 - Ri_C1, museo del territorio di Riccione, 1999 - SNO, Società dei Neurologi - Congressi 2001 e 2002 - Giovane Impresa - 2001 - Italiano amico, Cdrom per bambini stranieri, Edizioni Erickson 2003 - Mamma! Mi si è allargata l’Unione!, Cdrom sull’allargamento dell’Unione Europea 2004 - Fuorigiò, Un videogioco per conoscere e condividere identità ed emozioni, Edizioni Erickson 2003. Altri cdrom e siti di particolare interesse: - Ugolini Global Design, 1998 - Nonfango, 1999 - Kursaal Rep. San Marino, 2002 - Sito internet per la Dichiarazione dei redditi on line della Repubblica di San Marino, 2001 - Courtsonline, sito internet per la gestione e prenotazione dei campi da tennis, 2003.

Dal 2006 Kaleidon è responsabile per l’immagine di Iccrea Holding, assumendo nel 2008 il ruolo di direzione creativa per tutto il Gruppo Bancario Iccrea, che ha portato alla realizzazione della nuova immagine coordinata. Del 2012 è “Buona Impresa!” campagna ideata e realizzata per Federcasse.

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INDICE

Readme first

6

1. 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5

Nella graphic-valley... una bella scuola, tanti bei mestieri. Un bel mestiere Identikit di un grafico Creatività e tecnica Comunicare Lavorare

2. 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5

Sulla soglia del mio disco fin troppo rigido Sulla soglia Roba dura Calcolo ergo sum Unire o riempire i punti? Ho proprio un bel carattere

59 60 64 74 83 100

3. Girovagando di programma in programma 3.1 Photoshop 3.2 Indesign 3.3 Acrobat 3.4 Dreamweaver e Fireworks 3.5 Flash 3.6 Director 3.7 Premiere 3.8 KeyNote 3.9 Word 3.10 FontLab 3.11 FileMaker 3.12 Sistemi operativi virtuali

109 112 117 121 126 130 133 139 148 152 156 162 165

4. 4.1 4.2 4.3 4.4

169 170 174 180 188

Nei gironi produttivi, tra chili di carta e chili di byte Briefing e produzione Stampa Non di sola carta Non di solo computer

11 12 22 32 41 52

5. Viva le sarde fritte 5.1 Appendice Email

196 199

Termini e nomi Biografia Bibliografia

211 219 222


BIBLIOGRAFIA

Fra i testi che hanno contribuito alla scrittura di questo libro segnalo: Federico Sacchi, I tipografi ebrei di Soncino, 
 Tipografia Ronzi e Signori, Cremona 1877 Alfred Hohenneger, Graphic Design, 
 Romana Libri Alfabeto, Roma 1973 Manuela Rattin, Matteo Ricci, Questioni di Carattere, 
 Stampa Alternativa/Graffiti, Roma, 1997 Robert Bringhurst, Gli elementi dello stile tipografico, 
 Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2001 A cura di Bruno Bandini, Antonio Motolese e Francesco Ramberti, Michele Provinciali, 
 Gangemi, Roma, 2006 A cura dell’ISIA e della Colonia della comunicazione dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, L’utile manifesto; la grafica di Massimo Dolcini per il Comune di Pesaro 1976-1987, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 2006 Alcuni dati storici e biografici hanno come fonte i siti internet treccani.it e wikipedia.org

222

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COLOPHON E CREDITI

© 2013 Valter Toni - email: valter@kaleidon.it © 2013 FARA Editore Tel. 0541-22596 - Fax 0541-22249 e-mail: info@faraeditore.it - www.faraeditore.it ISBN 978 88 97441 26 7 Informazioni sui marchi commerciali Apple®, Macintosh®, MacOsX®, iPod®, iPhone®, iPad®, iTunes®, iBooks Author®, iBooks®, iWork®, Pages®, Numbers®, Keynote®, Quicktime®, iMovie®, FinalCut®, e TrueType® sono marchi di Apple Inc. registrati negli U.S.A. e in altri paesi. Adobe®, il logo Adobe®, Adobe Acrobat®, Acrobat Reader®, Acrobat PDF®, Acrobat Distiller®, Adobe Photoshop®, Adobe Illustrator®, Adobe InDesign®, Adobe PageMaker®, Adobe Premiere®, Adobe Director®, Adobe FireWorks®, Adobe Dreamweaver®, Adobe Flash®, Adobe Shockwave®, FreeHand® e PostScript® sono marchi di Adobe Systems Incorporated. Microsoft®, Windows®, Windows XP®, Windows Vista®, Excel®, Word®, sono marchi registrati di Microsoft Corporation negli U.S.A e/o in altri paesi. QuarkXPress® è un marchio registrato di Quark® Inc. UNIX è un marchio registrato negli U.S.A. e in altri paesi. Pantone® è un marchio di Pantone® Inc. FontLab®, Fontographer®, sono marchi della FontLab, Inc. Tutti gli altri nomi di prodotti o ditte sono marchi o marchi registrati dei rispettivi possessori. Le foto insieme a Massimo Dolcini durante il viaggio in Egitto nel 2005 sono state scattate da Silvano Bacciardi.

Ringraziamenti

I ringraziamenti finali potrebbero essere una bella occasione per ricordare le tante persone che hanno contribuito a vario titolo nella mia formazione e quindi alla creazione di un libro come questo. Sento però forte il rischio di dimenticare qualcuno che poi potrebbe prenderla male. Pertanto oltre che alle persone già citate nel libro mi limito a dire che mi sento profondamente grato a tutti i collaboratori di Kaleidon passati e attuali, a tutti i colleghi e studenti dell’ISIA avuti come alunni o compagni di studio. Ringrazio i familiari di Massimo Dolcini che hanno approvato e gradito la pubblicazione delle email che Massimo mi aveva inviato. È scontato dire che senza il supporto di Paolo e Rina che mi hanno messo al mondo e sostenuto nel periodo di studi non avrei fatto nulla di tutto ciò che ho raccontato, come altrettanto fondamentale è stata la pazienza e il sostegno di Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

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Prima edizione stampata on demand Marzo 2013 ISBN 978 88 97441 26 7 della versione interattiva per iPad Febbraio 2013 disponibile su iTunes Store ISBN 978 88 97441 24 3

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Stampa: Centro Stampa Digitalprint - Viserba di Rimini


WALTER VALTER TONI

Walter Valter Toni

ISBN 978-88-97441-26-7

Strizza gli occhi ;-)

LA GRAFICA COMMEDIA

Nato a Cesena nel 1963 viene battezzato col nome Walter, ma a quindici anni, facendo la sua prima carta d’identità, scopre che per lo Stato si chiama Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fa fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Da questo confronto nel 2010 è nato il libro dal titolo “Nella treccia la Speranza”, edito da Tau Editrice. Nel 1988 insieme a Franz Ramberti fonda a Rimini lo studio Kaleidon. Dopo essere stato docente di Lettering presso l’Istituto Pantheon di Roma e di Grafica presso l’ISIA di Faenza, dal 1997 al 2009 insegna Informatica Design all’ISIA di Urbino. Dal 1995 è membro della Apple Developer Association partecipando alla fase di beta-testing di programmi multimediali per Macromedia. Appassionato di calligrafia e Mac ha scritto nel 1998 “Vuota il cestino”. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

WALTER VALTER TONI “Non è un manuale, né un trattato di graphic design. Semplicemente ho scritto qualcosa sulla mia esperienza personale, raccontando il mestiere, i programmi e gli incontri con persone, che hanno fortemente influenzato la mia crescita professionale ed umana. Un libro sicuramente alla portata di tutti per capire finalmente che lavoro faccio.”

LA GRAFICA COMMEDIA

Un viaggio tra le memorie di un grafico e del suo Mac

€ 22,00

Su iTunes Store è disponibile la versione interattiva per iPad


WALTER VALTER TONI

Walter Valter Toni

ISBN 978-88-97441-26-7

Strizza gli occhi ;-)

LA GRAFICA COMMEDIA

Nato a Cesena nel 1963 viene battezzato col nome Walter, ma a quindici anni, facendo la sua prima carta d’identità, scopre che per lo Stato si chiama Valter. Questa è forse la ragione del continuo dialogo interiore fra due persone, una che fa fatica a credere e l’altra che aspira a diventar santo. Da questo confronto nel 2010 è nato il libro dal titolo “Nella treccia la Speranza”, edito da Tau Editrice. Nel 1988 insieme a Franz Ramberti fonda a Rimini lo studio Kaleidon. Dopo essere stato docente di Lettering presso l’Istituto Pantheon di Roma e di Grafica presso l’ISIA di Faenza, dal 1997 al 2009 insegna Informatica Design all’ISIA di Urbino. Dal 1995 è membro della Apple Developer Association partecipando alla fase di beta-testing di programmi multimediali per Macromedia. Appassionato di calligrafia e Mac ha scritto nel 1998 “Vuota il cestino”. Vive a Fano con Lisetta, Sofia, Aurora e Bianca.

WALTER VALTER TONI “Non è un manuale, né un trattato di graphic design. Semplicemente ho scritto qualcosa sulla mia esperienza personale, raccontando il mestiere, i programmi e gli incontri con persone, che hanno fortemente influenzato la mia crescita professionale ed umana. Un libro sicuramente alla portata di tutti per capire finalmente che lavoro faccio.”

LA GRAFICA COMMEDIA

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€ 22,00

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