Volume 1 - Il Cristianesimo come motore della modernità

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IL CRISTIANESIMO COME MOTORE DELLA MODERNITĂ€ - VOLUME NO. 1

Il cristianesimo come forza ispiratrice del progresso umano Markus Krienke

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Il cristianesimo come forza ispiratrice del progresso umano Markus Krienke

INDICE

TESI....................................................................................................................3 1. CHE COSA SIGNIFICA “IL CRISTIANESIMO COME MOTORE DELLA MODERNITÀ”?. .6 2. LA GLOBALIZZAZIONE COME “SEGNO DEI TEMPI”..........................................9 3. IL FONDAMENTO LIBERAL-CRISTIANO NELLA DIGNITÀ DELL’UOMO............14 4. LA SCOPERTA DELLA DIGNITÀ UMANA ATTRAVERSO LE VICISSITUDINI DELLA STORIA.............................................................................................................21 5. LA SOCIETÀ LIBERA E LA SUA OPZIONE PER I POVERI.................................28 6. CHIESA E FAMIGLIA COME ISTITUZIONI FONDAMENTALI DELLA SOCIETÀ...32 7. L’IMMAGINE CRISTIANA DELL’UOMO NELL’ORDINAMENTO ECONOMICO E POLITICO..........................................................................................................35 8. IL BENE COMUNE...........................................................................................44 9. SUL CONCETTO DELLA “RELIGIONE CIVILE”.................................................45 10. ORDINAMENTO LIBERALE E TEODICEA.......................................................47 11. IL CRISTIANESIMO COME MOTORE ANCHE NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE .........................................................................................................................50

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Tesi 1. L’illuminismo e il Cristianesimo non sono in contraddizione fra loro. La modernità è il momento d’attualità della rilevanza politica del Cristianesimo. Attraverso l’impegno politico ed economico dei cristiani cattolici e protestanti, le istituzioni della modernità sono influenzate in maniera decisiva dall’immagine cristiana dell’uomo. Questo a dimostrazione della sua dinamica sociale e creativa attraverso le idee di persona e libertà. Uno sguardo a ciò rappresenta il primo passo per uscire dalla crisi attuale, che è soprattutto una crisi della libertà. 2. Secondo questa prospettiva la globalizzazione non è un destino nei confronti del quale l’uomo rimane vittima, ma egli deve diventarne protagonista. La globalizzazione si presenta come una sfida nei confronti di quel concetto di libertà che attraverso l’immagine cristiana dell’uomo si è affermato a livello costituzionale, democratico e di economia sociale di mercato; non come un valore culturale regionale, bensì universale. In base a ciò risulta evidente che si tratta di un concetto personale e morale di libertà; tuttavia la dinamica della globalizzazione scalza questa dimensione. In questo momento l’immagine cristiana dell’uomo mette a disposizione un concetto di libertà che comprende la relazionalità non soltanto verso quegli altri che la globalizzazione ci avvicina, ma anche verso l’Altro. 3. Questo importante concetto di libertà si basa sulla comprensione della dignità umana, che non è il risultato di una attribuzione sociale o politica, bensì porta all’affermazione che l’uomo stesso è il diritto. La dignità umana è la fondamentale obiezione nei confronti della tendenza statale al perfettismo che nel XX secolo ha prodotto i totalitarismi. I pensatori liberal-cristiani sostengono, al contrario, sulla base della loro immagine dell’uomo, un “antiperfettismo” politico, che è fondato in un concetto forte della dignità umana. A quest’ultimo si perviene se si considera l’uomo non come individuo indipendente e chiuso bensì come fondato in modo relazionale. La sua fondamentale relazionalità è quella alla trascendenza poiché soltanto questa in ultimo gli sottrae a tutte le finite disponibilità; affinchè la religione sia consapevole della sua funzione di “interruzione” di tutti i perfettismi politici. 4. Il cristianesimo non riceve la sua rilevanza pubblica e politica dalla classica alleanza tra trono e altare, bensì da una dimensione etico-giuridica della dignità della persona. In realtà la storia della scoperta di questo principio stesso rimanda alla sua origine dalla dimensione cristiana dell’amore (carità): non derivabile dal concetto di giustizia greco-

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romana, la dignità umana si giustifica come fondamento della “giustizia sociale”nel concetto dell’amore cristiano (carità). Sulla base del concetto di carità è quindi evidente come

il

cristianesimo

di

per

apolitico

abbia

prodotto

delle

conseguenze

essenzialmente politico-costituzionali. Questo vale nonostante la storia si sia sviluppata dialettalmente sia come storia di successi che di catastrofi. 5. Secondo la comprensione liberal-cristiana i poveri non sono semplicemente il “caso d’emergenza” per l’ordinamento sociale nella sua dimensione etica, ma nel rivolgersi ad essi e nell’“opzione” per loro consta innanzitutto la sua principale attuazione. Dalla complementarietà tra la giustizia e la carità, così come essa si esprime nell’immagine cristiana dell’uomo, risulta la complementarietà della solidarietà tra la giustizia organizzata a livello statale e la carità organizzata a livello della società civile. Da ciò deriva il rifiuto del paternalismo e il sussidiario rafforzamento del potenziale di solidarietà della società. 6. Già nel principio giuridico della solidarietà divenne chiara l’importanza, che lo Stato non si comprende competente per tutto in quanto la sua base di legittimità è sempre l’individuo. Questo porta ad una seconda principale concretizzazione del principio della dignità umana, così come si ricava dall’immagine cristiana dell’uomo: il principio di sussidiarietà come principio fondamentale etico-giuridico. Per permettere la solidarietà sociale, che lo Stato non può garantire, bisogna garantire ogni spazio libero costituzionale, che risulta dalla struttura relazionale della dignità umana: religiosità e famiglia. Proprio in queste due relazionalità l’uomo impara le dimensioni e gli atteggiamenti fondamentali, che statalmente non possono essere né organizzati né garantiti: dare e perdonare. In quanto questi sono radicate nella dignità umana, il principio fondamentale etico-giuridico di “giustizia sociale” richiede la sussidiarietà della società nel riconoscimento della priorità della religione e della famiglia nei confronti dello Stato: entrambe si riferiscono alla dignità umana e non allo Stato. 7. A partire dall’immagine cristiana dell’uomo risultano le caratteristiche dell’ordine economico e politico, il quale si basa sulla personalità e la libertà dell’uomo. Queste vengono protette socialmente soltanto attraverso un ordinamento effettivo ed uno Stato forte, fondato sul principio person-etico: senza la “giustizia sociale” non funziona né l’ordine economico né quello politico, poiché non è semplice la libertà, o meglio prima di tutto la libertà morale della persona, che dispiega il suo potenziale sociale alla massima utilità per tutti. Per questo da una parte c’è la competizione e la concorrenza e dall’altra parte ci sono i contrasti degli interessi e delle utilità, che servono come mezzi per raggiungere i migliori risultati per la società. Le condizioni fondamentali della giustizia sociale devono rimanere intatte. Entrambi gli elementi – utilità sociale e giustizia sociale – conciliano i modelli dell’economia sociale di mercato e di democrazia raccomandati dai pensatori liberali cristiani.

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8. Quanto sviluppato fin ora confluisce nella comprensione del bene comune: questa non è una grandezza separabile dalla dimensione della persona, che lo stato può definire e per questo potrebbe richiedere di sacrificare la fondamentale dimensione della persona e della libertà. Da una tale “utilità comune” – che in quanto annullamento dell’“utilità propria” è politicamente strumentalizzabile – si differenzia il “bene comune”, che è la realizzazione

dei

valori

personali

stessi.

Questi

non

possono

essere

sempre

individualmente perseguiti, bensì richiedono cooperazione sociale e solidale. La persona raggiunge il suo bene non contro quello degli altri, bensì soltanto qualora anche gli altri lo ottengono. 9. I sostenitori del concetto della “religione civile” cercano, di rendere compatibile la dimensione

religiosa,

che

per

i

pensatori

liberal-cristiani

è

necessaria

per

il

riconoscimento della persona e della libertà nell’ordinamento politico-economico-sociale, con la società liberale e secolare. Essi riconoscono la religiosità come dimensione sociale necessaria, tuttavia troncano la sua dimensione trascendente. Attraverso questa “orientalizzazione” si dovrebbe rendere compatibile la religione con la neutralità dello stato secolare. Tuttavia i pensatori liberal-cristiani hanno rilevato, che non si tratta solamente di un “sentimento” religioso o di una “musicalità” religiosa, nella quale la personalità e la libertà si fondono, bensì ciò accade prima di tutto nella dimensione trascendente. Il concetto della religione civile non permette di tematizzare quella dimensione religiosa che per i pensatori liberal-cristiani è indispensabile. 10. Naturalmente l’ordine politico, economico e sociale proposto dai pensatori liberalcristiani, deve giustificarsi nei confronti dei mali sociali che non può eliminare. Questa sfida risolvono alcuni suoi rappresentanti con il concetto di “teodicea sociale”, nella quale essi sottolineano che l’ordinamento pubblico basato sui valori della persona e libertà è incompatibile con modelli centrati nello Stato, di carattere monopolistico, di economia pianificata o per altri aspetti da caratterizzare socialistici. Solo l’ordinamento liberale si dimostra il progetto più adeguato alla dignità umana. Proprio in un ordinamento che lascia all’uomo lo spazio “di provvedere per sé e per gli altri”, l’uomo partecipa alla provvidenza divina, che ha impostato il corso del mondo sul principio della libertà e quindi sul seguente principio: le persone e la libertà devono essere realizzati come i più alti valori sociali, non ci possono essere interferenze, che rendano la persona incapace

di

realizzare

la

propria

persona

ed

il

proprio

benessere

sociale.

Complementare all’ordine quadro la persona dotata di ragione e volontà è esortata, a contribuire in prima persona, per aiutare la provvidenza nella sua piena realizzazione. Da questo punto di vista “ teodicea” significa che è sempre implicata la responsabilità degli uomini stessi. Se questo vale come la “grande legge” della creazione, quanto più per l’ordine sociale che l’uomo si è dato da solo? Da questo ordine sociale risulta il vantaggio personale, per realizzare nell’ordinamento politico-economico-sociale la

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“giustizia sociale”e l’incentivazione alle singole persone di realizzare la loro dignità e libertà in modo attivo e responsabile. 11. Da queste considerazioni si ottengono concrete ispirazioni per i pensatori, i politici e i manager liberali cristiani per rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione. Naturalmente si deve affrontare soprattutto la retorica postmoderna, che ormai il Cristianesimo sarebbe superato. Al contrario, strutturalmente il nostro ordinamento politico-economico-sociale si fonda sui valori principali del cristianesimo. Il compito è quindi quello di riconoscerli nuovamente come elementi strutturanti la nostra società e di renderli nuovamente attivi. Gli uomini liberal-cristiani attivi nella politica e nella società comprendono meglio i valori fondamentali e i nessi intimi dei nostri ordinamenti e

sono

quindi

capaci

di

individuare

meglio

i

problemi

attuali.

In

ciò,

si

contraddistinguono per l’ottimismo e l’orientamento verso la meta. Dall’immagine cristiana dell’uomo derivano da una parte principi specifici per la formazione dell’ordine politico-economico-sociale;

dall’altra

parte

anche

pubbliche

virtù.

Una

nuova

conoscenza di questi due elementi è il presupposto affinchè il cristianesimo anche nell’era della globalizzazione possa essere il motore dello sviluppo sociale.

1. Che cosa significa “il Cristianesimo come motore della modernità”? La collana di opuscoli della Fondazione Konrad Adenauer, dal titolo Il Cristianesimo come motore della modernità si basa sull’idea che il Cristianesimo e la modernità non si escludano affatto, ma che l’immagine cristiana dell’uomo è da considerare come il punto di partenza e il “motore” della formazione e dell’elaborazione della sfera politico-sociale nella modernità. In un certo qual modo si può dire che solo nella modernità essa ha inciso sulla costituzione politica della società, ed è quindi diventata “politica”. In questo modo, la modernità diventa l’“ora” del Cristianesimo e della sua rilevanza pubblico-politica. Se si dovesse riuscire a rendere plausibile questa tesi, allora ne risulterebbe uno sguardo tutto nuovo sulle istituzioni centrali dello Stato moderno, del sistema economico e della vita sociale che realizzerebbe l’opzione contraria alle caratterizzazioni solite della modernità come risultato dell’illuminismo anticristiano. Allo stesso momento, si guadagnerebbero da una tale analisi nuove prospettive per il futuro. Uomini e donne cristiani in tutta l’Europa, di confessione cattolica e protestante, sono sempre stati animati dalla convinzione che nell’età moderna si trattasse di formare e plasmare l’ordine politico ed economico secondo l’immagine cristiana dell’uomo. Come pionieri di un ordinamento moderno di libertà sul fondamento della dignità umana in quanto principio cristiano ci si potrebbe riferire, nell’ambito tedesco, a Wilhelm Emanuel von Ketteler, Joseph Mausbach, Heinrich Rommen, Peter Tischleder, Godehard Ebers, Oswald von Nell-Breuning, Gustav

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Gundlach, Wilhelm Röpke, Ludwig Erhard, Konrad Adenauer, Joseph Höffner; per l’ambito italiano si potrebbero elencare i nomi Luigi Taparelli D’Azeglio, Gioacchino Ventura, Raffaello Lambruschini, Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni, Giuseppe Toniolo, Luigi Einaudi, Luigi Sturzo, Alcide de Gasperi. In maniera diversa, e con tutte le notevoli differenze, tutti questi pensatori mirarono ad un ulteriore sviluppo e alla concretizzazione delle dottrine cristiane sullo Stato e sull’economia. Al centro delle loro idee si trovano la persona e la sua libertà. Essi si chiesero, allora, come devono essere costituite le istituzioni sociali affinché realizzino nel modo migliore possibile questo principio doppio – personalità e libertà. Tutti quanti convergono in ciò che nell’ordinamento moderno si sarebbe realizzata l’immagine cristiana dell’uomo nella sua libertà in modo costituzionale; ma sono d’accordo pure nella valutazione critica dello sviluppo moderno che si è snodato dalle implicazioni morali di questo fatto e che perciò fraintende la liberalità degli ordinamenti come assenza di legami morali e come illimitatezza. In questo senso, i pensatori cristiani menzionati – cattolici come protestanti – riconobbero il loro compito soprattutto durante la fase costituzionale dell’800, della formazione degli Stati nazionali e nei momenti del riordinamento e della riorganizzazione dopo le guerre mondiali. Allo stesso modo come in tutti i momenti menzionati, essi hanno un’importanza fondamentale per il processo d’unificazione europea dopo l’89 e quindi per quel contesto epocale all’interno del quale oggi ci confrontiamo con la sfida della globalizzazione. In tutti questi momenti, i Cristiani menzionati non si ritirarono ma espressero la loro convinzione che la libertà politica e la libertà economica s’implicano a vicenda e che la perdita dell’una conduce alla perdita dell’altra. In questo modo, essi sono diventati precursori della libertà – ma di una certa libertà perché si trattava della libertà dell’uomo. Così essi avanzarono non solo come motori del progresso sociale nel loro tempo, ma le loro idee sono ancora oggi in grado di esserlo. Se in questo saggio cerchiamo di riassumere il loro messaggio, attraverso una riflessione fondamentale dell’etica sociale cristiana in quanto disciplina teologica, focalizziamo su questi uno sguardo d’insieme europeo: tedeschi ed italiani, cattolici e protestanti, per formare, nelle sue linee più generali e ancora in costruzione, il topos di un pensiero liberal-cristiano di espressione europea. Dalle loro ispirazioni la nostra società è profondamente permeata – ma proprio dall’inizio del nuovo secolo essa dimostra dei fenomeni caratteristici di crisi in quasi tutte le dimensioni. È la crisi di quella libertà che dopo l’89 sembrava essere avviata alla sua vittoria definitiva. Ma l’euforia dell’epoca ha ceduto spazio, da tanto tempo ormai, al dettato delle limitazioni, delle costrizioni e delle inevitabilità. Queste sono di natura politica, economica, tecnica, ecologica o comunque in un qualche modo “globali”; e nei confronti delle stesse l’uomo si ritrova in una passività paralizzante. Letargia e fatalismo si diffondono, di conseguenza, nelle nostre società e minacciano così quel potenziale attivo che unicamente è in grado di portare fuori dalla crisi: l’uomo. Non a caso Nietzsche caratterizzava la situazione del nostro tempo con il concetto dello «spirito della pesantezza». L’ottimismo antropologico cristiano ha ceduto ad un pessimismo

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meccanicistico e spersonalizzato. La via d’uscita dalla crisi – e ciò dovrebbe essere la convinzione di una politica ispirata al Cristianesimo – avviene solo attraverso un accertamento della nostra immagine dell’uomo e della nostra comprensione di “libertà”. In questo senso si tratta di riprendere e di portare avanti positivamente l’eredità dei grandi pensatori cristiani – filosofi e giuristi, politici ed economisti, teologi e uomini di Stato attivi nella modernità. La chiave per questo accertamento e quindi il motore per superare gli inceppamenti della modernità e metterla nuovamente in moto, è il Cristianesimo. La Fondazione Konrad Adenauer è convinta che la riflessione su questo compito non sia fine a se stesso, non sia un mero esercizio intellettuale e non possa in nessun modo essere confusa con un eurocentrismo, bensì che costituisca il punto di partenza necessario per uscire dalla crisi, proprio in piena consapevolezza della dimensione globale

dei problemi attuali. Nell’immagine

cristiana

dell’uomo è contenuto sistematicamente quell’universalismo che si rivela indispensabile a un tal fine, ma che appunto non è un personalismo spersonalizzato – come nelle immagini dell’uomo del marxismo o dello scientismo, ma che si può ritrovare anche in tutte le altre posizioni costruttiviste. Allo stesso momento, questo universalismo non sfugge verso un ideale distaccato dal reale, perché si realizza soltanto nel singolo e nella sua libertà. A questo punto l’immagine cristiana dell’uomo si rivola realistica e non idealisticamente ridotta. Ad uno sguardo più dettagliato soltanto questa combinazione specifica sviluppa l’efficacia politicoeconomica del concetto moderno di dignità umana. Da questa combinazione si evince che il principio universale della costituzione social-istituzionale non si trova se non nella realtà della persona. Né alla realtà della materia appartiene l’universalità né all’idealità dello spirito la realtà e la singolarità. Solo l’immagine cristiana dell’uomo combina entrambe le dimensioni, considerando l’uomo come puro individuo che però partecipa, allo stesso momento, ad una destino universale in quanto non è solo individuo contingente ma nel senso ebraico-cristiano “immagine di Dio”, “figlio di Dio”. Nel prosieguo si intende esplicare questo concetto nelle sue implicanze etico-sociali e delineare, da un lato, in quale modo il Cristianesimo può essere definito il “motore della modernità”, ma non senza porre, dall’altro lato, la domanda costruttiva di come esso possa realizzare questa forza per le sfide del nuovo secolo, che sono le sfide della “globalizzazione”. In questo modo, la collana Il Cristianesimo come motore della modernità presenta, senz’altro, un concetto atto a suscitare discussioni ma anche in grado di difendersi: perché questa tesi non è nient’altro che l’antitesi dell’opinione comunemente riconosciuta nella storia e nella filosofia, che in modo efficace è penetrata nella coscienza comune, opinione secondo la quale la modernità si sarebbe formata come contro-reazione diretta al Cristianesimo e alla Chiesa. Per dirlo subito: la tesi qui presentata non intende in nessun modo contrastare fatti e rapporti storici accertati e tantomeno le costellazioni filosofiche corrispondenti. Senza dubbi, le idee moderne non si sono realizzate in modo pacifico, ma dovevano essere conquistate al prezzo di tante vittime e contro la resistenza non per ultimo da parte della Chiesa “istituzionale”. Inoltre la filosofia dell’illuminismo si fondò senza dubbi sull’idea che il pensare e il sapere pre-moderni,

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assicurati dall’autorità, dovevano essere sostituiti da un pensare e un sapere che promanava unicamente dal soggetto e che perciò era in qualsiasi momento verificabile da parte di quest’ultimo. Infatti, non si intende né relativizzare né negare questi problemi storici ed istituzionali. Perciò, non è nell’intenzione di questa collana Il Cristianesimo come motore della modernità, prendere posizione nei confronti di queste domande, ma dimostrare come, attraverso una costellazione piuttosto paradossale, le intuizioni dell’immagine cristiana dell’uomo abbiano esplicato la loro forza nel formare istituzionalmente la società e nel plasmare la politica. Quanto poi questa visione incida a sua volta su una correzione possibile dell’interpretazione consueta dell’illuminismo e della modernità, non fa più parte del nostro contributo e per questo viene riportata all’esito della ricerca. Il riconoscimento del fatto che il Cristianesimo – accanto al pensiero greco e romano, all’umanesimo e all’illuminismo – sia una delle fonti centrali per lo sviluppo del nostro pensiero politico, economico e sociale, può essere ritenuto – al di là delle differenti posizioni – un elemento assodato di consenso di fondo. Questo punto di vista, però, colloca il Cristianesimo in quell’humus storico-culturale che potè diventare forza costruttiva per il cambiamento delle condizioni politico-culturali solo grazie all’illuminismo connotato da tendenze anticlericali e in ultima analisi anticristiane. Contrariamente a ciò, la tesi del Cristianesimo come “motore” della modernità sottolinea che erano le idee genuinamente cristiane della formazione politico-sociale – personalità e libertà – che nella modernità hanno raggiunto la loro dinamica specifica. Questa si distingue dalla dinamica rivoluzionario-giacobina nel non scatenarsi in una eversione eruttiva, ma in modo sostenibile e persistente, generando perciò, spesso attraverso errori e deviazioni, le idee della dignità umana e dell’ordinamento liberal-democratico. Le idee non sono un gioco astratto di pensieri, ma si realizzano attraverso l’impegno di uomini concreti. Nella modernità, sono sempre stati Cristiani concreti che – nonostante le resistenze istituzionali numerose – hanno portato queste idee al loro compimento storico. Ciò significa che anche oggi c’è bisogno di Cristiani nella politica, nell’economia e nella società in quanto sono essi a trasmettere quella prospettiva sull’uomo e sulla sua libertà che si può costituire il motore in grado di delineare strade costruttive per uscire dall’attuale “crisi della libertà”.

2. La globalizzazione come “segno dei tempi” La recente enciclica sociale Caritas in veritate si rivolge ai cristiani politicamente impegnati e attivi, incoraggiandoli a «non essere vittime ma protagonisti della globalizzazione». Così viene formulato l’atteggiamento di una politica orientata ai valori del Cristianesimo. È la tendenza di fondo del Cristianesimo a non ritirarsi dal mondo e a concepire la sua storia come un destino ineluttabile, ma di partecipare attivamente al suo sviluppo. In questo senso, non si potrebbe intendere «a priori», così dice l’enciclica, la globalizzazione come un bene o un male, ma essa

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costituisce un compito per l’uomo. «Globalizzazione» significa, allora, per l’enciclica, non un concetto economico specifico, una determinazione politica particolare ecc., ma essa vuole semplicemente caratterizzare l’attuale situazione sociale – del mondo, dell’Europa, ma anche dell’Italia o della Germania. I vari livelli politici – mondo, continente, Stato nazionale – dimostrano senz’altro differenze specifiche, ma i problemi sociali si rivelano sempre di più interconnessi tra loro, in modo tale che lo sguardo “globalizzato” sull’ordinamento politicosociale tende ogni tanto a omettere le differenze. In quanto quindi è tale sguardo ad appianare le differenze tra le culture e i paesi, le strutture universali attraverso le quali il processo di acceleramento si è diffuso nel mondo, diventano esse stesse un problema: vengono avvertite come negazione di libertà e come oppressive. In chiave politica, esse generano resistenza e terrore, in chiave economica disuguaglianza sociale. Si tratta, davanti a quest’orizzonte, di accettare la globalizzazione come fenomeno sociale, ma non di accettarla come destino, perché deve essere attivamente gestita. Proprio in questa prospettiva l’immagine cristiana dell’uomo con le sue conseguenze politico-sociali per l’ordinamento politico-costituzionale può dare il suo contributo fondamentale. La globalizzazione è entrata in quel processo di accelerazione – nel quale si trova tutt’oggi, nonostante la crisi – da quando il mondo non è più caratterizzato dalla contrapposizione ideologica tra i blocchi del liberalismo e del comunismo, dell’Ovest e dell’Est. Di fatto, la globalizzazione come fenomeno e come problema esisteva già ben prima, ma essa divenne la sfida decisiva in chiave metodologica soltanto con la velocità in aumento esponenziale del suo sviluppo estensivo ed intensivo dopo la caduta del Muro di Berlino. Davanti a quest’orizzonte, il fenomeno della globalizzazione può essere compreso ancora una volta come l’esplicitarsi del “principio libertà” nella dinamica globale internazionale. In questo senso, in retrospettiva diventiamo nuovamente coscienti della situazione di un “nuovo inizio” dei primi anni ’90, dell’euforia della libertà, come non da ultimo trova espressione nell’enciclica epocale Centesimus annus. In essa, la Chiesa dichiarò che a condizione del riconoscimento della persona, capitalismo e democrazia come forme economica e politica della libertà non sono opposte all’immagine cristiana dell’uomo, per la quale la libertà è la pretesa fondamentale non soltanto in senso religioso ed antropologico, ma anche in chiave politica ed economica. Tutt’al contrario, secondo l’enciclica, in quanto capitalismo e democrazia creano le condizioni sociali per la sua realizzazione, sono espressamente da approvare. In questo modo, essa esprime quel metodo che viene ripreso dal progetto della Fondazione Konrad Adenauer per la rilevanza pubblica del Cristianesimo – come “motore della modernità”: negli ordinamenti politici ed economici del dopoguerra, le intuizioni fondamentali di rilevanza politica dell’immagine cristiana dell’uomo si sono istituzionalizzate. Gli aggettivi centrali di questo ordinamento sono “personalistico” e „liberale“, ordinamento che si basa sulla divisione tra Chiesa e Stato (libertà religiosa e di coscienza). Perciò, capitalismo e democrazia non sono sistemi “cristiani”, ma si sono sviluppati sul terreno del Cristianesimo e nella situazione storica dello sviluppo di un concetto determinato di persona e di libertà. Anche se non si tratta di “deduzioni” dalla fede

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cristiana, se ne può evincere che il Cristianesimo è senz’altro una fonte essenziale per queste idee fondamentali e che proprio nell’ambito culturale del Cristianesimo sono stati trovati i presupposti per il loro sviluppo storico effettivo. Ma non per questo esse diventano sistemi esclusivamente “cristiani”, e tantomeno il Cristianesimo diventa l’unica istanza legittima d’interpretazione delle stesse. Questo perché il fondamento per argomentare la loro legittimazione consiste in “ragione” e “libertà”, non nella fede cristiana. Ma quel che si può argomentare senz’altro è che il Cristianesimo è stato il “motore” decisivo del loro evolversi nella modernità – e appunto non soltanto una fonte storica remota. Se si riflette su questa sistematica, diventa chiaro che l’accertamento del come il Cristianesimo si realizzi attraverso l’ordinamento moderno non significa né la revoca della neutralità dello Stato né la dimostrazione che questi valori possono essere realizzati solo nell’ambito culturale del Cristianesimo. Questo in quanto il Cristianesimo è convinto di esprimere con il suo concetto di persona la realtà dell’uomo in quanto tale, per cui la sua richiesta etico-sociale è razionale ed universale. Ma ci sono tanti indizi che determinate categorie teoretiche si sono sviluppate soltanto sotto l’effetto della rivelazione cristiana – come la sintesi tra universalismo e individualità nella dignità umana, la relazione reale ed interpersonale del soggetto al suo creatore trascendente, e infine il pensiero che da questi elementi si forma il concetto moderno di persona e di libertà. Ciò non cambia niente alla sistematica generale delle riflessioni eticosociali di questa collana di opuscoli, secondo la quale l’ordinamento politico-economico-sociale non è esclusivo “solo per i Cristiani”, ma ha una pretesa universale e quindi adatta per la politica in una società secolare e pluralista. Basandosi su questo risultato, la prospettiva qui proposta intende esprimere l’idea che, se la nostra tesi è plausibile, il Cristianesimo può proporsi come portatore e garante dell’ethos della libertà anche nei confronti della crisi attuale delle istituzioni moderne che ormai sembrano spossate e produttrici di illiberalità. Bisogna, però, sottolineare che il Cristianesimo non propaga semplicemente la “libertà” nel senso di una “liberalizzazione” generale, ma invece una prospettiva etica della libertà. Infatti, è appunto il primo aspetto a significare la crisi della globalizzazione e a renderci conto, all’interno del contesto europeo, che laddove c’è libertà, essa può essere anche fraintesa e rivolgersi, in questo modo, contro i propri presupposti politico-sociali, privandosi di quest’ultimi. È questo processo che attualmente rende insicura la società, perché essa sente che le viene a mancare il fondamento istituzionale sul quale si è costituita finalmente dopo secoli di insicurezze specifiche della modernità. Proprio per questo, libertà non significa semplicemente assenza di principi, di ordinamento politico e di vincolo morale. Lo sviluppo della libertà non si rivolge contro la libertà stessa soltanto qualora essa sia mediata eticamente e quindi personalmente – attraverso principi, ordinamento politico e vincoli morali. Solo così, il significato di “etica” viene a coincidere con la “personalizzazione”: quali sono le condizioni e i criteri etici che derivano dall’immagine cristiana dell’uomo per la determinazione e l’assicurazione costituzionale della libertà? Questa dimensione è una determinazione “forte” del concetto di libertà – contrariamente all’idea

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“debole” di libertà in quanto mera assenza di limitazioni. Prima di tutto la Centesimus annus ha sottolineato la necessità di un tale concetto forte di libertà. Sul suo orizzonte stanno i nomi di San Paolo, Sant’Agostino, Kant e i pensatori cristiani della libertà nella modernità. L’enciclica del 1991 riprese a sua volta l’entusiasmo che rivivificò l’Europa in quel momento, ma avvertì anche taluni rischi di una comprensione debole e superficiale, in quanto eticamente non legittimata, della libertà. Questo entusiasmo della libertà si espresse in visioni utopiche, ad esempio quando Francis Fukuyama dichiarò la “fine della storia” e descrisse la vittoria della libertà come una necessità, con la quale dopo il crollo del blocco comunista le istituzioni fondamentali del liberalismo – democrazia ed economia di mercato – si sarebbero imposte. A ben guardare, però, già queste visioni utopiche di un andamento necessario della storia marcano la crisi della libertà, perché libertà è qualcosa di fondamentalmente diverso dall’utopia. L’utopia sottomette l’uomo e il suo oggi ad una visione generale, ad un’idea o ad una necessità con la quale la storia si svilupperebbe secondo le relative interpretazioni. Tali concetti, ispirati alla filosofia della storia di Hegel, stanno a servizio di una idea politica e ne coniano il rispettivo modello di legittimazione. In questo modo, la persona singolare, nella sua libertà e non-definibilità, è decentrata dalla sua posizione centrale e sottomessa al meccanismo dialettico di una decorrenza storica che però politicamente procura soltanto il potere a chi dispone del potere di interpretazione di questo concetto utopico. In questo modo, ad una concezione utopica si connette un dispotismo politico, se non addirittura il totalitarismo. L’utopia, in questo modo, non è la figura argomentativa per la libertà e non a caso essa è estranea all’immagine cristiana dell’uomo – anche se sono sempre stati anche pensatori cristiani a proporre tali concetti (Gioacchino da Fiore, Hegel). Al contrario, le idee politiche sono da indirizzare verso l’uomo, non viceversa. La libertà si realizza nell’oggi dell’individuo, non nel domani dell’ideale: essa è storia e non la sua fine. Il suo criterio etico non è l’ideale ma la dignità umana. Tali utopie non costituiscono affatto l’unico fenomeno di crisi della libertà. Una crisi ancora più incisiva è rappresentata dal pensiero di una liberalizzazione in linea di massima senza limiti, nel senso di uno sganciamento della libertà dalla sua integrazione politica, sociale o morale. Se si cerca di trasferire, poi, questo concetto astratto di libertà, senza relazione e in linea di principio illimitato, al pensiero politico o economico, si arriva a posizioni radical-liberali che nell’ambito politico producono concetti di Stato come il “guardiano notturno” oppure lo “Stato minimo”, mentre nell’ambito economico vengono denominati liberalismo manchesteriano. Secondo il punto di vista della maggior parte dei pensatori liberali e a maggior ragione dei pensatori cristiano-liberali, queste posizioni rivelano gravi fraintendimenti del pensiero liberale fondamentale che non esclude affatto la relazionalità sociale, morale e politica. Inoltre, sorge la domanda se tali posizioni radical-liberali si possono veramente sostenere in modo conseguente e se esistono davvero rappresentanti coerenti di questi posizioni. In questo contesto sottolinea la Centesimus annus: «L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico». E inoltre: «Un’autentica

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democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana». Ciò sembra essere presupposto come prospettiva realistica e realizzabile, in quanto i concetti «capitalismo» e «libero mercato», da un lato, come anche «democrazia» e «libertà», dall’altro, sono utilizzati in modo positivo, a condizione della loro specificazione eticopersonalistica e della formulazione delle differenze necessarie. In questo senso, la posizione della Dottrina sociale della Chiesa è delineata in modo compatibile con un liberalismo moderato. Questo risultato oggi può sorprendere solo chi ignora la già menzionata linea lunga di pensatori liberal-cristiani nell’epoca moderna e chi, di conseguenza, misconosce il fatto che le idee fondamentali cristiane esprimono esse stesse l’esigenza di un ordinamento politico, economico e sociale fondato sulla dignità umana. È interessante osservare che la recente enciclica Caritas in veritate non adopera più i concetti utilizzati dalla Centesimus annus ossia “capitalismo” e “libero mercato” – nemmeno con le precisazioni etiche che avanzò quest’ultima – e analizza i «diritti individuali» con molte riserve. Ciò la dice lunga sul cambiamento della situazione sociale negli ultimi due decenni, almeno nella sua percezione cristiana. Ovviamente, questi concetti sono diventati ambigui: oggi si intende, per la maggior parte dei casi, con “capitalismo”, “mercato libero” e “diritti individuali” non più delle categorie neutrali, aperte a varie definizioni per quanto alla loro dimensione libertà, ma la decisione preliminare per una precisa comprensione della libertà – ossia quella di un liberalismo radicale che si espande attraverso la dinamica accelerata della globalizzazione, oppure come esso viene spesso chiamato, con un termine però tutt’altro che univoco, “neoliberalismo”. Secondo il suo presupposto metodologico di intendere la globalizzazione né negativamente né come una fatalità, la Caritas in veritate la interpreta non di per sé come radical-liberale, ma la considera nella sfida che essa pone alle nostre istituzioni di libero mercato e di democrazia, istituzioni che alla fine dell’età moderna potevano essere stabilite per la prima volta in modo duraturo. Il fatto che con ciò si tratti, da un lato, delle sfide liberali in una qualche analogia alla questione sociale dell’800, e dall’altro, di concezioni neoliberali di un capitalismo divorante la sfera sociale, di per sé non significa che la globalizzazione si dovrebbe identificare con questa tendenza. Ma proprio in questo senso, tanti schieramenti e gruppi d’interesse – di sinistra e di destra – utilizzano questo termine “globalizzazione” di per sé come positivo oppure negativo, quindi nel senso di un concetto di “valore”. Al contrario, l’enciclica si fa fautrice di un utilizzo neutrale, si potrebbe dire weberiano, del termine: in quanto fenomeno che in un secondo momento deve essere interpretato in chiave etica. La “globalizzazione”, secondo la Dottrina sociale della Chiesa, innanzitutto ravvicina le persone le une alle altre e crea, in questo modo, tante possibilità inaspettate, tante occasioni e momenti per realizzare la solidarietà e valori interumani. Questo fenomeno dell’accostamento globale acquisisce la sua rilevanza etica soltanto dalla considerazione delle conseguenze che ne derivano per la comprensione dell’uomo e della sua relazionalità sociale: in questo senso, l’enciclica sottolinea che il ravvicinamento globale non significa ancora che i «vicini» diventano anche «fratelli».

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Al centro della categoria della globalizzazione si incontrano, quindi, le implicanze etiche del concetto di libertà che ne sta a fondamento, sia nella sua accezione generale (a livello globale), sia nella sua accezione speciale (per l’Europa e per gli Stati nazionali). Si fraintende necessariamente la globalizzazione quando essa viene intesa come “neoliberalismo” o come l’abolizione tendenzialmente universale dei limiti politici, economici e morali della libertà. Ciò accade se “liberalismo” e “libertà” vengono intesi come concetti monodimensionali. In questo caso la comprensione di “libertà” si identifica con l’eliminazione più ampia possibile del riconoscimento degli altri – ed anche dell’Altro – e quindi con l’assenza di relazionalità e con l’individualismo. Un liberalismo, al contrario, che è cosciente del suo fondamento nell’uomo e che si realizza attraverso dei regolamenti dell’ordinamento politico, si basa su un concetto di libertà consistente e “forte”. Quest’ultimo risulta dall’immagine cristiana dell’uomo che fornisce, perciò, un fondamento saldo all’ordinamento politico-economico-sociale. In questa comprensione, il Cristianesimo si manifesta motore della modernità.

3. Il fondamento liberal-cristiano nella dignità dell’uomo L’immagine dell’uomo cristiana si realizza come concetto politico nel rapporto tra individuo e società che è fondato sul riconoscimento della dignità della persona. Questo riconoscimento non è alla mercé convinzioni individuali, non dipende da prestazioni specifiche del singolo o viene compreso come risultato di decisione politica, ma esso è il momento fondamentale, cioè apriori, di qualsiasi convivenza sociale. In questo senso, si potrebbe accentuare questa costatazione dicendo che alla persona non pervengono semplicemente dei diritti e neanche glieli vengono aggiudicati, ma la persona stessa è il diritto: essa è il «diritto umano sussistente» (Antonio Rosmini). Tutte le azioni che moralmente ne seguono come l’esplicitarsi della persona, devono quindi essere protetti pubblicamente: ciò rappresenta la libertà della persona. Con queste azioni, evidentemente, non si intendono azioni d’arbitrio o azioni intenzionalmente egoistiche, in quanto queste non si lascerebbero comprendere come l’“esplicitarsi della persona” nella sua essenza morale. A questa condizione, allora, diritto e libertà personale diventano sinonimi. L’ordinamento dello Stato diventa, a sua volta, il garante della libertà, in quanto protegge la libertà d’azione della persona. Legittimamente protette, però, sono soltanto quelle azioni che corrispondono al principio morale del riconoscimento dell’altro. Solo in questo modo il diritto garantisce la libertà della persona nella sua interconnessione interpersonale e sociale. In quanto questa significa il rispetto del limite della propria libertà nei confronti della libertà altrui (Kant), il diritto apre la sfera eticamente legittimata dell’agire. Il diritto, quindi, in primo luogo non è sanzione ma apertura di spazi di possibilità. Il diritto rende possibile l’essere umano, perché la persona nella sua libertà è il diritto originario.

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Da ciò consegue immediatamente il principio di sussidiarietà, il quale rende la libertà il principio del diritto e quindi dell’apertura degli spazi di possibilità. Nel suo contenuto etico, esso viene pensato, dunque, non a partire della funzione assistenziale dello Stato, ma dall’originalità del diritto della persona. Come principio etico-giuridico che sta al fondamento dell’ordinamento sociale, esso significa che lo Stato non deve intromettersi in quella libertà della persona che realizza la dignità originaria della persona, che quindi è prima dello Stato e non si deve ad una sua assegnazione (si consideri, a questo punto, che l’“intromissione dello Stato” è sempre – anche se legittimato – un atto di potere, in quanto lo Stato istituzionalmente agisce come istituzione di potere e non può agire diversamente). Oppure, in altre parole: l’autorità sociale deriva originariamente dalla persona, non dallo Stato. La società si pensa a partire dalla persona. Significativamente nel suo Saggio sul comunismo e sul socialismo Rosmini definiva questa concezione nella formula: «non può recare alcuna meraviglia che l’individuo non sia più nulla, quando il governo [lo Stato] è tutto». E Luigi Sturzo aggiunge nel 1951: «La democrazia vera non è statalista; la libertà vera nega il panteismo o auto-sufficienza dello Stato. La democrazia cristiana ha per base la personalità umana nel suo valore integrale, individuale e sociale». Secondo questa determinazione fondamentale, di tipo antropologico-morale, la persona è “fine” dell’ordinamento politico ossia dell’agire dello Stato. Oppure, per dirla con Kant, solo alla persona spetta la dignità mentre la sfera sociale come “mezzo” è orientata verso la persona: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ha un prezzo ciò, al cui posto può esser messo anche qualcos’altro, di equivalente; per contro, ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e perciò non comporta equivalenti, ha una dignità». Allo Stato spetta, in questo contesto, il compito di regolare le sfere di libertà sociali secondo il principio della dignità umana. Se la persona stessa è il «diritto umano sussistente», allora ne consegue, stando a questa formulazione di Rosmini, che allo Stato nel senso proprio non spetta di regolare il diritto nella sua sostanza ma soltanto nella sua «modalità»: esso non “crea” il diritto – in quanto esso è dato già prima dello Stato nella persona umana – ma “regola” semplicemente la concretizzazione rispettiva dell’ordinamento giuridico come spazio di possibilità dell’essere umano. Così l’ordinamento politico partecipa in modo etico-giuridico alla dignità umana: ogni legislazione dello Stato non è “creazione” di diritto, ma semplicemente il regolamento accidentale di ciò che come diritto sostanziale – come persona – precede lo Stato. Questa concezione sistematica non diminuisce in nessun modo le competenze dello Stato, in quanto il compito di regolare la “modalità” del diritto è insito nella sua dimensione sociale universale. Il limite di questa suscettibilità di regolamento è soltanto la dignità umana stessa: se lo Stato interviene in essa, egli perde la sua legittimazione etica (anche se, in questo momento, può essere ancora legittimato in modo puramente formal-democratico). Questo principio fondamentale dello Stato moderno è fondato nell’antropologia cristiana che trova la sua applicazione politica nei vangeli sinottici: Caesaris Caesari, Dei Deo (Mc 12,17 par.). Il Cristiano riconosce lo Stato, gli dà ciò che gli spetta, ma – come aggiunge San Paolo –

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non per ragioni di ubbidienza all’autorità dello Stato, ma per la propria coscienza, nella quale egli riconosce la legittimità dell’autorità statale all’interno della derivazione di ogni autorità del mondo da quella divina (Rm 13,1-7). Questa si media nel mondo non attraverso una designazione direttamente divina del reggente, ma attraverso la persona umana, in quanto soltanto quest’ultima è creata nell’ordinamento della creazione, e soltanto essa è redenta per Cristo: la persona è immagine di Dio e figlio di Dio. Lo Stato è una derivazione secondaria dell’uomo e partecipa dell’autorità divina quindi nella misura in cui l’uomo stesso è contraddistinto di autorità. In questo modo, l’autorità si genera – nella comprensione cristiana – non dal reggente, non dallo Stato, e neanche da un contratto originario – in una parola: non dalla specie umana –, ma dalla dignità dell’uomo: solo nell’ultimo caso l’autorità come legittimazione del potere politico rimane in ultima analisi sottratta all’uomo stesso ed è segnato da una riserva etica che impedisce che l’autorità possa cadere nelle mani dell’uomo, e quindi essere monopolizzata, organizzata e burocratizzata. Questo è poi precisamente il rischio della comprensione di autorità nei modelli contrattualistici della fondazione dello Stato. Contrariamente, la dignità come l’origine dell’autorità dello Stato spetta in primo luogo a Dio e poi all’uomo come sua immagine. Così lo Stato risulta relativizzato; esso è “mezzo” rispetto al “fine” che per i Cristiani è Dio e quindi anche l’uomo. Nell’ordinamento secolare la dignità del “fine” spetta, di conseguenza, solo all’uomo, il che fu chiarito in modo sistematico già da Agostino per il quale solo l’uomo è capace di «aderire con l’amore a una cosa per se stessa» (frui), mentre le cose materialmente utilizzabili vengono trattati come mezzo (uti). Come si evince subito, il concetto sistematico fondamentale della concezione liberale di Stato, come è stata definita da Kant, non oltrepassa le implicazioni che risultano in chiave gesuano-paolino per l’immagine dell’uomo cristiana e quindi – in una prospettiva più lunga – anche per la realizzazione dell’ordinamento politico. La specificazione metafisica di questa comprensione cristiana della persona risulta poi da Tommaso d’Aquino che si chiede, nel Proemio del secondo libro della Summa theologiae, che cosa significa per l’antropologia – e quindi anche per il concetto cristiano della comunità politica – il fatto che l’uomo è «immagine di Dio». La sua concretizzazione, così Tommaso, sta nel fatto che l’uomo è dotato di intelletto e volontà e quindi è capace «di provvedere per sé e per gli altri». Nell’essere dotato di intelletto e di volontà, quindi, l’uomo è più della semplice necessità naturale, in quanto in queste potenze dell’uomo sono fondate la sua libertà e quindi la sua dignità. Inoltre, proprio per la sua volontà egli non è destinato ad una concretizzazione passiva della libertà, ma alla realizzazione attiva di essa. Ciò viene espresso dal fatto che la sua libertà consiste nell’essere “provvidenza” per sé e per gli altri – oppure in altre parole: di partecipare attivamente alla provvidenza divina. In questo si evince chiaramente che la comprensione cristiana della dignità non è mai teoretica, astratta o statica – queste caratteristiche sono “imputate” spesso ingiustificatamente alla metafisica medievale – ma è uno svolgimento dinamico. In riferimento al senso medievale della parola, piuttosto di dire che si “ha” la dignità, si dovrebbe quindi parlare più acconciamente della realizzazione della dignità

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o dell’orientamento verso la realtà. L’uomo è quindi “proteso” , è rivolto verso un fine che in ultima analisi è il “vero bene umano”. Ma quest’ultimo non si riscontra nell’ambito dell’esperienza empirico-secolare. L’esperienza umana di essere proteso verso questo bene dischiude quindi la contingenza e la limitazione del mondo; essa è quindi l’esperienza del fatto che l’uomo strutturalmente è sempre al di là del mondo materiale. Il surplus esistenziale che si esprime nell’ambizione intellettuale e volontario, trova il compimento della “fruizione” (frui) solo nell’assoluto divino, come evidenziò Agostino. Questa dimensione antropologica è di grande importanza etico-sociale, in quanto essa definisce meglio il concetto specificamente cristiano della dignità umana e ne indica l’importanza per la discussione attuale. La dignità umana non è un concetto formale dell’umano, essa non è un concetto generale che si potrebbe astrarre da una considerazione concreta, essa non è neanche un concetto limite o una pura funzione regolativa: al di là del fatto che concettualmente ci si può solo avvicinare alla dignità umana e che non si può mai captarla, essa, in quanto “concetto” cristiano, viene pensata come aspirazione, come sintesi tra sostanza e relazionalità fondamentale. Mentre abbiamo già accennato alla sua dimensione sostanziale – la persona come «diritto umano sussistente» – ci si esprime soprattutto nel suo aspirare al di sopra dei limiti naturali una relazione fondamentale, ontologico-personalistica sulla quale l’uomo si basa: la relazione trascendente con il suo creatore. Questa relazione è ontologica in quanto quell’elemento nell’uomo che lo finalizza al di là della sua natura viene intuito dal suo intelletto. Dall’analisi di questa sua natura, l’uomo riconosce di essere riferito all’assoluto che non esiste nell’ambito della finitezza. Perciò egli è segnato da una relazionalità che è la relazionalità fondamentale della sua esistenza e che lo rende persona: l’uomo intende se stesso costitutivamente, secondo la sua essenza, per la sua relazione con l’assoluto, anche se questa relazionalità non conduce sempre anche ad una relazione religiosa nella fede. Ciononostante, questa è l’istanza nella quale la libertà dell’uomo è radicata al di là dell’ordinamento naturale e statale e sulla quale si fonda la sua relazionalità fondamentale. L’uomo non è un individuo chiuso, ma la relazionalità appartiene originalmente alla sua individualità. Questa relazionalità fondamentale a partire dalla quale si intende l’esistenza umana, viene descritta da Benjamin Constant come il vincolo religioso: «l’époque où le sentiment religieux disparaît de l’âme des homes est toujours voisine de celle de leur asservissement. Des peuples religieux ont pu être enclave, aucun peuple irréligieux n’est demeuré libre. Aussi quand le despotisme se rencontre avec l’absence du sentiment religieux, l’espèce humaine se prosterne dans la poudre partout où la force se déploie. Les hommes qui se disent éclairés cherchent dans leur dédain pout tout ce qui tient aux idées religieuses un misérable dédommagement de leur esclavage». E Tocqueville lo esprime con le seguenti parole: «dubito che l’uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa e una totale libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda».

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Anche la recente enciclica sociale tematizza questo contesto dell’antropologia cristiana: «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione». Lo sviluppo della persona non è indirizzato, come abbiamo già rilevato, verso il fine “Stato”, ma il suo scopo è la realizzazione e la perfezione della persona. Anche in questo si esprime che «il fine della società civile (e dello Stato) è in ultima analisi soltanto l’appagamento dell’animo degli uomini che formano la società» (Rosmini). Oppure, in altre parole: la società non dispone di un proprio fine che eticamente sarebbe diverso da quello della persona. In questa dinamica dell’aspirazione della sua dignità l’uomo è indirizzato e «vocato» a svilupparsi sempre di più secondo il metro del suo «vero bene umano» e di «formarsi» secondo quest’ultimo. Poiché egli, in questa vita, non trova mai la pace e l’appagamento nell’ambito dei beni terreni, perché appunto è finalizzato oltre, ciò porta per il pensiero politico una conseguenza decisiva: e cioè quella che l’ultima perfezione “ideale”, nella vita umana, non è raggiungibile. La prassi dell’uomo è sempre anche segnato dal fallimento e dal male – dal peccato. In questa dimensione, l’immagine dell’uomo cristiana prende sul serio la finitezza dell’uomo. La finitezza in quanto limitazione esistenziale non è essa stessa il male, ma un fatto, che però conosce nel suo spazio di possibilità anche la possibilità del peccato. In quanto, però, come è stato già evidenziato, sono le concezioni politico-utopiche concepiscono tali sistemi perfetti della società e dello Stato che cercano di eliminare questo fatto, esse realizzano un errore antropologico fondamentale che parte da un immagine dell’uomo idealistico-ideologico, ma certamente non dalla sua realtà. A questo punto si evince il valore sistematico della formula che la persona è il «diritto umano sussistente», nella quale l’aggettivo «sussistente» indica la concretizzazione reale dell’essere umano. Il pensiero cristiano sullo Stato si contraddistingue, perciò, per l’affermazione esattamente opposta a questa argomentazione. Rosmini e Sturzo la riassumono nella concezione dell’antiperfettismo: «il perfettismo, cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti (cioè la dignità umana) alla immaginata futura perfezione, è un effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente. In certo ragionamento io parlai del gran principio della limitazione delle cose e ivi dimostrai, che vi sono de’ beni la cui esistenza sarebbe al tutto impossibile senza l’esistenza di alcuni mali». In questo modo, i pensatori liberal-cristiani sviluppano una concezione realistica della filosofia politica: alla politica non spetta di eliminare il male dal mondo – perché questa è una domanda che concerne il perfezionamento della natura umana che però non viene risolto nella sfera politica, ma soltanto in quella trascendente. L’ordinamento politico-giuridico e la politica stessa hanno come fine di assicurare la dignità e la libertà umana. La strategia, quindi, non è quella di impostare una morale assoluta, una “tirannia dei valori”: anche l’imposizione di valori può quindi sfociare in un utopismo perfettistico. Questo in quanto, significativamente, i criteri etici della dignità umana e della libertà individuale non si trovano tra questi valori politicamente imposti. Il liberalismo, al contrario, riconosce la libertà dell’uomo persino di fraintenderla e di

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abusarla, per assicurare, appunto, in modo social-giuridico il bene maggiore della persona e della libertà. Il perfettismo, quindi, realizza in un certo qual senso il concetto contrario alla comprensione liberal-cristiana, in quanto non si basa su dignità e libertà, ma mira ad un concetto specifico dell’uomo che poi deve essere politicamente imposto e realizzato. In quanto questa strategia abolisce la libertà per realizzare il bene – ossia piuttosto ciò che dalla classe politica dirigente è ritenuto come bene – Rosmini può caratterizzare questa concezione sistematica, secondo la logica della sua filosofia politica, come «eschatologismo immediato», cioè come l’“al di là anticipato”: si aspira ad una perfezione concreta e morale, cioè ad un fine che per il Cristianesimo può essere realizzato soltanto nell’al di là. Anche in questo caso si evince immediatamente la funzione della relazione ontologica fondamentale dell’uomo all’assoluto: in questa dimensione religiosa l’uomo scopre la strada della sua perfezione che non si realizza secondo parametri statuali-organizzatori ma soltanto attraverso l’educazione e la formazione morale. D’altro canto, questo superamento della relativizzazione cristiana della sfera statale, genera le utopie politiche che nel XX secolo sfociano nei totalitarismi. Nei totalitarismi lo Stato interviene direttamente in quella esistenzialità della persona nella quale essa, però, secondo l’immagine dell’uomo cristiana, essa non è creatura dello Stato ma del suo creatore. A questo punto si evince ulteriormente la rilevanza politica della distinzione gesuano-paolina tra Stato e religione:

la

struttura

politica

viene

“interrotta”

nella

sua

dinamica

di

generazione

onnicompetente, e in questo modo viene impedito che essa si chiuda in un sistema immanentistico-logico che potrebbe politicizzare tutte le dimensioni della vita umana. Secondo Johann Baptist Metz la definizione più breve di “religione” è «interruzione». Viene “interrotta”, per la religione, quindi la logica di un perfettismo politico che in ultima analisi genera la negazione di libertà (“schiavitù”) e che quindi è dispregiativa nei confronti dell’uomo. L’impossibilità di un ordinamento politico perfetto si basa quindi sull’impossibilità di espellere una volta per tutte il male dalla realtà umana. Questo perché la realtà umana è segnata dalla libertà ed è quindi contrassegnata dalla fallibilità. A questo punto diventa essenziale che il criterio e il parametro per l’ordinamento è l’uomo. Ciò non significa che viene negata l’esistenza di una perfettibilità assoluta e di una verità assoluta. Una posizione liberal-cristiana non nega in nessun modo l’esistenza di una verità assoluta e la capacità dell’uomo di conoscere la verità. Essa non ha niente a che fare con la scepsi e non propaga un libertinismo morale. Ma nonostante ciò l’uomo nella conoscenza di questa verità e soprattutto nella sua realizzazione pratica attraverso le conseguenze concrete politiche rimane fallibile: così la fallibilità diventa la determinazione esistenziale dell’uomo e quindi il criterio centrale per la valutazione dei sistemi politico-economici. In questa libertà l’uomo è dignità. A livello sociale non vale il “diritto della verità” ma il “diritto della persona”. La persona è il criterio irriducibile della dimensione politica della società. La libertà dell’uomo è radicata nella sua esistenza individuale e non può essere prodotta o

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garantita dallo Stato: essa è personale, trascendente e l’ordinamento dello Stato può solo renderla possibile o proteggerla. Nessun ordinamento di per sé si può considerare assoluto. L’economia sociale di mercato e la democrazia derivano la loro autorità dall’autorità dell’individuo che deriva dalla relazione della sua libertà alla verità assoluta. Solo allorquando la dignità umana non è un astratto, nel quale il singolo è chiuso dentro la sua individualità, ma relazione e rapporto, si evitano i fraintendimenti materialistici ed idealistici del concetto di dignità umana e la persona viene riconosciuta nella sua libertà come criterio etico di ogni livello sociale e di qualsiasi istituzione. Questo è il punto di partenza forte del pensiero liberal-cristiano come esso è stato concepito nella modernità soprattutto da Rosmini, Tocqueville, Sturzo e Röpke. Mentre l’uomo come individuo chiuso, singolare e astratto è esposto alla logica organizzativa dello Stato, è solo un individuo che si sa ancorato nella sua esistenza in una relazione con l’assoluto che si sottrae a questo intervento dello Stato nella sfera della sua dignità e diventa quindi un individuo libero. In questo senso, sottolineò Friedrich August von Hayek l’importanza della religione per la realizzazione della libertà individuale, in quanto essa interrompe la logica costruttivista per la quale l’uomo cade nell’illusione di un assoluto potere politico organizzativo. Così Hayek rifiuta un liberalismo manchesteriano che taglia proprio questa dimensione fondamentale del liberalismo di cui esso ha bisogno: «Questo liberalismo

intollerante

ed

aggressivo

è

il

principale

responsabile

dell’abisso

che,

particolarmente in Europa, ha portato molto spesso le persone religiose ad allontanarsi dal movimento liberale. Sono convinto che, se non si riesce ad abbattere questo muro che divide il liberalismo dalla religione, è impossibile sperare in una rinascita delle forze liberali. Molti segnali, molti indizi lasciano pensare che in Europa una simile riconciliazione sia oggi più vicina rispetto al passato, e che molti vedano in essa l’unica speranza di sopravvivenza degli ideali della civiltà europea. È per questo motivo che mi sembrava così importante riservare ai rapporti tra liberalismo e cristianesimo una sessione specifica dei lavori del nostro incontro». Pensieri analoghi si trovano anche in altri pensatori liberali come nei già citati Tocqueville, Rosmini, Constant, Sturzo e Röpke, ma anche in Laboulaye, Höffner ecc. In quanto è l’individualità e la liberalità del legame religioso che radica nell’individuo le dimensioni della sua libertà e dignità, la libertà religiosa costituisce il punto cardine dell’ordinamento liberal-democratico e diventa il fondamento di tutte le altre libertà fondamentali. Così risulta allo stesso momento come questa libertà originale non deve essere fraintesa in modo individual-negativo: la libertà religiosa non significa la privatizzazione o l’individualizzazione della religione ma la libertà della scelta e dell’esercitazione positiva della religione come diritto individuale fondamentale. Da ciò risulta ugualmente che lo Stato non deve intervenire nei riguardi religiosi e nelle domande centrali riguardo all’esistenza umana e al suo rapporto alla libertà assoluta, fin quando le rispettive risposte non contraddicono gli altri valori fondamentali della costituzione. La separazione tra Chiesa e Stato, come essa si esprime in questa stessa libertà religiosa, risulta quindi direttamente dall’immagine dell’uomo cristiana.

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Senz’altro i pensatori liberal-cristiani sono consci del fatto che nella società secolare-plurale non si impone in modo autoritario (o in virtù dell’autorità) un’“immagine dell’uomo” come narrazione fondante

della costituzionalità

politico-economico-sociale. Proprio

l’immagine

dell’uomo cristiana riconosce questo fatto decisivo e crea per esso lo spazio sociale necessario attraverso la sua garanzia di tenere aperto il principio della dignità umana che trova la sua espressione più acconcia, appunto, nella libertà della religione e della coscienza. All’interno di questo spazio di libertà, non solo “tollerato” dal Cristianesimo ma attivamente ribadito, i pensatori liberal-cristiani si distinguono per il loro impegno per una narrazione decisamente “forte”: la “fortezza” di questo narrativo, quindi, non sta al livello della costrizione sociale o della imposizione autoritaria, ma nella dimensione personal-liberale che non isola l’uomo come individuo debole, ma che riconosce proprio nella sua realtà sociale e trascendente un fondamento forte. È questa immagine dell’uomo che i pensatori liberal-cristiani introducono nella dinamica sociale dell’interpretazione secolare e plurale del fondamento dell’ordinamento sociale.

4. La scoperta della dignità umana attraverso le vicissitudini della storia La rilevanza pubblica e politica del Cristianesimo consiste nel fornire il punto di partenza antropologico per la costituzione politica della società e dello Stato. Infatti, proprio a partire dall’immagine cristiana dell’uomo risultò che il Cristianesimo fonda questa rilevanza non sulla forma dell’“alleanza tra trono ed altare” – un ordinamento che perdurò fino all’800 – ma nella mediazione, all’interno dell’ordinamento politico, del fondamento antropologico “forte” della dignità umana. Il Cristianesimo non si presenta più come la legittimazione politica diretta dello Stato, ma questa legittimazione viene realizzata eticamente attraverso la dignità umana. Se quindi, in modo puramente ipotetico, si dovesse astrarre lo Stato moderno come egli si è formato in Europa, dal Cristianesimo (secondo l’etsi Deus non daretur di Ugo Grozio), questo non perderebbe allora la sua legittimazione politica diretta, ma avverrebbe comunque il processo non meno rischioso dell’erosione del fondamento di legittimazione stesso: perché così andrebbe a perdersi la base per la comprensione della dignità umana. La ragione è che quest’ultima si deve, nel suo contesto “di scoperta” non alla logica politica, ma alla logica religiosa dell’“interruzione” della razionalità politica. Lo Stato dipende dal fatto che questa comprensione nella società rimane viva. L’enciclica Caritas in veritate, in questo contesto, avanza la pretesa che «Dio trovi un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alla dimensione culturale, sociale, economica e, in particolare, politica». Con ciò non si intende di revocare il fondamento secolare-moderno dello Stato e di introdurre il Cristianesimo come religione di Stato. In realtà

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l’enciclica esprime la funzione di “interruzione” del concetto trascendente di Dio che si media nell’ordinamento giuridico attraverso il concetto della dignità umana e che in questo modo è di importanza fondamentale anche per l’ordinamento dello Stato liberal-secolare: la dignità umana, da un lato, è fondata nella trascendenza, ma, dall’altro lato, è anche il principio eticogiuridico fondamentale. In questo modo, il riferimento a Dio nel Preambolo della Costituzione (del Grundgesetz tedesco come della Costituzione italiana) e la dignità umana che si concretizza nei diritti umani e fondamentali, rimandano l’uno all’altra e costituiscono, insieme, il fondamento etico-giuridico dell’ordinamento dello Stato. Nel Grundgesetz tedesco, ciò viene espresso tramite la costellazione “di cerniera” di questo duplice principio tra il Preambolo e il Primo articolo che definisce appunto la dignità umana come il fondamento dell’ordinamento tedesco. La proposta metodologica dell’enciclica, nel rovesciamento della formula di Grozio, di procedere nello spazio politico-pubblico secondo il criterio dell’etsi Deus daretur, allora non è una richiesta religiosa ma istituzionale e deve essere intesa come parte della fondazione eticogiuridica della nostra società. La fondazione trascendente della dignità umana – l’etsi Deus daretur – quindi non è una confessione religiosa ma esprime l’“interruzione” della logica razional-costruttivista, senza la quale non si raggiunge la comprensione della dignità umana e dell’ordinamento liberal-democratico, come esso è concretizzato nella costituzione. A questo punto, naturalmente, ci si pone la domanda circa il preciso contributo sistematico-etico di questa funzione fondativa della dignità umana per l’ordinamento sociale: in questo modo viene svolta niente meno che la fondazione della dimensione di giustizia dell’ordinamento pubblico, cioè della giustizia sociale. Oppure: l’ordinamento pubblico è “giusto” se riconosce la dignità umana e la realizza nelle sue istituzioni. La costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II lo esprime con l’assioma che «la persona umana, che di natura sua ha assolutamente bisogno d'una vita sociale, è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali». Se la teoria politica moderna con l’asserto di Grozio esprime la necessità che la comunità politica non si legittimi a partire da una determinata religione o confessione, l’enciclica sottolinea che senza la comprensione del fondamento religioso dell’uomo e senza la rilevanza pubblica della religione non può essere assicurato il fondamento dello Stato modernosecolare: la dignità umana. Anche in questo aspetto la Caritas in veritate riprende un aspetto centrale dei pensatori Tocqueville, Rosmini, Sturzo o Röpke. In questo contesto, risulta interessante che il concetto di giustizia sociale appaia solo nella modernità.

L’uso

perlopiù

suggestivo

di

questo

concetto

contribuisce

unicamente

all’offuscamento della sua dimensione etica. Aristotele definiva la giustizia come virtù individuale, e cioè nei suoi aspetti come giustizia commutativa (della giustizia di scambio aritmetico), come giustizia distributiva (della giustizia meritatoria geometrica) e come giustizia legale (che si realizza se l’uomo si comporta conformemente all’ordinamento giuridico). Tutte e tre le forme della giustizia furono considerate, però, in chiave individuale, in quanto indirizzate alla “giustizia dell’uomo”: come si lascia realizzare la virtù della giustizia per giungere ad una

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vita “felice” nel senso di “riuscita”? Secondo questa impostazione è giusto il cittadino che paga il prezzo equivalente, che riceve la punizione corrispondente al reato o che risarcisce un danno causato da lui. Giusto è il reggente che distribuisce a ciascun cittadino ciò che gli spetta secondo i suoi meriti e le sue virtù. Giusto è infine quel cittadino che agisce secondo le leggi. Nella “giustizia sociale” moderna, però, si tratta di oltrepassare una giustizia intesa come virtù in quanto essa chiede quale sia la “giustizia dell’ordinamento pubblico”. Quest’ultimo non è stato mai considerato, nel mondo premoderno, sotto il criterio della giustizia. Esso era dato come un ordine da ricevere, non come un compito da realizzare; era legittimato religiosamente e fu percepito, perciò, come immutabile. Solo nella modernità l’uomo conosce che non ha soltanto una funzione di responsabilità all’interno di questo ordine (“responsabilità di ubbidienza”,

Gehorsamsverantwortung)

l’ordinamento

stesso

e

per

Gestaltungsverantwortung).

Alla

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domanda,

anche

una

istituzioni secondo

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(“responsabilità

quale

criterio

di

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costituzionale”, giustizia

questo

ordinamento pubblico deve essere considerato, solo la riflessione moderna trova il principio della dignità umana. Wilhelm Korff ed Alois Baumgartner che hanno ricostruito la storia di questa “scoperta” in modo sistematico, sottolineano il fatto che la dignità umana non viene portata allo “scoperto” dalla sistematica della giustizia – così sarebbe solo una dimensione parziale di giustizia che potrebbe essere implementata nella sistematica aristotelica –, ma che essa può solamente essere ricevuta dalla ragione politica per essere implementata poi come primo principio nell’ordinamento da realizzare. La domanda sul perché si deve porre al principio della dignità umana la suddetta “interruzione” che viene realizzata solo dal pensiero moderno all’interno della sistematica premoderna della giustizia, e perché proprio in questo aspetto il Cristianesimo esercita il suo influsso specifico solo nella modernità, si evince dalle riflessioni di Korff e Baumgarnter. Secondo questi autori non è la giustizia a scoprire la dignità umana – in questo caso già i filosofi greci ci sarebbero arrivati – ma un principio che solo con il Cristianesimo ha inciso nella storia: quello dell’amore divino (caritas). La giustizia, nella sistematica antica di Aristotele, si realizza se il singolo accantona i propri interessi ed agisce, nei confronti degli altri, così come spetta a loro oggettivamente. La giustizia uno la realizza non per se stesso, ma essa è una virtù sociale che si lascia descrivere nel triplice compito di vivere onestamente (honeste vivere), di non ledere a nessuno (naeminem laedere) e di assegnare a ciascuno ciò che gli spetta (suum cuique tribuere). Già Cicerone, ma prima di lui il famoso giurista romano Ulpiano, ha definito l’aspetto rilevante in chiave etico-sociale in quest’ultimo elemento: suum cuique. La giustizia definisce ciò che è dovuto all’altro, e dietro a ciò i miei interessi personali devono retrocedere. Siccome per opera del Cristianesimo si afferma storicamente la prospettiva dell’uguaglianza fondamentale di tutti gli uomini, in quanto il loro essere uomini non perviene a loro tramite un merito ma per creazione e per nascita, è Tommaso d’Aquino che non solo riprende la sistematica aristotelica, ma la precisa proprio in questa chiave: nella giustizia si tratta di realizzare l’uguaglianza

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universale contenuta nell’essere l’uomo immagine di Dio. Si realizza così in modo iniziale ciò che oggi definiamo la “giustizia sociale”. Nondimeno Tommaso sottolinea che la giustizia non basta per stabilire la convivenza umana su una base solida. Ciò che all’Aquinate proveniva dalla tradizione cristiana era un concetto di virtù che oltrepassa la giustizia: la misericordia ossia la carità come amore cristiano. La carità non si limita a dare all’altro ciò che gli spetta o che gli è dovuto, ma essa è abbondanza e supera qualsiasi criterio che cercherebbe di limitarla o di farla rientrare in parametri oggettivi. Nell’amore della carità il soggetto si dimentica tutti i suoi interessi. O come recita l’Inno alla Carità di San Paolo: la carità «non cerca il proprio interesse». Il buon Samaritano non agisce semplicemente come ci si sarebbe potuti aspettare da lui, non agisce nel modo in cui si pretendeva che lui agisse, ma egli oltrepassa tale logica della “giustizia”. Egli si sente chiamato in causa per un appello che si chiama carità. Essa non è generale, non è orientata “verso tutti” o verso l’“altro generalizzato”, ma ha di fronte un volto ; vede la miseria personale e singolare, quello che gli occhi della giustizia non captano; si lascia obbligare da questo volto, perché esso è indisponibile. La carità non si avvale di sanzioni morali o giuridiche; essa non può essere richiesta, né pretesa. La carità non costringe; essa è libertà. L’amore della carità non sono organizzabili come la giustizia, ma la oltrepassa per quanto riguarda il suo modo di obbligare interiormente. Perciò, per Tommaso essa è la maggiore delle due virtù e perfeziona la giustizia. Ma il loro rapporto non è semplicemente quello della perfezione della giustizia nella carità, in modo tale che dopo rimarrebbe solo la carità che conserverebbe in sé la giustizia. Anche se la carità è la virtù più perfetta, essa non sostituisce la giustizia. «Senza la giustizia la misericordia [carità] non sarebbe una virtù». La giustizia deve quindi essere la chiave per l’ordinamento pubblico perché essa può essere pretesa universalmente. Come la giustizia deve essere integrata nella carità per non sfociare nella crudeltà, così anche la carità ha bisogno, per imporsi, della forza organizzativa e esigente della giustizia. Tommaso definisce questo rapporto bidirezionale nella formula: «Come la giustizia senza la misericordia (carità) diventa crudeltà, così la misericordia (carità) senza la giustizia diventa l’origine della dissoluzione». Alla domanda, quale delle due virtù ha coniato il nostro concetto di “giustizia sociale” e che l’ha determinato nella nostra comprensione odierna, si troverà la soluzione proprio in questa implicanza reciproca delineata da Tommaso: all’idea della giustizia sociale non si arriva, perciò, solo partendo da Aristotele. Ci vuole l’influsso decisivo della comprensione cristiana della carità. La carità, l’amore divino, ha rivoluzionato l’idea antica di giustizia. Infatti, il problema della giustizia antica si basava nel rilevare in che cosa consiste quel “suo” che spetta a ciascuno e che può quindi essere esigito: fin quanto la sua determinazione sta nelle mani del potere politico rispettivo, l’ordinamento politico rimane un ordinamento del potere e non si apre al principio della giustizia. Ma nelle mani della sua determinazione politica, il suum cuique può essere apportato per giustificare anche le più grandi barbarie: poteva stare anche sul portone del campo di concentramento di Buchenwald. Ma anche al di là del suo abuso questa formula può rimanere vaga e indeterminata, fin quando non viene riferita alla dignità umana

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personale. In questo senso, nell’antichità il “suo” era il principio della meritocrazia moralepolitica, e in Kant viene avvicinato molto al concetto della proprietà materiale. Il diritto privato che regola i rapporti di proprietà, diventa così l’espressione immediata e concreta della realizzazione sociale-giuridica della libertà originale Che cos’è, allora, questo suum? Che cos’è ciò che originalmente è il “suo” dell’uomo, ciò che può esigere e richiedere socialmente e sul quale quindi l’ordinamento politico-economico si fonda nelle sue implicazioni etiche più profonde? Solo se l’ordinamento sociale costituisce una risposta a questa domanda, allora è realizzata la “giustizia sociale”. Ma non sono gli occhi della giustizia umana che scoprono nell’uomo quel principio originale della dignità umana, sottratta a ogni parametro umano per la definizione di ciò che spetta a ciascuno, per ciò che è esigibile. È solo la carità che scopre nell’uomo quel nucleo sottratto. L’amore della carità, così formula Korff, è sempre già lì dove la giustizia tende e ambisce, senza poter mai raggiungere questo fine. L’amore della carità capta la dignità umana che non è un concetto riflessivo-deduttivo. Al contrario, nessuna riflessione umana su questo principio può giungere veramente al fondamento. E ciò perché si tratta di un principio solo intuitivamente captabile: e per questo, esso si dispiega nella carità. Un tale concetto lo troviamo all’inizio della sistematica agostiniana e kantiana della dignità dell’uomo, che si pone in controtendenza con chi vede nel carattere dell’umano un semplice mezzo o strumento. Ossia: la carità scopre l’uomo come persona, dotata di dignità che non è deducibile da nessuna logica del prezzo o da una giustizia soltanto elementare. A questo punto, ci rimane solo da ricordare che Aristotele limitava il suo concetto di giustizia al cittadino greco e ne precludeva a priori i non greci, i barbari e gli schiavi; anche alle donne è stata negata la cittadinanza. Inoltre, egli prevedeva delle differenziazioni sociali di tipo verticale anche all’interno della società greca. Il messaggio di carità del Cristianesimo, si sviluppava accanto alla “giustizia pubblica” dell’Impero romano, sia nella sua forma antica, sia nella sua forma medievale che istituzionalmente si manteneva fino al 1803. La legittimazione del reggente attraverso l’“alleanza tra trono ed altare” impedì che la dignità umana potesse esercitare la sua rilevanza social-etica sulle strutture sociali. La rilevanza politica del Cristianesimo è stata, in questo modo, limitata all’influsso diretto sulle virtù del reggente mediante gli specchi dei principi. Sin dalle origini del Cristianesimo, questa nuova realtà della giustizia – la giustizia soprannaturale ossia la carità – si realizzò nell’ambito liturgico dove per la prima volta è stata storicamente praticata l’idea dell’uguale dignità di tutti gli uomini, di schiavi e di padroni (cfr. 1 Cor 10,17; 12,13). È stata la libertà sociale vissuta come valore universale sociale-umano il messaggio centrale del Cristianesimo. L’idea di uguaglianza fra gli uomini è stata accettata come prassi fin dagli albori del cristianesimo, sebbene limitata solo all’ambito liturgico. Tuttavia il travaglio che poté portare alla eliminazione definitiva – almeno nelle costituzioni – delle disuguaglianze fra gli uomini e alla abolizione della schiavitù fu molto lungo. Persino dopo diciotto secoli di società interamente cristiana l’idea che gli uomini fossero tutti uguali non riuscì a permeare la società

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civile. Perché ciò avvenisse abbiamo dovuto attendere fino all’800, periodo nel quale cominciarono ad essere abolite tali strutture: il risultato non solo dalla rivoluzione americana e francese, ma anche dalle riflessioni giusnaturalistiche della modernità. Solo nel 1865, con la fine della guerra civile, negli Stati Uniti fu abolita definitivamente la schiavitù, e solo nel 1888 essa fu soppressa in Brasile; ma soltanto dal 1968 si può dire che le basi giuridiche della schiavitù sono sparite dalle costituzioni e dai codici di tutti i paesi del mondo. Ci sono, quindi, voluti tanti secoli prima che la coscienza sociale facesse sua l’idea della dignità umana. E si è dovuto aspettare molto tempo prima che una tale idea si realizzasse concretamente nella costituzione della sfera politico-pubblica, ossia prima che penetrasse nelle costituzioni politiche di una società, nella quale la giustizia sociale intesa come base costituzionale venisse realizzata. Nel Cristianesimo opera una forza, la carità, che è già sempre lì dove l’ordinamento pubblico deve faticosamente arrivare passo dopo passo, anche attraverso errori ed orrori. Anzi, è la carità ad indirizzarlo, a spingerlo sempre di più a realizzare il principio dell’ordinamento pubblico della solidarietà. Se questo influsso, nella modernità, aveva il suo prosieguo nella veste secolare, allora se ne evince quanto forte potesse essere la spinta dell’idea cristiana del sociale nella prassi e nella storia, idea cristiana del sociale che facendosi prassi tentava di plasmare la storia. Anche nel Cristianesimo stesso questa storia era tutt’altro che priva di errori ed orrori, di deviazioni e di peccati, che non devono essere dimenticati ma che altrettanto, però, indicano ancora di più la continuità e la perseveranza con le quali si è realizzata l’idea della “giustizia sociale”, di una costituzione della società secondo il criterio della dignità umana e della solidarietà universale con tutti che portano in sé il volto dell’umanità. Se il nostro ordinamento politico-giuridico è basato sui principi della dignità umana e della solidarietà, allora si può intravvedere in questo la concretizzazione e la forza storica della carità che come “motore” della modernità ha catalizzato questo sviluppo. Così si realizza il principio cristiano della carità non come virtù individuale e come misericordia, ma nella sua implicanza decisamente politico-giuridica di evidenziare la dignità umana come criterio dell’ordinamento stesso, che quindi porta alla luce i principi della giustizia sociale ossia del bene come: personalità (libertà), solidarietà e sussidiarietà. In questo modo, il messaggio cristiano della carità è giunto alle sue conseguenze social-etiche. Esso non predetermina nessun concetto concreto di Stato e di ordinamento pubblico e perciò non offre «soluzioni tecniche», ma indica i principi che devono essere applicati alla realtà sociale, in questo modo, da un lato, questi principi mostrano il loro potenziale critico-costruttivo e, dall’altro lato, testimoniano che nello Stato moderno, liberal-democratico, e nell’economia sociale di mercato vengono a realizzarsi le intuizioni fondamentali del concetto cristiano della dignità umana. In questo senso, liberalismo e Cristianesimo non costituiscono affatto una contrapposizione, ma il primo può considerarsi, nel senso dei pensatori liberal-cristiani qui analizzati, la realizzazione social-etica del secondo. Solo un clamoroso fraintendimento storico – che si è consumato soprattutto negli ultimi due

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secoli, fino al Concilio Vaticano II – ha potuto portare a quella contrapposizione tra pensatori liberali e Chiesa Cattolica. Wilhelm Röpke, uno dei padri dell’economia sociale di mercato, in questo senso ha sempre sottolineato: «Il liberalismo non è […] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni di pensiero occidentale, l’idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell’universalità». L’economia sociale di mercato, allora, può portare con sé quel principio di ordinamento secondo il quale il valore della dignità umana si trasforma in realtà sociale. Da questo derivano i principi fondamentali di un ordinamento giuridico-liberale. Con ciò il Cristianesimo, oltrepassando il concetto aristotelico di giustizia, ha inserito la dignità umana come principio giuridico nell’ordinamento politico-sociale. La giustizia sociale è quindi il principio contrario ad una concentrazione dell’istanza di giustizia pubblica nello Stato. Essa esprime che lo Stato non possiede la competenza onniorganizzativa ma che deve essere ordinato secondo il principio di sussidiarietà. Frédéric Bastiat, un altro esponente del cattolicesimo liberale, esprimeva questa riflessione con un esempio tutt’altro che inattuale: «Quando una nazione è oppressa da tasse, niente è più difficile – io direi pure impossibile – che ripartirle in maniera equa». Come accennato, si tratta di un principio fondamentale cristiano di società – non di un modello di Stato né di un apparato di organizzazione. Questa natura particolare di “principio” realizza la dimensione antiperfettistica del messaggio politico del Cristianesimo e il fatto che il Cristianesimo stesso è una religione apolitica, anche se ha, come abbiamo visto, determinate implicanze politiche che si esercitano, però, tramite l’immagine dell’uomo. A questo preciso meccanismo è dovuto che tale incisione si è realizzata storicamente solo lentamente e anche in modo dialettico – basta pensare alle contese dell’epoca dell’illuminismo. Spesso nemmeno i fronti erano chiaramente spartiti e spesso il messaggio cristiano della carità doveva essere imposto anche contro la resistenza della Chiesa e del suo legame con il potere secolare. Se ci si ricorda che la storia politica dell’Europa dal medioevo fino al XX secolo è stata una storia di guerre rovinose, di persecuzioni e di esecuzioni, e inoltre che l’Europa cristiana spesso non ha limitato queste guerre al proprio continente ma le ha esportate nel mondo, ci si convince subito che la realizzazione storica del principio etico-giuridico della dignità umana rappresenta per grandi tratti una storia “silenziosa”: la dignità umana, se rimane un mero principio socialetico, a cui non corrisponde più la convinzione dei singoli, perde anche la sua incisione sociale. In questo caso, il potere politico la ignora, perché la sua autorità non è la forza dello Stato, dell’organizzabile e del progettabile, ma quella della carità. A ben vedere, è proprio quest’ultima dimensione che preserva il principio etico-giuridico della carità a scivolare in una narrazione euforica della secolarizzazione: anche se la dignità umana secolarizza l’ordinamento politico, essa stessa non può essere secolarizzata, senza andare persa. Il narrativo della dignità umana, in questo modo, conserva un ultimo momento di indisponibilità, di religiosità, di

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“interruzione”; esso non ha luogo alla superficie del politicamente organizzabile ma conserva anche nei confronti dell’incombente perfettismo della propria politicizzazione. Come ha dimostrato il XX secolo, la dignità umana rimane sempre “compito”, che ha bisogno, per essere realizzato, di uomini concreti in grado di riscoprirla sempre di nuovo. In questo modo, è vero che la dignità umana ha plasmato le nostre costituzioni politico-econonomico-sociali secondo il principio liberale della “giustizia sociale”, ma proprio in quanto tale rimane sempre compito ed ha sempre bisogno di quelli che “credono” in questo ordinamento, il che vuol dire che ha sempre bisogno di quelli che lo realizzino sempre di nuovo. In questo modo, i momenti eticostrutturale ed etico-individual si implicano e si richiamano a vicenda. Nonostante il fatto che solo la modernità ha visto le grandi catastrofi, con il principio della dignità umana come conseguenza politica del Cristianesimo possiamo ripercorrere la svolta decisiva umanizzante nella modernità. Infatti, il Cristianesimo non ha prodotto l’ordinamento feudale del medioevo che deriva da idee germaniche di ordine sociale. In questo senso, solo nella modernità lo Stato e la società cominciano a costruirsi sulla base dell’immagine cristiana dell’uomo. Così l’immagine cristiana dell’uomo è diventato patrimonio culturale comune e il centro di riflessione e di cultura. In questo senso, conviene sottolineare che non sono gli illuministi quelli che hanno messo fine alle persecuzioni delle streghe, ma i giuristi e teologi cristiani. Ed anche in altri aspetti, ai movimenti illuministici, spesso anticristiani, precedettero pensatori cristiani. Riassumiamo: la persona è diritto fondamentale. Ciò si concretizza nei diversi ordinamenti: in senso giuridico nelle costituzioni, in senso politico nella democrazia, in senso economico nell’economia sociale di mercato, in senso sociale nello Stato sociale. Luigi Sturzo ha concretizzato questa connessione che la libertà crea tra le varie dimensioni sociali, grazie all’immagine cristiana dell’uomo: «Se la libertà è violata in campo economico, è lesa anche, secondo me, in quello culturale, in quello politico e sociale e viceversa. Non c’è esempio nella storia di una libertà che stia insieme da sola».

5. La società libera e la sua opzione per i poveri Accanto alla dignità umana, fondata nella relazione trascendente, che viene riconosciuta dalla Carità, è la Carità vissuta e realizzata che diventò l’influsso socialmente più evidente del Cristianesimo sulla società. Il Cristianesimo, infatti, non ha portato ad un liberalismo cieco per i prossimi, ma la carità era il primo compito pubblico del Cristianesimo, come si può leggere già nei primi capitoli degli Atti degli apostoli. Il Cristianesimo ha bandito dalla società antica il “gelo sociale” (Eugen Biser), in quanto è stato mandato dal suo fondatore innanzitutto ai poveri, ai deboli, agli ammalati, ai vecchi, agli ultimi, ai derelitti, ai dimenticati e alle famiglie povere. Questa dimensione è viva anche nella prospettiva etico-sociale della modernità se la Dottrina

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sociale della Chiesa adopera lo sguardo sui poveri come la prima realizzazione dei principi di ordinamento sociale. Ciò spesso viene riassunto con il concetto dell’“opzione per i poveri”, con un concetto che quindi rimanda alla teologia della liberazione, ma che si è diffuso come un concetto di importanza generale sistematico-etica: secondo questa “opzione”, una realtà sociale viene giudicata con lo sguardo sui meno avvantaggiati e se riesce a favorire i più poveri. Questa dimensione, però, collocandola nel contesto dell’etica del diritto come essa deriva dal principio della dignità umana, significa che i poveri non sono semplicemente una “prova di tornasole”, in quanto il diritto è universale e non avvantaggia o svantaggia dei ceti sociali secondo il metodo di “Robin Hood”. Infatti, proprio attraverso la considerazione della solidarietà come principio etico-giuridico, cioè misurata alla dignità dell’uomo, diventa chiaro che i poveri non sono un “caso eccezionale” della società ma invece il suo “stato normale”. Un sistema sociale non deve favorire i poveri oltrepassando i meccanismi della “giustizia sociale” come sono stabiliti dalla dignità umana, ma proprio l’assetto dell’ordinamento complessivo si dimostra come giusto o ingiusto attraverso quello sguardo sui poveri che stabilisce se l’ordinamento li discrimina. Se ciò è il caso, allora l’ordinamento di per sé non è “socialmente giusto” e quindi non è “liberale”. In questa dimensione, la “opzione per i poveri” della Dottrina sociale della Chiesa concorda con un altro pensatore liberale, cioè con John Rawls. Al liberalismo, come è noto, spesso si rimprovera di essere cinico nei confronti dei poveri. Con la sua fondazione della dignità umana e della libertà esso porterebbe dei limiti evidenti alla sfera dello Stato ed assicurerebbe in questo modo le dimensioni di libertà e di realizzazione dell’individuo, ma ciò ancora non comporterebbe il dovere dello Stato o della società di venire in aiuto alle persone in bisogno e penuria. Ossia in altre parole: il principio puramente giuridico di dignità umana ancora non porterebbe alla solidarietà attiva. Ma anche questo rimprovero al liberalismo si basa su una riduzione monodimensionale del suo concetto di libertà e sull’interpretazione del “liberalismo” in chiave di “egoismo”. Ma ciò non è, come abbiamo già visto, per niente giustificato se si guarda meglio al suo concetto. Anche in questo punto, i pensatori liberal-cristiani dimostrano una posizione molto più differenziata, quando distinguono il compito dello Stato (solidarietà come dovere etico-giuridico) e il dovere individual-sociale (solidarietà come carità), relazionando l’uno all’altro. In un primo aspetto, a tale merito, bisogna innanzitutto sottolineare che proprio la dignità della persona fonda l’esigenza giuridica di poter essere realizzata nelle sue dimensioni fondamentali. La “libertà”, in questa accezione, viene fondata positivamente nel senso della realizzazione concreta dell’essere persona. Quest’è la dimensione positiva di possibilità dell’uomo in quanto «diritto umano sussistente»: la sua libertà deve avere la possibilità di essere realizzata, affinché possa veramente valere come la dimensione concreta di svolgimento della sua individualità. Ciò che spetta all’uomo come il suo minimo di esistenza e come condizioni minime per l’esercitazione delle sue libertà fondamentali, non è compito della magnanimità o della carità ma ciò è l’esigenza giuridica basata sulla dignità della persona. Ciò è un dovere giuridico, e quindi di “giustizia sociale”.

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Dalla fondazione trascendente della dignità umana che nell’individuo non vede un individuo astratto o soltanto un cittadino, ma un volto concreto, un mio prossimo e uguale nella dignità, risulta quindi la “solidarietà” che dopo la “personalità” della dignità diventa il secondo principio giuridico della “giustizia sociale”. Questo non sottolinea, come fa il principio di “personalità”, la dimensione della libertà del singolo nei confronti dello Stato, ma in questo caso si tratta del dovere dello Stato di venire in aiuto al singolo. In quanto principio giuridico viene esplicitato che le istituzioni sociali devono essere impostate in modo tale che la solidarietà non viene sottratta e nemmeno rifiutata a nessuno che porta il volto umano. Con questo, la solidarietà è principalmente senza confini: nel senso cristiano, non esistono solidarizzazioni parziali che escluderebbero l’orizzonte della solidarietà universale, la quale abbraccia tutti. Ciò apre la prospettiva di un’etica universale nell’epoca della globalizzazione e del contatto crescente e sempre più articolato con i membri di altre nazioni o culture con i quali non esiste nessun vincolo spontaneo o sentito di solidarietà. Anche se uno Stato nega ad una persona la permanenza e non lo annovera tra i membri della solidarietà nazionale, esso rimane comunque obbligato, in chiave di etica del diritto, a trattarlo secondo i principi di questa solidarietà fondamentale. All’interno di un ordinamento giuridico, la solidarietà è indirizzata contro l’esclusione sociale ed assicura così la condizione di base della realizzazione dell’essere umano. Questa forma di “giustizia sociale” viene declinata anche con il termine “giustizia partecipativa”. Per la realizzazione delle sue libertà fondamentali, le persone devono avere anche le possibilità materiali. Solo così sono anche in grado di considerare la società come spazio di possibilità e solo in questo modo si può realizzare la “giustizia delle occasioni”. Una delle conseguenze di questo principio di “giustizia sociale” potrebbe essere, ad esempio, il salario minimo che dai pensatori liberali come Friedrich von Hayek non viene per niente escluso. Deve essere assicurato il minimo della vita individuale, e ciò esigono proprio i pensatori liberali, in quanto non si tratta di una forma di beneficenza ma del dovuto nei confronti della dignità umana. È quindi una pretesa etico-giuridica della “giustizia sociale”. Come secondo aspetto la solidarietà come principio giuridico esplicita che lo Stato può attivarsi solo fino ad un certo punto. La solidarietà, come aiuto spontaneo della carità, è essenzialmente un atto individuale-spontaneo. Mentre lo Stato è organizzato secondo il principio della giustizia, la solidarietà si basa su quella spontaneità della carità che significa che nel volto del bisognoso viene espresso un appello della sua dignità irriducibilmente verso di me, al quale non posso sottrarmi. In questo modo, la solidarietà non si esaurisce nell’essere un puro principio di “giustizia sociale”, ma rimane ricollegata all’interpersonalità vissuta, e consiste nella mozione spontanea verso l’altro – e con questo movimento poi viene definita la solidarizzazione e il venire attivamente in aiuto. In questo senso, la solidarietà può essere pensata ed organizzata sempre e solo a partire dalla persona in quanto individuo. Contrariamente

all’individuo,

lo

Stato

agisce

però

attraverso

leggi

ed

ordinamenti

amministrativi – esso agisce come apparato di potere – e quindi tutt’altro che in modo

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“spontaneo”. Perciò esso non può realizzare la solidarietà come principio di azione, ma solo come principio giuridico. Solo in quei momenti in cui organizza definitivamente nel nome di tutti i cittadini, e in cui quindi questa sua organizzazione diventa l’espressione della spontaneità di tutti, allora esso realizza “spontaneamente” la carità come principio di azione. Evidentemente, tali azioni sono riconnesse a tante cautele e alla responsabilità che esige la solidarietà come principio della “giustizia sociale”. Ciò che oltrepassa la solidarietà come principio giuridico e l’azione sussidiaria dello Stato, si sottrae all’organizzabilità dello Stato. Questo limite preserva lo Stato dal diventare un assistente sociale paternalistico che prosciuga, con l’andare del tempo, tutte le forze spontanee della carità che le persone singole e la società civile reperiscono. Tirando a sé e sottomettendo alla sua competenza sempre più prestazioni che in teoria dovrebbe assicurare la società civile, non solo fa esaurirsi le prestazioni spontanee di aiuto ma diventa anch’esso un welfare state che nella sua presunta onni-competenza non può finanziarsi più. La dignità umana avanza la pretesa che le opere di carità corrispondono alla dignità umana e che perciò siano sia dovute ma anche espressione di carità personale. In quanto lo Stato non può realizzare quest’ultimo aspetto, egli è tenuto a non arrogarsi tutte le competenze ma a realizzare il compito – in un certo senso molto più difficile – di organizzare le rispettive sfere di libertà della persona e della società civile e di responsabilizzare queste due istanze di solidarietà nella chiave della carità personale. A queste considerazioni, la recente enciclica aggiunge la problematica di un welfare state gonfiato, il quale genererebbe nella società l’opinione che i poveri costituiscono un «fardello» invece di considerarli come persone con il fine di realizzare le loro potenzialità di possibilità sociali. I poveri, così il ragionamento della Caritas in veritate, devono essere invece rivalorizzati come una «risorsa» per la società. Proprio nei confronti della sfida della globalizzazione sarebbe oltremodo indicato il cambiare la prospettiva di considerarli nei termini di possibilità e di occasione invece che come giustificazione o come massa amministrata. Bisogna aiutare i poveri a sviluppare prospettive personali per non finire nella spirale della povertà, che costituisce invece nell’Europa odierna l’attuale sfida sociale. Il principio di solidarietà non deve essere confuso, quindi, in nessuno dei due aspetti, con assistenzialismo o paternalismo, in quanto queste due concezioni non si basano sul fondamento della dignità umana: non determinano l’uomo come ciò che è in prospettiva cristiana, ossia «provvidenza per sé e per gli altri». Solo una politica sociale che ha ben presente la sistematica della solidarietà sulla base della dignità umana come principio della “giustizia sociale”, riesce quindi ad affrontare le sfide dello Stato sociale nell’epoca della globalizzazione. L’“opzione per i poveri” si fonda quindi sulla dignità dell’individuo, essa è solidarietà realizzata, in virtù del fatto che tutti gli uomini, in quanto immagine e figlio di Dio, sono il diritto di essere riconosciuti. Anche nel caso della solidarietà è stato declinato come l’immagine cristiana dell’uomo fondi sia il principio etico-giuridico che anche il dovere morale individuale: nei confronti dei poveri sia lo Stato, ma anche gli individui sono chiamati ad adempiere la pretesa

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della dignità umana nel povero. L’aiuto sociale si fonda quindi a partire dall’individuo – qualsiasi collettivismo nella solidarietà la snatura perché fa diventare il povero il semplice ricettore delle attività dello Stato invece che appello positivo che egli reca agli altri, ma che in chiave di carità può essere colto solo da altre persone – non dall’organizzazione impersonale qual è l’apparato dello Stato. La comprensione liberal-cristiana di solidarietà contiene entrambe le dimensioni contenute nella dignità umana, sia il dovere giuridico pubblico che anche il dovere individuale della carità.

6. Chiesa e famiglia come istituzioni fondamentali della società Al di là della dimensione universale della dignità umana, dalla quale è stata appena ricavata la solidarietà come il principio del suo riconoscimento concreto e positivo, la dignità umana è caratterizzata per essere “immagine di Dio” o “figlio di Dio” non soltanto per la sua dimensione individuale, ma anche e fondamentalmente, come abbiamo già evidenziato, per la sua dimensione relazionale-sociale. In questo aspetto, infatti, i pensatori liberal-cristiani si distinguono forse nel modo più netto da altri rappresentanti che seguono piuttosto delle correnti liberali secolari. I pensatori liberal-cristiani trovano non soltanto nell’individualità astratta un criterio universale per l’ordinamento politico-economico-sociale, ma anche nella relazionalità umana, ossia, se si vuole così, nelle dimensioni concrete dell’esistenza (e perciò per altri pensatori liberali privi di qualsiasi costante etica). Tale intenzione, infatti, di scoprire delle costanti etiche nella concretezza della vita umana, è stata lo scopo del diritto naturale di tutti i tempi. Questa esigenza, dai pensatori liberal-cristiani, viene ripresa, anche se sotto una forma molto diversa, in quanto non partono da costanti apersonali – che perciò sono sempre sospettate di limitare la libertà personale e quindi di sottodeterminare la dignità umana –, ma dalla dignità e libertà della persona umana. Con ciò viene sottolineato il risultato importante che la libertà personale non è indeterminata ma invece determinata, perché sempre realizzata nell’ambito relazionale. In questo senso, è Sturzo a criticare la determinazione kantiana della libertà come libertà d’arbitrio: «intendiamoci: la libertà non è arbitrio, essa non è mai senza limiti. Non esiste in natura né un potere senza limiti, né una libertà senza limiti. Il fatto sociale per se stesso limita tanto il potere centrale quanto la libertà dei singoli». Infatti, i pensatori liberal-cristiani pretendono che non c’è una limitazione della libertà se essa si realizza attraverso relazioni concrete. Contrariamente, sarebbe proprio una libertà, come quella kantiana, che non sa realizzarsi concretamente, a non poter valere come libertà piena. In questo caso, però, libertà è determinazione, una determinazione, tuttavia, che non viene imposta all’uomo dal di fuori, da un’autorità umana, ma che lo caratterizza come determinazione della sua natura. Esistono quindi delle relazionalità fondamentali, nelle quali la realizzazione della libertà non è limitazione ma realizzazione di sé stessa. Proprio in questo

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senso, anche la recente enciclica sottolinea che è un aspetto centrale ed essenziale dell’immagine cristiana dell’uomo, di non essere semplicemente sostanza, ma allo stesso momento e nella stessa considerazione anche relazionalità: «la rivelazione cristiana sull’unità del

genere

umano

presuppone

un’interpretazione

metafisica

dell’humanum

in

cui

la

relazionalità è elemento essenziale». Queste relazionalità sono realizzate concretamente (1) nella famiglia e (2) nella comunità religiosa ossia nella Chiesa. Accanto alla dimensione religiosa, che è fondata nella relazionalità fondamentale dell’individuo all’assoluto divino e che è stata già tematizzata, la dignità umana è caratterizzata ancora da una seconda relazionalità fondamentale: questa si incontra nel legame famigliare nel quale l’uomo si sperimenta non solo come persona ma anche nella sua natura come un essere-in-relazione. Come relazione ontologico-esistenziale il legame famigliare non si aggiunge in un secondo momento alla dignità umana, ma è esso stesso una forma concreta di realizzazione di questa dignità. In quanto tale, questa relazionalità è data con la dignità apriori dell’uomo e non si deve alla posizione sociale. Come essa si è rilevata già nel suo fondarsi nell’assoluto trascendente come relazionale, ora anche nel matrimonio e nella figliolanza essa si esplicita a quel livello che nessuno Stato può produrre attraverso la “giustizia sociale”. Questo perché la famiglia partecipa alla dignità dell’uomo e non allo Stato, e perciò essa è radicata nella Carità, che è gratuità. Nel matrimonio come nella figliolanza l’uomo si sperimenta in modo originario come costitutivamente relazionale. Tutta la relazionalità sociale si fonda su quel “capitale umano” che l’uomo accumula nella famiglia attraverso l’esperienza di una relazionalità che non si fonda – come nell’ambito della società civile – su relazioni finalizzate all’interesse e quindi su relazioni come “mezzo”, ma che avviene sotto il segno della gratuità, della carità. In questa relazionalità l’uomo si forma e viene educato nella dimensione del “dono”: la gratuità e l’essere riferito per donare all’alterità, senza aspettarsi un dono in cambio, viene esercitato per la prima volta nella famiglia: ecco la “formazione” o l’“educazione” della famiglia. Nella società, questa dimensione non si lascia organizzare, in quanto essa si fonda sulla spontaneità (carità). Nonostante ciò, la società vive essenzialmente grazie a questa dimensione. Come nella relazionalità familiare della dignità umana è fondato il momento del “dare”, così nella relazionalità esistenziale-religiosa il momento del “perdonare”. Anche questa è una dimensione sociale della quale lo Stato ha bisogno per essere uno Stato umano. Alasdair MacIntyre ha sottolineato che questo concetto nella filosofia antica era sconosciuto e che soprattutto il concetto aristotelico dell’amicizia faceva a meno del “perdono”. Entrambe le dimensioni, del dono e del perdono, sono di suprema importanza per la società e per lo Stato. Ma lo Stato non le può né organizzare né generare. Questo perché entrambe le relazionalità sono fondate nella dignità personale e derivano da essa, ma vengono realizzate solo nelle loro concretizzazioni nella comunità religiosa e nella famiglia. Non si tratta di capacità fisicomotoriche, ma di virtù che necessitano di un esercizio, dell’educazione e del contesto sociale. A nessun ordinamento di giustizia e a nessuna “giustizia sociale” è dato di garantire o realizzare

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queste dimensioni, mentre la società ha bisogno che gli uomini siano “educati” in queste dimensioni e le vivano concretamente. Queste due relazionalità, della famiglia e della religione, non sono quindi relazionalità della giustizia ma relazionalità della carità. Proprio per questo lo Stato, se presuppone la dignità umana, deve presupporre allo stesso modo anche questi principi e cioè la realtà della famiglia e della religione in modo positivo-costitutivo. Le libertà di queste due istituzionalità sono quindi libertà che devono essere intese personalisticamente e che costituiscono il sistema valoriale della società. Esse realizzano come la dignità umana la principialità fondamentale di carattere etico-giuridico per la costituzione della società. In questo modo lo Stato non deve solo assicurare i fondamentali diritti individuali della libertà individuale, della partecipazione politica e dell’esigenza sociale, ma anche riconoscere gli spazi di libertà della famiglia e della religione. Ciò non significa che la famiglia e la religione (la Chiesa) diventerebbero spazi esenti dal diritto. Questo sarebbe impossibile, perché in questo modo si sottrarrebbero al criterio etico-sociale della dignità umana, sulla quale, però, come abbiamo appena analizzato, esse si basano eticamente. Al contrario, proprio perché apportano un contributo insostituibile alla cura del proprio contenuto etico nella società, e in quanto questo

contributo

sarebbe

reso

inutile

dall’intervento

statale,

sono

da

riconoscere

sussidiariamente nella loro importanza fondamentale per la costituzione dello Stato secondo la “giustizia sociale”. Così come la dignità umana non significa la de-giuridizzazione dei diritti fondamentali individual-liberali, ma costituisce al contrario, la loro sostanza etico-giuridica, in questo modo anche la famiglia e la religione (la Chiesa) non sfuggono all’autorità dello Stato il cui compito è di regolare la modalità dei diritti della sfera sociale nella sua estensione completa, ma assicurano la sostanza etica di questa sfera sociale. In questo modo, lo Stato deve riconoscere alla religione, da un lato, spazi di libertà. Questa dimensione è importante innanzitutto per il suo impegno nell’ambito sociale, nella scuola, nell’educazione, ma anche nella carità sociale. Da ciò si evince come lo Stato moderno ha monopolizzato le competenze originalmente sociali e radicate nella natura umana, ma così è diventato il welfare stato obeso. In questi ambiti si tratta, quindi, nel senso della sussidiarietà, di rivalorizzare nella loro competenza le comunità religiose (Chiese) con una nuova rilevanza politica. Secondo lo stesso argomento sussidiario, si deve sostenere la famiglia. Perché come la libertà, così anche la famiglia è in crisi nella situazione globalizzata; e il crescente numero di decisioni contro la famiglia e contro i figli pone la società davanti a sfide serie non solo dal punto di vista demografico, ma anche educativo e in vista della formazione dell’accennato “capitale umano”. Tante forme di comportamento, acquisibili solo nella famiglia, vengono a mancare nell’odierna crisi della libertà. Un maggiore rafforzamento dell’ambito famigliare contribuirebbe a far crescere più risorse per un confronto positivo con le dinamiche della globalizzazione. A tal fine si deve comunque considerare che la “politica famigliare” non è un automatismo ma è politica di ordinamento sociale, che quindi procede secondo il principio della libertà della persona e il principio di sussidiarietà. Si possono creare degli incentivi sociali, ma complessivamente deve

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crescere di nuovo l’accettazione della famiglia. Su questo punto è indispensabile la politica, per considerare il contributo altrettanto importante, a livello sociale, delle Chiese. Con questa declinazione dell’immagine cristiana dell’uomo nei suoi aspetti sociali tra individualità e dimensione sociale si evince quanto fortemente questa immagine dell’uomo plasma la realtà del nostro Stato liberal-democratico. Innanzitutto il Cristianesimo sottolinea che liberalismo ed umanesimo devono essere ricondotti ad una sintesi per assicurare a loro i contributi costruttivi al fondamento etico della società: «Che cos’è il liberalismo? Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico» (Röpke).

7. L’immagine cristiana dell’uomo nell’ordinamento economico e politico Röpke ha definito l’economia sociale di mercato e la democrazia in ugual modo come «molto difficili» perché «dobbiamo presupporre tanto. In questo modo si sviluppa un programma completo di una politica economica positiva». Come è stato evidenziato, la libertà non può essere realizzata secondo la dignità umana senza la fondamentale, sostanziale relazionalità e quindi senza le implicazioni fondamentali morali. Per questo i pensatori liberal-cristiani sono partiti sempre da un concetto di libertà forte, eticamente fondato, per elaborare le loro teorie economiche e politiche. Con questa comprensione etica della libertà si trovano d’accordo anche la maggior parte delle correnti del liberalismo. Questa, ad esempio, è la formulazione di Hayek: «è indubbio che nessuno dei grandi alfieri della libertà al di fuori della scuola razionalista non si sia stancato di sottolineare come la libertà, senza convinzioni morali profondamente radicate, non abbia mai avuto durata e che la coercizione possa essere minimizzata solo laddove si possa aspettare che gli individui in genere seguano certi principi volontariamente». Dalla sintesi tra l’immagine cristiana dell’uomo e la tradizione liberale è nato il concetto di economia sociale di mercato (Alfred Müller-Armack), come è stato elaborato durante la dittatura da economisti cristiani in esilio o comunque in clandestinità. Essi cercavano un “neoliberalismo”, ma non nel senso odierno di un liberalismo senza limiti (un liberalismo manchesteriano radicalizzato), ma come un’«inservitrice dell’umanità» come si espresse Alexander Rüstow nel 1938. Questa intuizione è stata decisiva già agli inizi del liberalismo (nel «paleoliberalismo») di Adam Smith e ha caratterizzato il suo pensiero economico: la sua «mano invisibile» non proclama, quindi, un egoismo amorale, ma conia un modello di

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legittimazione di un’economia più efficiente perché basata sulla libertà e l’interesse proprio del singolo. Questa teoria non deve, a sua volta, dare luogo ad una “metafisica del mercato” e in quanto tale essa è stata spesso fraintesa, bensì deve essere compresa sempre ricollegata al soggetto e le sue dimensioni etico-relazionali. Poiché Smith non voleva in nessun modo sostituire la morale del singolo, ma descrivere il funzionamento del mercato alla condizione di non intendere la “libertà” come “arbitrio” ma come una libertà personal-etica. In questo senso, come noto, egli fondò il meccanismo del mercato su una teoria dei sentimenti morali e soprattutto sulla «simpatia». Nacque la “questione sociale” nell’800 perché la base morale dell’empirismo era alquanto fragile e non seppe impedire l’acuirsi delle conflittualità sociali e il formarsi della questione operaia. Soltanto con l’introduzione dei diritti sociali e di una legislazione sociale si può considerare completato il quadro costituzionale dello Stato moderno. Questo quadro allude a una libertà concreta e morale. Il mercato funziona soltanto se si basa su individui liberi; ma questi lo sono solo fino a quando i meccanismi economici non gli sottraggono la base materiale della vita. Proprio questa dinamica fatale ha mosso, come sappiamo, la storia sociale del XIX secolo. Per questo, al concetto di libero mercato deve essere associata anche la componente sociale. Si tratta, in questo, dell’aiuto per quelli che non possono partecipare al mercato e che quindi risultano esclusi da quello spazio di possibilità che esso apre alla loro libertà: si pensi soprattutto a disoccupati, ammalati, handicappati, ma anche alle famiglie con bambini e ai vecchi. Secondo la famosa formula di Müller-Armack, si tratta di coniugare «il principio della libertà sul mercato con quello della perequazione sociale». Così viene creata la base sociale di cui ha bisogno l’economia di mercato per il proprio funzionamento. L’intervento sociale dello Stato non deve, a sua volta – per non contraddire ai principi della dignità della persona e della libertà – cancellare la libertà individuale che si esprime nella libertà degli attori del mercato. Lo Stato può agire socialmente solo riconoscendo la logica propria dei processi economici del mercato. Se esso non la rispetta, allora sorvola sulla libertà individuale che si esprime come libertà economica e diventa uno Stato socialista. È stato sempre l’interesse dei rappresentanti dell’economia sociale di mercato, di combinare le operazioni sociali con la libertà del mercato per trovare, in questo modo, una “terza via” tra un liberalismo socialmente insensibile e un socialismo insensibile per la libertà. Questa soluzione non deve essere fraintesa, però, come una sorta di “compromesso” tra i due estremi, ma come una originale “terza posizione” che risulta dai principi dell’immagine cristiana dell’uomo, evitando in questo modo gli estremi di un liberalismo manchesteriano e del socialismo. Questa posizione parte dal presupposto che è necessario l’agire sociale per assicurare il mercato come istituzione liberale nel rispetto della dignità umana. Infatti, i teoretici dell’economia sociale di mercato hanno sempre sottolineato che un mercato senza legami etico-sociali distrugge le proprie precondizioni perché, da un lato, tende alla formazione di monopoli e di cartelli e, dall’altro, alla concentrazione della produzione e della forza acquisto lasciando fuori un numero crescente di persone. Al contrario, il mercato ha

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bisogno di regole per conservarsi nella sua libertà: rifiutando le regole che limitano la libertà, i pensatori liberal-cristiani pretendono norme che rendono possibile, al contrario, la libertà medesima. Come visto, tali regole possono essere sviluppate solo a partire dalla dignità umana e dalla relazioni fondamental-personali dell’uomo. Queste sono rispecchiate i modo eticogiuridico nella cornice d’ordinamento dell’economia. La cornice d’ordinamento istituzionalizza il mercato libero secondo i principi personali ed etici degli individui liberi (“partecipanti al mercato”) e contiene quindi quelle determinazioni positive ed etiche della libertà di mercato che deve preservare questa libertà dalla sua errata interpretazione di “assenza di vicoli”. Non si tratta, in questa cornice d’ordinamento, di limitare la libertà ma di assicurare una comprensione giusta della stessa. Solo a questa condizione vale il principio di Erhard: «quanto più libera è l’economia, tanto più essa è sociale». Quindi solo un ordinamento incentrato sulla persona e sulla sua libertà morale può essere la base funzionante di un sistema liberale d’economia. Tra gli elementi di questa cornice ci sono il regolamento della concorrenza per evitare i cartelli e per garantire l’accesso libero ai mercati, l’esclusione del potere monopolistico dello Stato, un sistema di prezzi funzionante, la sostenibilità e la tutela dell’ambiente, la tutela del consumatore e, infine, la sicurezza sociale e la giustizia sociale – solo per elencare alcuni elementi cardini. Alla base di tutti questi elementi sta, come abbiamo visto nella formula di Müller-Armack, la combinazione dei due principi della libertà e dell’equilibrio sociale. Secondo questo duplice principio, ci vogliono interventi dello Stato ma questi devono essere conformi ai meccanismi dell’economia. Alexander Rüstow ha parlato, proprio in questo contesto, della «politica vitale», definendo con questo concetto la base antropologica del meccanismo del mercato. Questa deve condurre ad un «liberalismo costruttivo» ossia ad un «umanismo economico». Con ciò non si intende semplicemente un agire “secondo il sistema” che abbandonerebbe alla fine l’uomo ad un sistema astratto, in quanto, a partire dall’idea dell’economia sociale di mercato, questo sistema è già indirizzato al criterio della dignità umana. Riassumendo, definisce Röpke: «la misura dell’economia è l’uomo. La misura dell’uomo è il suo legame con Dio». Secondo i principi elaborati nel cristianesimo liberale, ciò non significa in nessun modo un assoggettamento del mercato a regole che sarebbero estranee ad esso e che produrrebbero perciò inefficienza; e nemmeno si tratta di “importare” l’etica nell’economia. Al contrario, si tratta di quella dimensione etica che il mercato stesso realizza se si basa costitutivamente sulle persone e le loro libertà. Le regole dell’economia sociale di mercato sono quindi i principi del mercato stesso nella sua dimensione non riduttiva personale ed etica. La libertà fondamentale dell’individuo si esprime nei due caratteristici tratti dell’economia sociale di mercato: concorrenza e libertà d’impresa. Dal modo in cui una teoria economica si esprime su questi due fattori si evince il suo orientamento economico ed etico. Dall’immagine cristiana dell’uomo deriva una valutazione etica che è la pretesa di un’economia degna dell’uomo: e solo attraverso le libertà che si esercitano attraverso la concorrenza e la libertà d’impresa l’uomo può svilupparsi ed evolversi come immagine di Dio. Da ciò si evince che il

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radicamento nell’assoluto trascendente non è un impedimento per la libertà dell’individuo, ma la rende possibile: nella fede l’uomo capisce che la sua vocazione è di essere “provvidenza” per sé e per gli altri. Concorrenza e libertà d’impresa sono a livello dei mezzi l’assicurazione della libertà, mentre il fine – il suo «vero bene umano» l’uomo lo realizza attraverso le sue relazionalità personalistiche cioè verso la trascendenza e all’interno della famiglia, attraverso i rapporti del “perdono” e del “dono”. La concorrenza e la libertà d’impresa, d’altro canto, spesso vengono definite negativamente come un “darwinismo sociale” secondo cui i più forti divorano i più deboli. Ma nel mercato non si tratta solo di ciò: chi intende distruggere l’altro, non negozia con lui – si tratta di due comportamenti essenzialmente diversi. Il mercato non ci rende “fratelli”, non ci avvicina automaticamente in modo umano, ma non ci rende neanche ladri, tutt’altro: chi compra non ruba. In questo senso, il mercato presuppone il riconoscimento fondamentale dell’altro come persona, che non significa ancora un agire morale o secondo la carità, ma che non è nemmeno indirizzato alla lesione dell’altro nei suoi diritti fondamentali e nelle sue libertà. Tale atteggiamento, però, spesso viene tradotto come indifferenza, come un mero modus convivendi. Infatti, tutto ciò che oltrepassa questi rapporti – relazioni di “dono” e di “perdono” – non vengono realizzati dal mercato, ma esigono la carità che è la dimensione della dignità individuale, non dei meccanismi a-personali del mercato. Senza questa dimensione, il mercato diventerebbe non proprio disumano, ma certamente più freddo, e mancherebbe di una dimensione che lo rende appunto una dimensione dell’agire umano. Ma di per sé, esso non la può produrre, ma la deve presupporre. Ecco perché il mercato presuppone la carità, senza poter produrla. L’atteggiamento dell’homo oeconomicus è quindi compatibile con un atteggiamento razionalcalcolante che non è di per sé a-morale in quanto garantisce quel minimo di eticità che può essere pretesa da tutti gli uomini «fin quando hanno soltanto la ragione», come dice Kant nei rispettivi luoghi. Ma questo significa anche che il meccanismo del mercato, se non viene limitato o impedito, avvia una dinamica di libertà, senza moralizzare, che tende alla realizzazione delle libertà fondamentali degli uomini. Per assicurare questa dinamica della libertà è il mercato stesso che richiede un regolamento politico. Così non è un livello superiore ad imporre al mercato questo regolamento, ma è esso stesso a richiederlo: e non soltanto chiede l’ordinamento, ma anche l’arbitrio, in quanto una moltitudine di attori liberi che agiscono (“giocano”) per propria volontà e libertà secondo determinate regole chiedono una garanzia per assicurare le regole (“arbitro”), senza che questa garanzia limiterebbe la loro libertà. Al contrario, solo così essa può essere realizzata, perché altrimenti il negozio (il “gioco”) non avverrebbe. Questo include anche doveri reciproci di garanzie e di solidarietà. E soprattutto si presuppone una benevolenza fondamentale nei confronti dell’altro ossia la fiducia che anche gli altri non solo rispettino le regole in linea di principio, ma che venga realizzato il riconoscimento dell’altro come partner. All’interno di queste condizioni il mercato può realizzare libertà, concorrenza e libertà d’impresa in un quadro personal-etico.

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Se si tiene presente questo quadro complessivo, allora si evince che libertà non significa assenza dello Stato, ma piuttosto la richiesta di una struttura d’ordinamento chiara e forte che può essere creata e garantita solo, appunto, dallo Stato. Ma questo si deve limitare a dare le strutture, per evitare di distruggere il mercato libero e la situazione di concorrenza – anzi questi due momenti devono essere protetti da lui. Lo Stato non deve interferire nei processi economici e quindi in modo incompatibile ad essi, ma solo intervenire sulle forme ossia in modo conforme ad esse; egli deve garantire i processi del mercato, la cui libertà e il rispetto di tutti i partecipanti al mercato devono essere garantiti. Ed è obbligato a questi compiti perché l’economia fa parte della vita pubblica degli uomini e della società intera. Come la società, nella sua libertà, è garante della libertà politica, così può diventare, se perde la sua libertà, facilmente garante di illiberalità politica. Amartya Sen ha formulato, proprio in questo senso, l’inversione della tesi della libertà di Sturzo o di Röpke, secondo i quali le libertà economica, politica e sociale sono interconnesse, ed ha formulato quindi il conseguente monito per la nostra situazione globalizzata: «la non libertà economica può diventare il focolaio della non liberalità sociale». È proprio nel segno della libertà, e nel senso di Sturzo, Röpke e Sen, che l’economia sociale di mercato intende la migliore realizzazione del mercato: i suoi provvedimenti non avvengono “nonostante” o “contro” il mercato, ma proprio per garantire il suo migliore funzionamento e la partecipazione universale di tutti gli uomini: anche questo significa la realizzazione della dignità umana come concretizzazione dello spazio delle sue possibilità. Proprio tale realizzazione della persona nella sua libertà attraverso il mercato regolato dalla giustizia sociale esige, come abbiamo appena analizzato, un sistema complesso di giustizia che deve comprendere più dimensioni: quella strettamente di base della “giustizia commutativa”, quella dell’ordinamento politico o la “giustizia sociale”, ma anche quel elemento della carità personale, come l’abbiamo enucleato dall’immagine cristiana dell’uomo, che deve sempre rendere complementari l’assetto giuridico-strutturale e la dimensione personale. È proprio questa posizione sistematica che, a ben vedere, viene espressa dall’attuale enciclica che riunisce queste tre dimensioni in due frasi di alto livello sistematico: «(1) La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. (2) Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, (3) e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono». Ricapitoliamo allora insieme a questo testo: il primo basilare livello di giustizia viene impostato con la giustizia commutativa del mercato (1). Istituzione tutt’altro che “antisociale”, il mercato ha il compito di realizzare quel momento più fondamentale e più astratto della giustizia che è il mero momento catallatico. Nella sua dimensione metodologica – e quindi certamente non “integrale” – della persona, l’homo oeconomicus non è un modello anti-personalistico solo perché concentra le relazioni nella dimensione dell’utile e del prezzo. Infatti, tale modello richiede, proprio per la sua realizzabilità sociale, la tutela della dignità umana almeno nelle sue dimensioni liberal-negative e quindi uno standard etico minimo. In altre parole, la base della

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giustizia è la libertà dell’individuo che richiede l’uguaglianza nei diritti fondamentali, ossia nel riconoscimento della propria dignità. Questa dimensione viene realizzata e ulteriormente integrata dal secondo livello della giustizia, ossia dalla dimensione della giustizia sociale (2). La “giustizia dell’ordinamento politico”, in chiave di etica del diritto, si realizza attraverso il sistema

costituzionale

dell’ordinamento

dei

diritti

politico-economico.

fondamentali

che

La

sociale,

giustizia

fungono in

come

questa

la

grammatica

chiave,

realizza

i

presupposti di uguaglianza (suum cuique) non in chiave materiale (uguale distribuzione dei beni materiali in una società) ma in termini di dignità e quindi di giustizia. Essa non si limita, però, ai valori liberal-negativi (Locke, Kant), ma integra anche i diritti fondamentali politici e sociali. Proprio in quest’ultima prospettiva, la giustizia sociale prevede anche una certa giustizia distributiva, come sottolinea la recente enciclica, che però si intende in chiave di diritto fondamentale (sussistenza sociale) e non di redistribuzione assistenzialistica. Proprio in quest’ultima dimensione è palese che la giustizia sociale riguarda l’ordinamento giuridicopolitico secondo solidarietà e sussidiarietà. Al terzo livello di questa sistematica della “giustizia” si aggiunge, infine, la chiave del “dono” (3). Causa di questa integrazione è l’analisi di una pericolosa corrosione proprio degli elementi fondamentali della stessa giustizia sociale nella nostra epoca tardo-moderna, ossia dei valori costitutivi della società quali solidarietà e sussidiarietà. Contro tale pericolo l’Enciclica delinea il rafforzamento morale della società civile attraverso i momenti di gratuità, dono e per-dono. Queste dimensioni non sono tecnicamente o economicamente gestibili, ma derivano dai rapporti di fraternità e di educazione come non li può garantire nessun sistema sociale che invece eticamente deve lasciare lo spazio a quelle istituzioni all’interno delle quali tali rapporti sono coltivate: la famiglia e la religione, come sono stati già evidenziati. Per la democrazia, e quindi l’ordinamento politico, possono valere – per quanto riguarda i principi etico-sociali – dei ragionamenti analoghi come li abbiamo svolto nei riguardi dell’economia. La libertà deve essere concretizzata attraverso regole. Qui non si tratta della libertà dell’homo oeconomicus, bensì dell’homo politicus. Sono da evitare strutture di asservimento e di sottomissione, che politicamente si esprimono come “dispotismo”. È interessante annotare come in campo politico non è la forma di Stato che può evitare il pericolo del dispotismo, ma soltanto l’ordinamento politico-giuridico della costituzione: questo significa che anche in politicis l’ordinamento è riconnesso alla persona e alla sua libertà e che non esiste nessun sistema perfettista che indipendentemente dagli individui potrebbe realizzare il “sistema perfetto”. In questo senso, né il “libero mercato” né la “democrazia” come pure forme sono in grado di assicurare la base etica della convivenza ma rimandano al criterio etico-giuridico della giustizia sociale. In questo senso erano Rosmini e Tocqueville ad analizzare il «dispotismo della maggioranza». Non basta, quindi, proclamare la democrazia come forma di Stato, se essa non è inserita in un ordinamento costituzionale che assicura i diritti fondamentali della persona. Solo in questo modo si può evitare che la volontà politica – anche se è stata formata in modo democratico – possa decidere tutto scavalcando anche i principi

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fondamentali di giustizia. Altrimenti non si può evitare che un governo, una volta eletto democraticamente, possa agire sulla base di questa legittimazione come gli pare e invadere persino i diritti fondamentali della persona. Röpke chiamava la democrazia che si basava sui diritti fondamentali di persona e libertà «democrazia liberale» e la definiva: «La democrazia liberale è una sorgente di libertà, proprio per questo suo essere “liberale”, cioè perché rispetta il diritto dell’individuo alla libertà». Solo una costituzione che si basa sulla dignità umana e quindi sui rispettivi diritti fondamentali può evitare il totalitarismo e ogni forma di dispotismo. Ma dove, a sua volta, è fondata la dignità umana? A questa domanda, come abbiamo già visto, il pensiero cristiano-politico risponde con il ragionamento che l’uomo nella sua dignità non viene costituito da parte dello Stato, della società civile e nemmeno dal suo contesto famigliare, ma questa dignità è primordiale a qualsiasi struttura sociale. L’individuo è questa dignità che non deriva dalla società o dalla natura, ma a quell’assoluto divino dal quale sa di aver la sua origine. Di questo egli non sempre è anche cosciente e ciò può persino essere negato dal singolo. Ma la sua dignità contiene sempre un’ultima indisponibilità, qualcosa di non organizzabile o dominabile dal “potere” politico. Questo è il senso autentico dell’autorità: nei confronti del livello politico e dell’organizzazione del potere politico, l’autorità ha un’origine che non si può precisamente localizzare e perciò non se ne può disporre. Per questo essa assegna all’uomo un’ultima inavvicinabilità, impenetrabilità, indisponibilità, per cui nessun potere politico può invadere questo nucleo della persona. È in questa istanza che sono fondati i suoi diritti fondamentali liberali quali la libertà di religione e di coscienza. Secondo questi diritti, lo Stato non può pretendere la competenza per rispondere alle domande dell’ultimo senso della libertà della persona. Infine, su questa base sono fondati tutti gli altri diritti di libertà. La democrazia come forma di Stato si può realizzare, quindi, solo laddove essa viene realizzata già in forma etico-personale ossia dove democrazia, prima di “forma dello Stato”, significa il rispetto fondamentale della dignità e della libertà di tutti. Se questa dignità viene calpestata, qualsiasi legittimazione democratica è vana. In questa dimensione si cristallizza come l’intera società si fonda su una giustizia strutturale che non è organizzabile, ma alla quale l’uomo ha accesso in un altro modo. Disse già Agostino che questa giustizia contraddistingue lo Stato da qualsiasi altro tipo di associazione di uomini, ossia, con le sue parole: « Abbandonata la giustizia, a che cosa si ridurrebbero i regni se non a grandi latrocini?». Lo Stato, proprio perché basa la sua sovranità – democraticamente – sugli individui, si rifà ad una misura di giustizia che lo trascende. Ma come si relaziona questo fondamento trascendente di giustizia al fatto che è esso a porre le leggi e a decidere che cos’è il “diritto”? Non è che la costituzione rimane troppo formale e negativa per poter limitare

concretamente ed

effettivamente l’arbitrio del legislatore? Come si può far sì che i nostri ordinamenti, la politica e l’amministrazione, e alla fine lo stesso potere giuridico, rimangano ricollegati ai parametri oggettivi della giustizia che sono riassunti nella dignità umana? L’approccio etico-personale dice che l’ordinamento costituzionale contiene un fondamento valoriale al quale si deve rifare

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lo Stato in tutti i tre poteri, e quindi anche in quello legislativo. Questo fondamento è transpositivo e ci rimanda a quella dignità umana che abbiamo già analizzato. È stato Gustav Radbruch che in un momento cruciale della nostra storia occidentale, quando lo stesso Occidente stava per riemergere dalla sua caduta tremenda nella barbarie più atroce, e per riprendere le strade della giustizia e della pace, a osservare che, di solito, senz’altro si devono generalmente seguire le leggi perché è sempre meglio un regolamento che l’assenza di qualsiasi struttura oggettiva che possa assicurare nella società un minimo di prevedibilità, di possibilità di pianificare e quindi di sicurezza sociale. In generale, le leggi valgono perché sono leggi, ossia fin quando non si nega a loro la presunzione di essere “giuste”. Non basta la semplice impressione o il sentimento soggettivo che si tratta di un travisamento di giustizia per dichiarare le leggi “ingiuste”. Ma è comunque pensabile che le leggi contraddicono in modo talmente eclatante il nostro senso di giustizia e i nostri parametri più naturali di giustizia che sono innati in ogni uomo, perché riconosce in qualsiasi altro uomo il criterio della dignità umana, base di ogni solidarietà. In questi casi, in cui viene lesa questa giustizia fondamentale, si tratta veramente di non-diritto, di una “corruzione” del diritto. Questa funzione, di ricollegare le leggi alla dignità umana e di misurarle quindi ad un criterio che non sta a disposizione del legislatore, oggi viene esercitata dalla Corte costituzionale. Essa ha istituzionalizzato, quindi, quel criterio di giustizia che oltrepassa ogni autorità legislativa. Nonostante ciò, però, la giustizia va sempre oltre e i suoi parametri di cui ciascun uomo dispone in quanto è dotato con la dignità, accompagnano gli uomini nell’affrontare i problemi fondamentali di giustizia, soprattutto nel XX secolo. In questo modo, il criterio di Radbruch fu adoperato sia durante i processi di Norimberga tra il 1945 e il 1949, e poi anche durante i processi tra il 1992 e il 2004 contro i soldati che hanno sparato sui fuggitivi al muro di Berlino. La politica, in dialogo con la fede, si trova a determinare la giustizia politica ossia le implicanze politiche della dignità umana. Questo contributo della fede appare indispensabile per la fondazione e la conservazione dell’ordinamento liberal-democratico. L’ordinamento politico non è un meccanismo che una volta posto in azione e impostate le regole funzionerebbe da sé. In questo senso, persino la democrazia dimostra di avere un punto aperto: ossia la non-garanzia, la indisponibilità della libertà e dignità umana. Ossia in altre parole: nella misura in cui gli ordinamenti costituzionali lasciano libertà e le assicurano, essi sono rimandati al fatto che gli individui realizzano queste libertà in modo responsabile e attivo e che quindi si impegnano e partecipano attivamente alla conservazione e continua realizzazione di queste libertà. Infatti, solo se libertà non significa arbitrio ma libertà morale essa include veramente quella dimensione che è indispensabile per la garanzia della stessa libertà. L’ordinamento liberal-politico non controlla l’uomo e non lo obbliga a prestare una confessione ideologica. Ma se egli fraintende la sua libertà e ne deduce che la politica non necessita della realizzazione attiva, dell’iniziativa propria, del coraggio civile, dell’impegno nelle cariche onorarie ossia infine della dedizione all’altro, allora essa ha già lasciato il proprio fondamento. Tutto ciò è riassunto nell’assioma famoso di Böckenförde: «Lo Stato liberale secolarizzato vive

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di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà». “Per amore della libertà”, allora, si deve affermare la costituzione dello Stato moderno. Questa costituzione non è un regolamento astratto – infatti una libertà astratta non si potrebbe né testimoniare né amare. Perciò il nostro ordinamento si basa su una libertà che sia libertà piena, morale, in altre parole la dignità umana. Infatti, il famoso paradosso di Böckenförde non esprime una libertà astratta o di presupposti misteriosi od oscuri, ma mira alla dimensione centrale della “giustizia sociale” fondata nella dignità umana. Ciò che si intende con questi “presupposti”, definiti dal paradosso di Böckenförde, deve essere spiegato bene, perché altrimenti esso può essere strumentalizzato come slogan pubblico che allo stesso momento dice tutto e niente e che quindi dà di nuovo il potere a chi dispone della competenza di interpretarlo. Infatti, quale ideologia non direbbe di se stessa di essere il presupposto decisivo dello Stato? Come unico criterio per determinarlo, la costituzione dello Stato e della società moderna ci indica la dignità umana. Ma in questo modo è denominato anche già la direzione: ogni forma politica che non considera la persona e la libertà dell’uomo, che non fa spazio alla solidarietà e che non riconosce le strutture sussidiarie nello Stato, sarebbe quindi da escludere. La dignità umana può consistere solo in quella caratteristica dell’uomo di essere “immagine di Dio” o “figlio di Dio”, caratteristica che trascende lo Stato. Per questa ragione, la politica si trova rimandata alla religione – non ad una confessione religiosa specifica, ma alla dimensione della trascendenza in quanto questa contrassegna l’uomo in quanto uomo – non secondo una confessione specifica. Con Johann Baptist Metz abbiamo definito la funzione politico-teoretica della religione come “interruzione”: e in questo senso, la religione determina il momento di “interruzione” della logica della politica nell’organizzazione e legittimazione del potere. Questa interruzione è dovuta all’uomo, perché essa è la stessa dimensione della sua dignità. Come abbiamo già visto, essa non è organizzabile in quanto giustizia, ma può solo essere trovata dagli occhi della carità. Se questa dimensione antropologica non significa l’introduzione di una religione di Stato, allora la ragione per la separazione tra Chiesa e Stato trova la sua ragione piuttosto nella prima che non in quest’ultimo: proprio la religione, per esercitare il suo contributo alla società di assicurarle il fondamento, deve essere libera. E in questo senso sono proprio le Chiese cristiane che si evidenziano quelle istituzioni religiose che riconoscono la differenziazione tra religione e Stato e sostengono l’ordinamento secolare e liberale dello Stato. Da ciò risulta, sulla base della separazione, più che una semplice “collaborazione” tra Chiesa e Stato perché, in virtù di questa sua caratteristica e costituzione, la Chiesa diventa costituzionalmente un’istituzione da riconoscere in quanto rispecchia ed integra la struttura sussidiaria dello Stato. Questo avviene, a livello politico, allora non per interesse della Chiesa, ma per interesse dello Stato che non può né garantire né creare le fondamenta della convivenza e si deve limitare a creare i presupposti istituzionali affinché queste risorse si possono sempre rinnovare e mantenere la loro forza sociale. In questo senso, lo Stato deve essere interessato a una Chiesa libera e fondarsi sulla libertà religiosa e di coscienza.

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Ma questa dignità non si esplicita soltanto nella Chiesa ma anche nella famiglia, come è stato già evidenziato. Perciò la politica si trova rimandata anche alla famiglia come unità elementare di organizzazione della società. Solo se protegge la famiglia, essa può assicurare la libertà. Così la famiglia diventa l’elemento fondamentale dell’organizzazione sussidiaria e libera dello Stato. La Dottrina sociale della Chiesa esprime questo argomento nel seguente modo: «Ogni modello sociale che intenda servire il bene dell’uomo non può prescindere dalla centralità e dalla responsabilità sociale della famiglia. La società e lo Stato, nelle loro relazioni con la famiglia, hanno invece l’obbligo di attenersi al principio di sussidiarietà». Così Chiesa e famiglia, secondo il principio di sussidiarietà, sono le due istituzioni fondamentali della realizzazione della libertà sociale.

8. Il bene comune Dopo il ragionamento sul fondamento della natura sociale dell’uomo nelle relazionalità essenziali del suo essere persona si pone la domanda che cosa sia da intendere, su questa base, per il concetto centrale di ogni ragionamento politico-etico ossia del “bene comune”. A partire dai principi fin ora sviluppati, esso non può segnalare una dimensione al di fuori del bene della persona, perché altrimenti allo Stato sarebbe assegnata una propria principalità etica in conflitto con l’approccio personalistico. In questo senso, il concetto di bene comune, per essere un concetto eticamente legittimato, può essere pensato solo a partire dall’individuo e la sua personalità. Ma proprio a partire dall’individuo, si arriva presto a determinati beni che possono essere realizzati solo in comunità. E questo non contraddice affatto al punto di partenza metodologico dall’individuo, elaborato dai pensatori liberali. Lo Stato non diventa in nessun modo l’agente individuale del bene comune, perché lo Stato non è in grado di agire intenzionalmente. Oppure, come sottolinea Sturzo, «lo Stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino». Quel che eticamente lo Stato deve fare è realizzare «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente»:secondo questa definizione di “bene comune” del Concilio Vaticano II, nella prospettiva etica della dignità della persona si evidenzia, allora, che la “giustizia sociale” e il “bene comune” tendono a coincidere, in quanto nella stessa dignità umana formalità giuridica e concretezza valoriale si identificano. E siccome nella dignità umana l’un aspetto passa nell’altro e vice versa, essa si evidenzia veramente come il criterio centrale dell’ordinamento politico-economico-sociale sia nel suo lato formale giuridico che in quello pratico-concreto politico. In questa sistematica, anche il bene comune risulta quindi ricollegato alla dignità umana. E la dimensione sociale, sulla quale esso si fonda, è quella della solidarietà. In questo senso, anche l’enciclica Sollicitudo rei socialis definisce la solidarietà come «la determinazione ferma e

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perseverante di impegnarsi per il bene comune». Ci sono beni che possono essere realizzati solo solidariamente. Il bene comune si determina così a partire dal bene della persona, dal suo fine. Non esiste la “società” allo stesso modo come esiste la “persona”. Esistono soltanto “persone” che sono buone o cattive. Per il livello sociale, il criterio è quello della “giustizia sociale”, della dignità umana, come abbiamo evidenziato. Questa dimensione si concilia con le analisi di Karl Popper. Ma attraverso la costituzione della società i criteri etici della persona diventano i cardini della società. In questa chiave, il bene comune come “fine prossimo” della politica, si misura al fine della persona che nella sua dignità antecedente alla società ha una propria struttura finalistica, per cui il fine della persona diventa il “fine remoto” della politica.

9. Sul concetto della “religione civile” A questo punto si pone la domanda se lo sguardo sulla società fin qui abbozzato, che dimostra cioè come l’immagine cristiana dell’uomo abbia generato nella modernità quella società e quelle istituzioni che troviamo oggi e il cui contenuto etico siamo chiamati a rilanciare nuovamente, sia ancora sostenibile in uno Stato secolare e quindi neutrale per quanto riguarda le Weltanschauungen e le vedute religiose. In effetti, il concetto presentato presuppone la presenza della religione cristiana, della Chiesa, che non può e non deve essere assicurata dallo Stato ma che per il suo valore etico sembra indispensabile per l’ordinamento politicoeconomico-sociale. Per evitare l’imbarazzo di questa costatazione, ma anche con il desiderio di dimostrare ai cittadini secolari quanti residui di religiosità siano comunque ancora presenti nella nostra società e nella politica senza che ce ne rendessimo conto, alcuni pensatori contemporanei hanno coniato il concetto di “religione civile”, a partire dall’americano Robert Bellah. Penso soprattutto a Hermann Lübbe e Marcello Pera. Essi intendono con questo termine quegli «orientamenti ammessi come basati su un consenso universale, e che sono integrati nella nostra cultura politica» (Lübbe). Secondo Pera è compito della religione civile, di «inserire i suoi valori in quella linea lunga che conduce dall’individuo alla famiglia, ai gruppi ed associazioni, alla comunità e alla società» e che può essere compresa come una «religione cristiana non-confessionale». Lübbe, a sua volta, non pensa nemmeno ad una “religione civile cristiana” ma intende questo concetto della “religione civile” in modo interreligioso, da includere tendenzialmente tutte le espressioni di religiosità. Questo progetto, ovviamente, sembra più facile fin quando ci si limita alle tre grandi religioni mondiali monoteiste che conoscono inoltre tutte e tre un libro sacro. Il concetto di religione civile consiste, quindi, in una orizzontalizzazione del religioso, che interpreta la religione basata sulla relazione esistenziale dell’uomo con la trascendenza sotto presupposti secolari, per cui dovrebbe diventare possibile mantenere la sua funzione etico-

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sociale ai fini della costituzione dell’ordinamento politico-sociale e di renderlo plausibile in un contesto secolare appunto. In questo modo si intende, da un lato, assicurare la necessaria funzione di “interruzione” della religione per la società anche in un contesto secolare, e di garantire allo Stato, dall’altro, quel surplus di motivazione che la religiosità sa suscitare all’interno del tessuto civile e di cui proprio oggi, nel contesto della crisi della libertà, lo Stato ha bisogno per stabilire l’ordinamento liberal-democratico. Storicamente, l’idea della religione civile si rifà a Rousseau che, per superare il dispotismo, concepisce la sintesi tra il “sistema teologico” e il “sistema politico”. Lübbe e Pera analizzano, a loro volta, quei momenti in cui la dimensione religiosa dell’uomo irrompe nella sfera politica e esprime il momento necessario di “interruzione”. Ma proprio in questo momento ci si pone, a maggior ragione, la domanda se il modello cristiano-liberale, sviluppato in questo saggio, sia pensabile anche in chiave secolare o se non abbia bisogno in modo costitutivo, al contrario, della religiosità cristiana vissuta, comunitaria, confessionale. Una proposta simile ha fatto di recente Jürgen Habermas. Egli parte dal presupposto che anche nella società scolare c’è bisogno della presenza di gruppi religiosi in quanto essi possiedono una “riserva di senso” senza la quale una società non potrebbe esistere. Tale “serbatoio” o fonte di senso si potrebbe riconoscere in quei termini dei quali la comunità politica non dispone (appunto come ad es. dei termini “peccato” e “perdono”). Ci vorrebbe quindi uno sforzo di “traduzione” dei contenuti religiosi in un linguaggio secolare, al quale l’Habermas recente non obbliga più esclusivamente i cristiani ma anche i non cristiani, quindi anche gli atei, dal momento che in questa valenza pubblico-“secolare” non sono interessati più solo i Cristiani (come Habermas aveva sostenuto fin ora) ma anche i non cristiani in quanto si tratta di recuperare le potenzialità di senso e di significato sociale delle realtà e dei termini specificamente religiosi. Anche Habermas, quindi, sostiene che la società non necessariamente ha bisogno della fede religiosa, cioè del rapporto vissuto-esistenziale all’assoluto divino, ma che questa dimensione può essere considerata anche in modo secolare come dimensione puramente antropologico-sociale. Nel 2004 era Joseph Ratzinger che in occasione del suo famoso dibattito con Habermas nel 2004 si inserì in questo dialogo: secondo l’attuale Papa, solo una religione vissuta che è confessionale e quindi articolata nella sua religiosità, può essere l’istanza ad impedire il «deragliamento della ragione». Questo rapporto, tra fede e ragione, viene pensato in modo reciproco: nell’epoca tardo-moderna del «dubbio all’affidabilità della ragione» si deve trovare una «necessaria correlatività di ragione e fede, ragione e religione», quindi un rapporto reciproco di completamento e di purificazione. Nel nostro contesto culturale, ci sarebbero il Cristianesimo e la ragione politica insieme a costituire questo rapporto che de facto è culturalmente limitato (all’ambito culturale del Cristianesimo). Entrambi, Cristianesimo e ragione politica, si sono sviluppati all’interno di quel rapporto di integrazione reciproca che anch’oggi deve essere sottolineato nella sua importanza per la politica. Poiché la motivazione necessaria di cui ha bisogno lo Stato liberale moderno, parte dalla religiosità vissuta e non da

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valori astratti, ai quali una religione, interpretata come religione civile, risulterebbe comunque ridotta. Proprio come religione vissuta, si potrebbe aggiungere, essa non solo impedisce alla ragione di prosciugarsi e di non produrre più potenziali di motivazione; essa non solo impedisce, inoltre, il «deragliamento» della ragione, ma in quanto tale essa si è già inserita e istituzionalizzata nell’ordinamento costituzionale. Nient’altro abbiamo rilevato nella storia della “scoperta” della dignità umana. Anche se, quindi, in questo ordinamento costituzionale essa ha trovato la sua dimensione “civile”, risulta ancora più evidente che una tale dimensione civile legittima non è un punto di arriva in questo processo storico, ma essa ha sempre bisogno della religiosità vissuta senza la quale la società perde quello “sguardo” necessario che tiene presente la necessità costitutiva di quella dimensione trascendente per tenere la dignità umana il principio costituzionale efficace. L’ordinamento liberal-democratico vive, quindi, dalla realtà della carità vissuta. Per questo non basta un concetto astratto di “religione civile” a vivificarla, ma solo dai gruppi religiosamente attivi possono nascere le motivazioni necessarie per la realizzazione dell’ordinamento politico-secolare.

10. Ordinamento liberale e teodicea Anche l’etica sociale conosce un’argomentazione “micro” e un’argomentazione “macro”. Dopo che l’argomentazione “micro” ha dimostrato la dimensione etica della dignità umana nella relazionalità ontologica della persona come principio costitutivo dell’ordinamento sociale nella modernità e quindi come realizzazione dell’immagine cristiana dell’uomo, e quindi era di carattere social-etico, l’argomentazione “macro” difende questo ordinamento secondo la “giustizia sociale” contro l’obbiezione fatta all’approccio liberal-cristiano che la libertà del sistema tollera troppa miseria e troppi mali sociali, e che proprio per questo non rende la dovuta giustizia all’uomo, ed è quindi piuttosto di carattere teologico. In altre parole, si critica di lasciare troppo spazio alla libertà dell’uomo, a scapito dell’uguaglianza e della moralità. La dignità umana come fondamento del nostro ordinamento politico-economico-sociale ha quindi bisogno di una “teodicea (sociale)”. In questa ottica è interessante costatare che i pensatori liberal-cristiani si sono sempre dovuti giustificare per aver concesso alla libertà (forse) troppo peso fino a sostenere una certa mentalità del laissez-faire. Proprio in questa chiave di giustificazione, essi hanno sviluppato un ragionamento chiamato “teodicea sociale” (Pietro Piovani). Essa si basa sulla legge del “minimo mezzo” che significa che socialmente devono essere ridotti gli interventi nelle strutture sociali garanti di libertà al minimo non solo possibile ma anche necessario, dal momento che altrimenti viene limitata esteriormente (e quindi in un modo eticamente non giustificato) la sfera di libertà dell’individuo. La legittimazione di questo approccio, è data – come abbiamo

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detto – dalla dignità umana e dalla libertà dell’individuo. Proprio in questi due elementi l’uomo è immagine di Dio. Solo se si riesce ad evidenziare che questo massimo valore sociale si realizza nell’ordinamento liberale della società, allora quest’ultimo può considerarsi eticamente legittimato. Mentre l’argomentazione “micro” è stata già esposta, ora il ragionamento “macro” cerca di evidenziare che in questo modo si realizza una legge altrettanto “grande” che non vale soltanto per l’ambito dell’ordinamento sociale ma per la creazione in generale: anche per la creazione vale che il Creatore interviene nel minimo modo possibile, e semmai, nel rispetto dell’istanza della libertà dell’individuo. Secondo il filosofo Antonio Rosmini, la società liberalmoderna deve cercare di realizzare la “giustizia sociale” (oggi diremmo: democrazia, economia sociale di mercato e Stato di diritto) in modo analogo, cioè applicando la legge del “minimo mezzo”, ossia deve essere continuamente perfezionata nella prospettiva della realizzazione di quest’ultimo. Infatti, come l’agire della provvidenza divina non si caratterizza per l’interferenza diretto nella libertà e responsabilità dell’uomo, ma come intervento di sostegno, rinforzo e perfezionamento della libertà umana, questa logica deve animare anche il livello sociale dell’organizzazione della società. In questo modo essa si giustifica non solo nei confronto della relazione trascendente dell’individuo, ma anche nelle leggi “macro” nelle quali lo stesso Creatore rispetta questa dignità umana. In questo quadro, allora, si completa e si perfeziona l’argomentazione liberal-cristiana. Si evidenzia in ultima analisi la “logica della libertà” che contrassegna lo stesso agire divino. Secondo il messaggio cristiano l’uomo è (nelle parole di Tommaso d’Aquino) «provvidenza a sé stesso e agli altri». Ne derivano delle leggi sociali che nei nostri tempi hanno trovato l’opportunità storica per essere applicate alla costruzione responsabile della società. Se l’agire umano è “provvidente”, in quanto partecipa all’agire divino, allora l’ordinamento sociale deve prendere il suo criterio da questa logica che è la logica della “libertà morale” ossia della “giustizia sociale”. È tuttavia un caratteristico della libertà umana di potersi rivolgere anche verso il male. Questa possibilità – la possibilità di scelta – deve essere data affinché si possa parlare di libertà. Il merito può essere concepito solo davanti all’orizzonte della possibilità del fallimento. Ciò esclude ogni determinismo storicistico o naturalistico. La provvidenza divina non può quindi essere pensata secondo uno di questi due meccanismi, in quanto contraddirebbe alla libertà umana creata da Dio stesso – la creazione divina, altrimenti, diventerebbe “perfettistico” o “avverso alla libertà”. Allo stesso modo, e in analogia a questo ragionamento, anche nella costruzione dell’ordinamento sociale non deve aver luogo un impedimento di questa libertà. La libertà dell’uomo è l’argomento ultimo e fondamentale contro lo Stato perfettista e paternalista. La libertà si realizza secondo l’ordine della “ragion sufficiente” (del “minimo mezzo”) e non deve essere sacrificata ad una “ragione prevalente”. La “ragione sufficiente” non determina, quindi, un principio logico o causale, ma il principio della libertà nella formazione personal-etica della società. Questa accezione della libertà è, a ben vedere, la via di mezzo tra un costruttivismo statalista e una libertà d’arbitrio che distrugge ugualmente la responsabilità

propria

dell’individuo.

La

libertà

si

concepisce,

allora,

in

servizio

alla

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realizzazione della dignità umana, di essere “provvidenza per sé e per gli altri”. In questa dinamica sono comprese e integrate la ragione economica e quella politica. Affinché questa legge possa diventare legge della libertà, deve evitare ogni moralismo ossia la “tirannia dei valori”, ma non deve ugualmente portare né ad una relativizzazione completa o ad un’inversione dei valori, come Bernard de Mandeville aveva sostenuto, secondo il quale nell’ambito economico le virtù vengono sostituite dai vizi, né ad un indifferentismo hayekiano nei confronti dei valori etici a livello politico. In entrambe le concezioni si cerca invano il criterio della libertà morale che include il giusto. In questo senso, lo Stato e l’ordinamento economico devono rendere più spazio alla libertà non individualistica ma personalistica. Non devono cadere in uno dei due estremi o di un’indifferenza morale nei confronti delle virtù, o dello Stato etico. Questa avvertenza viene espressa da Rosmini nella legge politica secondo la quale si deve «far sì che ci sia nel mondo il meno bisogno possibile di virtù» il chè significa che gli ordinamenti funzionano tanto meglio a livello sociale, quanto meno devono esigere a livello morale delle virtù o delle pretese sociali. Al contrario, il sistema politico-economico premoderno pretendeva unicamente dai singoli il mantenimento dei cataloghi delle virtù. Ma il problema non è la realizzazione delle virtù individuali che ancora oggi, come abbiamo visto, costituisce un aspetto importantissimo dell’ordinamento pubblico (carità), ma la struttura di motivazione che nel sistema pre-moderno era indirizzata contro il valore della libertà come conseguenza della dignità umana, mentre nell’età moderna è prevalentemente indirizzata contro lo “Stato etico”. Secondo Kant «solo da una buona organizzazione dello Stato (e di questo gli uomini sono capaci) dipende che le forze umane vengano reciprocamente combinate», con altre parole, sono le leggi che garantiscono il funzionamento dello Stato con l’impegno del “minimo mezzo”. Ciò non significa che in epoca moderna sia l’ordinamento politico-economico-sociale a realizzare il potenziale morale e quindi ad esaurire le pretese morali al singolo, né che il singolo, per avere successo sociale, dovrebbe seguire i vizi. Anche oggi c’è bisogno delle virtù – forse, nella nostra crisi della libertà, più forte che mai. Infatti, è interessante vedere come l’ordinamento politico-economico-sociale non segue né Mandeville né Hayek ma le intuizioni dell’immagine cristiana dell’uomo come essa ha coniato, in ultima analisi, la modernità. Contro Hayek, si può riassumere che l’ordinamento pubblico realizza la giustizia e perciò non è solo l’individuo a realizzare la “carità” ma tale immagine ha informato anche l’ordinamento politico attraverso il concetto di dignità umana. Ma contro Mandeville, si deve dire che la realizzazione della giustizia non è tutta rimandabile all’ordinamento, per cui non dipenderebbe più dall’individuo se l’ordinamento pubblico funziona o meno e quest’individuo potrebbe – o forse dovrebbe – realizzare i vizi. In questo senso, i pensatori liberal-cristiani sottolineano che anche se da un lato l’ordinamento realizza la “carità” in chiave di “giustizia sociale”, rimane comunque sempre all’individuo il compito etico di realizzarla come virtù. In questo modo non viene propagato uno Stato “minimo” o “guardiano notturno”, ma tale impostazione della “giustizia sociale” esige uno Stato forte per sostenere efficacemente l’ordinamento pubblico. E,

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infine, siccome esso si realizza attraverso il diritto, e quindi nel rispetto della dignità e libertà della persona, questo “Stato forte” non diventa uno “Stato etico” di una “tirannia dei valori”. Una tale concezione di Stato lo vede senz’altro moralmente impegnato – nel senso che esso ha il compito di «diminuire agli uomini le tentazioni contro l’onesto ed il giusto». Questa funzione “negativa” o meglio “indiretta” – funzione autenticamente liberal-cristiana nel senso che si tratta d’“intervento” (conforme alla libertà morale) e non d’“interferenza” (incompatibile con la libertà morale) – dello Stato si trova d’accordo con il paradosso di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale lo Stato moderno secolarizzato non può produrre positivamente le basi morali e culturali sulle quali egli però si fonda. Questo non lo condanna, quindi, alla passività ma all’agire secondo il “minimo mezzo” ossia in modo indiretto, realizzando l’assetto giuridico-formale entro il quale le “tentazioni contro l’onesto ed il giusto” siano ridotte e in cui siano posti i giusti incentivi per l’agire delle persone libere. Lo Stato deve rendere possibile, a livello sociale, che la “libertà morale” si realizzi, ma non la può imporre. Solo in tale modo, la “libertà morale” diventa il presupposto dello Stato. In questo modo, l’immagine cristiana dell’uomo esprime dei principi per la realizzazione di un ordinamento politico-economico-sociale basato sulla libertà, che sa utilizzare le potenzialità della libertà degli individui e che non li delimita o nega per ragioni di paura. In questo senso, la “neutralità” dello Stato non significa indifferenza, perché la legge del “minimo mezzo” realizza la logica della “libertà personalistica”. Questa diventa la base della politica in quanto determina la costituzione secondo la “giustizia sociale”. In questo modo l’agire politico viene delimitato e si evita la caduta nel dispotismo del “perfettismo”. Costituzionalismo e legge del “minimo mezzo” sono quindi relazionati l’uno all’altra. In questa chiave, abbiamo visto come le virtù cristiane esplicano il loro valore non solo nella direzione verso l’al di là ma anche come virtù politiche e del cittadino.

11. Il Cristianesimo come motore anche nell’epoca della globalizzazione Wilhelm Röpke ha proposto di rinunciare «per un anno» ai luoghi comuni e alle scorciatoie ideologiche per ripensare in modo fresco e con chiarezza e semplicità i termini politici fondamentali. Dopo l’unificazione della Germania e dell’Europa pareva giunta quest’ora. Tanti hanno messo da parte le vecchie denominazioni e delimitazioni, spesso senza riflettere sui termini e senza ripensare il loro contenuto etico, contrariamente all’ammonito, citato all’inizio, di Giovanni Paolo II nella Centesimus annus. Nel frattempo, infatti, siamo giunti a nuove sfide per affrontare le quali ci manca, però, la riflessione sul fondamento etico dei nostri ordinamenti. Così ci è venuta a mancare la coscienza del nucleo personal-etico che dovrebbe essere il centro dell’intero dibattito.

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La comprensione cristiana della dignità umana segnala religione e famiglia come i presupposti di cui vive lo Stato. Dato che queste due realtà, nelle quali si esprime primordialmente e originalmente la libertà morale umana, sono determinate tramite la persona, lo Stato non può istituzionalmente interferirvi. Ma proprio questo, oggi, sembra il suo compito più difficile. In ciò si vede che siamo molto lontani da quello “Stato forte”, la cui forza non sta nel potere ma nell’autorità etico-giuridica della dignità umana, per realizzarla nell’ordinamento politicoeconomico-sociale. Solo con un tale ripensamento, come delineato da questo saggio, si possono affrontare le sfide della globalizzazione che proprio in questi due ambiti – Chiesa e famiglia – causa una nuova e inaspettata situazione, che irrita, produce insicurezza e debolezza sociale. La pluralizzazione religiosa della società e l’indebolimento della famiglia sono in questo senso i due fenomeni della globalizzazione che ci pongono davanti alle sfide del nuovo secolo. Una politica cristianamente orientata non è appunto tradizionalistica in queste domande, perché non si basa su modelli storici ma su principi etici. In questo senso bisogna ragionare, per una politica ispirata al Cristianesimo come motore della modernità, sulla base dei criteri appena delineati, riguardo alle sfide esposte. Al Cristiano spetta quindi il “lavoro archeologico” di ricavare gli elementi cristiani nelle nostre strutture e nelle nostre società, per rendere di nuovo presenti alla società i fondamenti del nostro ordinamento politico-liberale. Tali sono i principi giuridici della dignità umana, della solidarietà e della sussidiarietà, che non si garantiscono negando il legame trascendente della persona, ma solo affermandolo. Il Cristianesimo, in questo compito, ha un ruolo pubblico importante ed unico – e questo significa che esso ha una responsabilità irriducibile nei riguardi della società. Così fatta è la sua rilevanza che ho cercato di delineare dalla prospettiva dell’Etica sociale cristiana, senza entrare nelle domande specifiche più concrete che dovranno essere affrontate nelle prossime due giornate del simposio. Lo stesso Böckenförde, prima citato con il suo famoso assioma, chiude il suo saggio con una domanda che si rifà immediatamente all’assioma citato, ossia «se anche per lo Stato mondano secolarizzato, in ultima analisi, non sia necessario vivere degli impulsi e delle forze vincolanti che la fede religiosa trasmette ai suoi cittadini. Certo non nel senso che lo si riconfiguri di nuovo come Stato “cristiano”, ma invece nel senso che i cristiani comprendano questo Stato, nella sua laicità, non più come qualcosa di estraneo e nemico della loro fede, bensì come l’opportunità della libertà, che è anche loro compito preservare e realizzare». La rilevanza pubblica del Cristianesimo sta nelle strutture dello Stato liberale secolarizzato, nella misura in cui esso si basa sulla dignità umana, sulla libertà religiosa (negativa e positiva), e sui principi di solidarietà e sussidiarietà. Come religione nella società civile, non identificata con lo Stato, esso alimenta e rinforza i presupposti necessari per questa struttura stessa. Che il Cristianesimo svolga questo suo contributo solo alle condizioni liberali dello Stato, cioè sulla base della separazione tra Stato e Chiesa, in quanto altrimenti viene confuso con i meccanismi politici che lo privano della sua forza religiosa, di questo i pensatori liberal-cristiani erano profondamente convinti.

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Nell’epoca della globalizzazione non si scioglie, non svanisce lo Stato, come spesso viene affermato. Ma egli attraverso un cambiamento, diventa sussidiario. La società e quindi anche la religione e la famiglia avanzano e si riconoscono in una nuova situazione di responsabilità. Ma possono assolvere questo nuovo compito e questa nuova sfida di responsabilità soltanto se sono preparate. Nel passato la religione e le famiglie sono state disabituate ad attivarsi nei loro membri e a prendere attivamente responsabilità. In questo senso, il “segno dei tempi” della globalizzazione è di porre una maggiore attenzione agli elementi etici finora messi da parte, responsabilità, competizione, rischio, e di intenderli come sfida positiva all’immagine cristiana dell’uomo. Questi concetti non devono desolidarizzare la società ma vogliono, sulla base di una rinnovata solidarietà, essere spie di un ordinamento rinnovato nel segno della libertà. A tal fine, deve cambiare l’idea di uno Stato che finora ha lavorato secondo uno schema contrapposto a queste idee e che ha sottovalutato gli individui. Ossia in altre parole: l’uomo di oggi, dopo l’epoca dell’esperienza di uno Stato paternalistico, si trova nelle condizioni di una maggiore libertà? Come può nascere un individuo stabile come condizione che lo Stato non può garantire? A questi compiti l’immagine cristiana dell’uomo può contribuire in modo positivo, ma esso indica pure che l’uomo, senza rendersi cosciente del carattere fondamentale delle dimensioni di religione e famiglia, del “perdono” e del “dono”, non ci riuscirà. Per preparare questo compito ci vuole senz’altro un’analisi dettagliata e ragionata. Ma oggi si diffonde uno scetticismo contro la ragione e quindi anche contro la ragione politica. Proprio l’enciclica Fides et ratio del 1998 evidenzia una «radicale sfiducia nella ragione» ed incoraggia a fare uso della ragione. E secondo Benedetto XVI nel mondo cristiano «l’illuminismo è diventato religione e non più il suo avversario». In questo senso, proprio i Cristiani oggi devono caratterizzarsi per un’analisi basata sulla ragione e per lo sviluppo di concetti politici di respiro ampio verso il futuro. Questi concetti si basano sull’immagine cristiana dell’uomo. Con la rilevanza pubblica di questo concetto i Cristiani contribuiscono a superare oggi la crisi della libertà, in cui consiste la radice dei problemi politici ed economici. In questo senso si avvera ciò che diceva Röpke: «la crisi della nostra società è la crisi del liberalismo». E inoltre affermò: «Si può osare l’affermazione che un bon chrétien est un libéral qui s’ignore».

L’autore

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Prof. Dr. Markus Krienke Markus Krienke è nato nel 1978 a Grünstadt (Germania). Ha studiato filosofia e teologia all’Università di Monaco e alla Pontificia Università Gregoriana a Roma. In seguito ha lavorato come assistente scientifico

presso l’Università di Monaco. Dal 2007 fino al 2008 è stato

Professore a contratto alla Pontificia Università Lateranense. Dal 1 febbraio 2008 è Professore associato per Etica sociale cristiana e Dottrina sociale della Chiesa presso la Facoltà di Teologia di Lugano e Direttore della “Cattedra Antonio Rosmini” presso l’Istituto di Filosofia applicata della medesima facoltà.

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