Capitolo Primo
Vi siete mai chiesti quale sia la ricorrenza migliore dell’anno? Io un sacco di volte, ma senza riuscire a trovare una risposta adeguata. Il giorno del proprio compleanno è l’unico momento in cui nessuno può dirti di no, sia che tu richieda una torta a tre piani farcita di crema e cioccolato, sia che tu pretenda di avere tutte le candeline (dalla prima all’ultima) sul famoso dolce megagalattico. Ma dietro questa condiscendenza ho trovato nascosta una verità sconvolgente, una di quelle che ha rivoluzionato in modo irreparabile la mia idea sui genetliaci: gli amici, i parenti, che quel giorno sono lì riuniti a festeggiarti te le danno tutte vinte per addolcire la pillola di un’amara verità ovvero che, volente o nolente, quel giorno hai un anno in più e questo significa avvicinarsi al decadimento, alla rovina, ma che dico, allo sfacelo! Ok, tutte queste riflessioni sono bastate a farmi depennare dal vertice della mia classifica personale il compleanno. Anche la Pasqua, fino a poco tempo fa, richiamava in me soavi pensieri, più dolci che soavi a dir la verità. Uova di cioccolato, colombe soffici e profumate, deliziosi picnic in campagna. Ah, che goduria: mangiare tutte quelle delizie senza il minimo senso di colpa. Se è festa è festa, e mangiare è quasi un dovere morale, o no? Dall’anno scorso però sono stata costretta a cambiare idea, visto che sono finita all’ospedale dopo aver fatto indigestione di cioccolata. E che dire del Natale? Anche lì le cose buone non si sprecano, ma se la vostra coinquilina (e padrona di casa) è una modella che a S. Stefano vi trascina alle sei del mattino fuori di casa per smaltire con la corsa le calorie acquisite il giorno precedente, capirete che il mio entusiasmo se ne va sottoterra (peraltro, a causa del fiatone, non sono riuscita a rispondere alle domande di un giornalista veramente carino che mi aveva fermato per strada con tanto di telecamera puntata sulla mia faccia stremata: non ho acceso la tv per almeno tre giorni per timore di rivedermi). Va bene, scommetto mi direte ora, sei un’incontentabile, in pratica non ti va bene nulla! In effetti avete ragione, sono una perenne insoddisfatta, ma sfido voi a non esserlo se:
1) vivete con una ragazza il cui più grave peccato di gola sono i germogli di soia; 2) fate come mestiere l’addetta alla vestizione in un’agenzia di pompe funebri dove il vostro capo vi tratta come una pezza da piedi (i clienti però non si lamentano mai, se può consolarvi); 3) avete un fidanzato che vi fa le corna ma non avete il coraggio di lasciarlo per non rischiare di passare tutti i weekend tappate in casa; 4) la vostra migliore amica si è trasferita all’estero per lavorare come ricercatrice; 5) vostro padre (l’unico componente vivo della famiglia) è scappato a Santo Domingo con la sua badante (di trent’anni più giovane) alla quale ha giurato amore eterno.
Diciamo che non è che me la passi proprio bene, o mi sbaglio? Alla fine non è che chieda molto dalla vita, sarei soddisfatta solamente con qualche cosetta in più, come:
1) uno splendido attico con vasca idromassaggio e cromoterapia; 2) un principe azzurro ultrasexy, di buon carattere, dotato di uno spiccato senso dell’umorismo e intelligente (ma un solo premio Nobel può bastare, eh, mica pretendo troppo!); 3) un sacco di soldi per fare la mantenuta a vita e mandare a quel paese il mio capo, il mio moroso e la mia padrona di casa una volta per tutte.
Mi basterebbe soddisfare questi tre minuscoli, insignificanti, banali desideri per ritenermi una persona realizzata e in pace con me stessa e con il mondo. Non chiederei più nulla dalla vita, lo giuro (beh, in verità ammetterei qualche piccolo strappo alla regola, ma solo nei casi di REALE bisogno). Comunque non è detto che tutto ciò non possa diventare realtà. Per quest’ultimo Natale infatti ho deciso di farmi un regalo, come mi è stato suggerito dall’ultimo libro che ho letto, dal titolo illuminante “Ama te stessa. 1001 modi per volersi bene”. Così, dopo aver passato in rassegna un sacco di opportunità (e aver valutato che, per la
salute delle mie finanze, era meglio che non salissi sopra i cinque euro) ho deciso di comprarmi un biglietto della lotteria Italia. Quello del biglietto della lotteria, in realtà, è un rito che ha accompagnato buona parte della mia infanzia e adolescenza. Mia madre era sempre solita acquistarne uno ogni anno, convinta che prima o poi un’ipotetica vittoria avrebbe rivoluzionato la sua vita e, di conseguenza, quella mia e di mio padre. All’età di otto anni mi aveva promesso che, con la super vincita, mi avrebbe regalato quell’enorme e costosa casa delle bambole che ammiravo estasiata ogni giorno nella vetrina di un negozio, durante il tragitto per andare a scuola. Già pregustavo il momento in cui avrei potuto giocarci e non vi dico la delusione quando capii che quella casetta non avrebbe mai varcato la soglia della mia camera. Rimembro poi di quando, a quindici anni, mi era stato promesso un motorino ultimo modello, con cui alla fine non ho mai avuto il piacere di scorazzare in giro per la città. E non vi dico di quella volta che, a diciotto anni, mi era stato garantito un appartamentino tutto mio in centro a Milano (la mia città), già arredato con mobili di pregiata fattura. In quel periodo però, memore delle esperienze precedenti, avevo mantenuto i piedi per terra e avevo fatto più in fretta a digerire la delusione. Dalla morte della mamma questo rito è venuto meno, ma quest’anno ho deciso di riproporlo. Non so il motivo, ma ho la vaga sensazione che qualcosa stia per cambiare. Forse sarà perché, prima di comprarlo, sono passata in galleria Vittorio Emanuele per schiacciare le palle del toro a occhi chiusi (prima l’ho fatto per tre volte, il numero perfetto, poi sono ritornata indietro e ne ho fatti altri sei, così sono arrivata a nove, che è ancora meglio); forse sarà perché, proprio stamattina che è il sei gennaio, ho trovato prima una coccinella sulla finestra della mia camera e poi un quadrifoglio nella minuscola aiuola di fronte a casa, proprio quella piena di erbacce; forse sarà perché qualche cosa dovrà pur filare liscia nella mia misera esistenza; forse sarà perché ho un piccolo presentimento. Un presentimento positivo, un non so che di gloria futura. Sì, ora ne sono proprio convinta: stasera sbancherò! Me lo sento nelle ossa, nei muscoli, perché no, pure nei tendini, tanto non costa nulla esagerare! Proprio per questo, nonostante siano solo le sette di sera, mi trovo già davanti alla tv per non perdermi la trasmissione dedicata all’estrazione delle vincite. Maia, la mia coinquilina, non tornerà a casa prima delle due di notte a causa di un party esclusivo, il mio caro fidanzato mi ha scaricato all’ultimo minuto dicendo di dover andare a casa di un amico (di un amico? Sarà di certo a divertirsi con quella stupida oca che gli imbratta sempre tutto il colletto della camicia con un orribile rossetto arancione),
così io me ne sto tranquilla in casa con la mia gustosissima cena acquistata dal Mc Donald qui a fianco. Ho deciso di consolarmi per il mio rientro al lavoro di domani con un hamburger doppio, una mega razione di patatine fritte e due bicchieroni di coca-cola. Dovrò pur addolcire la pillola in qualche modo, no? E poi, data l’assenza di Maia, posso godermi il tutto con molta calma. Mi viene da sorridere al pensiero che, se scoprisse che la sua casa immacolata è stata contaminata dalla presenza di cibo spazzatura, come minimo farebbe chiamare quelli dei Nas. Mi devo ricordare però di buttare tutti i contenitori nel bidone dei rifiuti giù all’angolo e di spruzzare quello spray antiodore per cancellare ogni residuo di questo celestiale profumo. Certo che questa cenetta ci voleva proprio, alla faccia delle calorie, dei grassi e delle cosce a buccia d’arancia. Ho la pancia così piena che, invece di guardare la tv, mi sta proprio venendo voglia di dormire. Anzi, stando così le cose, probabilmente sarebbe meglio prima schiacciare un bel pisolino e poi, una volta riposata, godermi la trasmissione. L’ho sempre detto io che non sono come i comuni mortali: a me troppa coca-cola fa venire sonno! Pazienza, tanto mancano ancora due ore alle nove…
Tutto a un tratto mi sveglio di soprassalto: oddio, che paura! Per un attimo ho creduto che quello che stavo sognando fosse realtà. Ecco cosa succede a mangiare troppo pesante. Mi guardo intorno per rassicurarmi: ebbene sì, non sono in ufficio e nessun morto è uscito dalla bara armato di fucile. E questo è già un passo avanti. Lancio un’occhiata all’orologio e mi accorgo che sono già le cinque, le cinque del mattino! Per fortuna che si trattava solo di un pisolino. Mi alzo e vado a vedere se Maia è tornata: la trovo a letto, avvolta in una raffinata camicia da notte, che sta dormendo della grossa. Per fortuna che, prima di addormentarmi, ho fatto in tempo perlomeno a nascondere i resti della mia cena sotto al divano. Speriamo di averla fatta franca. Ho la bocca secca e mi accorgo che sto morendo di sete: che cosa mi potrà mai offrire il nostro misero frigorifero? Corro in cucina e mi rendo conto che la bevanda più allettante è del succo di mela altamente dietetico e senza zuccheri aggiunti. Ne bevo rassegnata un bel bicchierone e, mentre penso di sbrigarmi ad andare a letto, dato che fra due ore suonerà la mia sveglia, mi ricordo di un particolare molto importante: il biglietto della lotteria! Mannaggia a me e al mio sonno: non posso mica aspettare fino a domani per sapere se sono diventata milionaria! Decido così di sintonizzarmi sul televideo per cercare la pagina indicante il codice vincente. Eccolo lì: AZ 143578. Cavolo, se non ricordo male anche il mio biglietto comincia con l’AZ. Nello stesso tempo provo a ricordare dove l’ho messo: ah
sì, nel libro “Cupcake per tutti i gusti”, luogo più sicuro di una banca svizzera. Corro verso la libreria, sfilo il biglietto e, sempre di corsa, mi avvicino allo schermo della tv. AZ 143578 sono i numeri che mi rimanda lo schermo della tv. AZ 143578 sono quelli scritti sul mio biglietto. Oddio! Ma sono proprio sicura? Controllo e ricontrollo il tutto per almeno un centinaio di volte e poi, con le gambe tremanti e il cuore che batte come un tamburo mi lascio cadere sul divano. E se stessi ancora sognando?
Le lancette dell’orologio indicano quasi le sei, ma sono ancora seduta, con gli occhi sbarrati e sotto shock. Molte voci risuonano nella mia mente: “Sei diventata ricca” dice la prima; “La tua orribile vita sta per cambiare” rincara la dose quell’altra; “Anche per te è arrivato il momento del riscatto, come nei romanzi e nei film, dopo anni di soprusi e insoddisfazioni!”, conclude perentoria la terza. Risultato: è da quasi un’ora che me ne sto imbambolata sul divano con il biglietto vincente in mano. Per far tornare il mio battito cardiaco a un livello normale ho cercato di inspirare ed espirare profondamente, così come ho visto fare in un video di youtube intitolato “Come gestire lo stress”. Anche le buone notizie possono essere destabilizzanti come dodici ore di lavoro consecutive. Una volta raggiunta un minimo di lucidità mentale ho provato a pizzicarmi il braccio, per cercare di capire se fossi veramente sveglia, ma il dolore che ho provato mi ha fatto desistere dal ripeterlo ancora. E poi, ecco l’ennesima constatazione: la migliore ricorrenza dell’anno è l’epifania! Quella che tutti disprezzano perché il giorno seguente si torna a lavorare, quella amata solo dai bimbi che se ne approfittano per farsi una bella scorpacciata di dolci (anch’io lo faccio in realtà, anche se di nascosto). Comunque, d’ora in poi, questa data per me significherà una cosa sola: soldi, monete, pecunia!!! Presa da un irrefrenabile moto di gioia ed entusiasmo mi alzo di scatto e improvviso qualche passo di danza per il salotto, abbracciando un cuscino come se fosse il mio partner. Con la coda dell’occhio noto l’ora: le sei e mezza. Ma sono matta? Fra tre quarti d’ora il mio capo mi aspetta in ufficio e, se non dovessi arrivare puntuale, una bella ramanzina non me la toglierebbe nessuno! Faccio per dirigermi a tutta birra verso la mia camera quando inchiodo all’improvviso, evitando per un pelo di sbattere la faccia contro la porta: ma che m’importa del lavoro? Sono o non sono ricca? Chi ha mai visto un milionario
lavorare? E in una agenzia di pompe funebri per giunta! Lo poteva fare quella povera ragazza squattrinata, quella sola al mondo, che aveva bisogno di un’occupazione qualunque se non voleva ritrovarsi in mezzo a una strada a dover chiedere l’elemosina. Quella ragazza ora non esiste più!
Capitolo secondo
Alla fine al lavoro ci vado lo stesso, ma non per riprendere le mie consuete mansioni lavorative, bensì per licenziarmi una volta per tutte e dirgliene finalmente quattro a quel simpaticone del mio datore di lavoro. Da quando ho iniziato a lavorare per lui ha sempre preteso che mi vestissi e mi truccassi di nero, in linea con l’atmosfera del posto, un minuscolo ufficio dall’altisonante nome “L’eterno riposo”, del cui epiteto non fa che vantarsi con i clienti sghignazzando. Oggi invece decido di presentarmi in minigonna fucsia, maglione a collo alto giallo e un cappotto color rosso fuoco. «Signorina Jennifer, mi pare sia un po’ presto per il carnevale, non crede?» mi apostrofa sarcastico non appena mi nota, per poi aggiungere «le concedo mezz’ora
per tornare indietro a cambiarsi e le decurterò il tempo speso dallo stipendio, ovviamente». Al che scoppio a ridere sguaiatamente e gli rispondo: «Ma se è da tre mesi che non mi paga, perché dovrei preoccuparmene?». Per un attimo mi guarda stupito: non è abituato a vedermi così aggressiva, di solito sono sempre stata taciturna e remissiva con lui, solo per paura di perdere la mia misera occupazione, ovviamente. Compiaciuta dell’atmosfera creatasi, continuo: «Sono anni che sopporto i suoi soprusi e i suoi sbalzi d’umore. Quando ho cominciato a lavorare per lei pensavo di dover fare la segretaria, come da contratto, e non l’addetta alla vestizione! Io sono una persona sensibile, sa, e per colpa sua non posso più guardare un tailleur nero senza sentire un brivido correre lungo la schiena. E poi sono stufa di dover lavorare anche dodici ore al giorno senza ottenere il minimo riconoscimento, stufa di dover provvedere anche alla pulitura del negozio perché è talmente spilorcio da non voler assumere una donna delle pulizie, stufa di dover correre ogni cinque minuti al bar per prenderle tutto quello che vuole e soddisfare i suoi capricci, stufa di sentirmi insultare quando è nevrotico perché ha litigato con la moglie ma soprattutto sono STUFA di dover subire le sue avances quando è di buon umore, ma non si rende conto che ha più di sessant’anni?». E qui mi fermo, dato che sto andando in debito d’ossigeno. Nel frattempo noto che la sua faccia si è fatta di mille colori e, dopo pochi istanti, odo qualcuno dietro di me schiarirsi la voce. Mi giro, e mi accorgo che due clienti, appena entrati, mi stanno fissando, cercando di trattenere una risatina. È la prima volta che noto qualcuno allegro qui dentro. Questo mi dà lo sprint finale per concludere in bellezza il mio show (non posso di certo deludere il pubblico): «Forse non lo ha ancora capito ma da oggi io mi licenzio, e a lavorare da lei non ci tornerò più nemmeno se dovessi andare in bancarotta. E non stia nemmeno lì a pagarmi gli arretrati. Non ho certo bisogno del suo vile denaro. Addio per sempre e mi consenta di darle un consiglio: il nome della sua attività è orribile, quelli delle preghiere dovrebbero citarla per plagio». Mi affretto a uscire, non prima però di aver salutato i clienti con la consueta formula «Benvenuti all’”Eterno riposo”», e di aver aggiunto, sottovoce «scappate finché siete in tempo, quell’agenzia in fondo alla via è più economica».
Una volta uscita corro un po’, per timore che il mio capo esca armato di ascia per scotennarmi, come in una specie di riproposizione di Shining, e poi, una volta girato l’angolo, tiro un enorme sospiro di sollievo. Alzo lo sguardo: un timido sole invernale sta lottando con le nubi per poter spandere i suoi raggi e alla fine riesce nel suo intento. Mi sento come lui: ho subito, ma ne sono uscita vincitrice. Nel frattempo nella mia mente risuona la melodia di We are the champions. E pensare che non mi sono nemmeno mai piaciuti i Queen, ma non c’è canzone più perfetta per questo giorno di gloria. E siamo solo all’inizio penso con una punta di soddisfazione, mentre sfilo il mio cellulare dalla tasca per cercare in rubrica il numero del mio fidanzato. Fino a ora sono stata la paladina di tutti i poveri lavoratori sfruttati, ora invece diventerò quella di tutte le cornute.
«Pronto Marco, sono Jenny». Ho deciso di mollare una volta per tutte il mio ragazzo e per farlo mi basta solamente un cellulare. I fedifraghi non meritano una rottura più dignitosa. «Senti bimba, lo so che è da un po’ che non ci vediamo, ma sono stato impegnatissimo in questi giorni» esordisce, senza nemmeno salutarmi e senza nemmeno stare a sentire quello che ho da chiedergli. E dimenticandosi del fatto che odio essere chiamata bimba. In sottofondo sento risuonare una risatina femminile. Non è la prima volta che succede e ho sempre fatto finta di nulla. Marco fino a ieri rappresentava una sicurezza per me, ma da oggi non ho più bisogno di lui. Potrò di certo avere tutti i ragazzi che vorrò. Non ho più bisogno di accontentarmi degli scarti. «Senti un po’ mio caro» gli rispondo con tono di sfida «non sprecherei il mio tempo con te nemmeno se fossi l’ultimo ragazzo rimasto sulla Terra. Cosa credi, che non mi sia accorta di tutte le bugie che continui a dirmi? Di quella ragazza con cui mi tradisci? In questi mesi ho fatto finta di niente perché volevo vedere fino a che punto ti saresti spinto e quello che ho capito basta e avanza a non volerti vedere mai più!». Faccio per chiudere la comunicazione, quando mi ricordo di una cosa: «E già che ci sei, dì a quella ragazza che il suo rossetto arancione fa schifo e che a continuare a ridere le si accentuano le zampe di gallina sulla faccia!».
Dopodiché chiudo la chiamata, non ho certo voglia di stare a sentire le sue scuse. Che se ne stia pure con la sua bella. Io ho di meglio da fare. In quel mentre il cellulare comincia a squillare e la foto del mio ex compare sullo schermo. Possibile che non mi sia mai accorta di quanto sia solo un palestrato montato con la fissa della ceretta alle sopracciglia? Infastidita prendo il telefono e lo lancio in un cestino. Finalmente una scusa per poterne comprare uno nuovo.
E ora, per concludere in bellezza, eccomi di ritorno a casa. Quante volte ho sognato di ribellarmi a Maia, ma non ho mai potuto farlo. Dopotutto il suo era l’affitto in centro città meno caro. Ma da oggi nemmeno questo sarà più un problema per me. Apro la porta con fare bellicoso, ma noto sin da subito che la mia padrona di casa non è dell’umore più roseo. E capisco subito il perché. Sta infatti tenendo in mano i contenitori della mia cenetta di ieri sera e, appena mi vede, me li lancia praticamente addosso come se fossero delle bombe a orologeria. «Mi sembrava di essere stata chiara, il giorno in cui ci siamo conosciute: niente cibo spazzatura nella mia casa!» replica, con uno sguardo che ucciderebbe anche l’incredibile Hulk. «Certo, come no» le rispondo lanciandole un’occhiata di sfida «secondo te io dovrei mangiare solo le schifezze di cui ti nutri per cosa? Per diventare uno scheletro ambulante come te?». «Perché se no io…» mi risponde, per poi interrompersi bruscamente (mai e poi mai ammetterebbe di non voler vedere del buon cibo per non esserne tentata). Dopo pochi istanti, con l’espressione ancora più corrucciata, aggiunge: «quindi questa non è la prima volta che introduci QUEL cibo in casa mia?» e, allo stesso tempo, accenna alle scatole che si trovano nelle mie mani, ignorando il fatto di essere appena stata insultata. «Certo che no» ribatto con il tono più pacifico che riesco a produrre e, nello stesso tempo, appoggiando le scatole sul tavolo «è così buono». «Fermati subito! Non provare a contaminare il tavolo!» urla, come se stessi tentando di ammazzarla.
«Ah, se è per questo il tuo tavolo è già stato, come dici tu, contaminato, vediamo un po’…» fingo un’aria pensosa «dieci? Venti? Ah, no, almeno trenta volte negli ultimi tre mesi. E non te ne sei mai accorta!» concludo soddisfatta. «Fuori! Fuori di qui tu e quelle cose!» esclama più isterica che mai. Non l’ho mai vista perdere le staffe in questo modo. «Non preoccuparti, ero appunto tornata per fare le valigie. Dammi dieci minuti e non entrerò mai più da quella porta» affermo categorica indicando l’ingresso. Per un attimo Maia apre la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiude senza emettere alcun suono, come un pesce. Quasi quasi mi fa pena. È ancora più pallida del solito. E se per lo shock le dovesse venire un infarto? Mica posso permettermi di subire un ergastolo proprio ora! Preferisco perciò non aggiungere altro, ed entro in camera mia come un fulmine, cominciando a sbattere nelle valigie tutti i miei vestiti (non che abbia chissà quale guardaroba, anche se immagino che tra poco subirà una crescita esponenziale). Dopo poco tempo sono pronta: pronta a lasciare la casa, a mollare definitivamente la mia vecchia vita e a costruirmene una nuova. Passo davanti alla mia ex coinquilina, che giace sconsolata sul divano, trascinandomi dietro le mie due valigie. «Dopotutto mi sono trovata bene con te» mento, con l’intenzione di farle salire il livello di quei pochi zuccheri che circolano nel suo sangue «ma capisci che io non posso vivere così, ne va della mia salute fisica e mentale». Annuisce, forse ce la posso fare a evitarle un collasso. «Non fare così, scommetto che troverai una persona ancora più simpatica e brillante di me» aggiungo scherzando. Al che la ragazza comincia a mormorare qualcosa di incomprensibile. «Come? Ti senti male? Devo chiamare l’ambulanza?». Oddio, lo sapevo che qualcosa avrebbe intralciato i miei piani! Ma, dopo pochi istanti, Maia mi fa cenno di no con la testa. «Cosa posso fare per farti stare meglio allora?». «Le scatole» mi sussurra piano «leva quelle scatole di cibo dalla mia vista!».
Ho capito: il problema non è la mia partenza, ma le scatole. In effetti sprigionano ancora un profumino delizioso. Passo in cucina a prenderle e, mentre esco definitivamente da quella porta, non posso che lasciarmi andare a un ennesimo sospiro liberatorio. Finalmente via da quella casa!
Decido di riprendermi dalle enormi fatiche di questa giornata con una dolce colazione, dato che per l’eccitazione non ho ancora toccato cibo. Di solito la mia mattina è solita iniziare con il dubbio amletico “muffin o cupcake?”, ma oggi sono talmente felice e orgogliosa di me stessa che li ordino entrambi. E, in base al detto “non c’è due senza tre”, mi gusto pure una ciambellina glassata. Esco dal bar tutta soddisfatta, non solo per aver assecondato i miei vizi dolciari, ma anche perché ho già in mente la mia prossima azione: comprare subito quel favoloso attico, situato vicino al castello Sforzesco, che vende quella famosa agenzia immobiliare in via Monte Napoleone!
Appena varco l’ingresso dell’agenzia un tipo alto, magro, con i capelli corti neri, vestito come se fosse un lacchè della regina Elisabetta, mi fissa dall’alto in basso. In effetti con le valigie, i capelli spettinati, le borse sotto gli occhi per la notte insonne e qualche residuo di briciole dolciarie sulla faccia e sui capelli assomiglio di più a una ricercata clandestina che a una nuova milionaria decisa a fare successo. Nonostante questo, però, decido di giungere subito al sodo e dichiaro: «Sono qui per acquistare l’attico che vendete in largo Cairoli, quello da due milioni di euro». Wow, che effetto che fa pronunciare queste parole! Fino a ora lo avevo fatto solo nei miei sogni più sfrenati! Anche l’uomo, al sentir pronunciare le mie parole, pare entusiasmarsi, infatti si precipita subito a chiamare il direttore. Dopo pochi istanti, ecco l’ennesimo essere umano che pare uscito da una reggia venire verso di me con un sorriso a ottomila denti. «Buongiorno signorina, lieto di fare la sua conoscenza. Prego, venga qui, nella stanza degli ospiti» mi dice, indicandomi nello stesso tempo una piccola stanzina che noto essere arredata con divano, poltrone e tavolini.
«Per i nostri clienti migliori» aggiunge, senza togliersi il sorriso di bocca. Che gli sia venuta una paralisi facciale? Nel frattempo entro nel salottino, e l’uomo si sincera che mi venga offerto un piccolo spuntino. Accetto, nonostante la pancia piena. E poi questi biscottini sono ottimi, quasi quasi gli chiedo in quale supermercato li ha comprati. E pure il the non è male. Chissà di che marca è. Sto per aprir bocca, quando vengo anticipata: «Mi permetto di descriverle le caratteristiche dell’appartamento che le interessa» esordisce il direttore con tono serio. «Non c’è n’è bisogno» mi affretto a spiegargli «so tutto a memoria» aggiungo subito dopo, senza trattenere la mia soddisfazione per quanto detto, come se fossi ritornata di nuovo a scuola e fossi in procinto di ripetere la lezione «è un attico di 200 mq già arredato, con cucina superaccessoriata, salotto con vetrate panoramiche, due camere da letto, due bagni dotati di tutti i comfort, compresa la vasca idromassaggio e cromoterapia, palestra e terrazzo» concludo, sentendomi di nuovo una scolaretta che sta aspettando il suo meritatissimo dieci. Alle mie parole il direttore pare compiaciuto: «Bene, vedo che è molto informata» mi dice sorridendo, rimettendo così in mostra dei denti drittissimi e bianchissimi. Sto per rispondergli che è da quasi due anni che sto facendo il filo a quell’attico quando mi rendo conto che così farei la figura della poveraccia arricchita, perciò mi limito a sorridere. «Allora possiamo passare a discutere sul prezzo» prosegue «l’appartamento è in vendita a due milioni euro, se vuole comunque possiamo fissare un appuntamento in settimana con il proprietario in modo tale da mettervi d’accordo». Fissare un appuntamento in settimana con il proprietario per metterci d’accordo? E nel frattempo dove vado? Sotto un ponte? «No, no» mi affretto a precisare, mentre il mio cervello lavora a mille all’ora per elaborare una scusa plausibile «ho bisogno dell’appartamento stasera stessa, sono appena arrivata in Italia e mi serve immediatamente» e con un cenno gli indico le mie valigie. «Sì certo» mi risponde stupito il direttore «è che di solito in caso di acquisti come il suo il potenziale acquirente e il proprietario sono soliti incontrarsi per visitare l’appartamento e trattare sul prezzo».
«Non ho bisogno di trattare sul prezzo. E nemmeno di visitare l’attico. Mi piace. E pagherò i due milioni di euro» sentenzio convinta. Tanto ne ho vinti cinque! «Passiamo subito al contratto allora?» mi domanda l’uomo sempre più perplesso. Annuisco decisa. «Bene, vado subito a prenderlo» mi annuncia, uscendo dalla stanza per poi rientrare dopo pochi minuti. Senza nemmeno leggerlo lo firmo subito. Ce l’ho fatta, i miei sogni sono diventati realtà! Tutto a un tratto però un pensiero mi fa sussultare: non posso di certo pagare ora! Quando avverrà il ritiro del premio? Mi daranno i gettoni d’oro come nei quiz televisivi? «Mi scusi» esordisco con una leggera titubanza «ma non so quando potrò pagare». Alla mia affermazione il direttore si fa tutto serio (evidentemente non gli era venuta una paralisi facciale) e mi guarda come se di fronte a lui ci fosse una truffatrice: «Può ripetere per favore? Suppongo di aver capito male». Capisco subito che l’atmosfera si è raggelata, potrei raccontargli tutta la mia situazione prima che si faccia strane idee, ma mi trattengo. Mai nessuno confessa una vincita milionaria. Potrei subire dei ricatti, dei furti, delle intimidazioni. La mia vita potrebbe diventare insostenibile, con stolker a ogni angolo e banditi a ogni svincolo. No, meglio raccontare una frottola. Così non correrò il rischio che la notizia passi di bocca in bocca. E per fortuna in fatto di scuse non sono seconda a nessuno. «Mi deve perdonare» esordisco, fissando il mio sguardo sulle sue pupille «ma i miei guadagni sono momentaneamente inaccessibili. I collaboratori che lavorano per me li hanno investiti e per qualche tempo non posso toccarli. Ma, ovviamente, appena verranno sbloccati pagherò l’intera cifra». «Beh, bisogna vedere se il proprietario sarà disposto ad aspettare. Anche perché, se ho ben capito, vorrebbe abitare nell’appartamento già da stasera» ribatte, come se gli avessi chiesto di accompagnarmi sulla luna in meno di mezzo secondo. «Esatto» confermo, in attesa dell’ardua sentenza. «Lo chiamo subito, allora. Resti qui ancora per un po’».
Annuisco, mentre l’uomo abbandona nuovamente la stanza, questa volta con il cellulare alla mano. I minuti seguenti sono i più lunghi della mia vita. Nemmeno quella volta che, diciottenne, stavo aspettando il risultato del test di gravidanza ero così in ansia (per la cronaca, era negativo). Dove cavolo andrò a stare se il tipo non mi lascerà la casa? Mannaggia a me e alla mia fretta di lasciare l’appartamento di Maia! «Oggi è il suo giorno fortunato!» esclama il direttore con voce squillante (nemmeno si trovasse in uno show televisivo), facendomi sobbalzare dallo spavento. «Buone notizie?» gli domando, leggermente sollevata, anche se il mio cuore sta battendo ancora a tutta birra. «Proprio così» dichiara «il proprietario, il signor Liberati, al momento si trova all’estero per lavoro, ma mi ha detto di riferirle che può cominciare a occupare l’attico già da stasera, anche se si è raccomandato di provvedere a saldare il debito entro due mesi, se no dovrà lasciare l’abitazione e andare incontro a delle penali. Provvedo subito a inserire questa clausola nel contratto. Le è andata bene, probabilmente il signore è disposto a tutto pur di vendere la sua proprietà e questo gioca a suo favore». Dopo aver concluso la sua spiegazione l’uomo mi rivolge un ennesimo sorriso con denti bianchissimi riannessi. Li avrà pagati talmente tanto che si sentirà in obbligo di mostrarli ogni due per tre. Annuisco in risposta. Due mesi. Ho due mesi di tempo per reclamare il premio. Ma sì, cosa ci vorrà, spiegherò bene la situazione a chi di dovere. Credo che in due mesi ce la faranno. Quei soldi mi spettano di diritto. «Allora può raggiungere subito l’appartamento. Il signor Liberati mi ha dato il permesso di darle le chiavi» conclude. «Va bene» rispondo tutta contenta «ci vado immediatamente». Faccio per alzarmi, quando mi rendo conto che sto per far cadere la tazzina di porcellana dalla quale ho bevuto il the. Mi affretto a prenderla prima che cada rovinosamente a terra. Ok, sono ancora un po’ imbranata per essere un’aristocratica, ma siamo solo all’inizio, ho ancora tanto da imparare.
Capitolo terzo
E alla fine eccomi qua, davanti alla porta che mi condurrà dritta dritta alla mia isola felice, al mio Eden terrestre, al mio ideale di paradiso. In verità mi sembra di aver già vissuto questo momento, penso, mentre mi trovo davanti all’ingresso, la mano tremante dall’emozione che sta frugando nella borsa per trovare le chiavi. Per forza, lo avrò sognato almeno un centinaio di volte! Ma la realtà è di gran lunga migliore della fantasia… Finalmente riesco a prendere le chiavi (non prima però di aver promesso a me stessa per la milionesima volta di buttare via tutte le cose inutili che tengo in borsa) e, in men che non si dica, spalanco la porta e faccio un’entrata trionfale, con tanto di pancia in dentro e petto in fuori (peccato che nessuno possa vedermi). Rimango subito a bocca aperta: non ho mai visto tanta bellezza in una volta sola! Il salotto è stupendo, con il pavimento a parquet e un grande mobile nero laccato sul quale svettano aggeggi tecnologici, come una tv grande come un cinema, un impianto stereo, un lettore dvd, un tablet. E che dire dei due divani bianchi ad angolo? Come sono soffici, e che carini questi cuscini tutti ricamati! Per non dire di quelle vetrate così luminose che riflettendo la luce del sole la rifrangono sul muro creando una sorta di arcobaleno nella stanza… Esco in terrazza: certo che il panorama con vista sul castello Sforzesco è proprio mozzafiato, non vedo l’ora che cali il sole per gustarmi il contrasto tra il buio e le luci della città. Un brivido di freddo mi fa rientrare in casa e così decido di andare avanti con l’esplorazione. La cucina è proprio uguale a quella della foto, rustica come piace a me, creata con un mix tra antico e moderno che mi ha sempre entusiasmato, quando sfogliavo le riviste di mobili dal dottore. Noto che le dispense sono rifornitissime di cibo (wow, hanno addirittura fatto la spesa?) e che la lavastoviglie mi farà risparmiare un sacco di tempo nel lavare i piatti (che magnifiche queste porcellane, sembrano quelle di una reggia del settecento!). Mi affaccio timidamente nella stanza adibita a palestra: una cyclette troneggia al centro della sala, accanto a un tapis roulant, a una spalliera e ad alcuni pesi. Sembrano guardarmi con aria scandalizzata. Ok, ho capito: non ho più scuse per rimandare la preparazione della prova costume!
Faccio un giro anche per il bagno (non vedo l’ora di provare l’idromassaggio e la cromoterapia) e la camera, dove poso le mie valigie decisa a sistemare il tutto più tardi. Subito dopo mi dirigo verso l’altra stanza, quella più piccola, che probabilmente userò per gli ospiti, ma la trovo chiusa a chiave. Va beh, domani parlerò con l’agenzia. Non faccio in tempo a constatare ciò che il mio povero stomaco mi lancia un segnale inequivocabile: “sono quasi le tre e non hai ancora pranzato!” mi rimprovera arrabbiato. Cavolo, ha proprio ragione! E allora giù al ristorante che ho adocchiato all’angolo!
Sono quasi le sei di sera quando decido che è giunto il momento di rientrare in casa: dopo un pranzetto luculliano sono passata prima a comprarmi un cellulare all’ultima moda e poi a fare un po’ di shopping, per acquistare una borsa magnifica e costosissima per le mie tasche, almeno fino a ieri. Ho dilapidato tutti i miei risparmi, ma tanto tra poco subiranno un’enorme impennata! Tutta contenta affretto il passo: sono così felice che saluto tutta la gente che mi passa accanto, sembrando probabilmente un po’ svitata. Ma sono così euforica che non riesco a contenere la mia gioia. Mi sento come uno di quei personaggi delle fiabe, che dopo numerose disavventure, raggiunge finalmente il suo personalissimo lieto fine, per iniziare un nuovo capitolo della vita altrettanto lieto, s’intende. Questa constatazione si fa ancora più certa quando, dopo circa un quarto d’ora, sono immersa nella mia nuova vasca da bagno, tutta piena di schiuma e con l’acqua dell’idromassaggio che mi solletica la pelle. Mi sento come Julia Roberts in Pretty Woman, con la sola differenza che questo non è un film, ma la mia nuova vita! Chi lo avrebbe mai detto ieri, quando cominciavo a sentire un inizio di gastrite alla sola idea di rivedere quel viscido del mio capo che, dopo meno di ventiquattro ore, la mia vita sarebbe migliorata in questo modo? Ora sì, lo ammetto, ho soddisfatto tutti i miei desideri, anzi no, a dir la verità come ciliegina sulla torta ci vorrebbe un gran bel pezzo di principe azzurro, ma sono diventata così fortunata che sono sicura che tra poco ne giungerà uno nella mia umile dimora senza nemmeno fare la fatica di cercarlo! Dopo aver terminato il mio lungo bagno mi rivesto con calma, vado nella mia nuova camera, accendo il computer portatile e provo a vedere se Stefania, la mia migliore amica (quella che si è trasferita all’estero per fare la ricercatrice) è su Skype. Non vedo l’ora di raccontarle le ultime novità. Di solito ero sempre solita tediarla con le
mie sventure, da oggi però ancora non sa che si cambia musica! Dopo circa cinque minuti riesco finalmente a parlarle: «Ciao Jenny» mi saluta con il suo solito sorriso «come va?». Stefania è sempre stata una persona solare e ottimista. Per forza, ha sempre avuto tutto quello che desiderava senza fare il minimo sforzo: una famiglia ricca e felice, dei fratelli amorevoli, un’intelligenza fuori dal comune, una bellezza non banale, un fidanzato storico dai tempi delle superiori. Che la ama e la amerà sempre. Quasi quasi mi chiedo perché non l’ho mai mandata a quel paese, io che sono rimasta orfana di madre appena a diciannove anni, che ho sempre fatto fatica a conquistare un misero sei in tutte le materie (compresa educazione fisica), che per apparire carina devo passare almeno tre ore nel reparto trucco e parrucco e che la mia relazione più lunga, quella con Marco, è durata solo un anno (corna comprese). Ma la mia amica è sempre stata così buona e gentile con me che non me la sento di fargliene una colpa. «Oh Stefi» esordisco, senza contenere la mia gioia «non potrai mai immaginare che cosa mi è successo!» (per fortuna mi ero ripromessa di mantenere un po’ di suspense per solleticare la sua curiosità). «Wow, allora hai qualcosa di bello da raccontarmi! Non dirmi: ti sei finalmente decisa a lasciare quel Marco?» mi domanda curiosa. Non gli è mai piaciuto il mio ex, e anche questa volta devo ammettere che ci aveva visto lungo. Annuisco, anche se non è questa la notizia bomba che voglio raccontarle, ovviamente. «Ma è magnifico! Sono fiera di te Jenny. Anche io però ho una novità da rivelarti!» esclama. Passa così la maggior parte dei minuti seguenti a parlarmi di un progetto di ricerca che la vedrà coinvolta sul lavoro e che sicuramente la porterà a raggiungere una promozione. Annuisco, anche se non la ascolto più di tanto. Accipicchia, devo finire di raccontarle la mia storia! Finalmente pare riprendere fiato e io ne approfitto per continuare il mio discorso: «Comunque, quella di Marco, non è l’unica novità della giornata».
«Ah sì? Fammi indovinare allora» si blocca per un attimo pensosa, ma poi mi domanda, aggrottando le sopracciglia «Quel quadro appeso sul muro dietro di te… non l’ho mai visto!». Che perspicacia quella ragazza! «Ho cambiato casa: non ce l’ho più fatta a reggere quella fissata di Maia» ammetto felice. Certo che dirlo ad alta voce fa ancora più effetto!
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