Bang bang tutta colpa di un gatto rosso

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Sì, è stata tutta colpa di un gatto rosso. Il mio. La bestia scappa dalla finestra a mezzanotte, e io mi butto in strada per recuperarlo, sexy come un sacco di patate, e incontro... l’ uomo dei miei sogni, una specie di Marlboro Man che smonta non da cavallo, ma da una fiammante BMW. In altre parole, il mio nuovo vicino di casa. Lui mi fissa perplesso e incuriosito e il colpo mi arriva subito, preciso, bang bang, dritto al cuore, come nella vecchia canzone dell’Equipe ‘84. Nick, si chiama Nick. Io Nora. Non può essere un caso, mi dico, e mi butto in questa storia, a testa bassa, senza sospettare in che pasticci mi ficcherò. Perché è ovvio che nella nostra storia si infilino altre persone, e tutte con qualcosa da dire o fare. Viola, un’adorabile bimba di otto mesi; Tommaso, il prof, egocentrico, bastardo seduttore cui l’ho giurata; un’orda di adorabili femmine folli che altro non sono che le mie amiche del cuore; Camilla, la disinibita, e un piccolo esercito di suocere, madri, padri, tate e… una nonna diabolica. E, come se non bastasse, c’è un romanzo rosa che aspetta di essere tradotto, uno strano borgo in piena Milano dove la gente sembra diversa e un po’ pazza e, ahimé, c’è anche lei, Gabrielle, la stronza. Senza contare il gatto rosso. Fra noi è stato come dice lui: tutto e subito. Appassionato, assoluto, prepotente. Intenso. Siamo precipitati uno nella vita dell’altra come due particelle subatomiche sparate da un acceleratore di protoni. Non abbiamo avuto scelta, non abbiamo potuto evitarci. La natura, o forse il caso, o forse una sconosciuta forza elettromagnetica, ha scelto per noi. Non siamo amici. Non siamo fidanzati. Non siamo amanti. Non siamo niente se non vicini di casa. Eppure… Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni, soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nelromance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è stato molto breve, forse troppo. Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso è il suo primo romanzo contemporaneo, dove si parla molto di romance e si vive come in un romance, ma in chiave decisamente ironica.

Bang Bang


Tutta colpa di un gatto rosso Viviana Giorgi

Bang Bang Viviana Giorgi © Digitpub srl 2011 via Adige 20 – 20135 Milano, Italia www.emmabooks.com – info@emmabooks.com ISBN EPUB 978-88-97669-14-2 ISBN MOBI 978-88-97669-64-7 Copertina di Boombang design – www.boombangdesign.com Questo testo è diventato un ebook nel mese di febbraio 2012 Follow us on

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1 Nonostante sia ormai aprile (sì, lo so, come vola il tempo!), il cielo è grigio e la strada qua fuori è più grigia del cielo. Durante la mia giornata di lavoro siedo per ore davanti a una finestra che si affaccia su una piccola strada privata. Qui si specchiano l’una nell’altra sedici variopinte villette a due piani, otto per lato, costruite negli anni ‘20 per gli operai di un’industria farmaceutica che ormai non c’è più.


Un cancello di ferro, quasi fosse un confine di stato, separa dal caos della città gli abitanti di questo borgo tranquillo, dove la gente ogni mattina si saluta col sorriso e sistema agli angoli delle porte di ingresso grossi vasi di ortensie e alle finestre piante di ciclamino che nessuno, di notte, si frega. Molti, al di là di quel cancello, passano e sbirciano dentro, invidiosi. Io sono una dei fortunati abitanti del borgo. Vivo al n. 16, nella casa che era di mio nonno, operaio della già citata industria farmaceutica. L’ultima della fila di destra. Me l’ha lasciata quando è morto, quasi venti anni fa. Da quando mi ci sono trasferita ho visto gli abitanti di questa strada cambiare. Prima erano tutti vecchi. Oggi sono tutti sotto i quaranta, ma, grazie al cielo, sopra i venticinque. Per lo più single o coppie non ancora infrante. Ci conosciamo tutti, qui al borgo, e le nostre riunioni condominiali sono più feste che discussioni all’ultimo sangue. Cerchiamo di darci una mano, anche se non mancano le antipatie e i motivi di litigio fra alcuni di noi. Io, in particolare, non sopporto tanto Roberta, che con la sua linguaccia si diverte a mettere zizzania, a creare il panico, ad alimentare il sospetto. Adoro invece Francesca e Bruno, entrambi avvocati di successo, divorzisti. Scambio ricette con Fabio, che vive con Giacomo come fossero i protagonisti della strana coppia. Non sono gay, ma per un po’ tutti l’hanno creduto. E organizzo serate romance con il club dellefemmine folli, cui aderiscono più o meno tutte le donne del borgo. Non che siamo tutte pazze, un po’ strambe sì, ognuna a modo suo. Come tutti. Detto così, sembrerebbe che qui si viva in un’isola felice, distante dai problemi o dal dolore. Naturalmente non è così. Problemi e dolore non mancano mai. Sono forzatamente single. No, gioiosamente single. Il mio fidanzato mi ha lasciato prima del fatidico sì. Dopo aver pianto ed essermi (moderatamente) disperata, non posso che rendergliene grazie. Era un imbecille. E in più mi tradiva. Ed era convinto di essere più intelligente di me. E non era neppure un superfigo. Appena appena passabile, a guardarlo bene. Sono certa che sarebbe diventato flaccido e calvo prima del nostro secondo anniversario.


Certo, la cosa un po’ mi ha scocciato e ogni giorno, quasi fosse un mantra, gli rivolgo un soddisfatto fottitifottitifottitifottiti finché la lingua non mi si attorciglia in bocca. Dirlo non servirà a niente, ma mi fa sentire in pace con me stessa. Chi non è single è il mio gatto Red. Nonostante lo minacci spesso e volentieri di portarlo dalla veterinaria per LAoperazione, continua indifferente a farsela con tutte le gatte del quartiere e a battersi furiosamente con tutti i maschi. Ho avuto parecchie grane con i proprietari delle micie concupite da Red, e con la faccia di tolla che mi contraddistingue ho messo in giro la voce di averlo già fatto castrare. Di giorno il malefico sta in casa a poltrire, ma di notte se ne va in giro. E colpisce. A giudicare dal numero di randagi rossi che ci sono da queste parti, negli ultimi anni non deve aver perso un colpo. Beato lui. Perdonatemi, non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Eleonora. Come mia nonna paterna. Bel nome. Un tempo, quando mi presentavo a qualcuno su cui volevo far colpo, me lo lasciavo scivolare tra le labbra, come fossi un’eroina dei romanzi rosa che traduco. Piacere, E-le-oo-no-rraa. L’effetto che ottenevo, di solito, non era quello desiderato. Mi guardavano tutti come se avessi urgente bisogno di un logopedista. Per questo da tempo ho eliminato Eleo e mi presento come mi hanno sempre chiamato in famiglia, Nora. Ovvio che cerco il mio Nick. Nick, in questo caso, non significa soprannome né avatar. È il protagonista di un romanzo di Dashell Hammett (The Thin Man) e dei vecchi film interpretati da William Powell e Myrna Loy che da quel romanzo sono stati tratti. Nick e Nora Charles, affascinanti ed elegantissimi detective dilettanti accompagnati dal terrier Asta. Sempre in abito da sera e con un martini in mano. Che classe! Cerco il mio Nick, dicevo, sapendo che sarà impossibile trovarlo. Però potrei trovare un terrier incazzoso come Asta per fare abbassare la cresta a Red. Ah! Dimenticavo, ho superato i fatidici trenta. Anni, naturalmente. La mia vita procede su binari tranquilli in attesa che qualcosa succeda. Va be’, anche se traduco romanzi rosa, certo non mi aspetto che da un giorno all’altro bussi


alla mia porta il principe azzurro con una scarpetta di cristallo in mano… Anche perché porto il 38 e se solo provassi a infilarmela farei la figura di quelle arpie di Anastasia e Genoveffa. Le favole sono sparite da un bel po’ dal mio orizzonte. Nick no. Lui, nelle mie fantasie, c’è sempre. In questi ultimi giorni ho spesso abbandonato il computer – come vi ho già detto, sono traduttrice - per osservare le grandi manovre in corso dall’altro lato della strada, al n. 15. La villetta è stata completamente ristrutturata e ridipinta di un giallo chiarissimo (la mia è di un kitschissimo rosa confetto, yes!). L’effetto è decisamente elegante, discreto, fin troppo per il borgo. Ho dato una sbirciatina all’interno con il vecchio binocolo di mio nonno (senza vergogna, vero?) e appena ho potuto ho infilato fisicamente il naso. Non mossa dalla curiosità o dalla voglia di pettegolezzo, bensì dal terrore che tutti noi del borgo condividiamo, e cioè che il nuovo vicino (barra-vicina-barra- vicini) sia un rompiscatole poco incline ad accettare le regole stabilite dalla nostra insolita comunità. Cioè l’assenza totale di regole. L’interno del n. 15 è ora completamente bianco, il parquet è chiaro, le porte sono di legno naturale, dello stesso colore del pavimento. Un insieme raffinato, semplice, caldo. È la palazzina più bella e grande della via, quella col giardinetto interno più ampio, con tanto di berceau di glicine e succulenti alberi da frutto, che in questi giorni sono in fiore. Come so che sono in fiore? Li ho visti, qualche giorno fa. Tornando a casa, ho trovato la porta del 15 spalancata, così sono entrata esibendomi nella più incredibile imitazione della famosa particella di sodio: c’è nessuno qui? Uh uh?Finché qualcuno mi ha risposto: una donna dall’aria efficiente e piuttosto severa. «Siii?» mi ha detto squadrandomi. Con la mano tesa e il sorriso da buona vicina, l’ho raggiunta sulla porta del piccolo giardino (è così che ho visto gli alberi in fiore) e mi sono presentata. «Dunque è lei la nostra nuova vicina? Benvenuta, sono Nora Mantelli e abito nella casa di fronte.» Gelo.


La donna, una quarantenne decisamente ben tenuta, bella e tanto sofisticata da farmi sentire una pezzente, mi ha guardato infastidita. «No, si sbaglia. Sarà il dottor Corsi ad abitare qui, io sono solo la sua assistente.» Se l’assistente è così – ho pensato – chissà come sarà il suo capo. Nei giorni seguenti il dottor Corsi è diventato l’argomento di conversazione principale del nostro piccolo borgo, nonché l’oggetto delle nostre investigazioni in perfetto stile Scooby Do. La sera stessa del mio blitz al n. 15, ci siamo ritrovati tutti a casa mia, ognuno col suo portatile, ognuno collegato in rete. Sedevamo per terra, in tondo, in salotto, sul mio tappeto indiano, come una setta, o forse solo una tribù. Pestavamo sulle nostre tastiere e ci comunicavamo le ultime scoperte. Dio se eravamo agguerriti! Per sostenerci in questa nostra affannosa ricerca ci siamo ingozzati di schifezze piene di grassi saturi, zuccheri e coloranti, procedendo indefessi verso l’obiettivo: scovare l’intruso. Siamo partiti dall’ovvio. Ricerche su Google e Facebook a tutto spiano. Sapete quanti Corsi ci sono su Google e FB? Quanti dottor Corsi ci sono? Medici, soprattutto. Io, invece, davo per scontato che il nostro fosse il Corsi ingegnere informatico di Bari, uno sulla quarantina dall’aria efficiente e un po’ spocchiosa, con un naso troppo grande per essere preso in considerazione da noi femmine folli, single e in caccia. L’idea di incontrare ogni giorno il naso di quel Corsi cominciava a darmi sui nervi. «Ti sbagli, Nora» ha detto Francesca. «Secondo me è il Corsi internista di Catania. Forse è stato assunto al San Raffaele, se ha cercato una casa in questa zona...» «A guardarlo bene, sembra che abbia bisogno lui di un medico» ha ribattuto Francesca, mentre tutti aprivamo la pagina web che ci mostrava un uomo in camice bianco piuttosto in là con gli anni e decisamente oversize. Già. Abbiamo proceduto nell’indagine e altri Corsi hanno fatto la comparsa sui nostri schermi. Non potevamo certo pretendere di scegliere il Corsi più adatto alle nostre esigenze, ma era come se lo stessimo facendo.


«Ehi, questo Corsi sembra papabile ma non ci sono foto. E non ha una pagina Facebook. Solo la bio e un paio di articoli di giornale, ma vive negli Stati Uniti» è intervenuto Bruno. «Allora non ci interessa» ha ribattuto logica Roberta. E il discorso si è chiuso lì. Le scommesse sul nuovo vicino si moltiplicavano. La curiosità, anche. Pregavo di perdere la scommessa, pregavo che l’attesissimo Mr. Corsi non fosse l’informatico di Bari dal naso che ormai nella mia fantasia era diventato da grosso ad abnorme. Non che mi dovesse importare. Ma pensavo che un tale naso avrebbe disturbato l’estetica del borgo. Bugiarda. Pensavo che il dottor Corsi, se non avesse avuto una moglie e una serie di pargoli al seguito, e soprattutto quel naso, avrebbe anche potuto essere una possibilità. Cinque giorni dopo il trasloco, cinque giorni dopo il mio incontro con la sua algida e sofisticata assistente, del mio fantomatico dirimpettaio neppure l’ombra. Strano, perché il postino – visto e interrogato da me ogni giorno - aveva infilato nella cassetta della posta del 15 almeno tre-buste-tre. Il mistero si infittiva. Giuseppe, che abita al 13, sosteneva di aver sentito provenire dalla casa di fianco strani rumori e visto luci accendersi e spegnersi… Giuseppe, è bene specificarlo, da quando si è messo con una sorta di apprendista fattucchiera – in realtà è una farmacista che legge troppi paranormal - crede a qualsiasi cosa ed è particolarmente influenzabile. Siamo preoccupati per lui. Comunque… La notte tra il quinto e il sesto giorno, questa notte, il mistero si chiarisce. E si chiarisce anche che il naso del fantomatico dottor Corsi è un bellissimo naso, non proprio alla francese ma neppure grasso e grosso. La notte tra il quinto e il sesto giorno, questa notte, dicevo…


Devo proprio dirlo? O posso semplicemente passare alla fase successiva del racconto e nel frattempo andare a sotterrarmi? Quando si dice una figura di emme… E tutto per colpa di quel gattaccio rosso. Ma andiamo per gradi. È stata una bellissima serata femmine folli. Tra languidi sospiri e vari cosa non darei per incontrare un uomo così, abbiamo finito la nostra alquanto complessa e vivace lettura dell’ultimo romanzo di Mary Balogh, per noi già un classico. La discussione, come sempre, è scivolata sul più scontato degli argomenti riguardante i maschi d’oggi, che no, non sono certo dei gentiluomini, come i duchi e i marchesi dei nostri romanzi preferiti. Non fanno più sognare insomma, sono pedanti, noiosi, privi di senso dell’avventura e di romanticismo. Per non parlare del loro talento fra le lenzuola. «Inesistente.» «Banale.» «Scontato.» «Più soporifero di un Tavor.» Tanto per citare i commenti più generosi. «Eppure ci fanno innamorare lo stesso!» ha aggiunto timida timida quell’inguaribile sognatrice di Piera. Tutte noi sappiamo che la poverina è innamorata persa di Fabio ma non ricambiata, e segretamente la compatiamo. «E per quanto dura l’innamoramento?» l’ha zittita Francesca che, da buon avvocato divorzista, pretende di conoscere tutti gli aspetti peggiori del maschio medio. «Te lo dico io per quanto dura, o mia giovane illusa: dura fino a quando dalla stanza, dove il nostro eroe è immerso nella visione di una partita di calcio, non sentiamo provenire un rutto talmente forte da rompere qualsiasi incantesimo.» «Non tutti sono così!» protesta Piera. «Certo, ma tutti lo diventano» ribatte Francesca mettendo fine, almeno per il momento, ai nostri sogni rosa. «Ladies, buona notte!» Alzo la voce come una guida turistica. «La settimana prossima leggeremo l’ultimo della Camocardi. Siete d’accordo?»


«Adoro la Camocardi» interviene docile docile Roberta, che di solito ha sempre da ridire sulle mie scelte. Secca rispondo: «Anch’io». «Ci vediamo domani sera allora» fa Piera. «Domani sera?» dico atterrita da quella prospettiva. «Dobbiamo recuperare una serata cinema!» mi rimbrotta Piera, un po’ piagnucolosa. «È proprio necessario?» Anche quella, penso con orrore, si dovrà tenere a casa mia. «Necessario, necessario» fanno eco tutte. «E il film devi sceglierlo tu» aggiunge Camilla dandomi la mazzata finale. «Va bene, femmine, ci penso io. Puntuali alle nove. Ma ora, per bontà divina, levatevi dai piedi!» E con queste parole, esasperata, le spingo con determinazione fuori di casa prima che riconquistino il salotto. Chiudo il portone dietro di loro e mi ci appoggio contro. Ahhh! Se ne sono andate, Dio sia ringraziato. Anelo a un giusto sonno e comincio a prepararmi per la notte. Sono già in camicia – quella con gli orsetti rosa che mi piace tanto - quando mi accorgo che Red, la bestiaccia rossa, è sparito. Cosa ho fatto di male per meritarmi anche questo, dopo una serata intera con le femmine? Da qualche giorno le gatte sono di nuovo in calore, gli ormoni sono volati alle stelle e Red sembra particolarmente incline a darsi da fare. Miao un cavolo, gli dico di solito quando mi guarda con quell’aria da latin lover insoddisfatto. Non che voglia tenerlo a stecchetto…Voglio solo evitare problemi con i padroni delle gatte. Per questo lo tengo in clausura, e cerco pure di fregarlo rifilandogli le pastiglie smorza-entusiasmo, per così dire, che mi ha consigliato la veterinaria


insieme a una bella lezioncina su come sarebbe meglio scioglierle nel caffè di alcuni signori di sua conoscenza. Ben detto, dottoressa. Le pastiglie, se siete preoccupati per la mascolinità di Red, si sono rivelate un bidone. La bestiaccia è sempre più agguerrita! Così, tra il quinto e il sesto giorno, dicevo, verso mezzanotte, dopo che lefemmine folli hanno lasciato il campo libero, il malandrino riesce a farmela sotto il naso, scappa saltando dalla finestra del mio studio direttamente in strada e, con un paio di balzi ovviamente felini, prima si inerpica sul muro che delimita il lato sud della nostra stradina, poi raggiunge il davanzale della finestra al primo piano del n.15 e da lì l’adiacente balconcino. Parlo, naturalmente, del balconcino del misterioso dottor Corsi. Quello dal naso abnorme. Maledizione! Miciomiciomicio… Lo fisso attonita dalla finestra del mio studio. Micio del cavolo. Esco di casa, in ciabatte (ebbene sì, di peluche, e a forma di Pippo: se ripenso a chi me le ha regalate…), camicia da notte e vecchio impermeabile tipo tenente Colombo addosso. Ma più conciato di quello del tenente Colombo, anche se meno sporco. I miei capelli castani sono arruffati e neppure freschi di shampoo. In mano tengo con dignità… un’acciuga. Una dannata acciuga. L’acciuga è fresca, argentea e puzza da far schifo. Anche la mia mano destra puzza ormai da far schifo. Miciomiciomicio… Il maledetto felino fa la gobba, si strofina sulle persiane chiuse, lancia un urlo infernale e, con un gran balzo, salta di finestra in finestra mentre io, impotente, sto lì a fissarlo schizzare i suoi odori schifosi nella notte. Con l’acciuga in mano. Con le ciabatte di peluche a forma di Pippo e il vecchio impermeabile tipo tenente Colombo, ma più brutto.


Fanculo, auguro alla bestia, e faccio per girarmi e attraversare quei cinque metri di strada che mi riportano a casa. Ma non posso, rimango come fulminata, immobile come una statua, basita, incredula a fissare ciò che dopo giorni di attesa sta avvenendo. Il cancello automatico si apre e una station wagon che non ho mai visto prima si avvicina. E parcheggia, dopo aver atteso cortesemente che io e l’acciuga ci leviamo dai piedi. Rimango lì come un’idiota mentre il dottor Corsi esce dalla macchina. E vorrei morire. Oh yes. Prima di morire vorrei scappare. Ma non posso. Lui scende e mi guarda, appoggiato al tettuccio della macchina. Dalla sua espressione non capisco se abbia paura di me, se io gli faccia pena o se solo gli scappi da ridere. Raddrizzo le spalle e, con aria affabile, dico: «Buonasera». «Buonasera a lei.» Poi lui guarda l’acciuga che ancora tengo in mano. È serissimo. «Quello» dice indicando il pesce con un cenno del capo, «è per me?» Anch’io guardo il pesce, come fosse del tutto naturale andare in giro di notte con un’acciuga in mano. E le ciabatte di Pippo e l’impermeabile del tenente Colombo. «No, è per il mio gatto. È scappato.» La voce mi esce un po’ stridula, tanto per completare il quadretto. Lui accenna un sorriso, perplesso. Poi mi guarda dall’alto in basso e dal basso in alto, non per alterigia, non per concupirmi, neppure perché affetto da qualche terribile malattia neurologica. Mi guarda dall’alto in basso e ritorno perché è incredulo. Pensa probabilmente che io sia una visione dovuta all’alcol o alla stanchezza o all’erba o a un fenomeno paranormale. In effetti, mi sento un fenomeno paranormale.


Mentre al livello strada tra il dottor Corsi e la sottoscritta si svolge questa peculiare scenetta, Red, quasi fosse in un palco di teatro, con curiosità si sporge dal balcone per osservarci meglio. Bestiaccia. Lo indico al dottor Corsi, con la stessa mano che ancora regge l’acciuga, come se la presenza di quella palla di pelo rosso potesse spiegare l’inspiegabile: cioè l’acciuga, le ciabatte di Pippo e l’impermeabile del tenente Colombo. «Capisco» dice soltanto. E girando intorno alla macchina mi si avvicina. Lo fisso cercando disperata il naso abnorme del dottor Corsi informatico di Bari, ma non lo trovo. Lui passa sotto la luce del lampione e qualcosa mi colpisce in pieno petto. Il colpo di fulmine proverbiale o un attacco di angina pectoris? Porca di quella vacca. Lo so, non è fine, ma sono le uniche parole che il mio cervello in apnea riesce a elaborare. Porca di quella vacca. Il dottor Corsi è davanti a me, a pochi centimetri da me. Lo vedo in tutto il suo splendore, il che mi fa sentire ancora più strana. È alto, snello, ben fatto sotto la giacca di pelle rovinata al punto giusto. La mia perlustrazione arriva ai jeans e mi obbligo a interromperla. Alzo lo sguardo, imbarazzata. Lui sorride come se avesse capito il motivo del mio imbarazzo. Porca di quella vacca. Deglutisco in totale silenzio. E questo, da dove esce? Da una copertina di “Uomo Vogue”? O forse dal Marlboro Country? Mi trovo a sperare che non fumi. Se un uomo si accende una sigaretta dopo averlo fatto, mi fa incazzare. Come se avessi la pur minima possibilità di farlo con lui. Scordatelo Nora, e sparisci di scena prima di renderti ancora più ridicola. Guardo in alto, Red è sempre lì che se la gode. Riabbasso lo sguardo. Il dottor Corsi non è più giovanissimo, e il viso non è liscio. Ha rughe di espressione e la barba un po’ lunga. Ma non di quelle stupide barbette incolte ad arte che stupidi maschietti curano pelo per pelo come fossero dei damerini del ‘700. È un po’ lunga perché probabilmente non se la rade da… due ore? La mascella è ben messa, ma non alla Ridge, per intenderci, meno simile al parallelepipedo di 2001 Odissea nello spazio. Gli occhi, be’, sono talmente blu che sulle prime mi sembrano neri. I capelli, invece,


sono proprio neri. La bocca è morbida, sensuale e ironica, con due pieghe ai lati che fanno molto vissuto. E se all’improvviso mi alzassi sulle punte dei piedi e gliele leccassi, quelle labbra? Sei una cattiva ragazza, mi dico. Deglutisco mentre lui continua ad avvicinarsi. È più alto di me di almeno quindici/venti centimetri, 1,85 più o meno. Estrae, come fosse una 45, una mano. BANG BANG, al cuore mi sparò.

2 Vi ricordate la canzone di Cher? In Italia era l’Equipe 84 che la cantava. Mia mamma me la faceva sentire sempre, da bambina. Sono cresciuta con quella canzone in testa. Lui mi porge la mano ed è come se in quel momento un juke-boxe si fosse materializzato lì fra noi, in strada, con Bang Bang sparata a tutto volume. Anch’io allungo la mano destra. Poi mi accorgo dell’acciuga. Puzza. «Forse non è il caso» dico. E lui si mette a ridere mostrandomi denti bianchissimi e regolari. Come quelli della pubblicità. L’avrai bene un difetto, dottor Corsi! Dimmi che sei un pezzo di merda, almeno, o che hai l’intelligenza di questa acciuga. «Comunque» aggiungo raddrizzando la schiena e ripassando nella mente i consigli di Lina Sotis, «ben arrivato. Sono Nora Mantelli, Nora M. come mi chiamavano a scuola, e abito qui di fronte.» Indico la mia casa. «Se avesse bisogno di aiuto, non ha che da chiedere. Siamo come una piccola famiglia qui (Dio! Che frase trita e ritrita, proprio di quelle che detesto)… E in quanto al gatto, mi spiace, ma è fuori controllo. Le consiglio di non aprire la finestra, se no le entra in casa.» Lui mi sorride. E mi colpisce una seconda volta. Ma più forte. BANG BANG!


«Piacere» fa, «sono Nick Corsi, ed effettivamente avrei bisogno di un piccolo favore.» Nick? Nick? NICK! Che io sia dannata. Si chiama Nick, e io mi chiamo Nora. Guardo in cielo e cerco una stella cadente – la cosa più facile da trovare nel cielo di Milano! – e, sorpresa sorpresa, la vedo. Col cuore, non con gli occhi, guardo Nick ed esprimo un desiderio. Deglutisco e respiro a fatica, sento anche la temperatura intorno a me farsi insopportabile, ma alla fine ritorno in me e chiedo: «Un favore?» «Già, sempre che io possa approfittare della gentilezza di una vicina, visto che siamo in famiglia.» Che fa, sfotte? Io sorrido, come se ogni notte fossi pronta a farmi in quattro per il primo affascinante sconosciuto. «Ma certo!» La voce mi esce garrula. Detesto quando succede. Lo fisso in attesa di istruzioni. «Ecco, allora dovrebbe aiutarmi con Viola.» Così dicendo, indica il finestrino posteriore della macchina. Non vedo bene, la luce del lampione non arriva fin lì. Mi avvicino e guardo dentro. Doppio salto mortale carpiato con semiavvitamento all’indietro. Viola! Come una scema, biascico: «Ma è una bambina!» «A quanto pare.» Ricontrollo e mi assicuro che non si tratti di uno scherzo. «Mia figlia.»


Sua figlia. Rimango a fissare la piccola come fosse la primogenita di Shrek. La pupetta, che non è verde ed è davvero carina, dorme come un angioletto nel suo seggiolino. Quanti anni avrà? Forse sarebbe meglio chiedersi: quanti mesi avrà? Non so che dire. L’acciuga mi viene in aiuto. «Sarà meglio che vada a buttare via… questa e a lavarmi le mani, prima.» Lui annuisce, sorride e apre il portellone del baule della station wagon. Sorrido anch’io, ma come una cretina. Mi precipito in casa, mi lavo freneticamente le mani, quasi avessi toccato un appestato, e mi do una sbirciatina allo specchio. Oh. Mio. Dio! Mi butto sui capelli, cercando di dare loro una forma qualsiasi, poi li spettino. Non voglio che pensi che mi sia data una sistemata in suo onore. Il risultato, comunque, è disastroso. Butto via i ciabattoni di peluche e mi infilo un paio di scarpe. Chanelline scollatine blu si materializzano ai miei piedi, vezzose come le scarpette di cristallo di Cenerentola. È mezzanotte, dopotutto! Poi mi passo un po’ di fard – non oso toccarmi gli occhi, sarebbe troppo sputtanante - e strizzo la cintura del mio trench modello tenente Colombo fino a non respirare più. Spero di assumere così, con la vita strizzata e in apnea, un’aria più sexy, meno da sacco di patate e più da donna. Poi, udite udite come si può cadere in basso, apro i bottoni della camicia da notte in modo che dall’impermeabile si possa anche sbirciare qualcosina. Aggiusta di qua, aggiusta di là…Dio, quanto sono patetica! Ma non voglio che dal trench sbuchi come una sgradita sorpresa la mia camicia da notte modello contro-ogni-tentazione, con i suoi orsetti rosa frou frou. Ritorno in strada chiedendomi se Nick abbia l’occhio tanto allenato sulla psicologia femminile da accorgersi delle mie grandi manovre di manutenzione estrema. Non che siano servite a molto… Lui sta armeggiando in macchina cercando di liberare la piccola dalle cinture del seggiolino. La bimba sembra essersi svegliata, ma lui è bravo, le parla dolcemente e lei non piange e si lascia andare persino a un risolino. «Forse ci vorrebbe del latte» faccio io raggiungendoli, come se di bambini capissi tutto.


«Yeah» risponde lui. Yeah? Poi annuisce e mi chiede cortesemente di prendere la borsa rosa che è in macchina. Obbedisco e trotterello dietro di lui in casa. Red, dall’alto del suo palco reale, segue la scena un po’ seccato e commenta con un miao altezzoso. Forse invidioso. Fuck you, Red. La casa profuma di nuovo, di legno e di cannella. Nick va diretto in cucina e sistema Viola in un seggiolino che Miss Perfettina, la sua assistente, deve aver preparato per ogni evenienza. Bacia le manine della bimba e le dice qualcosa in inglese. Lui non sa che io lo so. L’inglese. Faccio finta di non aver capito, per non imbarazzarlo. Ma nel frattempo mi sciolgo per quelle parole, tenere e dolci, pronunciate da un papà alla sua piccolina. «Ce la faremo io te, da soli, sweety pie, io non ti lascerò mai.» Qualcuno ha abbandonato la bambina!, penso allarmata. Forse la madre? Forse la madre è morta! Ricaccio una lacrima. No, ricaccio l’ondata di lacrime che sta per ricoprirmi come uno tsunami. La bambina, ovviamente, non risponde. Ma giggles in modo adorabile. Giggle è una parola onomatopeica che trovo bellissima. In inglese significa ridacchiare e il solo pronunciarla fa pensare proprio a quei versetti adorabili che solo i bambini piccoli sanno fare. «Il latte» dico. «Giusto.» Lui estrae dalla borsa un biberon e un cartone di latte. Riempie il bibe e lo mette nel microonde. 50 secondi. Poi si gira verso di me. «Saresti capace di darglielo tu, Nora?» Mi dà del tu.


Grazie al cielo mi sono pagata parte dell’università facendo la babysitter e ho una certa esperienza in fatto di biberon e bambini piccoli, nonostante siano passati molti anni dall’ultima volta che ne ho preso uno in braccio. «Sì.» «Hai figli?» «No, ma ho fatto la babysitter. Non preoccuparti, non la strozzerò.» «Perfetto allora.» Drin drin drin drin. Petulante e ansiogeno come tutti i microonde, anche questo si fa sentire. Per una volta mi precipito ad aprire lo sportello. Il latte è pronto. Prendo il bibe sotto lo sguardo vigile del papà dell’anno. Mi sento osservata e spero di non combinare casini. Provo sul polso la temperatura come una brava tata, è okay. L’idea che lui, il mio Nick, il Marlboro Man della porta accanto, mi possa vedere solo come una tata fa sprofondare la mia autostima – già comunque piuttosto scarsa - giù, sempre più giù, lungo la Fossa delle Marianne della depressione last minute. Riuscirò mai a ripescarla? Poi mi dimentico completamente del papà dell’anno, della Fossa delle Marianne e di me stessa. I bambini hanno capacità che uno neppure si aspetta. Ti vampirizzano. Ti riducono in schiavitù con una sola occhiata. Anche Viola lo fa. La bambina mi guarda, ha fame e mi aggancia, come un missile terra-aria. La mia attenzione è tutta per lei. «Ciao Viola, c’è un bel bibe pieno di latte pronto per te.» La piccola ridacchia di nuovo e allunga le manine. La prendo in braccio, mi siedo e lei incomincia a poppare. Stringe il bibe con le sue minuscole dita, chiude gli occhi beati. È uno spettacolo. Suo padre mi sta osservando. Serio. Pensieroso. Io giro leggermente il capo verso di lui, gli sorrido e dico: «Non devi andare a scaricare la macchina?» «Sì, certo.» E dopo un istante di esitazione scompare. La mia attenzione, senza suo padre a fissarmi, ritorna a Viola.


Lui va avanti e indietro con valigie e borse. Si muove nella casa come se la conoscesse a menadito. Miss Perfettina, già ribattezzata la stronza, gliela avrà mostrata via internet, con la webcam, penso. La bambina ha finito il latte e sbadiglia. Mi alzo e la metto in posizione da ruttino. Se mi sporca l’impermeabile da tenente Colombo non è un gran peccato, in fondo. Forse, così, lo butto via. Cammino su e giù per la cucina finché arriva. Burp. Un ruttino piccolo e tenero, da sweety pie. Risistemo delicatamente Viola nel suo seggiolino e frugo nella borsa rosa. Le cambio il pannolino esibendomi in una serie di smorfie e versi da puzza che divertono la piccola e anche me. Poi un’ombra mi dice che lui è vicino. Mi giro quel tanto per vederlo fermo sulla porta della cucina, come se stesse riprendendo fiato. Da quanto mi starà osservando? Riconquisto la mia aria da Mary Poppins. «Dove dorme la piccola?» domando. «Di sopra.» «Andiamo, allora.» La prendo in braccio e lo seguo su per le scale. La camera della bambina è deliziosa, di un giallo pallido, con famiglie intere di oche che si rincorrono gioiose sulle pareti. Mi sento anch’io un po’ mamma oca. No, oca soltanto. Che ci faccio in questa casa a mezzanotte con una bambina in braccio? Sotto l’occhio attento di papà Nick la depongo nel lettino, mormorandobuonanotte piccina. Di colpo mi tornano in mente le parole che mi sussurrava mia madre quando ero piccola. Un groppo mi chiude la gola. Lo mando giù. Nick accende il rilevatore di suoni, poi si china a baciare sua figlia. Dio, se non sto attenta il nodo che ho alla gola si scioglie e incomincio a versare imbarazzanti lacrime di commozione. In silenzio usciamo dalla stanza e ritorniamo di sotto. «Grazie» mormora lui. «Non so cosa avrei fatto senza il tuo aiuto.» Faccio un gesto con la mano, come se cose del genere mi capitassero di continuo, e dico: «Dovresti andare a letto anche tu, sembri stanchissimo».


Perché l’ho fatto? Per fargli capire che mi importa di lui? «Sì, difatti lo sono. È da 24 ore che non dormo. A parte una mezz’oretta in aereo…» Da dove arrivi, Nick? Usciamo in strada e mi accompagna fino al mio portone. Red è ricomparso, è lì davanti e agita la coda, nervoso. Faccio entrare la bestia e mi giro verso Nick sorridente, come se ci stessimo salutando dopo un appuntamento. Ma lui è serio. «Grazie» ripete. E mi prende la mano. E me la sfiora con le labbra. Mr. Darcy. Mr. Thornton. Nick! Cazzo. Lo guardo riattraversare la strada e mi precipito in casa, chiudo la porta dietro di me e platealmente mi ci appoggio. Sogno, vaneggio, mi sciolgo. MI HA BACIATO LA MANO! Peccato fosse quella puzzolente di acciuga.

3 La mattina dopo il nostro primo incontro mi alzo al suono della terza sveglia. Sono di sonno duro. Mi addormento di sasso e mi risveglio con un senso di magone inspiegabile. Non esistenziale, non sono così maudite. Si tratta di uno spaesamento fisico più che psichico. Per alzarmi verso le nove metto una sola sveglia. Per alzarmi alle otto ne metto due. Per le sette ne metto tre a distanza di un minuto l’una dall’altra: cellulare, telefono, radio. L’insieme dà vita a una tale sinfonia di trilli e rumori molesti che anche quella gatta morta della Bella Addormentata si risveglierebbe incavolata come una iena e Dracula fuggirebbe dal suo giaciglio diurno invocando l’intervento compassionevole di Van Helsing. Dilettanti! Io mi metto un cuscino sugli occhi e risprofondo nelle mie paturnie notturne. Non questa mattina.


Mi alzo come se il letto avesse preso fuoco e corro alla finestra del mio studio. I termosifoni sono spenti, fa freddo. Il riscaldamento non è ancora ripartito, mannaggia alle mie fissazioni ecologiche. Apro le persiane con discrezione e controllo che la station wagon sia ancora lì. È lì. Anche Nick è lì, appena oltre la strada. Pensieri per nulla casti su Nick e un letto corrono nella mia mente. Porta un pigiama a righe, come quelli che Cary Grant indossa come fossero smoking nei suoi fantastici film. No, Nick non è uno da pigiama. La mia immaginazione gli strappa la giacca di dosso con un gesto malandrino e lo lascia a torso nudo, scoperto fino all’ombelico. Come mai non sento più freddo? Eppure i caloriferi sono ancora gelati. La mia fantasia, che dovrei sedare con una buona dose di benzodiazepine, cavalca… No, questo verbo deve uscire dal mio cervello, rende i miei pensieri all’improvviso vietati ai minori. Torno all’immagine di Nick e, con un dito immaginario, arpiono la coperta e la sollevo. Wow e doppio wow. No, non pensate male, non è nudo. E non indossa neppure i calzoni del pigiama ma un paio di boxer a righine azzurre. Rimango a fissarlo a bocca aperta per qualche istante prima di risvegliarmi da quella sconveniente fantasia e rendermi conto di stare fissando un cuscino a righine azzurre. Mi riprendo con una certa difficoltà e guardo oltre la strada. Le finestre della casa di fronte sono sbarrate nonostante ormai Viola debba essere sveglia. A otto mesi una bimba si sveglia all’alba e con una fame nera, credo di ricordare. Già! Non vorrei abbandonare la mia postazione, ma così come Viola frigna per il proprio latte, la bambina che c’è in me frigna per la sua prima botta di caffeina. La moka è già pronta e accendo il fuoco. Torno alla scrivania, sbircio dalla finestra. La situazione è stazionaria, sotto controllo. Accendo il computer e le varie connessioni che mi servono per tuffarmi in internet: router, basetta wi-fi e altre diavolerie che non capisco ma a cui mi adeguo, e che spengo ogni sera perché, in modo del tutto irrazionale, sono terrorizzata da ogni tipo di radiazione. Attendo paziente che il mio fido Mac si dia da fare. Lo amo,


anche se lui non sempre mi ricambia. Apre Mail, poi Safari e va direttamente sull’ultima pagina consultata (nel cuore di una notte tormentata). «Commercials productions and postproductions.» CEO e AD: Nick Corsi. Nato a Milano nel 1966, Nick Corsi è cresciuto tra gli Stati Uniti e l’Italia. Dopo la laurea a Yale – facoltà di legge – ha iniziato a lavorare, prima come regista e poi come produttore, nel mondo dei commercials e dei trailers per cinema e televisione. Bla bla bla. Recentemente ha aperto a Milano una filiale della Commercials, che intende seguire personalmente fino alla sua affermazione nel settore.

Sposato, ha una figlia di pochi mesi. Di questa biografia essenziale, due sono le parole che la scorsa notte mi hanno procurato sonni agitati: fino e sposato. Fino, tradotto nella mia lingua, significa che the Marlboro Man rimarrà a Milano il tempo necessario per avviare la sua nuova impresa e poi se ne tornerà per la sua strada. Se ne volerà via da Malpensa come un sogno finito male e, al massimo, dall’alto mi farà ciao ciao con la manina. La storia della mia vita si ripeterà, insomma. La seconda parola, sposato, non ha bisogno di traduttori e mi dice che presto la signora Corsi calerà a valle. La immagino come una pistolera del west, con trecce bionde e lunghe che le ballonzolano su grosse tette strizzate in una camicia rossa. Ha un cappello da cowboy, come quelli di Clint Eastwood quando faceva gli spaghetti western, e una colt in mano che fa volteggiare con maestria prima di prendere la mira. Indovinate chi è il suo bersaglio? Sembra proprio che tutti ce l’abbiano con me. Prima Nick, adesso lei. Basta! È davvero troppo. Se ne frega e mi spara lo stesso. BANG BANG. Una pallottola mi colpisce non al cuore, più in basso. La signora Corsi, deduco, è una donna volgare. Volgare o no, è la cowgirl di Mr. Marlboro Man ed è probabilmente bellissima, ricca e famosa, una di quelle con le quali competere non è possibile neppure con la fantasia. D’altro canto, mi consolo, il ruolo della rovina famiglienon è mai stato per me. Non che qualche affascinante uomo sposato mi abbia mai offerto la parte…


L’aroma del caffè arriva fino alle mie narici e sale al cervello. Mi piazzo alla finestra col caffè. È forte ma troppo dolce. Che avevo in testa mentre lo zuccheravo? Forse il mio nuovo vicino di casa? Lascio correre la fantasia ripensando a quanto successo la sera prima. A Red, all’acciuga, a Viola, a Nick, al suo baciamano. A Mr. Darcy e Mr. Thornton. Avvampo: ho le scalmane come Mrs. Doubtfire. A proposito di Mrs. Doubtfire… Alle 7.30 una donna anziana si ferma davanti al n. 15. Non la vedo bene, mi dà le spalle. Presumo sia la donna di servizio o la babysitter, o forse tutte due. Le persiane della casa di fronte si aprono, una dopo l’altra, ma Nick non si vede. La sua stanza, probabilmente, dà sul giardino. Un vero peccato per me e il cannocchiale del nonno. Mezz’ora più tardi Nick si affaccia sulla porta di casa, indossa ancora la giacca di pelle. Vergognandomi di me stessa penso una banalità come è un figo pazzesco. Non prende la station wagon ma procede verso il cancello a piedi. Il cuore smette di battere quando per un istante si ferma e si volta verso casa mia. Sembra indeciso, pensieroso, poi riprende a camminare ed esce dal mio orizzonte visivo ma non dalla mia testa. Per il resto della mattina sto a rimuginare sul significato di quel gesto, probabilmente del tutto casuale. Forse voleva dirmi qualcosa? Magari solo chiedermi dove trovare una tintoria. Non vorrei che mi avesse preso per la sua consulente d’economia domestica. Metto un cd di Tina Turner, che ha settant’anni e ha più grinta di me. E parla dell’amore con lo stesso entusiasmo di un’adolescente. Ascolto Steamy Windowspensando, come suggeriscono le parole della canzone, di rotolarmi sul sedile posteriore di un auto con un bel maschione. Una station wagon, magari? Se il mio fiato appannerà mai un vetro, sarà solo quello della finestra del mio studio, dove questa sera mi apposterò come Mata Hari ad aspettare che Nick rientri a casa. Alle 8.30 Camilla suona alla porta. È alta, bella, quarant’anni. Lavora in banca e ha una relazione con un uomo sposato, per cui ufficialmente è single. L’amante è un suo


cliente, danaroso e, da quello che lei dice, estremamente porco. La faccio entrare sperando che a quest’ora non mi parli delle performance atletico-sessuali del suo amante assatanato. Non lo sopporterei, è da mesi che sono casta come una vestale. Per fortuna la scampo. Camilla è di fretta, non mi saluta neppure e fa: «È un figo pazzesco, l’ho visto!» Concordo, naturalmente, ma la guardo con l’espressione di una seppia ritardata. «Chi?» «Chi? Non ti sei accorta, cappuccetto rosso, che qui davanti è arrivato il lupo cattivo? Uno che, se solo lo lasci avvicinare, ti sbrana?» Gesticola, e in qualche modo mi ricorda Crudelia Demon. Penso a Nick che parla dolcemente alla sua bambina e scaccio l’immagine del lupo con denti aguzzi grondanti sangue di vergine che Camilla ha evocato. Taccio. Lei si versa del caffè. Chissà perché tutti scambiano casa mia per un open bar. «Non l’ho ancora visto» mento spudoratamente. «Ma seguirò il tuo consiglio e non mi lascerò sbranare.» Camilla non mi è mai stata veramente simpatica. È troppo tutto. E non sta mai zitta, neanche quando potrebbe evitarlo. «Questo caffè fa schifo, Nora, perché non ti prendi una Nespresso?» Appunto. Io amo il caffè della moka. Perché la gente non lo capisce? «Se con la macchina del caffè mi regalano anche il vecchio George, potrei anche pensarci.» Suonano alla porta. È Francesca, l’avvocato. Anche lei non mi saluta. Guarda con disprezzo la mia vestaglia, le ciabatte di Pippo, i miei capelli spinaciosi. Poi passa all’attacco, risolutiva e decisionista come sempre. «Tu stamattina vai dal parrucchiere, ti rifai la tinta, poi corri dall’estetista e ti fai depilare tutta, e quando dico tutta dico anche lì.» Indica le mie parti intime.


La guardo come fosse appena uscita dal manicomio. «Cosa ti sei fumata stamattina dopo il caffè?» le chiedo. «L’ho visto. Lui, il dottor Corsi. È arrivato ed è un figo pazzesco.» Anche lei con ‘sta storia del figo pazzesco. Come se non lo sapessi già. «Stratosferico!» le fa eco Camilla. Addirittura. Le due si scambiano un cenno d’intesa. «Ergo» prosegue Francesca senza battere ciglio, «è proprio il caso che tu ti restauri un po’ prima di incontrarlo casualmente questa sera. Mettiti quel vestito nero, quello aderente che ti fa le chiappe da brasiliana!» «E tacchi alti» aggiunge Camilla che si butta con Francesca in una delirante e ardita conversazione sul colore della biancheria che dovrei indossare. E non sono sicura che scherzino. Vestito, tacchi alti, depilazione? Sogno o son desta? Son desta, purtroppo. Quindi esplodo. «Alt, retromarcia, fermi tutti!» urlo quasi, cercando di richiamare la loro attenzione. Niente da fare. Continuano a cianciare, di Nick, di abiti aderenti e di depilazioni. Devo fermarle. «L’ho già conosciuto» dico con tono casuale, ma quelle neppure mi sentono. Alzo i decibel. «L’ho-già-co-no-sciu-to» strillo, raggiungendo un livello di inquinamento sonoro pericoloso. Questa volta, la mia voce ha il potere di calmarle. Mi guardano con occhi stralunati e io, brevemente, racconto il mio incontro con Mr. Marlboro Man. «Dio che romantico!» fa Camilla. «Un vero disastro!» commenta Francesca guardando intensamente i miei ciabattoni.


«Già» ci ripensa Camilla. Le lascio ancora dibattere cinque minuti su come rimediare allo strano incontro (il mio con Nick), poi le spingo senza molta delicatezza verso la porta di casa. In pratica le sbatto fuori. «Ricordati il parrucchiere!» urla Camilla.

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