Comportati bene e resterai solo un manuale sulla dannata razza umana

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Comportati bene e resterai solo. Un manuale cinico sulla dannata razza umana. Š2014 Piano B edizioni, Prato

Traduzione e cura di Alessandro Miliotti

www.pianobedizioni.com Tutti i diritti sono riservati

In copertina: Twain's Game Š Bert Underwood/George Eastman House/Getty Images

Prima edizione settembre 2014

ISBN:

978-88-96665-84-8



Un Diogene americano

L’ultimo quarto di secolo della mia vita l’ho dedicato, con costanza e dedizione, allo studio della razza umana: ossia allo studio di me stesso, poiché nella mia persona si trova, compressa, tutta la razza umana. E ho scoperto che non esiste una componente della razza che io non possegga, in piccola o grande quantità. Se un dato elemento è piuttosto scarso, a paragone con la quantità posseduta da qualche altro, esso è pur sempre abbastanza per poterlo esaminare. Nei miei contatti con la mia specie non trovo nessuno che possegga una qualità che io non posseggo. Le lievi differenze fra me e gli altri giovano alla varietà e impediscono che vi sia monotonia, ma non altro; parlando genericamente, siamo tutti uguali; cosicché, osservando attentamente me stesso e paragonandomi agli altri e notando le differenze, mi sono messo in grado di acquisire una conoscenza della razza umana che, mi accorgo, è più precisa e ampia di quella acquisita e rivelata da un qualsiasi altro membro della specie. Il risultato è che l’opinione segreta e nascosta di me stesso non è molto favorevole. Ne consegue che la mia stima della razza umana è una copia conforme della valutazione che ho di me stesso. 1

Così dettava alla sua stenografa nei primissimi anni del Novecento Mark Twain – al secolo noto come Samuel Langhorne Clemens, nato a Florida nel 1835 e cresciuto nella vicina Hannibal, Missouri – in uno degli svariati abbozzi biografici che ne hanno contraddistinto la carriera letteraria negli ultimi quarant’anni di vita. Nello specifico ci si riferisce all’autobiografia curata dal segretario “storico” di Clemens, Albert Bigelow Paine, e pubblicata nel 1924, poco più di un decennio dopo la morte dello scrittore. Ed è proprio a partire da quelle parole, dettate con tutta probabilità al sorgere del Ventesimo secolo: «L’ultimo quarto di secolo della mia vita l’ho dedicato, con costanza e dedizione, allo studio della razza umana: cioè a dire allo studio di me stesso», che si è provato a dare un senso a una piccola parte della vasta, disordinata e spesso contraddittoria produzione finale e minore di Mark Twain, quella che caratterizza gli ultimi anni dell’Ottocento e tutta la prima decade del Ventesimo secolo, sino a quando morirà nell’aprile del 1910 in seguito a un arresto cardiaco, già duramente provato dalla perdita dell’amata moglie e di tre dei quattro figli.


È infatti difficile riferirsi alla produzione finale e “laterale” di “Mark Twain” senza accennare prima brevemente all’ultima parte dell’esistenza di Samuel Clemens, che corre in parallelo con l’evoluzione del pensiero cupo, profondamente scettico e cinico che caratterizzerà in modo progressivo i suoi ultimi lavori. Prima la bancarotta dichiarata nel 1894, all’età di cinquantanove anni, a seguito del fallimento della sua casa editrice e di un progetto per costruire una nuova macchina tipografica, alla fine mai realizzata ma su cui riversò, perdendolo, gran parte del ricco patrimonio (circa 300.000 dollari dell’epoca); e poi, soprattutto, l’annus horribilis 1896, con la morte della figlia Susy e l’inizio della depressione. Ma il destino non cessò di accanirsi contro la famiglia Clemens, e nel giro di pochi anni le morti della moglie Olivia (1904) e della terza figlia Jean (1909), devastarono definitivamente l’animo già ferito del vecchio scrittore americano. Il disastro economico e familiare a cui assiste in questi anni finisce inevitabilmente con il segnarne la produzione artistica. Lo sguardo diviene cinico, l’humor acuto si adombra in sarcasmo, la fondazione morale che regola l’universo crolla definitivamente davanti ai suoi stessi occhi: Dio è divenuto ostile. Una gran parte di questo mutamento di prospettiva prese concretamente forma con “What is Man?” – “Cos’è l’uomo?” – un saggio in forma dialogica pubblicato nel 1906 in cui un giovane e un vecchio discutono sulla natura dell’uomo, sostanzialmente ignorato dalla critica dell’epoca e che rende parzialmente conto del mutamento del Mark Twain romanziere di successo nel Samuel Clemens filosofo scettico e moralista. Ma anche To the Person Sitting in the Darkness (1901) – Alla persona che siede nelle tenebre – e King’s Leopold Soliloquy (1905) – Il soliloquio di re Leopoldo –, satirici pamphlet anti-imperialisti, testimoniano del medesimo cambiamento di prospettiva e della caustica disillusione espressa nei confronti della civiltà e del genere umano. Nel 1917 Paine curerà un’antologia di saggi chiamata “What is Man?” and Other Essays, inaugurando forse con ciò la fama “postuma” del Twain filosofo e polemista. Ma anche alcuni dei lavori di fiction più noti di quest’ultima fase, come The Mysterious Stranger – Lo straniero misterioso apparso solo postumo nel 1916 –, e The Man That Corrupted Hadleyburg – L’uomo che corruppe Hadleyburg, pubblicato nel 1899 – testimoniano della diversa inclinazione assunta dall’arte di Twain/Clemens, e del suo animo divenuto amaro, cinico, disilluso. Quello che in effetti salta agli occhi quando si prova a scandagliare la sterminata produzione “minore” di questo suo ultimo «quarto di secolo di vita», è di trovarsi di fronte a una peculiare trasformazione di Mark Twain, lo “scrittore per ragazzi”


divenuto celebre per avere declamato l’epopea delle due canaglie americane Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Come se a un certo punto della sua esistenza, “Mark Twain”– lo pseudonimo nato in un’oscura redazione di un oscuro quotidiano di provincia in Nevada nel febbraio del 1863 (l’espressionemark twain è, in gergo nautico, il segnale per indicare la profondità dell’acqua di dodici piedi, ovverosia la profondità necessaria e sufficiente per la navigazione), la prima superstar americana come lo definì la rivista «Time» in una sua storica copertina – si fosse ritirato. Si fosse ritirato per lasciare il posto all’antropologo, al filosofo cinico, al battutista irriverente, al disperato, istrionico, cupo, geniale e amaro performer in bancarotta impegnato in tournée mondiali, Samuel Langhorne Clemens. E non è certo un caso che molta di questa produzione non fu mai data alle stampe: nella pubblicazione di questi lavori – alcuni dei quali riportati alla luce e in diverse parti sostanzialmente editati dal curatore Bernard DeVoto, nelle due raccolte di scritti postumi Mark Twain in Eruption (1940) e Letters from the Earth (1967) – lo scrittore vedeva solo una possibile fonte di problemi per la reputazione di “Mark Twain” e per quella della sua famiglia. Perché «solo ai morti è concesso dire la verità», come amava ripetere qua e là, in molti di questi scritti e articoli. E così fu: un archivio praticamente sterminato e in gran parte inedito di discorsi, editoriali, sketch umoristici, lettere, aforismi. E tra questi emerge uno specifico nucleo di lavori, caratterizzati, nello stile dell’ultimo Twain, da una miscellanea di generi e ispirazioni, segnati però da un intento esplicito e da un comune denominatore: capire la razza umana – cercarel’essere umano. Parte di questi lavori entrarono a far parte di una breve sezione di Lettere dalla terra che DeVoto intitolò The Damned Human Race, la dannata razza umana, una selezione di brani perfettamente accordati con l’ultimo Twain/Clemens a cui ci si vuole riferire con questo “manuale cinico”. Tra questiWas the World made for Man? – Il mondo fu creato per l’uomo? –, satira scritta nel 1903 sulla presunzione umana circa il proprio ruolo nel creato e qui riproposta come ideale prologo, e The Lowest Animal – L’animale inferiore –feroce resoconto del 1896, un sarcastico confronto tra supposti animali inferiori e, appunto, l’essere umano. Ed è questa breve sezione (in realtà parte del materiale compreso in The Damned Human Race era già comparso in alcuni discorsi ed estratti dall’autobiografia pubblicata nel 1924) che ha dato il via e ispirato questo “manuale cinico”, immaginato come un’indagine condotta dall’uomo Samuel Clemens (più che dallo scrittore “Mark Twain”) sulla razza umana, e dunque su se stesso – come affermato nella citazione iniziale – e dispiegata in uno zibaldone


di brani sospesi tra finzione, biografia e filosofia. Si è così cercato di mettere in risalto una parte – ancorché molto piccola rispetto alla vasta produzione – proprio di quell’«ultimo quarto di secolo» della vita di Twain/Clemens, senza dubbio la meno nota, senz’altro la più controversa e amara.

Oltre che dar credito alla tesi della “frattura” occorsa a un certo punto della sua esistenza tra lo scrittore Mark Twain e l’uomo Samuel Clemens, con questo “manuale cinico” si è voluto compiere un atto d’immaginazione, e certamente d’arbitrio: si è cercato d’immaginare un mestiere da attribuire a Samuel Clemens in quel suo ultimo quarto di secolo di vita; e forse inevitabilmente, tra le decine di mestieri svolti nei suoi tre quarti di vita precedente, oltre a quello “ufficiale” di «professionista letterario» che lo ha accompagnato per oltre quarant’anni, lo si è immaginato come un filosofo. E proprio come un beffardo, sottile e irriverente filosofo cinico, come “il cane” di tutti i cinici, il “Socrate pazzo” di Sinope – il cinico Diogene che visse dentro a una botte e da lì ammoniva gli uomini d’imparare a vivere dai cani. Si racconta che una volta Diogene uscì in pieno giorno con una lanterna, e chi lo vide cominciò a schernirlo. Poi gli chiesero che cosa stesse facendo, e lui rispose «Cerco l’uomo». Appunto. Anche in questa selezione di brani – gran parte dei quali inediti – lo stesso sarcasmo e la medesima ironica “ricerca” dell’uomo ritornano come una costante, quasi Twain/Clemens avesse preso in prestito l’antica lanterna di Diogene per portarla in giro per il mondo tra Ottocento e Novecento. Se infatti il “Socrate pazzo” desiderava insegnare agli uomini a riverire il primato dell’indipendenza e della libertà di parola e azione, esortandoli a vivere contro se stessi, contro il loro pudore, contro le loro convenzioni e le loro abitudini, Samuel Clemens sembra prendere amaramente nota del fatto che tutto il lavoro di Diogene è andato sprecato. L’uomo non riesce a imparare nulla che gli serva davvero. E così, come l’antico Diogene, il cinico di Hannibal finisce continuamente con lo sferzare e irridere la razza, e pare ricordare agli uomini di guardarsi anzitutto da se stessi, di considerare il fatto che la civiltà non è necessariamente progressiva, che la menzogna è l’abito che riveste la convenzione, che l’unico modo di cui l’uomo dispone per promuovere la causa della virtù e dell’indipendenza è la pratica della virtù e dell’indipendenza. Il tono dello scrittore passa dallo sprezzante, al canzonatorio, al bonario, al beffardo. Le fobie e le debolezze della razza, la civiltà, la sua stessa vita e la vita del lettore, tutto viene diminuito e sacrificato sotto il particolare microscopio del filosofo cinico. Brano


dopo brano, fra paradossi, nonsense e parabole vere o false, la razza umana è messa continuamente a nudo nella sua tragicomica risibilità. Sono infatti poche le pagine in cui non si avverta quasi un senso di derisione, che sfocia a volte nell’autocommiserazione, per la condizione di una specie alla quale anch’egli appartiene. Questi motivi ritornano ossessivamente, soprattutto nella seconda e terza parte di questa antologia: il carattere dell’uomo, il suo senso morale, la sua tendenza a imitare, la sua tendenza a fingere di non mentire, la sua tendenza a credere che un Dio qualsiasi si preoccupi delle sue miserevoli parole o azioni. Il crudo determinismo, che in certi passaggi pare prestare il fianco al nichilismo più disperato, lascia l’impressione amara in bocca che più che un homo sapiens si stia forse cercando di descrivere un homo horribilis, il bugiardo, vanaglorioso, egoista essere umano: il distruttore di paradisi per eccellenza. Solo l’ironia, beffarda, che pervade anche gli scritti più distruttivi, riesce a smorzare la sensazione di delusione e la peculiare – swiftiana – misantropia che caratterizza buona parte di questi lavori e che condividono la sostanza con quel nucleo di scritti che DeVoto riunì sotto il titolo di The Damned Human Race. E ancora, come Diogene, la stima per gli animali inferiori, spesso presi comemisura e da entrambi giudicati come espressione più nobile e alta del creato, di certo se paragonati all’essere umano. Proprio a questo proposito è interessante notare come la parola greca kynikòs, cinico, derivi da kyôn, cane, l’epiteto con cui gli ateniesi disprezzavano gli adepti della scuola cinica di Antistene, i caniche vivevano per strada, schernivano le convenzioni e scandalizzavano tutti. Anche il ricorso al genere favolistico che caratterizza invece la prima parte del libro, dedicata alle “traduzioni” degli antichi diari dei fondatori della razza – come lo scrittore amava definire i suoi lavori su Adamo ed Eva – pare rendere omaggio alla tradizione sarcastica del cinismo, oltreché servire da ideale preludio ai temi centrali a cui si è accennato sopra. La fascinazione adamitica delprimo uomo caratterizza infatti non solo gli estratti dei Diari di Adamo ed Eva, ma anche una gran parte delle meditazioni coeve e successive di Twain/Clemens sulla razza umana: la dannazione della mela, le figure rappresentate da Adamo ed Eva, uomini/bambini vittime ignoranti di un Dio ostile, in balìa di carattere e circostanze, sono infatti tra le ispirazioni ricorrenti di tutta quest’ultima fase dello scrittore statunitense, e che dall’inizio alla fine pervadono e tengono insieme anche le pagine di questa antologia, come un saldo ma sottile fil rouge. Pubblicati tra il 1893 e il 1906, i Diari di Adamo ed


Eva (oltre a vari scritti minori sui fondatori della razza, molti dei quali apparsi solo postumi) restano tra le cose migliori – e più sottovalutate – prodotte durante questi ultimi anni. Ricchi di humor, geniali, profondi, i Diari (e in genere tutto il filone dedicato aifondatori) risultano quasi del tutto immuni anche dal tono greve, quasi rancoroso, usato a volte dallo scrittore in altri lavori analoghi, non ultimo Lettere dalla terra. Un capitolo di questo vademecum sulla razza umana non poteva che essere dedicato alla religione e a Dio, tema che più di ogni altro fece sempre consigliare Clemens per il meglio circa la pubblicazione di alcuni dei suoi scritti. Pagine, per chi conosce Lettere dalla terra, che non sorprendono per lo scetticismo e il sarcasmo con i quali lo scrittore investe l’istituzione ecclesiastica e il suo Dio, in particolare quello dell’Antico Testamento, che fu sua lettura assidua dall’infanzia sino all’età matura (il piccolo “Sam” Clemens ricevette un’educazione presbiteriana, e lo stesso Paine riferisce che le bibbie dello scrittore, sino in tarda età, erano pesantemente annotate). Negli scritti brevi Thoughts of God – Pensieri di Dio – e Bible Teaching and Religious Practice – Insegnamento biblico e pratica religiosa – entrambi composti alla fine dell'Ottocento e proposti qui per la prima volta in italiano, si condensano infatti le tematiche centrali che segneranno le meditazioni religiose dei suoi ultimi venti anni di vita, e che troveranno forse una sistemazione più organica proprio in Lettere dalla terra, scritto solo pochi mesi prima di morire. L’indifferenza di Dio nei confronti dell’uomo, la totale assenza di pietas dimostrata nei suoi riguardi, l’eterna regolarità delle leggi dell’universo, la corruzione dell’istituzione ecclesiastica, sono i temi che caratterizzano questi e tutti gli scritti successivi dello scrittore a carattere religioso, sino appunto alle Lettere. Qui, come già detto per i Diari, il tono appare meno feroce, l’ironia più leggera, l’esposizione meno gravata dall’amarezza. Segno, forse, di una sorte che non aveva ancora abbattuto il colpo definitivo sulla famiglia Clemens. Questo stesso capitolo comprende inoltre un sorprendente manifesto religioso: una mordace e perentoria “professione di fede” sospesa tra agnosticismo e determinismo: «I Believe in God, the Almighty» – Io credo in Dio, l’Onnipotente – scrive nell’incipit di Three Statements from the Eighties, – Tre osservazioni dagli anni Ottanta – brano che come da titolo non appartiene proprio all’ultima fase della sua vita, ma che è sufficiente per continuare a discutere della peculiarità – e della contraddittorietà – delle sue visioni religiose e metafisiche. Una brevissima selezione finale è dedicata al ruolo di vero e proprio performerdi fama internazionale di discorsi, conferenze ed eventi mondani di ogni genere, che


dette a Clemens e alla sua famiglia l’occasione di girare l’America e l’Europa, e pure di ripagare parte dei debiti. Dei suoi settantacinque anni di vita lo scrittore ne passò quasi dodici all’estero, girando tutto il mondo per lavoro e piacere. Verso la fine del XIX secolo si assiste infatti all’esplosione del lecturing, vere e proprie tournée che impegnavano (e ben retribuivano) scrittori e personaggi pubblici in conferenze e simposi internazionali. Twain fu senz’altro tra i più acclamati e richiesti conferenzieri al mondo della sua epoca, e soprattutto nel periodo a cui si riferisce questa antologia. Dall’agosto 1895 al luglio dell’anno seguente s’imbarcò con la moglie Olivia e la figlia Clara per una tournée che attraversò l’intero impero Britannico, toccandone le colonie sparse per il globo. Il tour ebbe grande successo e gli permise di risollevare parzialmente le disastrate finanze. Di questa lunga tournée sarà testimone il suo ultimo libro di viaggio, Following the Equator (1897) – Seguendo l’Equatore.Dal 1906 “Mark Twain” comincerà a farsi vedere in giro esclusivamente in completo bianco, e i suoi interventi pubblici saranno tramandati alla stregua di veri e propri show estemporanei, messi in piedi da un istrione irriverente, capace di irretire e al contempo intrattenere la platea. Ed è proprio in completo bianco, seduto mentre fuma un sigaro o la pipa, che si tramanderà nel mito l’icona della vecchiaia di “Mark Twain”. Per concludere, e ancora quasi in omaggio al cinico Diogene, si è voluto far titolare ognuno degli scritti selezionati per questo vademecum sulla razza umana da una specie di sentenza diogeniana – moderni apoftegmi cinici –, aforismi e battute fulminanti che Twain ha seminato durante tutta la sua vita, e che qui intendono guidare il lettore, come voce narrante, attraverso i brani.

Il curatore Alessandro Miliotti


Le note bio-bibliografiche relative ad ogni scritto presente sono del curatore e riprese principalmente da tre fonti: Mark Twain (1965), a cura di Piero Mirizzi; The Routledge Encyclopedia of Mark Twain (1995), a cura di J. R. LeMaster e James D. Wilson e Mark Twain A to Z. The Essential Reference to his Life and Writings (1993), a cura di R. Kent Rasmussen. Le note dell’autore sono indicate con N.d.A. Le indicazioni bibliografiche delle citazioni in capo ai testi fanno riferimento a: The Quotable Mark Twain. His Essential Aphorism,Witticism, and

Concise Opinions (1992), a cura di R. Kent Rasmussen.

PROLOGO SU COME IL MONDO FU CREATO PER L’UOMO, O FORSE NO

«Alla fine comparve la scimmia, e tutti capirono che l’uomo era ormai vicino.»2


Sembro essere il solo scienziato e teologo rimasto ancora da ascoltare sull’importante questione se il mondo sia stato creato per l’uomo o no. Penso che sia giunto anche per me il momento di parlare. Io sono abbastanza solidale con gli altri. Loro credono che il mondo sia stato creato per l’uomo, io penso sia probabile che il mondo sia stato creato per l’uomo; loro credono che ci sia la prova, soprattutto astronomica, che il mondo sia stato creato per l’uomo, io penso che ci siano solo indizi, non prove, che il mondo sia stato fatto per lui. È comunque troppo presto per stabilire un verdetto; non tutti i giurati hanno espresso la loro preferenza. Ma quando tutti si saranno pronunciati credo che potremo affermare con certezza che il mondo è stato creato per l’uomo; però non c’è da aver fretta, dobbiamo aspettare pazientemente che ognuno abbia detto la sua. Al punto in cui siamo, l’astronomia ci dà ragione. Mr. Wallace l’ha chiaramente dimostrato. In particolare queste due cose: che il mondo è stato creato per l’uomo e che l’universo è stato creato per il mondo – per sorreggerlo, ovviamente. E con questo la parte astronomica è sistemata – la cosa è inconfutabile. Passiamo ora all’aspetto geologico. Questo è un problema sul quale non tutti i giurati si sono espressi, per il momento. Lo stanno facendo – ora dopo ora, giorno dopo giorno, in continuazione – ma ovviamente ciò avviene con prudenza e ponderatezza tutta geologica, e non dobbiamo essere impazienti, non dobbiamo agitarci ma stare calmi e aspettare. Perdere la calma non metterà fretta alla geologia: niente può metter fretta alla geologia. Ci vuole del tempo per preparare un mondo per l’uomo, non è una cosa che si fa in un giorno. Alcuni dei più grandi scienziati, decifrando attentamente i dati forniti dalla geologia, sono arrivati alla conclusione che il nostro mondo è prodigiosamente vecchio, e potrebbero anche aver ragione, sebbene Lord Kelvin sia di avviso diverso. Lord Kelvin ha un punto di vista prudente e conservatore, giusto per tenersi al riparo da sorprese, e non si sente così sicuro che la Terra sia vecchia come pensano. E dato che Lord Kelvin è oggi la massima autorità vivente in campo scientifico, penso si debba starlo a sentire e accogliere il suo punto di vista. Lui non concede che il mondo abbia più di un centinaio di milioni di anni. Crede che sia vecchio, ma non più vecchio di com’è. Lyell credeva che la nostra razza fosse apparsa nel mondo 31.000 anni fa, Herbert Spencer ne proponeva 32.000. Lord Kelvin è d’accordo con Spencer.


Molto bene. Secondo i dati di Kelvin ci sono voluti 99 milioni e 968.000 anni per preparare il mondo per l’uomo, per quanto il Creatore fosse indubbiamente impaziente di poterlo vedere e ammirare. Ma una grande impresa come questa deve essere compiuta con cautela, scrupolo e logica. Fu dunque previsto che l’uomo avrebbe avuto bisogno dell’ostrica, e i primi preparativi furono fatti perché l’ostrica potesse esistere. Non è una cosa che si fa in un giorno. Tanto per cominciare è necessario creare una gran varietà di invertebrati – belemniti, trilobiti, gebusei, amaleciti e altra paranza del genere3 – metterla a mollo in un mare primario e stare a vedere che succede. Alcuni saranno una delusione – belemniti, ammoniti e simili saranno un fallimento, moriranno e scompariranno nel corso dei diciannove milioni di anni coperti dall’esperimento, ma non tutto andrà perduto, ché gli amaleciti vinceranno la gara e si svilupperanno gradualmente in encrinidi, stalattiti e chiacchieroni; e tra una cosa e l’altra le potenti ere si avvicenderanno lentamente, il periodo Archeano e quello Cambriano accumuleranno le loro enormi rocce nei mari primordiali, finché finalmente la prima grande fase nella preparazione del mondo per l’uomo sarà compiuta – e l’ostrica fatta. L’ostrica ha a malapena la potenza intellettiva dello scienziato, e dunque è ragionevolmente plausibile che sia saltata alla conclusione che i diciannove milioni di anni fossero stati impiegati per creare appunto lei, l’ostrica; e questo è tipico dell’ostrica, che è l’animale più presuntuoso che ci sia, a parte l’uomo. E comunque l’ostrica non poteva sapere, in quei primi momenti, di essere solo un dettaglio di un progetto ben più grande, e che molto altro si sarebbe dovuto aggiungere allo schema. Fatta l’ostrica, la cosa successiva da preparare per organizzare il mondo per l’uomo fu il pesce. Il pesce, e il carbone per friggerlo. Così furono aperti i vecchi mari siluriani per allevarci i pesci, e allo stesso tempo fu avviata l’enorme opera di costruzione di montagne di vecchia arenaria rossa alte ottantamila piedi da utilizzare come frigoriferi per i fossili di pesci. Quest’ultima operazione fu abbastanza indispensabile, ché anche in questa fase ci sarebbero stati fallimenti su fallimenti, estinzioni su estinzioni – a milioni – e sarebbe stato più economico e meno faticoso inscatolarli in delle rocce che elencarli in un registro. Non si costruiscono bacini carboniferi e ottantamila piedi di pareti perpendicolari di vecchie arenarie rosse in poco tempo – no, infatti ci sono voluti venti milioni di anni. In primo luogo un bacino carbonifero è una faccenda lenta, faticosa e tediosa da costruire. Prima c’è da far crescere meravigliose foreste di felci e canne ed equiseti e


altre cose del genere in una regione paludosa; poi bisogna lasciare che sprofondino del tutto e che marciscano; quindi è necessario deviarci sopra i fiumi, in modo tale da seppellirle sotto diversi metri di sedimenti, e a loro volta i sedimenti devono avere il tempo di indurirsi e diventare rocce; fatto ciò occorre farci crescere sopra un’altra foresta, lasciarla sprofondare di nuovo e ricoprirla con un altro strato di sedimenti, che a loro volta devono indurirsi; quindi altre foreste e altre rocce, strato dopo strato, tre miglia in profondità – è davvero un lavoro di una lentezza nauseabonda costruire, e bene, un bacino carbonifero. Così passano i milioni di anni, uno dopo l’altro; e nel frattempo l’allevamento di pesci si trascina in modo così pigro e stanco da annoiare chiunque. Dall’ostrica sono state sviluppate diecimila specie di pesci e ora, guardate un po’, non ci sono altro che fossili, nient’altro che estinzioni. Non è rimasto niente che sia vivo e in movimento, tranne uno o due ganòidi e forse una mezza dozzina di asteroidi. Neanche il gatto se ne gioverebbe. E comunque non è una tragedia; c’è ancora un sacco di tempo a disposizione, e si evolveranno senz’altro in qualcosa di saporito prima che l’uomo sia pronto. Una volta raggiunto il limite dell’era Paleozoica, fu necessario passare alla fase successiva della preparazione del mondo per l’uomo, inaugurando l’era Mesozoica e introducendo qualche rettile. Perché l’uomo avrebbe avuto bisogno di rettili. Non per mangiarseli, ma per discenderne. Ed essendo questo il dettaglio più importante dello schema, a ciò fu riservato un lasso di tempo estremamente ampio – trenta milioni di anni. Quali meraviglie seguirono! Dai ganòidi rimasti e asteroidi e alcaloidi superstiti si svilupparono, con un allevamento lento, costante e meticoloso, stupendi sauri che in quelle epoche remote erano soliti strisciare per il mondo vaporoso, agitando le teste viperine a quaranta piedi di altezza e trascinandosi dietro sessanta piedi di corpo e coda. Tutti andati, ormai, ahimè – tutti estinti tranne una manciata di arkansasauri rimasti soli qui con noi, in questa remota e desolata frangia di tempo. Sì, ci sono voluti trenta milioni di anni e venti milioni di rettili per ottenerne uno che sarebbe sopravvissuto abbastanza da potersi sviluppare in qualcos’altro, e permettere allo schema di passare alla fase successiva. Fu allora che lo pterodattilo irruppe nel mondo in tutta la sua imponente solennità e magnificenza, e tutta la Natura riconobbe che la soglia Cenozoica era stata superata e che una nuova era si stava aprendo, dando così il via al passo successivo della preparazione del mondo per l’uomo. Può darsi che lo pterodattilo abbia pensato che i trenta milioni di anni appena trascorsi fossero stati destinati a preparare proprio il suo avvento, perché


non c’è stupidaggine abbastanza grande che uno pterodattilo non sia capace d’immaginare; ma si sbagliava, perché infatti erano serviti a preparare l’uomo. Indubbiamente lo pterodattilo suscitò grande interesse, perché anche l’osservatore meno attento si sarebbe reso conto che nello pterodattilo c’erano le premesse dell’uccello. E così fu. E c’erano pure quelle dei mammiferi, col tempo. Una cosa c’è da dire in suo onore: in quanto a pittoresco, lo pterodattilo era il vero trionfo della sua epoca: aveva ali e denti, una miscela di formale e meraviglioso, una specie di sintomo premonitore del marine di Kipling:

Non è di truppa, non è della ciurma, è una specie d’ermafrodito, marinaio e soldato insieme.

Da questo momento in poi e per quasi altri trenta milioni di anni i preparativi progredirono rapidamente. Dallo pterodattilo si sviluppò l’uccello; dall’uccello il canguro; dal canguro vari marsupiali; da questi il mastodonte, il megaterio, il bradipo gigante, l’alce irlandese e tutta quella folla di animali dai quali è possibile ricavare fossili utili e istruttivi. Poi arrivò la prima era glaciale, al cospetto del quale tutti questi esseri si ritirarono passando dallo stretto di Bering e vagando a lungo per l’Asia e l’Europa. Poi morirono. Ma non tutti: i pochi rimasti resero possibile proseguire i preparativi. Sei ere glaciali ogni due milioni di anni inseguirono quei poveri orfani su e giù per la terra, da clima a clima, dal caldo tropicale dei poli al gelo artico dell’equatore, e viceversa, senza mai sapere che tempo avrebbe fatto il giorno dopo; e se mai riuscivano a trovare riparo da qualche parte, ecco che senza il minimo preavviso l’intero continente sprofondava sotto i loro piedi e finivano al posto dei pesci; allora dovevano arrampicarsi dove prima stavano i mari, e senza uno straccio asciutto indosso; poi, quando tutto sembrava tranquillo, un vulcano eruttava e il fuoco li scacciava da dove si erano rifugiati. Vissero questa vita inquieta e irritante per venticinque milioni di anni, un po’ a mollo e un po’ all’asciutto, ma sempre chiedendosi a che cosa servisse tutto quel macello, senza mai sospettare, naturalmente, che altro non erano se non i preparativi per l’uomo, i quali dovevano essere esattamente così, o per lui non ci sarebbe stato un posto confortevole e armonioso in cui vivere. E alla fine comparve la scimmia, e tutti capirono che l’uomo era ormai vicino. E andò proprio così. La scimmia continuò a svilupparsi per altri cinque milioni di anni, e


quindi si trasformò in un uomo – almeno in apparenza. Questa è la storia. L’uomo è qui da 32.000 anni. Che ci siano voluti un centinaio di milioni di anni per preparargli il mondo è la prova che tutto ciò è stato fatto proprio per lui. Almeno credo, non lo so. Se la torre Eiffel rappresentasse oggi l’età del mondo, il velo di vernice sul pomo del pinnacolo posto alla sua sommità rappresenterebbe l’età dell’uomo; e chiunque capisce che è esattamente per quel velo di vernice che è stata costruita la torre. Almeno credo che lo capirebbe, non lo so.

Il mondo fu creato per l’uomo?, 19034

1 - SUI FONDATORI DELLA RAZZA E SU COME LA MORTE È ENTRATA NEL MONDO.

«L’uomo fu creato alla fine di una settimana di duro lavoro – quando Dio era stanco.»5

Il Creatore sedeva sul trono, e meditava. Alle sue spalle si estendeva l’infinito Regno Celeste, immerso in uno splendore di luci e colori; davanti a lui, come un muro, si ergeva la buia notte dello Spazio. La sua possente figura torreggiava austera come una montagna nello Zenith, e la sua testa divina vi risplendeva come un sole lontano. Ai Suoi piedi stavano tre figure colossali, che quasi scomparivano al suo cospetto: erano gli arcangeli. Le loro teste gli arrivavano all’altezza della caviglia. Quando il Creatore ebbe finito di pensare, disse: «Ecco, ho pensato. Guardate!».


Levò la mano e da essa divampò una fontana di fuoco, un milione di soli stupendi squarciarono l’oscurità e salirono in alto, e sempre più distanti, diminuendo di grandezza e intensità mentre oltrepassavano le remote frontiere dello spazio, finché alla fine non furono altro che fulgidi diamanti sotto l’immensa volta dell’universo. Dopo un’ora il Gran Consiglio fu sciolto. Impressionati e pensierosi gli arcangeli lasciarono l’Augusta Presenza e si appartarono per discutere in libertà. Nessuno dei tre sembrava disposto a prendere la parola, sebbene tutti desiderassero che qualcuno lo facesse. Morivano dalla voglia di discutere del grande evento, ma non volevano esporsi senza prima aver sentito l’opinione degli altri. Ci fu qualche chiacchiera vaga e noiosa su questioni di poca importanza, finché l’arcangelo Satana si fece coraggio – che di certo non gli mancava – e ruppe gli indugi. Disse: «Signori miei, conosciamo bene il motivo di questa riunione. Suggerisco di smetterla con questa messinscena e cominciare. Se questa è anche l’opinione del Consiglio…». «Certo, certo!» esclamarono Gabriele e Michele, interrompendolo riconoscenti. «Benissimo, allora procediamo. Abbiamo assistito a qualcosa di meraviglioso; su questo credo non ci siano dubbi. Quanto al valore dell’evento – sempre che ne abbia uno – è una questione che non ci riguarda personalmente. Possiamo farci tutte le opinioni che vogliamo – e poco altro. Non spetta a noi decidere. Per esempio, io penso che lo spazio andasse bene così com’era, era pure comodo. Freddo e buio – un posto tranquillo, di quando in quando, dopo una stagione passata nel clima eccessivamente mite dei Cieli e fra le sue penose meraviglie. Ma questi sono dettagli di poco conto; l’aspetto nuovo, la grande novità è… qual è, signori?» «La creazione e l’introduzione di una legge automatica, autonoma e sovrana, che abbia la funzione di governare questa miriade turbinante di soli e mondi!» «Esatto!» disse Satana. «Capite che è un’idea fantastica. Dall’Intelletto Supremo non è mai scaturito niente di paragonabile. Una Legge – una Legge Automatica – esatta e invariabile; una legge che non ha bisogno di controlli, né di correzioni o riadattamenti per tutto il corso dell’eternità! Lui ha detto che questi innumerevoli, immensi corpi percorreranno le lande dello spazio per secoli e secoli, a velocità inimmaginabili, intorno a orbite fantastiche, senza mai scontrarsi, senza mai allungare o ridurre i periodi orbitali, neppure della centesima parte di un secondo in duemila anni!»


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