CHIARA PARENTI CON UN POCO DI ZUCCHERO Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-67526-7 In copertina: © iStock.com Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Alexandra Gredler / theWorldofDOT Prima edizione digitale 2014 © 2014 R.C.S. Libri S.p.A. Milano Vento dall’est la nebbia è là qualcosa di strano fra poco accadrà. Troppo difficile capire cos’è ma penso che un ospite arrivi per me.
(Mary Poppins, 1964)
CAPITOLO UNO Se una cosa può andare male, lo farà. Penso alla prima Legge di Murphy mentre Mara… o Lara… o Antonella, insomma qualunque sia il nome della ragazza con cui sono uscito stasera, mi sta baciando con l’impeto di un formichiere in pieno raptus sul sedile posteriore della mia macchina. Lo so, sono un inguaribile romantico. Da un quarto d’ora la sto chiamando «Tesoro», un po’ perché non ricordo il nome e un po’ perché ho l’istinto di sotterrarla. È che questa ragazza è veramente pesante, in tutti i sensi! Insaccata in un vestitino rosa shocking di almeno due taglie inferiori alla sua, sembra la controfigura di Peppa Pig, sebbene, come mi ha raccontato fin nel dettaglio per tutta la serata, segua da sei mesi la «dieta del cavolo»: letteralmente, a mio parere. Il fatto poi che abbia avuto da ridire sulla cameriera cinese del ristorante (cinese) in cui abbiamo cenato, sul ragazzino pakistano che vendeva le rose e sul parcheggiatore senegalese del pub in cui siamo andati dopo, mi ha fatto pensare a lei più come a un giovane e promettente membro del Ku Klux Klan che a una possibile nuova fidanzata. Ma in questo momento, dopo quattro birre e con la precisione sensoriale di un ragazzo che ha ampiamente superato il limite dell’etilometro, non riesco a dare alle cose la dovuta importanza. Insomma, sono single da un anno e mezzo, e in condizioni tanto disperate è normale essere un po’ carenti di lucidità. “Un anno e mezzo…” È un periodo di singletudine esageratamente lungo, lo so, e a un tasso particolarmente alto di partite alla Wii e di surgelati. A mia discolpa, Vostro Onore, c’è da dire che dopo La Stronza non ho più avuto voglia di una storia. Da quando mi ha lasciato per il caposervizio del giornale per cui lavoravamo entrambi, che riusciva a «capirla» come nessun altro, la mia vita ha preso una piega del tutto inaspettata. A un certo punto, Dio, o chi ne fa le veci, deve aver pensato: “Perché mettergli solo Saturno, quando può avere contro l’intera Via Lattea?”
Così dopo la fidanzata ho perso il lavoro, e dopo il lavoro l’appartamento, e dopo l’appartamento la voglia di scrivere. Ecco perché sono qui oggi, talmente disperato da aver accettato un appuntamento al buio con la vicina di casa della sorella del mio amico Stefano. Lo so, è una cosa più triste di Justin Bieber che canta This Is the New Shit di Marilyn Manson, ma vorrei vedere voi al posto mio. E poi se penso che l’alternativa sarebbe stata l’ennesima serata d’inferno a Hobbiville, scelgo Tesoro tutta la vita. «Perché non entriamo in casa?» mi sussurra all’orecchio, prima di cacciarmi di nuovo la lingua in gola, forse intenzionata a farmi una gastroscopia. Deglutisco vistosamente. Sono quasi sul punto di dirle che mi dispiace, ma ci ho ripensato, quando la sua mano prende a palparmi. Dappertutto. “Oh.” Mentre il mio cervello abbassa la saracinesca e dichiara sciopero generale, a prendere il controllo è un altro organo a sud dell’equatore che, improvvisamente sull’attenti, risponde al posto mio con ritrovato entusiasmo. «Okay, andiamo.» «Ehi, che bella casa hai!» esclama lei una volta di fronte al numero 17 di via delle Mimose, evidentemente stupita che uno scrittore possa permettersi una gradevole villetta semindipendente in un quartiere fuori Roma dove è rimasto ancora un po’ di verde. Devo ammettere che però è sveglia, la ragazza… A questo punto, sono di fronte alla scelta. Potrei dirle la verità e confermare l’equazione scrittore = fallito che vedo lampeggiare sulla sua testa da quando le ho detto cosa faccio nella vita, oppure… Il mio compagno sotto la cintura, più imbizzarrito di Furia il cavallo del West, depone per un secco, rotondo, no. «Grazie, Tesoro» sospiro, stringendomi nelle spalle. E così eccoci qui: Matteo Gallo e la sua Dama Senza Nome, in un tiepido sabato di fine settembre, si avviano fiduciosi verso la degna conclusione della serata. Giro la chiave nella serratura con la perizia di un ladro esperto, attento a non fare il minimo rumore. Trattengo perfino il fiato quando la porta si apre, per la paura di farmi sentire da Loro.
Anche se il pensiero che Loro siano lì mi riempie di autentico terrore. Perché Loro sentono tutto, vedono tutto e sanno tutto. Loro sono una combinazione terrificante tra l’occhio di Sauron e vostra madre. Solo più piccoli, chiassosi e sudaticci. Non posso permettere che anche stavolta mandino all’aria i miei sogni di gloria, perciò dovrò essere molto attento. Prendo Tesoro per mano, accendo il display del cellulare e la guido in punta di piedi verso le scale. «Ma, scusa, non accendi la luce?» La sua voce squillante come il raglio di un asino mi fa trasalire. «NO!» sbotto nel panico, poi cerco di ridarmi un tono. «Così è più… ehm… romantico?!» La frase mi esce con un’intonazione interrogativa che forse non avrebbe dovuto esserci. «Oh, sì, certo…» sogghigna lei maliziosa, e mi palpa il sedere mentre saliamo le scale al buio. Arrivati al piano di sopra, cammino vicino al muro, per evitare di calpestare gli strumenti di tortura con cui Loro sono soliti intrattenersi, producendosi di tanto in tanto in terrificanti risate malefiche. Deglutisco e vado avanti, quando inciampo dentro la stramaledetta fabbrica di ghiaccioli di Peppa Pig. «Brutta scrofa!» esclamo, incapace di trattenermi. «Eh? Dici a me?» Tesoro inchioda, toglie la mano dalle mie chiappe e il suo tono passa bruscamente da quello di Dita von Teese a quello del Generale Hummel. «No, figurati, Tesoro…» mormoro cercando di abbassare i toni, mentre l’ansia comincia a farmi sudare. «No, tu dicevi a me! Pensi che io sono grassa!» comincia a lagnarsi lei, del tutto ignara non solo dell’uso del congiuntivo, ma soprattutto del grave pericolo che stiamo correndo restando qua fuori, senza almeno una porta di legno massello chiusa a chiave a doppia mandata a proteggerci da Loro. «Ma no, davvero! Sei bellissima!» mento senza pudore. Lei lo sa e inchioda ancora. «No! Tu hai detto che sono una scrofa!»
Alzo gli occhi al cielo pensando a cosa è andato storto, a cosa è mai potuto accadere nella mia vita per ridurmi a camminare al buio nella Casa degli Orrori con la nipote malvagia e complessata di Adolf Hitler, solo per rimediare un po’ di sesso. Quando penso seriamente di lasciarmi morire ibernato nella fabbrica dei ghiaccioli di Peppa Pig, il mio istinto di sopravvivenza assume finalmente il controllo della situazione. Prendo coraggio e bacio Tesoro. Non posso rischiare che rovini tutto proprio adesso che manca così poco ad arrivare alla meta. Ancora pochi passi e saremo salvi, al sicuro in camera mia dove Loro non possono entrare. Poi le sento. Un brivido gelido mi scivola lungo la schiena quando riconosco chiaramente le loro voci ultrasoniche. Maledizione. Non c’è più tempo. Prendo per un braccio Tesoro e la trascino lungo il corridoio: mi manca la clava e potrei facilmente essere scambiato per l’Uomo di Neanderthal. No, sul serio, quando mi sono ridotto così? Corriamo nel buio, ma Loro escono dalla tana. Ne riconosco i passi furiosi, perfino il parquet scricchiola terrorizzato al loro passaggio. E in questo preciso istante ho la piena certezza che se una cosa può andare male, lo farà.
CAPITOLO DUE Il mattino ha l’oro in bocca. Peccato che per me non inizi mai prima di mezzogiorno. Ancora visibilmente provato dalla serata di ieri, mi trascino per casa come uno zombie ciondolante. In cucina, ci sono profumo di arrosto e la squadra già al completo. Gli hobbit sono ai nastri di partenza, pronti a distruggere/incendiare/gridare/scassare qualcosa. Beatrice sta tagliando le patate con una verve pari solo a quella con cui un killer seriale farebbe a pezzi le sue vittime. Deduco che l’appuntamento con il Socio dev’essere andato male. Persino più del mio.
«Buongiorno!» esclama l’hobbit maschio. «Guarda, ho disegnato l’arrosto della mamma!» ulula alzando la testa da quello che credo sia un ritratto futurista di Peppa Pig in forno con le patatine oppure i tratti fondamentali del suo oscuro piano per dominare il mondo. A scelta. «Oh, vi auguro una splendida giornata, zio adorato!» esclama l’hobbit femmina con un mezzo inchino. Credo che si sia messa in testa di essere una principessa, o qualcosa del genere, e da un po’ di giorni ha iniziato a parlare come la regina Maria Antonietta. Tagliatele la testa! mi verrebbe da dirle. «Mhm» mi limito, invece, a mugolare. «Non dici neanche buongiorno?» Confermo: Beatrice stamattina è nervosa come una gallina con le emorroidi. «Lo faccio per non crearvi false speranze» rispondo, stringendomi nelle spalle. Mia sorella alza gli occhi al cielo e riprende a tagliuzzare le patate come se non ci fosse un domani, mentre l’hobbit maschio mi viene incontro e mi accompagna alla finestra ammiccando verso il giardino. «Zio, zio! Guarda, la mamma ha tagliato l’erba e noi l’abbiamo raccolta!» «E io posso fumarla?» Bea si volta ancora, esasperata. «Teo, la vuoi smettere?» Aggrotto la fronte, confuso, mentre vado a sedermi al tavolo. «Che ho fatto, adesso?» domando, versando il latte nella tazza. «Rachele, prendi tuo fratello e andate a giocare di là!» torna a dire lei con piglio da sergente. Gli hobbit, stranamente, ubbidiscono al volo. Ma d’altra parte si sa, sono come i cani, fiutano la paura. E stavolta hanno ragione perché è in arrivo il DISCORSO, lo sento. Lo scrivo in maiuscolo per sottolineare quanto i DISCORSI di mia sorella siano importanti. Ricordo ancora il primo, come fosse ieri. Avevo sei anni e stavo per cominciare la scuola elementare e lei era in quarta. Un giorno di fine estate mi prese da parte e
mise subito in chiaro come stavano le cose: «I miei amici sono miei e basta: tu trovati i tuoi oppure stai solo. Lo scivolo è mio e dei miei amici e basta: tu cerca un altro posto oppure non giochi. Antonio Banducci è il mio fidanzato e basta: fattene una ragione, non sarà mai tuo». Sebbene non avessi niente da obiettare sull’ultima considerazione, ho passato i primi due anni delle elementari nello sgabuzzino del bidello a giocare insieme a lui. Un’infanzia rubata. Mia sorella è sempre stata una tipa tosta, e non c’è da stupirsi se adesso è un ottimo avvocato penalista. Anche se oggi, dopo il divorzio e tutto il resto, ha perso gran parte del suo smalto. Sembra Superman in una caverna di kryptonite. «Allora, vogliamo parlare di quello che è successo ieri sera? Irina mi ha raccontato tutto. Prima di andarsene offesa…» Bea mi incenerisce con lo sguardo. «Ma si può sapere chi ti porti a letto? Le Figlie di Satana?» «A letto non ci sono neanche arrivato, non preoccuparti!» esclamo, maledicendo mentalmente la nostra ormai ex tata ucraina. «E comunque Irina ti avrà detto anche che non è stata nemmeno capace di tenere i tuoi figli a dormire nella loro camera, visto che era già mezzanotte passata, e invece erano arzilli come fringuelli e gridavano saltellanti in mezzo al corridoio.» «Teo, così non va! Io non ce la faccio più! Non posso mettermi a cercare una nuova tata ogni mese! Tra quelle che si sono licenziate e quelle che abbiamo licenziato noi, ne abbiamo cambiate otto in sette mesi!» grida. «E che c’entro io? Mica è colpa mia se i tuoi figli sono ingestibili!» L’occhiata che mi lancia mi zittisce di colpo. Per un attimo cala il silenzio, interrotto solo dal rumore della messa in moto della macchina del vicino, un ex pilota dell’aviazione in pensione che continua a far rollare il motore della sua vecchia Panda 4x4 come fosse un Boeing 747 pronto al decollo. Credo che tutti quegli anni di volo gli abbiano pressurizzato il cervello. «Non sono ingestibili… hanno solo sofferto molto, lo sai!» dice alla fine Beatrice in un sospiro tremolante. Okay, sì, lo so. Da quando, due anni fa, quel bastardo del padre ha preso armi e bagagli e se n’è andato per la sua strada (che gli auguro piena di buche e senza uscita), Beatrice e i suoi figli hanno perso la bussola. Per compensare il vuoto, lei ha
cominciato a uscire con i tipi più improbabili e i bambini si sono trasformati nella versione mignon di agguerritissimi troll delle paludi. La somma divinità a cui hanno consacrato le loro piccole, rumorose vite, è senza dubbio il grande e possente Ralph Spaccatutto. In Suo nome hanno giustiziato tra le più atroci sofferenze il cordless, l’iPod di Beatrice e il mio cellulare. Tutti affondati nel water al grido di «Iceberg, dritto davanti a noi!». Una volta hanno messo nella lavatrice la farina gialla perché pensavano che girando il cestello avrebbero preparato la polenta. Un’altra volta hanno pitturato il canarino Paul con la vernice rossa, causandogli dapprima una brutta intossicazione e poi una profonda crisi di identità. Come sentinelle epilettiche a guardia del maniero, lanciano dal balcone qualunque tipo di oggetto – dalle uova marce alla Nintendo –, mirando Eolo, il cane del vicino ex pilota, che ogni notte ulula al cielo come un coyote alla luna. Anche se, certo, in questo caso, non posso biasimarli. Poi mi hanno buttato il cellulare nel water. Al pronto soccorso più vicino hanno ormai una corsia preferenziale, come gli elefanti in Zimbabwe. Ci sono stati quando l’hobbit femmina, probabilmente nella sua fase Hulk Hogan, ha rotto lo spigolo di una parete con la testa del fratello prendendolo per le gambe e facendolo roteare in una sorta di wrestling casalingo (cinque punti sulla fronte); quando l’hobbit maschio ha incastrato la testa tra i ferri della ringhiera, ha tirato di colpo ed è volato giù per le scale (tre punti sul labbro), oppure quando ancora l’hobbit femmina ha fatto Epic Win! sfondando di testa il vetro della cucina mentre si dondolava sulla sedia (dieci punti sul sopracciglio destro e una notte in osservazione). Spero che, con tutti questi punti, alla fine possano ricevere in regalo almeno un set di pentole o un’idropulitrice del catalogo dell’Esselunga. E poi, non so se l’ho detto, mi hanno buttato il cellulare nel water. Voglio bene agli hobbit, intendiamoci: quando sono sotto la doccia e loro aprono il rubinetto del lavello in cucina, non gli tiro addosso lo scaldabagno! E poi sono sempre miei consanguinei: se un giorno dovessi malauguratamente avere bisogno di un rene, loro sarebbero i primi della lista, Dio li benedica! È che questa convivenza comincia a essere stretta, tanto stretta che sembra di stare sulla Striscia di Gaza, solo che qui il rifugiato sono io e nemmeno un muro alto
un chilometro riuscirebbe a schermare la guerra di decibel che scatenano ogni dannatissimo giorno. «E poi veniamo a te!» torna a dire mia sorella, scrutandomi con aria all’improvviso minacciosa che grida al mondo quanto le è andato storto l’appuntamento di ieri sera nonché l’imminenza del suo ciclo mestruale. Prima che il discorso prenda una brutta piega, gioco d’anticipo. «Ehi, scommetto che il Socio ti ha detto che per adesso non ha alcuna intenzione di lasciare la moglie, vero?» ipotizzo, inzuppando un biscotto nel latte. «E questo che c’entra, ora?» Faccio spallucce. «No, dicevo così… Mi pari un po’ acidella, stamattina… Più del solito, insomma.» «Va’ al diavolo, Teo!» grida. «Ecco, vedi?» commento, ammiccando alla sua mano che colpisce una patata innocente con un pugno alla Mike Tyson. Ora, non sono uno chef stellato, ma non credo che si faccia così il purè, ecco. Questo, però, evito di dirglielo. «Sì, ieri sera è andata male. E allora?!» urla Bea dal ring in tono di sfida. «Sebastiano ha detto che per ora non se la sente di lasciare la moglie e i bambini» dice d’un fiato, poi si risistema una ciocca di capelli sfuggita alla coda, per ridarsi un tono. «Ma è solo questione di tempo… Fino a che lo studio legale non sarà ben avviato e i gemelli non andranno all’asilo e…» «Tutte cazzate!» sbotto, distogliendo mio malgrado lo sguardo dal biscotto che, troppo inzuppato, mi ricade nel latte, procurandomi una fitta di autentico dolore. «Bea, ma ti senti? Sono le stesse cose che ti ha detto qualche mese fa, quando doveva aspettare di aprire lo studio e non so cos’altro!» «No! Questa volta è diverso! Tu non capisci!» si giustifica lei, punta sul vivo. Sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Cristo, non posso credere che mia sorella sia così cieca! Dopo la lobotomia devono averle impiantato una app, nel cervello, perché si lascia intortare a piacimento da tutta la feccia del genere maschile nel raggio di dieci chilometri.
«E comunque non cambiare discorso!» torna a dire lei con la palpebra che le trema. “Ahi!” «Sei qui da otto mesi ormai e non sei ancora riuscito a finire il tuo romanzo. Non hai un lavoro, una fidanzata né altro. Mi spieghi che cos’hai intenzione di fare?» Okay, adesso giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, Vostro Onore. Sono ospite da mia sorella da quando il padrone del mio appartamento in centro mi ha sfrattato otto mesi fa, per una inappianabile divergenza di vedute: lui voleva che pagassi l’affitto, il mio conto in banca, no. Dopo che La Stronza mi ha lasciato e la mia vita si è trasformata in una serie tale di sfortunati eventi da far impallidire anche Lemony Snicket, sono stato licenziato perché il caposervizio del giornale per cui lavoravo, che pure era così «comprensivo», non aveva capito che la riga sulle fiancate della sua Mercedes non voleva essere un segno di spregio per essersi preso la mia ragazza, ma solo una verifica di quanta polvere fosse depositata su quella preziosa carrozzeria. Era manutenzione straordinaria, Vostro Onore. E così sono rimasto a piedi e con i soldi dei miei romanzi sono riuscito a pagare l’affitto solo per altri sei mesi. A quel punto, ancora una volta, sono stato costretto a scegliere: o tornavo a casa da mia madre a Campoli, tra orsi e tartufi, ma sapevo che ben presto avrei visto la mia voglia di vivere gettarsi in un dirupo assieme a tutte le caprette di Heidi, oppure andavo a stare temporaneamente da mia sorella, da poco rimasta sola con i figli, in un posto abbastanza civilizzato in cui l’animale da compagnia è il canarino Paul e non Fiocco di Neve. «Ehi, sta’ tranquilla, sorellina! Ti ho già detto che è tutto sotto controllo: il romanzo è praticamente in stampa!» esclamo con quanto più entusiasmo mi riesce, mentre la mia insensibile sorella mi guarda in silenzio come fossi un fallito. Il biscotto troppo imbevuto che si spezza e ricade nel latte, questo sì che è un fallimento personale. Non la mia carriera. Di certo io non starò qui ancora per molto. Appena l’ispirazione tornerà, finirò La vendetta della sanguisuga conquistatrice e lo manderò all’editore, mi farò dare un bell’anticipo e potrò finalmente togliere le tende da qui.
Farò come Stefano, mi dico. Salirò sul primo volo per Londra e inizierò la mia nuova vita tra locali alla moda, eventi esclusivi e supermodelle da urlo. «Okay…» mormora Beatrice, annuendo con un’aria così scettica da fare un purè anche con ciò che rimane del mio orgoglio. «E credi che prima di diventare il nuovo Stephen King troverai il tempo di imbiancare il soggiorno o mettere a posto tutte le tue cose ammassate in camera tua? Non riesco a credere che ancora tu non abbia disfatto i bagagli!» «Sì, certo, ti ho detto che lo faccio!» «Bene, allora perché aspettare? Secondo me puoi iniziare subito…» «No, adesso devo portare fuori il cane» dico, alzandomi di scatto. «Ma se non ce l’abbiamo nemmeno, il cane!» «Allora vado a farmi un giro in tandem.» «E con chi?» «Con il cane.»
CAPITOLO TRE Quando suona il campanello, la situazione è più o meno questa. Lo hobbit maschio si trova nel bagno al piano di sopra, completamente nudo e ricoperto solo di assorbenti appiccicati su tutto il corpo. Dice che vuole fare la mummia. La sorella, forse in preda a uno dei suoi deliri principeschi, ha svuotato sul pavimento l’intero armadio di Beatrice alla ricerca di un vestito abbastanza frou-frou da indossare oppure dell’entrata a Narnia. Nel frattempo Beatrice, pericolosamente vicina alla finestra, credo stia seriamente valutando la possibilità di buttarsi di sotto. Stando così le cose, deduco che tocca a me andare ad aprire. Lo faccio con lo stesso entusiasmo con cui un condannato a morte percorre il miglio verde, dal momento che di là dalla porta dovrebbe esserci l’Aspirante Nuova Tata con cui mia sorella ha parlato al telefono qualche giorno fa, dopo aver fatto pubblicare un annuncio sul giornale.
Prego solo che non sia come le altre. Mi auguro che non sia nemmeno lontana parente della ferocissima istitutrice di origine tedesca di un paio di mesi fa, una specie di Signorina Rottermeier con baffi da sparviero: una volta ha urlato talmente forte ai bambini che mi sono messo anch’io a rifare il mio letto. E mi auguro che la nuova tata non abbia niente da spartire nemmeno con Irina, sempre fissa nello studio a chattare su Skype con mezza Ucraina, mentre i nanerottoli scatenavano guerre fratricide. Ogni giorno sembrava di stare sul Carso. Credo però che Dio, ancora una volta, abbia frainteso i miei desideri, perché quando apro la porta non c’è nessuno. Tranne tutte le premesse dell’imminente arrivo di un uragano. Orde di nuvoloni neri si rincorrono in cielo trascinati da un vento così forte che a momenti mi aspetto che prenderanno il volo anche le mucche. «Oh, santo il cielo!» esclama una voce da qualche parte in giardino. Esco, incuriosito, e vedo una ragazza che rincorre un ombrello ribaltato tra le primule. Aggrotto la fronte perplesso e chiedo: «Ehm, serve aiuto?». La ragazza riesce finalmente ad agguantare l’ombrello posseduto e prende a correre affannata verso di me. «No! È che quando lo porto in un posto nuovo gli piace esplorarlo per bene!» mi risponde con un sorriso. Annuisco. «Certo, anche il mio fa sempre così.» Immagino che a questo punto dovrei descrivere la ragazza, giusto? È che mi ha colto alla sprovvista, lo ammetto: non me l’aspettavo affatto così. Armata di una sufficiente dose di sconsideratezza, si è presentata al colloquio con un paio di leggins bianchi, degli stivaletti rossi e una giacchetta blu, che la fanno assomigliare più alla bandiera della Francia che alla candidata ideale per il posto di tata. Forse per colpa del vento, o forse no, una massa informe di boccoli biondi ondeggia sopra la sua testa come la criniera di un leone, incorniciando un viso minuto su cui troneggiano due occhi verdi GIGANTI. Anche stavolta l’ho scritto maiuscolo per dare l’idea. Giuro, sono proprio enormi, due fanali. Mentre mi domando se siano in grado di vedere anche al buio, li osservo spalancarsi in un autentico tripudio di meraviglia.
«Oh, ma che casa prodigiosa!» esclama saltellando all’interno con le mani al petto come per contenere tutto quel suo pazzo stupore. Dopo un attimo di profondo smarrimento, mi volto e la trovo già in mezzo al salone. «Ma prego, entra…» borbotto, e richiudo la porta prima che entrino le mucche volanti. «Ohcchebbello!» la sento esclamare un istante dopo. Mi volto e la sorprendo con il viso premuto contro la gabbia del canarino. «Come si chiama?» Il suo entusiasmo così evidente mi fa pensare che la ragazza abbia davvero esagerato con il Prozac, stamattina. «Paul» mormoro mentre lei scruta con quegli occhi giganti il nostro povero uccello che sta di sicuro per avere un coccolone. «Ma non è sempre stato così: in origine era giallo, poi gli hobbit… ehm… i miei nipoti, hanno pensato che il rosso gli donasse di più e adesso sta un po’ in sbattimento…» «Oh, poverino…» sospira lei, improvvisamente mogia. Sono sempre più convinto che il suo analista abbia fatto casino con le dosi degli psicofarmaci. «Dovete parlarci, gli farebbe bene!» torna a dire con ritrovata energia. «Io ho quattro cincillà e parlo sempre con loro!» «Non ne dubito…» Annuisco con convinzione. «Be’, anch’io ci parlo sempre. Dopo però arriva l’infermiera e mi riporta nella mia stanza…» Lei sorride, divertita. Poi mi viene incontro a passo di carica e io provo un lungo brivido di terrore. «Oh, ma che maleducata!» borbotta tra sé allungando la mano. «Piacere, io sono Katie Baker e sono qui per il posto di tata!» Un gran profumo di fragola mi avvolge. Del tutto allibito, allungo la mano e la sua, piccola e calda, me la stringe con inaspettata energia. «Matteo Gallo, e sono qui… per caso» dico di rimando. Lei si ferma un attimo, inclina la testa e mi scruta. O forse mi fa una risonanza magnetica, non saprei. «Sei simpatico» sentenzia infine, di nuovo sorridente. Mai vista una tipa del genere, ve lo assicuro. Sono… sono scioccato.
«Be’, ho portato anche l’annuncio!» esclama cominciando a frugare nella borsa che, lo noto solo adesso, è a forma di papera. Di papera. «Aspetta che lo cerco!» aggiunge.
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