1126 Titolo originale: Look Behind You Text copyright © 2014 Sibel Hodge Published in the United States by Amazon Publishing, 2014. This edition made possible under a license agreement originating with Amazon Publishing, www.apub.com All right reserved. Traduzione dall’inglese di Tania Caldarese Prima edizione ebook: gennaio 2016 © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-8998-0 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Librofficina Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli Immagini: © Mohamad Itani/Arcangel Images
Sibel Hodge
Guarda dietro di te
Parte prima In trappola Capitolo 1 Sento dolore dappertutto. La schiena, i polsi, le gambe. Persino i capelli mi fanno male. Il dolore peggiore, però, è alla testa. È come se delle schegge bianche e roventi mi trafiggessero il cranio. Quando mi sforzo di aprire gli occhi vengo travolta da ondate di nausea. L’oscurità mi avvolge. Non riesco a distinguere dove finisca lei e dove cominci io. Perché è così buio? Ci riprovo. Chiudo le palpebre. Le apro. Le chiudo. Le apro. Il nulla continua a soffocarmi. Non vedo niente. Dove sono? Sono morta? Lentamente riprendo i sensi. Sotto la mia schiena c’è una superficie ruvida e gelata. L’odore di muffa della terra umida. Il rumore di… mi sforzo di ascoltare, ma sento soltanto il pulsare del sangue che mi rimbomba nelle orecchie, il cuore che batte contro le costole e l’aria che passa attraverso le narici. Ma c’è qualcos’altro. Plop. Plop. Plop. I miei sensi funzionano ancora, quindi non posso essere morta. Allora cosa mi è successo? Ho avuto un incidente? Giusto! Un incidente! Sono in ospedale. Sono distesa su un tavolo operatorio e l’effetto dell’anestesia sta svanendo, lasciandomi in bilico tra il sonno e la veglia. Ecco perché non riesco a muovermi, ecco perché sento così tanto dolore. La stessa cosa era capitata, una volta, a una ragazza che conoscevo. Era nel bel mezzo di un’appendicectomia e si risvegliò. Proprio così! Non riusciva a sentire niente e non
poteva muoversi, ma riusciva a vedere tutto quello che i dottori stavano facendo. Parlava, addirittura. I medici rimasero scioccati quando lei raccontò di averli visti. Riesco a parlare? «Ehi?». Ci provo, ma la mia bocca sembra tappata con dell’ovatta e la voce ne esce distorta e smorzata. Allora perché non riesco a vedere niente? Perché è così buio? È stato un incidente stradale? È esplosa una bomba? Un attacco terroristico? Cerco disperatamente di inspirare a fondo. Non c’è puzza di ospedale, quel tipico odore chimico di disinfettante. E su cosa sono distesa? Una barella? Un letto? Provo a separare le mani per tastare la superficie su cui sono distesa. Com’è possibile? Perché non ci riesco? Alzo istintivamente la testa, nonostante l’oscurità e i dolori lancinanti. Con le dita di una mano cerco freneticamente di tastare l’altra. Qualcosa di ruvido tiene legati i polsi. Credo sia una corda. Riesco a toccarla. Sì, sicuramente è una corda. Cerco di nuovo di separare le mani. No, non si muoveranno. Perché sono immobilizzata? Che cosa ho fatto? Un frammento di memoria aleggia ai margini della mia coscienza. Qualcosa… ero trattenuta in un letto. Legata a un letto. Urlavo. No… è passato. Ci riprovo. Perché sono immobilizzata? Ho provato a fare del male a me stessa? Ho provato a fare del male a qualcun altro? Con entrambe le mani cerco di toccare il fianco destro. È cemento quello su cui sono distesa? Sono mattoni? Non ne sono sicura. Non è una superficie piana come una barella, né comoda come un letto. Non ci sono lenzuola. Sollevo le mani per toccarmi la faccia e la testa. E sento qualcosa di granuloso. Forse sporcizia. Sobbalzo non appena la mia mano tocca un enorme bernoccolo, sulla tempia, proprio sopra l’orecchio destro. Sento un dolore feroce, scintille bianche lampeggiano di fronte ai miei occhi. Mi si rivolta lo stomaco e vomito, girandomi di fianco. La bile mi arde in gola, acida e violenta. Le lacrime mi fanno bruciare gli occhi. Mi lamento per il dolore, e afferrando la testa tra le mani mi giro di nuovo sulla schiena, ansimante. Ora l’oscurità non è più soltanto davanti ai miei occhi. È anche nella mia testa, mentre sprofondo nell’incoscienza.
Per quanto tempo ho dormito? Un’ora? Un giorno? Due giorni? Ho i crampi allo stomaco, ma non ho fame. Al contrario. Lo stomaco si contrae al solo pensiero del cibo. Ma ho sete. Sento la gola secca come una pianura africana. Deglutisco. Mi lecco le labbra; sono aride e spaccate. Cerco di muovermi, ma sono troppo indolenzita. Le parti del corpo che non mi fanno male sono intorpidite o pungono come se fossero trafitte da una miriade di spilli. Cerco di scuotere le gambe, ma capisco subito che non si sposteranno. Altra corda? Muovo le dita: è tutto ciò che riesco a fare. Se non sono in ospedale, allora devo essere in prigione. In isolamento. Ma anche questa ipotesi non ha senso. I prigionieri non vengono bloccati con delle corde. Avrebbero usato un paio di manette. Giusto. Pensa. Le caviglie e i polsi sono legati. Mi trovo in un posto umido e pieno di muffa. Sono distesa su un pavimento spoglio. Lentamente cerco di avvicinare le ginocchia al torace. La caviglia sinistra urla dal dolore. Grido, e la mia voce riecheggia su pareti che non riesco nemmeno a vedere. Sono completamente vestita. Indosso… un abito… degli stivaletti alla caviglia. Ok, bene. Cos’altro? Non lo so. «Ehi?». La mia voce è aspra e roca. Nessuna risposta. Si sente soltanto, in lontananza, il suono di qualcosa che sgocciola. Devo essere sottoterra. C’è l’odore di muffa tipico del terriccio. Un odore soffocante come il buio che mi circonda. E sono legata. Il corpo mi fa male, il dolore alla testa mi sta uccidendo. Non posso essere in ospedale e nemmeno in prigione, dunque dove sono? Sono stata rapita! Non appena l’idea mi piomba nella testa, mi si stringe lo stomaco. Il cuore prende a battere all’impazzata. Lotto con il bisogno impellente di vomitare di nuovo. Inspiro
profondamente l’aria viziata. Dentro. Fuori. Dài, respira. Dentro. Fuori. Niente panico! Pensa! Chi mi può aver rapito? E perché? Pensa! Non siamo persone ricche. Benestanti, ecco, credo sia la parola giusta. Ma non potremmo pagare un riscatto. Perché sono stata sepolta viva in questa oscurità? Perché… Oh, mio Dio! Sono qui per essere violentata e uccisa. O torturata e uccisa. Il fatto che sia ancora viva è un buon segno o significa solo che il peggio deve ancora venire? Rabbrividisco in maniera incontrollabile. Non so se per colpa del freddo o per la paura. Forse entrambi. Mi sento le gambe umide. Mi sono bagnata, quindi devo essere qui da un po’. Stringo le mani e cercando di non lasciarmi travolgere dal panico penso a ciò che devo necessariamente ricordare. Mi chiamo Chloe Benson, ho ventisette anni. Sono sposata con Liam. Vivo al numero 16 di Poplar Close nella cittadina di Welwyn Garden City, nella contea dell’Hertfordshire. Insegno inglese alla scuola superiore di Downham. Liam lavora per la Devon Pharmaceutical. Dunque, come ho detto, siamo benestanti, ma non ricchissimi. Liam si starà domandando dove sono finita. Chiamerà la polizia. Organizzeranno una squadra di ricerca. Mi troveranno. O no? Dove diavolo sono? Come sapranno dove cercarmi? Mi mordo il labbro inferiore per evitare di urlare. Calma. Devo mantenere la calma. Se qualcuno mi tiene rinchiusa qui, non voglio fargli sapere che sono sveglia. Potrebbe essere qui vicino, e osservare ogni mio movimento. Sono viva, almeno per ora, e voglio continuare a esserlo. Qual è l’ultima cosa che ricordo? Il dolore alla testa mi offusca i pensieri. Ho ricordi indistinti, vaghi, come una fotografia sfocata. Ricordo… una festa. Alcol a fiumi. Una serata di marzo, decisamente troppo calda per la stagione. La casa di qualcuno. Casa mia. Sì, casa mia! La festa per il quarantesimo compleanno di Liam. Una sorpresa per lui. Per risollevargli il morale e
migliorare le cose tra noi. È stato… difficile ultimamente. Qualsiasi cosa faccio non gli va bene. Mi urla contro e impreca. E quelle occhiatacce… È stressato per il lavoro, stressato dalla vita, suppongo – le solite cose. Dunque, la festa… sì, volevo fargli capire che ci tenevo a lui. E poi… stavo andando a dirgli qualcosa. Cerco di afferrare questo ricordo, ma non riesco a raggiungerlo. È nascosto da qualche parte, nella mia testa. La mia migliore amica Sara non c’era. Era partita per l’India il giorno prima. Non avrei potuto invitarla in ogni caso; Liam la odia. C’erano soltanto i suoi amici e i suoi colleghi. Eppure non riesco a ricordare nessuno in particolare. Siamo ancora a marzo? La festa è l’ultima cosa che riesco a riportare alla mente. Il resto è soltanto fitta moltezza. Moltezza? È una parola? No… mollezza, forse? Contraggo le dita dei piedi. Chiudo e stendo quelle delle mani. Devo riacquistare calore. Devo fermare i crampi. Devo muovermi. Devo stare calma. Devo uscire da qui. Voglio rimanere viva. Mi giro di fianco e aiutandomi con le mani mi siedo. La testa pulsa. Lo stordimento mi travolge. Respira lentamente. Forza, Chloe. Dentro. Fuori. Puoi farcela. Mi libero della bile che brucia in gola e aspetto. Cinque minuti. Dieci. Respira e basta. Sistemati. Fai con calma. Non so, però, quanto tempo mi resta prima che colui che mi ha rinchiusa qui dentro ritorni. Devo muovermi. Devo fare qualcosa. Vorrei che il dolore alla testa si placasse, ma non accenna a diminuire. Mi trascino in avanti lungo il pavimento, muovendomi lentamente, esitando. Non faccio molta strada prima di urtare qualcosa. Mi allungo e tocco l’ostacolo con le mani legate, le dita incontrano qualcosa di freddo e ruvido. Un muro. Mi metto in ginocchio. Mi aiuto con le mani, facendo pressione sul pavimento, e mi sollevo fino a quando non sono in piedi. Tutto vortica intorno a me. Per aiutarmi, tengo i palmi appoggiati al muro e respiro più profondamente. Mi sento debole e l’adrenalina che mi scorre dentro è l’unica cosa che mi impedisce di crollare.
La corda attorno alle caviglie è stretta, e quando cerco di muovermi verso sinistra riesco solo a strisciare un centimetro per volta. Poco dopo sento l’angolo di un altro muro. Mi fermo e respiro profondamente, prima di tornare indietro. Arrivata a un altro angolo, riesco a stimare che il muro è lungo più o meno sette metri. Proseguo per altri cinque metri circa, mantenendomi sulla destra, lungo questo nuovo muro, poi trovo un altro angolo. Procedo con una lentezza esasperante. Giro fino a quando sono abbastanza sicura di essere tornata al punto di partenza. È allora che finalmente mi rendo conto della situazione e un urlo gutturale mi esce dalla gola. Crollo a terra, battendo le ginocchia sul terreno solido. Sono in una specie di tomba sotterranea.
Capitolo 2 No, no, no, no! Questo è un sogno. Un incubo. Sì, deve essere così. O forse sto impazzendo. È un’allucinazione di qualche tipo. Ho assunto droghe che hanno provocato reazioni chimiche nel mio cervello? Reazione, reazione, reazione… In qualche modo, mi suona familiare. No, non posso essere addormentata e non posso essere drogata. Riesco a sentire il dolore. Sento qualcosa che sgocciola. Riesco a sentire la puzza di umidità e di marciume. Perciò, devo essere compos mentis. Dita di terrore mi attanagliano le viscere. La paura mi dilania come se fosse un coltello. Qualcuno mi ha rinchiusa in questo posto. Qualcuno mi ha rapita e abbandonata in una tomba sotterranea. Mi hanno lasciata qui a morire o torneranno? Che cosa sarebbe meglio? Morire qui da sola o essere torturata, violentata e uccisa? Mi conficco un pugno in bocca per smettere di urlare. Calde lacrime mi scivolano sulle guance. Devo uscire da qui, in qualche modo. Ma la mia testa… oh, la mia testa. Mi giro di fianco, tenendo stretta la testa tra le mani legate. Fa tanto male. E…
Apro gli occhi e fisso il nulla, buio come una tomba. Mi sono addormentata di nuovo, ho sognato la mia luna di miele a Minorca.
Quanti anni fa? Da quanto tempo siamo sposati? Due anni, penso. Dipende dalla data di oggi. Merda! Perché non ricordo? A ogni modo, il sogno. Sì, affittammo una villa in mezzo al nulla e facemmo scorta di provviste per il barbecue. Insalata, pesce locale, vino, formaggi regionali, carne fresca. Soltanto noi e il nostro piccolo nascondiglio al sole. Le cose, allora, andavano alla perfezione. Ogni giorno Liam mi ripeteva quanto mi amasse. Mi diceva che dal momento in cui mi aveva vista aveva capito che ero la donna della sua vita. Era così fiero di avermi come moglie. Facevamo l’amore ogni volta che potevamo. Andammo per un paio di giorni fino alla spiaggia, con l’auto, e nuotammo in un mare così limpido e caldo che sembrava di essere in una vasca da bagno. Mare. Acqua. Per quanto si può sopravvivere senza acqua? Se resti bloccato su una barca nel mezzo dell’oceano, non puoi bere quella marina. È troppo salata. Ho sentito di persone che hanno bevuto il loro stesso piscio per sopravvivere. Il solo pensiero mi dà il vomito. La gola è così asciutta che sento la lingua gonfia, come se fosse troppo grande per la mia bocca. La muovo tutto intorno, freneticamente, producendo saliva, che poi ingoio. Muovo la lingua. Ingoio. Puoi resistere bevendo soltanto saliva? Stiracchio le braccia tremolanti sopra la testa. Piego le gambe e le dita. Mi metto a sedere. Ho di nuovo le vertigini, allora appoggio la testa tra le mani fino a quando non si placano. Tremo, mi battono i denti, mi mordo la lingua. Sento del sangue. Giusto, Chloe, muoviti! «Sì», dico a voce alta. La voce rimbomba, prendendosi gioco di me nell’oscurità. Respiro tra le mani, sperando così di riacquistare un po’ di calore. Se smettessi di tremare potrei riflettere con calma, razionalmente: non posso morire qui sotto. No, no, no, no… «Così…», mi dico, «muoviti». Cerco di rimettermi in posizione eretta e finisco dritta contro il muro più vicino, con le mani tese.
I mattoni sono ruvidi. Se mi alzo in punta di piedi, riesco a toccare il soffitto. Potrebbe essere un seminterrato? Un tunnel? Una cantina? Mi sforzo di nuovo di aguzzare le orecchie. Non si sente nulla, tranne qualcosa che sgocciola, da qualche parte. È qui o dietro i muri? Acqua. No, non pensare all’acqua. Muovo un’altra volta la lingua. Ingoio di nuovo la saliva. Un pensiero mi allontana dal terrore. Se c’è un’entrata, deve esserci anche un’uscita. A meno che non mi abbiano murata qui. Ma i muri sembrano vecchi, sono viscidi e pieni di sporcizia. Lo strato tra i mattoni si sgretola non appena vi affondo le unghie. Comincio a tastare il muro con le dita. Cosa sto cercando? Il cervello si annebbia per un attimo. Oh, sì, un’apertura. Se voglio uscire da qui, devo rimanere vigile. Pensa. Sii metodica. Di solito lo ero. Anche a casa. Ecco come piacciono le cose a Liam. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. Per un attimo, come un lampo mi appare… barattoli, contenitori, bottiglie, tutti perfettamente allineati, come se una fata li avesse posizionati con un righello magico. Le etichette rivolte verso l’esterno. Un regolamentare centimetro di spazio tra uno e l’altro. Proprio come piace a lui. Le dita si spostano lungo il muro per non so quanto tempo. Niente. Giungo fino all’angolo e appoggio la testa, con il bernoccolo, contro il muro freddo. Per qualche istante provo sollievo dal dolore. Stordimento. Ah, che bello. Dài. Dài. Muoviti. Continuo a cercare una via d’uscita lungo il muro. A metà strada circa, in basso, le mie dita toccano qualcosa di tagliente. Un mattone è rotto e sporge all’esterno. Il cuore fa un tonfo, si ferma e riparte di nuovo. Mi siedo goffamente a terra e spingo la corda intorno ai polsi contro lo spigolo frastagliato, muovendo le braccia avanti e indietro. Sega, sega, sega. È faticoso. Sono completamente esausta. Voglio dormire. Sento la testa diventare pesante. Gli occhi mi si chiudono.
D’improvviso riprendo conoscenza. Dove sono? Nell’oscurità. Oddio! Ora ricordo. Sto per morire. Sto per morire. Sto per morire. Qualcosa di peloso mi tocca la mano. Urlo, ritraggo le braccia, mi agito con il sedere sul pavimento. Che cos’era? Un ratto? Un topo? «Non ti ucciderà», dico tra me a voce alta. No, il ratto non mi ucciderà. Non voglio morire. Pensa! Muovo la lingua. Ingoio la saliva. Il muro! Torno indietro e strofino la corda contro il muro, muovendo le mani avanti e indietro. Strofino. Mi fermo. Strofino. Mi fermo. Muovo la lingua. Ingoio la saliva. Strofino. Mi fermo. Non so per quanto tempo continuo a farlo. Non importa. Non posso arrendermi. Sono troppo lenta. Starò qui per sempre. Potrebbero tornare prima che riesca a liberarmi. Continuo a strofinare freneticamente, contando ogni movimento avanti e indietro, contro il muro. Ho bisogno di concentrarmi su qualcosa che non mi faccia crollare del tutto. Uno. Due. Tre. Venti. Conto, conto. Sessanta. Duecento. Le braccia si bloccano per un crampo. Sto andando troppo veloce. Mi stendo sul fianco per riposarmi, sento urla di terrore dentro di me. Ricomincio a contare. Arrivata a centocinquanta, ricomincerò a strofinare di nuovo. Uno. Cinque. Ottantuno. Tre. No, no, sto contando all’indietro. Sveglia! Sbatto rapidamente le palpebre. Forza! Riprova. Strofino. Mi fermo. Strofino. Mi fermo. Muovo la lingua, ingoio la saliva. Dopo un’eternità, la corda si sfilaccia. Sto facendo progressi! Plop. Plop. Plop. Questo fottuto rumore mi sta trapanando le orecchie! Taci!
Strofina. Strofina. Strofina. Finalmente le mani si separano l’una dall’altra, non appena strappo la corda. Respiro profondamente e libero i polsi. Le mani mi tremano e mi chiedo di cosa soffrirò. Ipotermia. Disidratazione. Fame. Paura. No. Starò bene. Troverò una via d’uscita. Ruoto i polsi, in modo da riavviare la circolazione. Stringo i pugni ed ecco che il sangue sfreccia fin nelle dita. Ora sì che va meglio! Le caviglie. Devo slegarle. Sì, ecco. Trovo un nodo sulla corda, vi affondo le dita cercando di scioglierlo. Forza! Là, c’è un nodo. Muovo la lingua. Ingoio la saliva. Plop. Plop. Plop. Quando riesco a sciogliere il nodo, srotolo la corda liberando le caviglie e provo ad alzarmi. Il movimento mi fa nuovamente vedere le stelle. Respira. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Ecco! Mi alzo lentamente e mi appoggio al muro. Puoi farcela. Non arrenderti adesso. Se ti arrendi, muori. Aspetto. Passa un minuto. Due. Riprendo la mia perlustrazione. Mi risulta più facile adesso che riesco a camminare come si deve, anche se devo concentrarmi per convincere le gambe a smettere di tremare. Faccio scorrere le mani lungo il muro, fino ad arrivare all’angolo successivo. Niente. «Ci deve essere un varco da qualche parte!». La mia voce sembra il verso di uno stormo di corvi che si alza in volo. Omicidio. Perché qualcuno dovrebbe uccidermi? Mi lasceranno morire quaggiù? O torneranno? C’è ancora qualcuno che mi sta cercando? Cosa dirà Liam se non torno a casa?
Immagino la scena del mio funerale. Non ci sono molte persone. Liam, naturalmente, con uno sguardo di… cos’è quella sulla sua faccia? Pietà? Rimorso? Rabbia? Qualcuno dei colleghi che lavorano con me a scuola. Il mio capo Theresa, e Jordan. Mi viene da sorridere quando penso a lui. Quel suo sorriso, quei luminosi occhi color nocciola, capaci di vedere cose che io non ho mai rivelato. Sara probabilmente è ancora in India, da qualche parte. È così? La mia vita intera si riduce soltanto a queste poche persone? Ovviamente, so il perché. A Liam non sono mai piaciuti i miei amici e così, poco per volta, è stato più facile allontanarli uno dopo l’altro. Più facile, sì. Qualunque cosa per una vita serena. A qualcuno importerebbe davvero se non riuscissi più a uscire da qui? Sentirebbero la mia mancanza? Sì. A me importerebbe. A Chloe Benson importerebbe. Solo a questo devo aggrapparmi. Alla fine trovo ciò che stavo cercando. Non so come ho fatto a non accorgermene prima. Nelle vene scorreva troppa paura, forse. E non ho esaminato tutto attentamente. Forse essere metodici paga. Devo dire a Liam quanto ha ragione su questo punto. Sarà contento. È una superficie diversa dai mattoni. Legnosa, ruvida e massiccia. Una porta d’ingresso. La tasto con attenzione. Nessun buco della serratura. Nessuna maniglia. La porta sembra alta un paio di metri e larga meno di uno. Il muro subito accanto allo stipite sembra più fragile, friabile, quasi sabbioso. Nell’angolo inferiore, dove la porta incontra il terreno, riesco faticosamente a far passare la mano attraverso un piccolo buco. Forse gli animali hanno scavato un passaggio nel corso degli anni, oppure parte del muro ha ceduto. Sposto la mano dall’altro lato del buco, ma riesco a percepire soltanto aria e il pavimento di cemento. Chissà se c’è un’altra tomba dietro questa, o se c’è qualcosa di diverso. Un corridoio. Un accesso di sicurezza. Spingo le mani contro la porta, gridando. Non cede. La spingo con le spalle. No, non funziona. Le do un calcio per la frustrazione.
«Fammi uscire! Fammi uscire da qui!». Le lacrime mi rigano il volto. Plop. Plop. Plop. Questa è l’unica risposta che ottengo, e forse è meglio così. Almeno, per ora nessuno è tornato per uccidermi. Ansimando, crollo sul pavimento. La mia mano entra in contatto con qualcosa di freddo e rigido. Non appena mi ricordo del ratto, faccio un balzo indietro. Ma non è un animale. Non è qualcosa di vivo. Lo raccolgo e al tatto ne misuro la lunghezza. Circa mezzo metro. Una parte è arrotondata e l’altra è tagliente, frastagliata. No, sicuramente non è qualcosa di vivo. È qualcosa di molto, molto morto.
Capitolo 3 Il corpo si irrigidisce per la paura. Un singhiozzo mi sale in gola e i polmoni fanno fatica a incamerare l’ossigeno necessario. È un osso. Deve essere un animale. Non può trattarsi di un essere umano. Non può, non può, non può. Non pensarci. Provo a ricordare le lezioni di biologia a scuola. La dissezione di un ratto. Lo studio sull’articolazione del ginocchio di una mucca. Sì, deve essere l’osso di una mucca. Probabilmente un femore. Non riesco a immaginare il motivo per cui l’osso di una mucca dovrebbe trovarsi qui o perché una vacca dovrebbe gironzolare sottoterra. Allora, forse non è una mucca. Un cane, un grosso cane. Lo raccolgo da terra, allontanando i pensieri inquietanti. Non ho tempo di pensare da dove possa provenire o di cosa si tratti veramente. Per me è un’arma. No, non un’arma. Un arnese. Tutto qui. Con la parte appuntita dell’osso, raschio lo strato tra lo stipite della porta e il muro, cominciando dal buco. Scavo e pulisco raschiando. Scavo, raschio e scavo di nuovo. Calde e silenziose lacrime mi rigano il volto. Nell’oscurità, sento il muro che inizia a franare. Funziona. Muovo la lingua. Sento della saliva amara in bocca e la ingoio. Scavo. Raschio. Plop, plop, plop. Il rumore può farti impazzire. O ero già pazza? Un ricordo aleggia nella mia testa e lotta per venire a galla. Di nuovo un ospedale. Io e… qualcosa. Non lo so. È svanito. Che cosa c’è che non va nel mio cervello? Perché non riesco a ricordare come sono arrivata fin qui? È per via del bernoccolo in testa? Ho una specie di danno cerebrale? Chi sono? Cosa so davvero?
Sono Chloe Benson. Ho ventisette anni. Ecco quello che so. Deve bastarmi per ora. Le braccia tremano. Tremo tutta. Sono un grande nave tremolante. Sono davvero qui? Sto sognando, addormentata nel mio letto? Voglio svegliarmi. Voglio svegliarmi! «Fermati!», mi dico. «Mente, smettila di vagare. Concentrati». Così faccio, perché non voglio morire quaggiù. Non voglio essere la povera Chloe Benson che morì in un buco sottoterra. Continuo a lavorare su un lato della porta. Raschio e scavo aiutandomi con le unghie e con l’osso. Sento qualcosa di appiccicoso, ora. Le punte delle dita e le nocche si macchiano di sangue, che si mischia con l’intonaco del muro. Dolore. Inizio a sudare freddo, anche se il mio corpo è già gelido. Ignoralo! Provo a immaginare qualcosa che mi tranquillizzi. Un colibrì che volteggia in aria mentre succhia il nettare da un vivace fiore viola. Il tramonto sopra le montagne, il cielo con striature oro, rosse e arancioni. Come si dice – “Rosso di sera, bel tempo si spera”. Laggiù, vedi? Sono completamente rilassata. Senza preoccupazioni. I delfini scivolano sulle onde dell’oceano, in perfetta sincronia l’uno con l’altro. Una spiaggia dei Caraibi, sabbia bianca e acqua turchese. Ecco, di nuovo il pensiero dell’acqua! Da quanto tempo sono qui? Non ne ho idea. Quanto tempo ci vorrà? C’è una fessura su un lato della porta, proprio dove il muro si è sgretolato. Ok, bene. Puoi riposarti adesso. Crollo sul pavimento. È freddo, così freddo. Stringo le braccia attorno al corpo. Devo essermi addormentata di nuovo, perché un istante dopo qualcuno mi sveglia, urlando. Sono io. Per quanto tempo ho dormito? Come è possibile che dorma quando sto cercando di sopravvivere? Mi schiaffeggio le guance e mi alzo. Devo provare. Devo farlo.
Lavoro al margine della porta, in basso. Altro intonaco cade tra il telaio e il muro di mattoni. Lentamente. Troppo lentamente. Mi vengono in mente bottiglie d’acqua gelata. Mi immagino mentre le apro e bevo. Ingoio e ingoio. Non riesco a fermarmi. Non posso farne a meno. Immagino di tuffarmi in una piscina e bere tutta l’acqua. Muovo di nuovo la lingua, avanti e indietro, e mi chiedo quanta saliva riesca a produrre un essere umano. Infinita? Sono a metà dell’opera adesso. I muscoli delle braccia sono in fiamme. Le dita sono intorpidite. Spero che il dolore mi passi. Forse sono all’inferno. Ho fatto qualcosa di molto brutto e sono all’inferno. No, sicuramente l’inferno sarebbe stato un posto più caldo. Che cosa ho fatto? Come sono finita qui? Non lo so. Non lo so. Non riesco a pensare. Immagino di essere di fronte a un caminetto acceso. Il legno scoppietta. Eppure so che non è reale. Me ne rendo conto perché sto battendo i denti. Vengo stordita da una zaffata del mio rancido sudore unita a quella del mio alito cattivo. Mi tuffo in una vasca. Una vasca bollente. Come in quei giorni d’inverno, quando il freddo ti penetra fin nelle ossa e l’unica cosa da fare è un bagno caldo. Non una doccia. Un bagno. Con olio essenziale di gelsomino e morbidi asciugamani riscaldati sul termosifone. Mmm, bello, e… Non appena riesco ad arrivare in fondo alla porta i pensieri si interrompono. La maggior parte dell’intonaco lungo i lati e in alto non c’è più. Respiro profondamente, dentro e fuori, cercando di riacquistare un po’ di energie. Ok, ci siamo. Spingi! Punto saldamente i piedi sul pavimento, uno davanti all’altro. Piego il ginocchio in avanti per mantenermi in equilibrio e spingo più forte che posso. La porta cigola e scricchiola. Spingi. Dài, Chloe Benson che vuole rimanere viva. La porta si sposta leggermente. Un attimo dopo qualcosa cade nel buio nero come l’inchiostro e atterra dall’altra parte con un tonfo.
Lo slancio mi spinge in avanti e mi ritrovo a volare fino a quando non sbatto contro un altro muro con le mani distese. Mi volto, le dita sfiorano altri mattoni. Sono in un corridoio o in un tunnel, ma non riesco a vedere niente. Ok, è una buona notizia. Molto bene. Vai. Corri. Scappa! Sinistra o destra? Da che parte? Che importa? Vai! Mi affretto lungo il corridoio, con le braccia protese in avanti, sperando di trovare un’altra porta da qualche parte. Bang! Le mani sbattono contro qualcosa alla fine del corridoio; il contraccolpo mi spinge indietro e atterro goffamente sulla gamba destra. Mi alzo. Mi fa male, ma non ho niente di rotto. Anche qui c’è una porta. Non è di legno. È liscia. Metallo. Cerco una maniglia e riesco a trovarne una. La abbasso e tiro. Si sente uno scricchiolio non appena apro, come un animale che si lamenta per il dolore. Oltrepasso la porta e mi ritrovo in un altro corridoio. Ci sono dei gradini che salgono verso l’alto. Vado avanti. Intravedo una luce fioca, lontana da me un milione di chilometri. Corro in quella direzione, ho le gambe che sembrano di gomma. Quando finalmente arrivo in cima, c’è una botola. Anche questa di metallo. La forzo per aprirla. Oscurità, ma non completa. Le stelle luccicano tra le sagome degli alberi. Sento aria. Non aria viziata e piena di umidità, ma aria fresca. Bosco. Foglie. I gufi, usciti fuori a caccia per la notte, bubolano. La maggior parte delle cose sono confuse. Il cuore mi batte forte. Le gambe mi pulsano. Corro, corro, corro. Respiro sbuffando. Il sangue mi sale alla testa. Alberi. Cespugli. Scivolo su un tronco melmoso, caduto a terra. La caviglia mi fa male. Mi alzo e corro. Inciampo. Sento delle ali di pipistrello che mi sventolano vicino. Il sangue mi batte come un martello nelle orecchie. Gli animali respirano e raschiano il terreno. I conigli si sparpagliano. I rami mi graffiano il volto e le braccia, mi tirano i capelli. Mi bruciano i polmoni. I ramoscelli si spezzano sotto i miei passi pesanti. Un gufo bubola. I muscoli non ne possono più. La luna è alta.
All’improvviso una strada asfaltata. Mi muovo di scatto, poi mi fermo piegandomi in avanti, tenendo le mani sulle cosce e cercando di respirare. Alzo il petto e subito lo riabbasso a fatica, esausta. Non mi è concesso fermarmi. E inizio a correre di nuovo, sul lato della strada. Dei fari in lontananza. Corro verso di loro. Faccio cenno con le mani in alto, all’impazzata, e mi sposto nel bel mezzo della strada. Le luci diventano più vicine. Affondo con le ginocchia sull’asfalto e scivolo in un’oscurità sempre più profonda.
Parte seconda Scheletri nell’armadio Capitolo 4 Delle voci si insinuano nel mio inconscio. Echi di voci. No… non sono voci. Un suono. Lento e continuo. Bip, bip, bip, bip. Sento dolore dappertutto. Per un attimo, il vuoto. Poi mi ricordo della tomba. Sono ancora qui. Le palpebre si aprono di scatto e respiro a fatica, inalando più aria di quanta riesca a gestirne. Tossisco e farfuglio. Il suono aumenta. Non appena mi ritorna la vista, un’infermiera mi appare davanti agli occhi. «Che piacere vederla sveglia», mi dice, con un sorriso compiaciuto sulla faccia. «Che cosa è successo?». Guardo le mie mani, bendate con della garza. «Speravamo potesse dircelo lei. Un’automobilista l’ha trovata stesa sul ciglio della strada». Controlla i macchinari che mi stanno monitorando. «I suoi segni vitali sono stabili. È rimasta priva di sensi da quando l’hanno portata qui». Dopo aver
scarabocchiato qualcosa su una cartella ai piedi del letto, si avvicina e mi guarda dall’alto. «Come si sente, cara?» «Mi fanno male la testa, la gola e le mani». Sull’avambraccio noto un grande ago conficcato in una vena e collegato a una flebo. «È leggermente disidratata e ha alcuni bernoccoli in testa. Le hanno fatto una TAC e una risonanza magnetica, ma i dottori non hanno riscontrato alcun danno al cervello, il che è buono». «Cosa…». Mi lecco le labbra. Provo a deglutire nonostante il nodo alla gola. «Che… giorno è oggi?» «È giovedì». «No». Bisbiglio. «Qual è la data di oggi?» «9 maggio». 9 maggio? Cosa? No, non può essere. «Ha detto 9 maggio?» «Sì, esatto». Ma se l’ultima cosa che ricordo è la festa per il compleanno di Liam il 23 marzo, ho perso la memoria per circa sette settimane. Alzo una mano e mi tocco il lato della testa dove c’è il bernoccolo. Il dolore viene a galla e mi dà la nausea. «Sto per sentirmi male». L’infermiera afferra una ciotola di carta a forma di rene, appoggiata in alto su un armadio dietro il letto, e me la mette sotto il naso proprio prima che vomiti. Quando anche l’ultimo spasmo smette di sconquassarmi il corpo, mi pulisce il viso con una montagna di fazzoletti, anche quelli presi dall’armadio. «È tutto a posto, non si preoccupi. Vado a chiamare il dottore così viene a visitarla». Spinge verso di me un comodino, poi prende una caraffa d’acqua dall’alto dell’armadio e gliela mette sopra, insieme a un bicchiere pieno. «Può bere dell’acqua, ma non troppa tutta in una volta. Piccoli sorsi, ok?». Annuisco. «Mio marito sa che sono qui?» «Purtroppo non siamo stati in grado di avvisare nessuno. Non aveva documenti quando è arrivata, non sapevamo chi fosse». Prende una penna e un blocchetto dal
taschino. «Mi dica il suo nome, indirizzo, numero di telefono e mi metterò in contatto con lui». «Mi chiamo Chloe Benson. Mio marito si chiama Liam». Mentre le dico il nostro indirizzo, il numero di casa e il numero di cellulare di Liam, istintivamente, mi tocco la gola rauca con le mani dolenti. Lei mi dà un colpetto sulla spalla così delicatamente che non riesco ad avvertirlo. «Lo contatterò. E il dottore sarà subito da lei». «Sono stata rapita». Gli occhi mi si riempiono di lacrime non appena realizzo ciò che mi è accaduto. L’infermiera rimane a bocca aperta. «Rapita?». Riesco soltanto ad annuire, le lacrime mi rigano il volto. Capisco che effetto fa, perfino alle mie orecchie suona folle e ridicolo. Chi mai rapirebbe un’insegnante di periferia? «Be’, sarà meglio fare una telefonata anche alla polizia. Non si preoccupi, cara, adesso è al sicuro». Le sue scarpe scricchiolano sul pavimento di linoleum mentre esce dalla stanza, a passi decisi, portando con sé la ciotola piena del mio vomito. Con la mano fasciata, prendo il bicchiere di plastica con l’acqua, trasalendo per il palpitante dolore alla punta delle dita. Vorrei bere solo qualche sorso, ma non riesco a fermarmi. Deglutisco tutta l’acqua in un’unica sorsata, poi ne verso dell’altra. All’improvviso ritorna la nausea, ma la mando giù e sorseggio il secondo bicchiere, lentamente, guardandomi attorno nella stanza e fuori, nella corsia principale. Dal letto, riesco a vedere la postazione delle infermiere. Quella che era qui un momento fa è al telefono, ma non riesco a sentire cosa sta dicendo. Aggrotta le sopracciglia, mi guarda e sussurra qualche altra cosa nella cornetta, scuotendo la testa. Lascio vagare lo sguardo nel resto del reparto. Qualcuno piange per il dolore. Qualcuno russa fragorosamente. Si sentono delle sedie che vengono trascinate sul pavimento. Eco di passi. Strofino le guance umide col dorso della mano e appoggio la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Quando li riapro, vedo un uomo in piedi vicino al letto, intento a leggere la mia cartella. Indossa un camice bianco sopra il vestito. Un dottore, allora. Ha i capelli rossi ondulati e alcune lentiggini sulla faccia. Sotto il braccio ha un’altra cartella, spessa circa quattro centimetri.
«Lei chi è?». Sollevo leggermente la testa dal cuscino e sento le vertigini. La appoggio di nuovo, le palpebre mi tremano non appena provo a tenerle aperte. «Ah, felice di vederla sveglia». Mi sorride, poggia la cartella che stava leggendo ai piedi del letto e si siede sulla sedia di plastica vicino a me. Posa l’altra cartella in grembo. «Sono il dottor Traynor. Sono il neurologo. E lei è Chloe Benson, giusto?» «Sì. Avete contattato mio marito? La polizia?» «Sì. A quanto pare suo marito è in Scozia, ma sta tornando. Anche la polizia sta arrivando». Prende dal taschino una torcia sottile come una penna e me la punta negli occhi. Sbatto le palpebre, abbagliata, e mi appoggio più lontano sul cuscino. «È tutto ok; volevo soltanto visitarla». Mi tiene le palpebre aperte fino a quando non ha finito. Spegne la torcia e dice: «Bene. Riesce a seguire il mio dito con gli occhi?». Alza il dito, muovendolo su e giù, da un lato all’altro. «Sì, molto bene. Si ricorda cosa è successo?» «Sono stata rapita», dico con voce tremante. «Mi sono svegliata da qualche parte, sottoterra, e sono riuscita a scappare. Poi ho continuato a correre e correre. Non so come sono finita lì. Non…». Mi interrompo per fare un respiro e calmarmi. «Non ricordo cosa è successo». Lui aggrotta le sopracciglia, annuisce e guarda la cartella. «Mi conferma la sua data di nascita, per favore?». Gliela dico. «E il suo indirizzo?». Gli dico anche quello. «Prima di essere… ehm… rapita, cos’è l’ultima cosa che ricorda?» «Una festa. La festa di compleanno di mio marito». «E quando è stata?» «Il 23 marzo». Stringe lievemente gli occhi. «Non riesce a ricordare nient’altro dal 23 marzo?». È ciò che ho appena detto, non è così? «No», rispondo tranquillamente, cercando di combattere la frustrazione.
«Sa che giorno è oggi?» «L’infermiera mi ha detto che è il 9 maggio. Questo vuol dire che ho perso sette settimane della mia vita, da qualche parte. Ho qualche danno cerebrale? È per questo che non riesco a ricordare?». Tocco il bernoccolo sull’orecchio. «Quando è stata portata qui, priva di sensi, le abbiamo fatto degli esami. A parte il bernoccolo in testa e qualche abrasione sui polsi, sulle mani e sulla faccia, non abbiamo riscontrato niente che non andasse, il che è positivo. Non ci sono danni al cervello. È un po’ disidratata, ma la terapia endovenosa risolverà il problema e non dovrebbe esserci nessuna conseguenza. Ma…». Mi fissa, e il suo sorriso si spegne. Poi abbassa gli occhi per consultare il dossier che ha in grembo. «Questa è la sua cartella clinica». Aggrotto le sopracciglia, confusa. «Sì?» «Ricorda che è stata ricoverata in ospedale ad aprile?» «Cosa? No? Gliel’ho detto. Mi ricordo della festa di compleanno di mio marito e poi…». Mi interrompo, domandandomi di che diavolo stia parlando. «Ho subìto un’operazione o qualcosa del genere?» «No». Apre la cartella, la sfoglia e legge. «Ha avuto un aborto spontaneo il 24 marzo. A quanto pare, a seguito di questo evento, ha sofferto di depressione e il suo medico di base le ha prescritto la Zolafaxina. È un antidepressivo». Le sue parole riescono a farmi tornare la memoria, che mi colpisce con la forza di una palla da demolizione. Ma sì, certo! È quello che stavo cercando di ricordare quando ero prigioniera. La cosa importante che stavo per dire a Liam alla fine della festa. Ero incinta. Non so come sia stato possibile dimenticarlo. Mi tocco il ventre con le mani, istintivamente, e smetto di ascoltare il dottore. Un ventre vuoto, privo di vita, una vita che era lì. Respiro a fatica. Gli occhi mi bruciano per le lacrime. Ma non ho tempo di fermarmi a riflettere su ciò che ho perso, perché lui continua a parlare e devo rimanere concentrata su ciò che sta dicendo. Solo questo conta. «… una brutta reazione agli antidepressivi, a quanto pare. Può capitare, anche se raramente». «Che cosa intende per “brutta reazione”? Che tipo di reazione?»
«Ha sofferto di psicosi, come effetto collaterale». Sento il sangue raggelare nelle vene. «C-cosa vuol dire?» «Ha avuto delle allucinazioni. Era confusa, agitata e paranoica. Suo marito e i medici hanno pensato fosse meglio per lei e per la sua stessa sicurezza che venisse ricoverata fino a quando l’effetto dei farmaci non fosse scomparso del tutto». «Per la mia sicurezza?», urlo, incapace di credere alle mie orecchie. Improvvisamente lui alza lo sguardo. «Sì. Secondo la legge sulla Salute mentale è stata ammessa al reparto psichiatrico». Scuoto la testa e sento un dolore lancinante nel cervello. «Non ricorda nulla di tutto questo?» «No!». Cerco di rimanere calma. «Quando è stata dimessa dall’ospedale e mandata a casa, gli effetti degli antidepressivi erano completamente svaniti. Stava bene, sebbene fosse ancora un po’ giù di corda. Eravamo certi che non ci sarebbero stati effetti indesiderati a lungo termine, ma non le abbiamo prescritto altri medicinali per ovvie ragioni. Anche un antidepressivo diverso avrebbe potuto provocare reazioni impreviste». «Perché non riesco a ricordarlo?». Chiude la cartella e mi guarda negli occhi. «Non posso dirlo con certezza. Potrebbe essere un altro degli effetti della Zolafaxina, oppure l’amnesia può essere stata causata dall’ematoma che ha in testa». Indica la mia tempia con il dito. «A ogni modo, è veramente preoccupante». Preoccuparsi sarebbe il meno nella mia situazione. «Che cosa è successo dopo?» «Dopo?» «Quando sono stata dimessa dall’ospedale, quando stavo meglio. Che cosa è successo dopo?». Scorre le note nella cartella. «È stata sottoposta a una visita di controllo, la settimana dopo, con il suo psichiatra, il dottor Drew. Tutto sembrava andare bene. C’è un appunto del dottore in cui sostiene che lei fosse ancora triste per l’aborto, ma non depressa. Le ha dato altre tre settimane di malattia. Lei ha rifiutato una seduta settimanale con lui, dicendo di essere in grado di gestire la sua vita. Era contento del
fatto che l’episodio psicotico fosse stato semplicemente un effetto collaterale del medicinale e che non ci fosse alcuna malattia mentale alla base». «Che cosa ho fatto quando avevo le allucinazioni?» «Tornando a casa dal lavoro, suo marito l’ha trovata in giardino: stava raschiando e scavando nel vialetto con le dita. Ha detto che un uomo la stava inseguendo e stava cercando di ucciderla. Stava scavando per cercare di scappare da lui». Impallidisco. La pelle diventa appiccicosa per il sudore. Sta descrivendo qualcuno che non sono io. Allucinazioni? Paranoia? Forse sto avendo un’allucinazione proprio adesso. Questo è soltanto un bizzarro e incredibile incubo. Non è così? Lo fisso, a bocca aperta, cercando di nascondere i miei pensieri. Mi guarda le mani. «A parte le abrasioni sui polsi, le sue mani sembrano come prima, quando è stata portata qui. La pelle graffiata e sanguinante e le unghie spezzate». «Com’è possibile? Come potevo essere così fuori di testa? Ero una persona sana… come posso essere diventata una psicopatica?» «Come ho detto, si è trattato di una reazione al farmaco. È molto, molto raro, ma può succedere. Abbiamo stilato un rapporto di farmacovigilanza con il produttore non appena ne abbiamo avuto la certezza». Sembra agitato, come se io volessi minacciare l’ospedale di un’azione legale. «Non so nemmeno cosa significhi». «Siamo costretti per legge a riportare qualsiasi effetto collaterale di un farmaco. Soprattutto se è un caso grave come il suo». «Quindi…». Respiro profondamente e appoggio la testa sui cuscini freddi. Sono esausta. Voglio chiudere gli occhi e dormire. Dormire per sempre. «Sono stata dimessa dall’ospedale e stavo bene, tranne per il fatto che ero ancora triste per l’abo…». Gli occhi mi si riempiono di lacrime. «L’aborto spontaneo. E dopo cosa è successo? E il rapimento? Non ricordo come sono arrivata là. Non ricordo niente. E se chiunque mi abbia rapita mi avesse colpita in testa? E se sapessero dove mi trovo adesso?».
Il medico annuisce comprensivo: quel gesto che fanno i dottori quando non hanno la minima idea di cosa non vada in te. Mentre è intento a pensarci meglio, appoggia il mento tra il pollice e l’indice. «Di questo si occuperà la polizia, che senza dubbio arriverà a momenti. Da un punto di vista medico, ho bisogno di fare altri esami. Tornerò quando avrà riposato». E poi capisco. I dubbi nei suoi occhi. La preoccupazione sul suo volto, come se stesse guardando un bambino scoperto a mentire. Non crede che io sia stata rapita. Pensa che io abbia avuto un altro “episodio psicotico”.
Capitolo 5 Vengo svegliata da un rumore di passi strascicati. Le palpebre si sollevano e il cuore mi salta in petto quando poso lo sguardo su due uomini in piedi, vicino alla porta. «Chloe Benson?», mi chiede quello alto. È sui quarant’anni, ha le spalle larghe e i capelli castano scuro con qualche filo bianco vicino alle tempie. Indossa un vestito nero sgualcito. L’altro è più basso, ha la corporatura di un pugile e un naso che sembra sia stato rotto più volte. Deglutisco, la gola è secca e la voce è stridula. «Sì», rispondo cautamente, pronta a schiacciare il pulsante d’emergenza, vicino al letto. L’uomo alto fa un passo in avanti e mostra un tesserino con una foto e con su scritto qualcosa. «Sono l’ispettore Summers. Questo è il sergente Flynn». Fa cenno al collega, alzando il palmo. Con la coda dell’occhio guardo il tesserino. La foto ritrae un ispettore Summers molto più giovane, più simile a un criminale che a un agente di polizia. Annuisco, non sapendo cosa dire in una circostanza del genere. Non mi è mai capitato di avere a che fare con la polizia, nemmeno per un eccesso di velocità. In qualche modo mi sento colpevole, soltanto per la loro presenza, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato e stessi cercando di nasconderlo. È la stessa sensazione che provo attraversando i controlli doganali all’aeroporto. Sebbene sia un’innocua viaggiatrice senza nemmeno un pacchetto di sigarette del duty free. Mi sento colpevole anche passando per il settore “niente da dichiarare”, dove ho l’impressione che tutti mi puntino gli occhi addosso, domandandosi se sia o meno un corriere del traffico di droga vestita casualmente da insegnante d’inglese.
«Sembra che lei abbia vissuto un vero e proprio incubo». Summers si siede sull’unica sedia, di plastica, presente nella stanza, vicino al mio letto. Flynn è appoggiato allo stipite della porta e tira fuori una penna biro dal taschino. Ha già un piccolo taccuino in mano. Gira qualche pagina prima di appoggiarci sopra la penna. «Può raccontarci cosa è successo?», chiede Summers. Gli dico tutto quello che ricordo, dal momento in cui mi sono svegliata sottoterra fino al momento in cui sono scappata e sono corsa in strada. Cerco di mantenere la calma, ma mi batte forte il cuore e gocce di sudore mi imperlano la fronte e il labbro superiore. Non appena finisco di parlare, Summers mi rivolge uno sguardo impassibile.
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