Alessandro Manzoni
I Promessi Sposi‌facili per tutti
a cura di Mario R. Storchi Edizioni Manna
© 2001, 2013 Mario R. Storchi ed Edizioni Manna www.edizionimanna.com www.edizionimanna.it info@edizionimanna.com tel. 081/522.13.30 fax: 081/522.75.00 ISBN 978-88-87752-09-0 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, riprodotta, copiata o trasmessa, in qualunque forma o con qualsiasi mezzo, senza il precedente assenso scritto dell’Autore e dell’Editore. Le illustrazioni sono tratte dall’edizione de I Promessi Sposi illustrata da Francesco Gonin e suoi collaboratori, pubblicata a Milano nel 1840 dalle tipografie Guglielmini e Redaelli.
Sommario Introduzione Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undicesimo Capitolo dodicesimo Capitolo tredicesimo Capitolo quattordicesimo Capitolo quindicesimo
Capitolo sedicesimo Capitolo diciassettesimo Capitolo diciottesimo Capitolo diciannovesimo Capitolo ventesimo Capitolo ventunesimo Capitolo ventiduesimo Capitolo ventitreesimo Capitolo ventiquattresimo Capitolo venticinquesimo Capitolo ventiseiesimo Capitolo ventisettesimo Capitolo ventottesimo Capitolo ventinovesimo Capitolo trentesimo Capitolo trentunesimo Capitolo trentaduesimo Capitolo trentatreesimo Capitolo trentaquattresimo Capitolo trentacinquesimo Capitolo trentaseiesimo Capitolo trentasettesimo Capitolo trentottesimo L’Autore Il romanzo Schede di comprensione, approfondimento e verifica Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto
Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undicesimo Capitolo dodicesimo Capitolo tredicesimo Capitolo quattordicesimo Capitolo quindicesimo Capitolo sedicesimo Capitolo diciassettesimo Capitolo diciottesimo Capitolo diciannovesimo Capitolo ventesimo Capitolo ventunesimo Capitolo ventiduesimo Capitolo ventitreesimo Capitolo ventiquattresimo Capitolo venticinquesimo Capitolo ventiseiesimo Capitolo ventisettesimo Capitolo ventottesimo Capitolo ventinovesimo Capitolo trentesimo Capitolo trentunesimo Capitolo trentaduesimo Capitolo trentatreesimo Capitolo trentaquattresimo Capitolo trentacinquesimo Capitolo trentaseiesimo Capitolo trentasettesimo
Capitolo trentottesimo Scelta di brani originali Dal capitolo I: la descrizione dei luoghi della vicenda Dal capitolo III: il miracolo delle noci Dal capitolo VIII: l’addio ai monti Dal capitolo XII: l’assalto ai forni Dal capitolo XXI: l’incontro tra l’Innominato e Lucia Dal capitolo XXVII: don Ferrante Dal capitolo XXXII: gli untori Dal capitolo XXXIII: don Rodrigo colpito dalla peste Dal capitolo XXXVIII: il dialogo tra don Abbondio, Renzo, Lucia e Agnese Altre pubblicazioni dell’Autore
Introduzione Nell’Introduzione ai Promessi Sposi, Alessandro Manzoni finge di aver trovato un manoscritto del Seicento nel quale un anonimo scrittore narrava una storia molto bella, riguardante il contrastato matrimonio di due contadini, ma scritta col linguaggio di quei tempi, che risulta poco interessante o addirittura incomprensibile per i lettori del suo tempo, l’Ottocento: ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là [...] In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Ma allora, pensa Manzoni, perché non riscrivere quella storia in un linguaggio più semplice, moderno e comprensibile da tutti? È così che cominciano i Promessi Sposi, con un piccolo espediente peraltro non nuovo (anche Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso e Miguel de Cervantes nelDon Chisciotte fanno finta di aver preso spunto dal manoscritto antico di un altro autore). Oggi, a distanza di più di centosessanta anni dall’ultima edizione dei Promessi Sposi, si ripropone per molti professori e molti studenti lo stesso interrogativo manzoniano, con la differenza che allora era un falso problema, oggi è reale. Perché i Promessi Sposi sono un libro bellissimo, affascinante nei personaggi e nelle situazioni narrate, ma non certo di facile lettura per i nostri giorni. Ecco che allora nasce questo nostro tentativo di semplificare il romanzo, di accompagnare per mano il
lettore nella scoperta di questo capolavoro, senza incontrare grandi difficoltà nella sua lettura. Abbiamo cercato di eliminare tutte quelle parti del romanzo che potevano risultare di difficile comprensione e quelle dedicate a descrizioni o a parentesi storiche non indispensabili per seguire la trama del romanzo. Queste parti sono state sintetizzate in brevi riassunti di collegamento, proposti in un linguaggio molto comprensibile, semplice anche se mai banale. I numerosi passi originali sono dapprima preceduti da una breve sintesi e poi accompagnati dalla spiegazione dei termini più difficili. Questi termini sono infatti riportati in corsivo e subito seguiti dalla relativa spiegazione, che si trova tra due parentesi tonde, come in questo esempio: e domandi pure a tutto il mio comune (a tutti quelli che mi conoscono), che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. In altre parole, vogliamo che il lettore possa affezionarsi al romanzo, amare alcuni personaggi, odiarne altri, senza doversi mai annoiare o trovare difficoltà nella lettura. D’altra parte, Manzoni, aveva scelto di scrivere i Promessi Sposi in un linguaggio semplice, accessibile a tutti, chiaro ed eccezionalmente semplice anche nella scelta dei termini, ma comunque mai banale. A distanza di tanti anni c’è bisogno almeno di provare di nuovo questa strada per avvicinarci alla storia di Renzo e Lucia ai nostri studenti. Nello stesso tempo, in apposite schede, presenti alla fine del volume, mireremo a verificare il grado di comprensione del testo e ad approfondire alcuni aspetti dello stesso; ricorderemo anche come le vicende narrate nel romanzo non siano poi tanto lontane ed estranee da avvenimenti dei nostri giorni. Dunque, cominciamo, senza perder troppo tempo. Mario R. Storchi
Capitolo primo Ăˆ il tardo pomeriggio del 7 novembre 1628 quando don Abbondio, sessantenne parroco di un piccolo paese lombardo che si trova vicino al lago di Como, in provincia di Lecco, sta tornando da una passeggiata per una delle tante piccole strade che uniscono i paesi che si affacciano sul lago di Como a quelli sorti sulle colline circostanti. Don Abbondio camminava leggendo ogni tanto qualche passo dal suo breviario, il libro delle preghiere, che portava sempre con sĂŠ durante queste sue consuete passeggiate. Arrivato nei pressi di un bivio della strada che lo riportava a casa, vide due persone che sembravano aspettare proprio lui. Il loro aspetto, il vestito che indossavano, le armi che portavano e lo sguardo da prepotenti non lasciavano dubbi: si trattava di due bravi. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir cosĂŹ, delle due viottole (alla confluenza delle due stradine): un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata(penzolante) al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento (l’atteggiamento), e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio
intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro(sulla spalla sinistra), terminata in una gran nappa (un mazzetto di fili che formano un fiocco), e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi (folti baffi) arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia (la parte dell’impugnatura che serve a proteggere la mano) traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra (sistemate come a formare un disegno), forbite (pulite) e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
Con il termine bravi, si indicavano allora dei malviventi che, organizzati in gruppi armati, eseguivano gli ordini di qualche potente signore locale, per difendere lui e i suoi beni, ma anche e soprattutto per permettergli di esercitare un potere che superava quello dello stato; in cambio di ciò ricevevano dal signore denaro, protezione e impunità nei confronti della legge. I bravi furono un fenomeno molto diffuso in Italia (specie in Lombardia e nel Veneto) tra il Cinquecento e il Seicento, come testimoniano le numerose leggi che furono in questo periodo emanate contro di essi, alcune delle quali sono citate da Manzoni nel romanzo. Queste leggi (che erano chiamate grida, perché oltre a essere stampate venivano lette a voce alta per le strade dei paesi da un banditore, abitudine indispensabile in un’epoca nella quale la maggioranza della popolazione era analfabeta), pur prevedendo pene severissime, in realtà non riuscirono a eliminare il fenomeno. Al tempo in cui sono ambientati i Promessi Sposi, i bravi erano facilmente riconoscibili: portavano appesa alla cintura una pistola e lasciavano crescere i capelli
molto lunghi sulla fronte e sul viso, per poi raccoglierli a ciuffo in una specie di reticella. In questo modo, quando dovevano compiere qualche azione criminosa, toglievano la reticella lasciando cadere i capelli sul viso, in modo da non essere riconosciuti.
Come temeva don Abbondio, i bravi attendevano proprio lui. Erano al servizio di don Rodrigo, la persona più potente della zona, e per conto di questo signorotto vanitoso e prepotente, ordinarono a don Abbondio di non celebrare le nozze, già fissate per il giorno seguente, tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, entrambi contadini e operai presso la filanda (una fabbrica dove si produceva la seta) del paese. Don Abbondio venne anche minacciato di morte se avesse parlato con qualcuno dell’accaduto. Che i due descritti di sopra stessero ivi (qui) ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto (insieme) avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar (spiare) le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada (qualche strada laterale), a destra o a sinistra; e gli sovvenne (si rese conto) subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare (colletto), come per raccomodarlo (sistemarlo); e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté (assunse un’espressione tranquilla e felice, per dar capire ai bravi che aveva la coscienza a posto e quindi niente da temere da loro), fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia. - Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. - Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo(infuriato) di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia (mentre sta per commettere una cattiva azione), - lei ha intenzione di maritar (di sposare) domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! - Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune (della comunità). - Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai. - Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... (non ne guadagno nulla)
- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle(dovesse decidersi con le parole), lei ci metterebbe in sacco (finirebbe per aver ragione). Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende. - Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli... - Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore (il bravo che aveva parlato per primo): - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo (come si vive); e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente. Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte (nel pieno) d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire... - Oh! suggerire a lei che sa di latino! (a lei che conosce il latino; è detto con sarcasmo, per indicare l’appartenenza di don Abbondio a una classe colta) - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo? - Il mio rispetto... - Si spieghi meglio! -... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo(pronunciando) queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio. - Benissimo, e buona notte, messere (signore), - disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli (evitarli), allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevanoaggranchiate (paralizzate dalla paura). Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale(carattere), e de' tempi in cui gli era toccato di vivere. Don Abbondio era infatti un uomo pauroso, interessato solo a vivere in pace, tant’è vero che aveva seguito il consiglio dei suoi genitori di divenire sacerdote non per un’autentica vocazione religiosa, ma per esercitare, lui che non era né nobile né ricco, un mestiere che lo ponesse al riparo dalle violenze e gli concedesse uno stipendio sicuro in un’epoca, il Seicento, dominata dalle violenze e dalle ingiustizie. Non a caso Manzoni lo paragona a un «animale senza artigli e senza zanne», a un «vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro» e quindi in costante pericolo di finire in pezzi, per farci comprendere e in parte anche per giustificare la
paura di quest’uomo, preoccupato solo di cavarsela in ogni occasione senza subir danni. Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto (accorto) non era natocon un cuor di leone (coraggioso). Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale (legge) non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. [...] L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto (al punto più estremo) la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava (era attento) a sostenere e a estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite (erano suddivisi in corporazioni, come avveniva già nel medioevo), i giurisperiti (gli avvocati) formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie (gruppi attenti a salvaguardare i propri interessi) aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi (violenti) ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso (ricco) e violento, con intorno uno stuolo (una moltitudine) di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi(abituati), per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi (costretti a ritenersi) quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione(l’età della ragione, vale a dire tra i 16 e i 18 anni), d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti (ai genitori), che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi (guadagnarsi) di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita (rispettata) e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. [...]Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti (nell’evitare tutte le difficoltà), e nel cedere, in quelli che non poteva scansare.
Don Abbondio rientra dunque a casa sconvolto, pensando in quale guaio si è ritrovato senza nessuna colpa, proprio lui che aveva passato tutta la sua vita stando bene attento a star lontano da qualsiasi tipo di situazione pericolosa. A casa trova la sua governante, Perpetua, e le parla dell’incontro con i bravi. Perpetua è uno dei personaggi dei Promessi Sposi divenuto talmente popolare al punto che ancor oggi si definiscono perpetue le domestiche dei sacerdoti. Manzoni la descrive come una donna certo non bella, che ha ormai superato i quarant’anni senza essersi maritata. È dunque una zitella, come ancor oggi si dice, perché non ha saputo scegliere tra i numerosi pretendenti che aveva avuto (come sostiene lei) o, più realisticamente, come scrive Manzoni, «per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche». È una serva fedele e affezionata, ma ha due difetti principali: quello di spettegolare e quello di non saper mantenere un segreto. Perpetua consigliò a don Abbondio di rivelare quanto era accaduto all’arcivescovo di Milano, Federigo Borromeo, per chiedere il suo aiuto e la sua protezione, ma don Abbondio aveva troppa paura: rifiutò pertanto il consiglio della sua governante e si ritirò nella sua stanza, dopo aver raccomandato a Perpetua di mantenere il segreto, a costo della vita.
- Il mio parere (è Perpetua a parlare) sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo (il cardinale Federigo Borromeo, che avrà poi una parte importa nte nella storia dei due promessi sposi) è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola (è soddisfatto); io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente... (in qual modo…) - Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti (son consigli questi) da dare a un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata(fucilata) nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe? - Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i
denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... - Volete tacere? - Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... (a calar le braghe, vale a dire a arrendersi) - Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate (sciocchezze)? - Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. - Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me. - Mandi almen giù quest'altro gocciolo (goccio di vino), - disse Perpetua, mescendo (versando). - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. - Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola bagattella! (una cosa da niente, detto in senso ironico) a un galantuomo par mio (come me)! e domani com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e disparve.
Capitolo secondo Quella notte don Abbondio non riusciva a prendere sonno: cercava di trovare una soluzione per risolvere il problema in cui si trovava. Alla fine pensò che la miglior soluzione era prender tempo, rimandando le nozze di qualche giorno per arrivare alla
prima domenica d’Avvento (che in quell’anno capitava il 12 novembre), perché in quegli anni la Chiesa vietava i matrimoni dalla prima domenica di Avvento sino all’Epifania. Avrebbe così guadagnato quasi due mesi di tempo. Confortato finalmente da questa soluzione «poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate». Al mattino don Abbondio dovette però affrontare Renzo, che si presentò di buon’ora per concordare l’ora del matrimonio. Renzo era un giovane di circa vent’anni, orfano di entrambi i genitori. Possedeva una casa e un piccolo terreno agricolo ed era un esperto filatore di seta (in grado cioè di ricavare la seta dai bozzoli del baco da seta), attività piuttosto ricercata in quegli anni e quindi abbastanza remunerativa. Renzo si presentò vestito elegantemente, come si addiceva a un giovane che quel giorno doveva sposarsi, per di più appartenente a una classe sociale abbastanza agiata rispetto al resto del popolo. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione (senza maleducazione), presentarsi al curato, v'andò, con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti (orfano), ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa(vantaggiosa); allora già in decadenza, ma non però a segno che (al punto che) un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando(diminuendo); ma l'emigrazione continua de' lavoranti, attirati neglistati vicini (il Piemonte e soprattutto la Repubblica di Venezia) da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti (precedenti), e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio (attento amministratore), si trovava provvisto bastantemente(sufficientemente), e non aveva a contrastar con la fame (non rischiava di morire di fame). Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala (vestito elegantemente), con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo di braverìa(spavalderia), comune allora anche agli uomini più quieti. Tirando in ballo difficoltà burocratiche impreviste, la necessità di fare altre ricerche prima del matrimonio e cercando di tenere a bada le proteste di Renzo con citazioni in latino (lingua sconosciuta al giovane, così come alla maggior parte del popolo) per dare maggiore autorevolezza alle sue parole, Don Abbondio riuscì a rinviare le nozze di una settimana.
Nell’uscire dalla casa del parroco, Renzo (che era rimasto poco convinto delle scuse tirate fuori dal parroco per rimandare il matrimonio) vide però Perpetua. Conoscendone la natura pettegola, le diede a parlare e da alcune frasi della domestica (che gli disse «mala cosa nascer povero» e poi: «c’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio») capì chiaramente che don Abbondio non gli aveva raccontato tutta la verità: decise perciò di rientrare nella casa di don Abbondio e lo costrinse a dirgli tutto.
In un momento fu all'uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato(direttamente) al salotto dove l'aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito (in modo spavaldo), e con gli occhi stralunati. - Eh! eh! che novità è questa? - disse don Abbondio. - Chi è quel prepotente, - disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è risoluto d'ottenere una risposta precisa, - chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia? - Che? che? che? - balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato (come un panno appena lavato). E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca. - Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui? - Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra. - Penso che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene (accorgersene), la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
- Misericordia! - esclamò con voce fioca don Abbondio. - Lo voglio sapere. - Chi v'ha detto... - No, no; non più fandonie (bugie). Parli chiaro e subito. - Mi volete morto? - Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere. - Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita? - Dunque parli. Quel «dunque» fu proferito con una tale energia, l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire. - Mi promettete, mi giurate, - disse - di non parlarne con nessuno, di non dir mai...? - Le prometto che fo uno sproposito (una pazzia), se lei non mi dice subito subito il nome di colui. A quel nuovo scongiuro (a quella nuova minaccia), don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti (le pinze del dentista), proferì (disse): - don... - Don? - ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all'indietro. - Don Rodrigo!
Una volta saputo che era don Rodrigo la persona che cercava di impedire il matrimonio, Renzo uscì dalla casa di don Abbondio, mentre questo, per lo spavento,
si mise a letto con la febbre, non prima di aver chiamato Perpetua (che tornava in casa con la faccia tosta di chi non aveva né detto né fatto nulla) e di averla accusata di aver svelato la verità a Renzo. È accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare (ben più importanti) che don Abbondio, di trovarsi in frangenti (momenti) così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre (far finta di essere ammalati, le cosiddette «malattie diplomatiche». Questo ripiego (questa scusa), egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l'ansietà dell'avvenire (di quello che sarebbe potuto succedere), fecero l'effetto. Affannato e balordo (stordito), si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa (nervosa): - Perpetua! – La(Lei) venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze (lamentele reciproche), le accuse, le difese, i «voi sola potete aver parlato», e i «non ho parlato», tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all'uscio (di sbarrare la porta), di non aprir più per nessuna cagione (ragione), e, se alcun (qualcuno) bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, - son servito (sono nei guai) -; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo, intanto, camminava infuriato verso la casa di Lucia. Nella sua mente si affollavano i pensieri più disparati: giunse persino a pensare di uccidere don Rodrigo. Ma poi? Che cosa sarebbe accaduto a Lucia? Arrivò così a casa della sposa.
Lucia, con l’aiuto di alcune amiche e della madre, si stava acconciando per il matrimonio: aveva i capelli divisi sulla fronte e raccolti dietro al capo in molti cerchi di trecce, ognuno attraversato da un lungo spillone d’argento, così che tutti questi spilloni venivano a formare una raggiera, una specie di aureola, come era costume in quei tempi. Per poterle parlare in privato, Renzo la mandò a chiamare di nascosto, tramite una ragazzina, Bettina, e le rivelò l’accaduto. Lucia, quando sentì nominare il nome di don Rodrigo si mostrò solo in parte sorpresa; si recò dalle amiche che l’aspettavano e, cercando di non far trapelare nulla dal tono della sua voce, disse loro che il matrimonio era rimandato a causa di un malore che aveva colto don Abbondio. Le amiche andarono via e alcune di loro andarono a verificare se don Abbondio era davvero malato. (Lucia) Tornò alle donne radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio (cercando di parlare in modo tranquillo e con un volto sereno), disse: - il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo. Le donne sfilarono (andarono via), e si sparsero a raccontar l'accaduto. Due o tre andaron fin all'uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero. - Un febbrone, - rispose Perpetua dalla finestra; e la trista (triste) parola, riportata all'altre, troncò le congetture (le ipotesi) che già cominciavano a brulicar (a muoversi) ne' loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne' loro discorsi.
Capitolo terzo Lucia, dopo aver allontanato le amiche, ritornò nella stanza dove aveva lasciato Renzo, il quale era in compagnia della madre di Lucia, Agnese, una donna combattiva, rimasta vedova ancor giovane.
Con poche parole, asciugandosi le lacrime, Lucia raccontò di aver incontrato qualche giorno prima, mentre era di ritorno dalla filanda, don Rodrigo, il quale era in compagnia di un altro signore. Don Rodrigo aveva cercato di importunarla rivolgendole alcuni pesanti apprezzamenti; lei a capo chino, aveva affrettato il passo e aveva sentito dire a don Rodrigo la parola «scommettiamo» (evidentemente aveva scommesso con l’altra persona – che scopriremo dopo essere il cugino Attilio - di «far sua» Lucia). Il giorno dopo aveva incontrato di nuovo i due uomini. - Ora vi dirò tutto, - rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule. - Parla, parla! - Parlate, parlate! - gridarono a un tratto (insieme) la madre e lo sposo. Santissima Vergine! - esclamò Lucia: - chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno (a questo punto)! - E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore(scopriremo dopo che si trattava del conte Attilio, cugino di don Rodrigo); che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella diceva, non punto belle (per niente belle, indecenti); ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. - Per grazia del cielo, continuò Lucia, - quel giorno era l'ultimo della filanda. Non aveva parlato dell’accaduto alla madre e al fidanzato per non allarmarli, ma aveva confidato il tutto al suo confessore, un frate cappuccino del convento di Pescarenico (una località vicina a quella del paesino dove abitavano Renzo e Lucia), padre Cristoforo, il quale le aveva consigliato di uscire il meno possibile di casa e di affrettare le nozze, perché sperava che il matrimonio avrebbe fatto cessare le attenzioni di don Rodrigo nei confronti della ragazza.
Appena Lucia terminò il suo racconto, scoppiò a piangere. Renzo cominciò invece ad andare avanti e indietro per la stanza imprecando minacce contro don Rodrigo. «- Ah! no, Renzo, per amor del cielo! - gridò Lucia. - No, no, per amor del cielo! Il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?»
A questo punto Agnese, dicendo che lei conosceva meglio il mondo per esser nata prima dei due giovani, consigliò a Renzo di consultare un noto avvocato di Lecco, soprannominato Azzecca-garbugli (vale a dire attacca-imbrogli), perché era molto abile nell’adoperare le leggi a favore dei suoi clienti. Sicuramente, disse Agnese, questo avvocato avrebbe saputo consigliare la soluzione migliore; in cambio, Renzo gli avrebbe portato in dono quattro capponi che dovevano servire per il pranzo di nozze. - Sentite, figliuoli; date retta a me, - disse, dopo qualche momento, Agnese. - Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge (la situazione non è disperata). A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo (il modo per risolverle); ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto (magro), pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone (una macchia rossa) sulla guancia. - Lo conosco di vista, - disse Renzo. - Bene, - continuò Agnese: - quello è una cima d'uomo (un uomo di grandi capacità)! Ho visto io più d'uno ch'era più impicciato che un pulcin nella stoppa (più impigliato che un pulcino nella stoppa), e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote (con le mani vuote) da que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo si recò subito dall’avvocato, il quale lo ricevette nel suo disordinato studio. Renzo chiese subito «se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale». Azzecca-garbugli rispose: «ho capito» e lesse a Renzo una legge
sull’argomento, ma in realtà non aveva capito proprio nulla. Abituato infatti ad avere per clienti dei mascalzoni, immaginava che Renzo fosse un bravoche aveva minacciato un religioso e si dichiarò pronto a difenderlo, come aveva evidentemente fatto in altre occasioni con altri malviventi. Perciò insisteva nel chiedergli quale reato avesse commesso. - Non facciam niente, (Non concludiamo nulla di buono) - rispose il dottore, scotendo il capo (scuotendo la testa), con un sorriso, tra malizioso e impaziente. - Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato (la persona che vi ha incaricato di commettere questa azione): sarà naturalmente persona di riguardo (una persona importante); e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar (a chiedere) la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti (gli accordi) opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra (se poi la cattiva azione l’avete fatta da solo), via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni (tenerlo buono ricorrendo a qualche potente protettore), o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale (di denunciarlo noi in tribunale), e mettergli una pulce nell'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride (utilizzare le leggi), nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina (una persona ostinata), c'è rimedio anche per quelle. D'ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo (una persona che conosce il mestiere, cioè lui, Azzecca-garbugli): e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro(la legge parla chiaro); e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate(le azioni maldestre) bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito. Ma quando Renzo spiegò all’avvocato che lui era la vittima e che il mandante era Don Rodrigo, Azzecca-garbugli lo cacciò via, se ne lavò le mani (come Ponzio Pilato con Gesù) perché non aveva certo intenzione di mettersi contro un potente, proprio lui che si metteva sempre al loro servizio. - Oh! signor dottore, come l'ha intesa? (che cosa ha capito, disse Renzo) l'è proprio tutta al rovescio (è tutto il contrario di quello che avete capito). Io non ho minacciato nessuno; io non fo (non faccio) di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune (a tutti quelli che mi conoscono), che sentirà che non ho mai avuto che fare
con la giustizia. La bricconeria (la cattiva azione) l'hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver visto quella grida (quella legge). - Diavolo! - esclamò il dottore, spalancando gli occhi. - Che pasticci mi fate? Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose? - Ma mi scusi; lei non m'ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è. Sappia dunque ch'io dovevo sposare oggi, - e qui la voce di Renzo si commosse, - dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo (con la quale ero fidanzato), fin da quest'estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s'era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta, per non tediarla (annoiarla), io l'ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo... - Eh via! - interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, - eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie (venite a farmi perder tempo con queste storie)? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole (dare il giusto valore alle parole); e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m'impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte (di questo tipo), discorsi in aria. - Le giuro... - Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? Io non c'entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. - Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo. - Ma senta, ma senta, - ripeteva indarno (inutilmente) Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l'uscio; e, quando ve l'ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: - restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Al povero Renzo non restò che riprendersi i quattro capponi e tornare a casa. Intanto, a casa di Lucia, mentre la poverina, tolto il vestito da matrimonio e rimesso quello da lavoro, parlava con la madre, si sentì bussare alla porta. Era un frate cappuccino, fra’ Galdino, che girava per le casa chiedendo l’elemosina di qualche noce per il convento. Dopo essersi lamentato per il cattivo raccolto di quell’anno, fra’ Galdino raccontò ad Agnese un fatto miracoloso avvenuto diversi anni prima in un convento della Romagna. Lucia lo pregò di avvertire fra’ Cristoforo che lei aveva bisogno di vederlo al più presto e gli donò una gran quantità di noci in modo che il frate tornasse subito in convento per riferire il messaggio. Poco dopo tornò Renzo e raccontò del fallimento del suo incontro con AzzeccaGarbugli. Era ormai calata la sera e Renzo, data e ricevuta tristemente la buona notte, lasciò la casa di Lucia per tornare alla propria, non prima di avere nuovamente minacciato di farsi giustizia da solo.
Capitolo quarto Siamo così giunti all’alba del 9 novembre 1628, due giorni dopo la data fissata per il matrimonio, quando fra’ Cristoforo esce dal suo convento per recarsi a casa di Lucia. L’intero capitolo ricostruisce la storia di quest’uomo, giunto alloraa un’età vicina ai sessant’anni. Il padre Cristoforo da *** (Manzoni evita nel romanzo di citare dettagliatamente i nomi di alcuni personaggi) era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco(i frati cappuccini portano i capelli rasati al centro della testa), s'alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero (di fiero) e d'inquieto; e subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate (i lineamenti decisi) della parte superiore del volto, alle
qualiun'astinenza (un digiuno), già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d'espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso (gli occhi di fra’ Cristoforo sono paragonati a dei cavalli focosi governati con forza da un cocchiere).
Prima di indossare il saio, vale a dire l’umile veste dei cappuccini, fra’ Cristoforo si chiamava Lodovico ed era figlio unico di un ricco mercante che aveva fatto educare il figlio come un gran signore. Ricco, ma non nobile, Lodovico era disprezzato dagli aristocratici (in quanto figlio di un mercante), con i quali gareggiava in lussi e, non di rado, litigava, specie quando gli era possibile mettersi dalla parte di qualche persona umile perseguitata da un nobile. Lodovico era infatti d’animo onesto e non sopportava le prepotenze commesse dai forti a spese dei più deboli. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l'angherie (le prepotenze) e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata (giornalmente); ch'erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine(antipatia). Per acquietare (per calmare), o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d'un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore (era orgoglioso di fare stare a posto un prepotente), s'intrometteva in una briga(controversia), se ne tirava addosso un'altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi (diventare) come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de' torti. Lodovico non era però soddisfatto della vita che conduceva: era stato costretto ad assumere anche lui dei bravi che prendessero le sue parti quando occorreva e perciò a ricorrere alla violenza, anche se per contrastare l’arroganza dei nobili e difendere gli
oppressi. Più di una volta aveva perciò persino pensato di prendere i voti, di divenire frate. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato (tormentato) continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (per vincere qualche controversia) (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto (senza tener conto di quei casi in cui non riusciva a imporsi), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero dibravacci (bravi); e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati (temerari), cioè i più ribaldi; e vivere co' birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d'una volta, o scoraggito (scoraggiato), dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi,stomacato (disgustato) della sua compagnia, in pensiero dell'avvenire(preoccupato per il futuro), per le sue sostanze che se n'andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d'una volta gli erasaltata la fantasia (venuta l’idea) di farsi frate; che, a que' tempi, era il ripiego più comune, per uscir d'impicci (togliersi dai guai). Questo strano pensiero di prendere i voti sarebbe probabilmente rimasta una pura fantasia se un giorno non fosse accaduto un avvenimento che cambiò del tutto la vita di Lodovico: in un duello nato da futili motivi uccise infatti un giovane nobile, subito dopo che questo aveva ucciso Cristoforo, il suo servo più fedele, che lo conosceva sin dalla nascita. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d'un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale (il giovane nobile) gli piombava addosso per finirlo (per ucciderlo); quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto (quasi nello stesso momento) col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch'era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati (malmenati) e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsiimpicciati nella gente (bloccati dalla folla), che già accorreva,scantonarono (fuggirono) dall'altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que' due funesti (morti) compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
La folla, che si era radunata per assistere al duello, ricordando come Lodovico avesse nel passato preso spesso le parti dei deboli contro i prepotenti, per salvarlo dalla giustizia e dalla vendetta dei parenti dell’ucciso lo condusse, ferito, in un vicino convento dei cappuccini. In quei tempi, infatti chiunque si fosse rifugiato in un luogo religioso non poteva essere arrestato. Ed è proprio durante i giorni che è costretto a trascorrere (convalescente per le ferite subite nel duello) nel convento che matura in Lodovico, insieme al rimorso per l’omicidio commesso, anche la vocazione religiosa: decide pertanto di diventare frate e prende il nome di fra’ Cristoforo, in ricordo del suo servo morto nel duello (alla famiglia del quale donò tutti i suoi averi). Lodovico non aveva mai, prima d'allora, sparso sangue (ucciso nessuno); e, benché l'omicidio fosse, a que' tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi (abituati) a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione ch'egli ricevette dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto (ucciso) da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l'alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all'abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto (in un attimo), l'animo dell'uccisore [...] Così, a trent'anni, si ravvolse nel sacco (la veste che indossavano i cappuccini); e, dovendo, secondo l'uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare (scontare): e si chiamò fra Cristoforo. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?
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