Laura Bondi
Il Diario di una Cameriera‌ a Parigi
Copyright Š 2014 Laura Bondi Tutti i diritti sono riservati
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e personaggi è puramente casuale.
Disegno copertina: Antonella Cedro Realizzazione Grafica: Alessandro Bianchini
A Paolo
10 Luglio 2011, Domenica
Notte
Dalla finestra aperta entra il rumore assordante del traffico. Il profumo dei tigli mi inebria. Apro gli occhi e… la torre più famosa del mondo svetta maestosa davanti a me illuminando la notte di Parigi!
Sarà la centesima volta che chiudo gli occhi e li riapro per essere sicura che non sto sognando, che sono davvero qui! Ommioddio, che meraviglia! Caro Diario, sono appena arrivata e sono stanca per il viaggio, eppure non riesco a dormire. Chi si aspettava un evento del genere? Ormai ero talmente assuefatta alla routine da aver perso qualsiasi stimolo. Le mie giornate erano piene solo di rabbia e disperazione, così mi ero convinta che questo sarebbe stato il mio destino e nulla avrei mai potuto fare per cambiarlo. Invece, circa una settimana fa, sono arrivata in pasticceria con il solito morale sotto i piedi e Margherita mi è venuta incontro con quell’espressione gentile che mi fa paura: in genere, quando sfodera i suoi sorrisi smaglianti ha bisogno di grossi favori ed io non ero dell’umore adatto per fare beneficienza. «Eli, buongiorno. Appena ti sei messa la divisa puoi venire da me, per favore?» mi ha chiesto cinguettando. Margherita, se ti ricordi, è la figlia maggiore dei titolari, Mario e Caterina, quella grassottella e scorbutica che ha avuto la fortuna di sposare Antoine, il pasticciere di origine francese che dà lustro al locale. Insomma, mi sono vestita in fretta, ho salutato Nicola, il loro bambino, che giocava con un sonaglietto nel seggiolone vicino ai genitori dove sta di solito – Nicola è nato il primo agosto dello scorso anno e l’atmosfera da allora è un po’ meno pesante - e mi sono parata davanti a Margherita. «Ah, eccoti!» ha esclamato un po’ agitata. Sinceramente, ho cominciato a preoccuparmi, anche se Antoine appariva più allegro del solito. «Senti,» ha esordito piuttosto nervosa, senza smettere di arrotolare la pasta dei cornetti negli stampi. «Non so se ti farà piacere, non sei tenuta ad accettare, ma ti voglio fare una proposta.» «Ok, dimmi pure,» l’ho incalzata, impaziente. Ha lasciato la pasta e finalmente mi ha guardata in faccia sorridendo, tutta eccitata.
«Tramite l’associazione degli artigiani insieme a quella dei commercianti, abbiamo deciso di aderire ad una speciale iniziativa. In tutta Italia, sono state selezionate, da persone qualificate, le dieci pasticcerie ritenute migliori, quelle più apprezzate dai clienti e premiate dagli esperti del settore. I pasticcieri scelti andranno a Parigi per ricevere un attestato di merito, a livello europeo, e parteciperanno, completamente gratis, ad una serie di eventi, nell’ambito di una fiera internazionale organizzata dall’associazione dei pasticcieri francesi, con il patrocinio di vari enti internazionali. Si potranno apprendere nuove tecniche, ci saranno dei corsi, delle prove…» Non ero sicura di aver capito, ma ho annuito convinta. «In breve, il nostro locale è stato selezionato. Hanno riconosciuto i nostri meriti, e la nostra pasticceria è stata ufficialmente annoverata tra le dieci più prestigiose d’Italia!» Ho sorriso in risposta all’evidente soddisfazione di Margherita. «Wow! Complimenti! Sono davvero felice per voi!» ho esclamato con entusiasmo. Invece avrei voluto dire: «Ma io che c’entro?» Era un bel traguardo, però mi sono stupita che volessero rendere partecipe anche me della loro gloria. «Antoine ed io potremo interagire e confrontarci con altri pasticcieri, Viola invece sarà occupata nella parte commerciale…» Le pause mi stavano uccidendo. Perfino Nicola ha cominciato ad essere impaziente e ad agitarsi, fino quasi a frignare. Il sorriso mi si è incollato sulle labbra e la tensione si è fatta alta. «Insomma… se vuoi… la parte dedicata al servizio è tua!» ha detto infine tutto d’un fiato. Le sue parole hanno fluttuato nell’aria per lunghi istanti, mentre mi guardava in attesa di una reazione. Che tardava ad arrivare, perché, sinceramente, non avevo capito. Probabilmente è stata la mia espressione ebete a farle spegnere il sorriso sulle labbra. Così, mi sono affrettata a chiedere: «Scusa, ma che significa?» Margherita ha battuto le mani come una bambina alla sua festa di compleanno.
«Che, se vuoi, domenica sera partiamo per Parigi e ci rimaniamo per una settimana, vitto e alloggio gratis, oltre al viaggio già pagato!» Le parole “Parigi” e “gratis” finalmente hanno fatto breccia nella mia mente arrugginita dalla monotonia e il cuore mi è balzato in gola. Mi sono portata una mano alla bocca per non urlare di gioia e, incredibile ma vero, ho abbracciato Margherita, addirittura non la smettevo di ringraziarla. In seguito, ha continuato a spiegare i particolari, ma non la sentivo più, perché ormai ero proiettata fuori da lì. Ed è stata dura arrivare fino a domenica. I giorni non passavano mai, anche se c’era un sacco di lavoro da sbrigare. Perfino stamattina abbiamo lavorato fino all’una, prima di partire. Da oggi poi il locale resterà chiuso per ferie nella settimana in cui mancheremo, così Mario e Caterina ne approfitteranno per far imbiancare le pareti nella zona riservata al pubblico, mentre in pasticceria verrà sostituito uno dei forni. Anna, la donna delle pulizie, avrà molto da fare! Anche noi, comunque, non staremo con le mani in mano. Abbiamo un programma molto fitto di appuntamenti ed eventi, ma siamo a Parigi! Per la precisione, sono in un hotel a quattro stelle in una camera con bagno arredata in maniera elegante ma sobria, come solo i francesi sanno fare. Le tende beige drappeggiate, i mobili in legno scuro, il piccolo secretaire con sedia,l’armadio gigante, il letto a due piazze con una morbida coperta beige damascata… Sul comodino c’è un biglietto di benvenuto chiuso da un nastro di raso rosso insieme a due cioccolatini: se questa non è classe! Continuo a restare incollata alla finestra, anche se a stento riesco a reggermi in piedi. Dovrei fare una doccia e disfare i bagagli, dato che la valigia è rimasta vicino alla porta. Guardo l’orologio: sono le undici passate e dovrei dormire. Domani mattina la sveglia sarà alle sette, perché alle otto è previsto l’incontro con la nostra guida. Mi muovo controvoglia e penso che, per la prima volta da mesi, posso permettermi qualche libertà: non mi va di spogliarmi, lavarmi e aprire la valigia. E neanche mi va di ricominciare con i soliti gesti meccanici di ogni giorno. Qui non sono ad Arezzo e anche se dovrò lavorare non sarò schiava delle consuetudini e degli obblighi imposti dal lavoro e dalle convenzioni. Per questo mi distendo sul letto vestita e con le scarpe, consapevole che ci sarà qualcun altro che dovrà rassettare e lavare. Questo pensiero mi solleva e mi accorgo quanta responsabilità pesi nel mio cuore. Respiro a pieni polmoni l’odore di fiori, di antico, di rose e di cioccolata che si
mescolano nell’aria e chiudo gli occhi, finalmente. Una strana euforia mi fa sorridere e mi sento felice. Se non fosse che ho dimenticato un particolare: il telefono è acceso e comincia a vibrare dissolvendo in un istante la magica atmosfera che la mente aveva creato. Senza aprire gli occhi, muovendomi appena, rispondo a voce bassa, per tentare di preservare almeno l’alone del sogno. «Eli, amore! Ma sei arrivata, sì o no? Possibile che debba sempre chiamarti io?» Senti chi parla! La mamma si permette di rimproverare me, che, in fondo, sono arrivata da un’oretta scarsa, quando durante i suoi viaggi si è dimenticata quasi sempre di chiamare perfino la nonna - che, invece, io ho avvisato subito, ma solo lei! «Mamma, siamo arrivati da poco e stavo sistemando i bagagli. Non è così semplice, visto che abbiamo un programma da seguire!» «Va bene,» sospira impaziente. «Ma basta uno squillo, così non mi fai stare più in pensiero!» Al solito, ha ragione lei. Eppure, non mi va di attaccare briga: un’altra consuetudine di cui voglio fare a meno stasera. «Va bene, mamma. Sono stanca. Ci sentiamo domani, d’accordo?» chiedo con la voce da brava bambina. «Va bene, tesoro. A domani. Ti voglio bene!» «Anch’io. ‘Notte.» Di nuovo posso ascoltare il silenzio della stanza ed il caos del traffico là fuori. Che spreco dover dormire quando c’è un mondo intero da scoprire! Ma non c’è nulla da fare, la stanchezza prende il sopravvento e mi addormento soddisfatta, come non succedeva da tanto tempo.
11 luglio 2011, Lunedì
Mattina
In qualunque parte del mondo mi trovi, la sveglia è sempre la sveglia. Ed è davvero insopportabile. Insomma, già lavorare tutta la settimana, fino alla domenica mattina, per poi partire subito e arrivare in tarda serata a Parigi è stato massacrante. Svegliarsi adesso è proprio difficile, specialmente perché subito la mente si accende e mostra la lista completa di ciò che devo fare, dato che ieri sera mi sono presa la libertà di ignorare tutto. Se potessi fare la turista, sono sicura che mi sentirei subito meglio! Indolenzita e assonnata, mi alzo e apro la valigia. Sistemo le mie cose in fretta, vado in bagno e mi infilo sotto una doccia calda e profumata di essenze. Il mio stomaco mi rammenta, senza tanti complimenti, che ieri ha ricevuto solo panini e desidera qualcosa di più sostanzioso. Mi vesto con una T-shirt celeste ricoperta di strass luccicanti e un paio di pantaloni di cotone blu. L’aria è calda ma spira una brezza fresca che mi rigenera. Scendo al piano terra per fare colazione e trovo Viola all’uscita dell’ascensore. Rifulge di luce propria: indossa degli eleganti pantaloni bianchi che le fasciano le gambe lunghe, appollaiate in dei sandali dorati dal tacco vertiginoso. Sopra, una blusa sempre dorata con dei lacci che lasciano scoperta parte della schiena e delle braccia. «Buongiorno!» mi sorride raggiante come non ha mai fatto da quando la conosco. Il trucco la rende diversa, più donna, forse. I lunghi capelli sono raccolti in una treccia, elegante ma formale. È ‘cresciuta’, inutile negarlo. E quando vedo le nostre immagini riflesse negli specchi dell’atrio capisco che non è la sola. A parte l’aria un po’ smarrita, non ho più l’aspetto della ragazzina. Ne è passata di acqua sotto i ponti e nulla può essere più come prima. «Buongiorno!» sorrido a mia volta. «Margherita con Antoine e Nico ci raggiungeranno dopo. Ti dispiace se facciamo colazione insieme?» Tutta questa cortesia da parte di Viola mi suona davvero strana. Forse l’atmosfera di Parigi è davvero magica.
Dopo una piacevole conversazione tra croissant caldi e tè servito in preziose tazze di porcellana, ci avviamo verso la sala adibita alle feste e ai convegni per incontrare
la nostra guida e gli altri compagni di avventura. Devo ammettere che sono un po’ nervosa e anche Viola è piuttosto agitata. Davanti ad una porta finemente intarsiata un cameriere in livrea ci fa accomodare in un salone dal soffitto affrescato e dalle grandi finestre ornate da pesanti tendaggi dorati. Di fronte ad un lungo tavolo rettangolare, un distinto signore sulla sessantina, alto e robusto ci viene incontro con la mano tesa. «Voi dovete essere le signorine di Roma, immagino…» dice in un perfetto italiano e con un sorriso cordiale. «Arezzo, Le Petite Fleur di Arezzo,» precisa Viola stringendogli la mano. «Io sono Viola, una delle proprietarie, e questa è Elisabetta, la nostra cameriera!» Ed io che mi ero illusa per qualche minuto di essere salita nella sua classifica personale… Invece ognuno è destinato a rimanere al proprio posto! D’altronde, la qualifica per la quale sono stata convocata qui è quella di cameriera, che cosa mi ero messa in testa? «Ah, oui, il locale di cui mi hanno scritto il nome in modo sbagliato. Mi scuso per l’errore. È La Petite Fluer, non è vero?» E ora come glielo spieghiamo che il nome è proprio quello e non hanno sbagliato a scrivere? Viola mi lancia un’occhiata disperata e inizia a spiegare: «Ehm, non c’è stato nessun errore da parte vostra, perché il locale si chiama così. In realtà, qualche anno fa c’è stato un equivoco al momento della registrazione del nome e quando ce ne siamo accorti era troppo tardi. Modificarlo richiederebbe molto tempo e molti soldi, sa, in Italia la burocrazia è complicata! Così abbiamo deciso di lasciarlo com’è, dal momento poi che l’attività è andata e sta andando molto bene. Insomma, l’errore ci ha portato fortuna!» Wow! Se l’è cavata alla grande, probabilmente era preparata a questa domanda inevitabile. Come poteva dire la verità, e cioè che suo padre, il signor Mario, aveva scritto il nome del locale sulla pratica di registrazione ricopiandolo da un appunto di Viola, ma siccome non gli suonava bene – nonostante non conosca una parola di francese! - aveva fatto di testa sua? D’altronde è anche vero che gli impiegati non gli avevano nemmeno fatto notare l’errore. Ed è altrettanto legittimo che ciascuno possa dare il nome che vuole al proprio locale: da qualche parte ho visto anche delle
attività come “La cocomera” e “La pomodora”… Addirittura, pur di distinguersi, c’è gente che affibbia ai figli i nomi più strampalati! «Oh, ma bien, la burocrazia è complicata in tutto il mondo, mia cara. L’importante è che siete arrivati fin qui!» risponde l’uomo in tono cordiale. Poi aggiunge subito: «Perdonate, non mi sono ancora presentato: sono André e sarò io a farvi da guida in questa settimana!» Nel frattempo Margherita – con un bel vestitino a fiori – Antoine – a cui non pende un capello – ed il piccolo Nicola ci hanno raggiunto. André ci invita ad accomodarci nelle sedie, in attesa delle Autorità che verranno a salutarci. Mi guardo intorno smarrita e mi sento osservata. Già sedute ci sono altre persone, ovviamente proprietari e dipendenti delle pasticcerie selezionate. Ragazzi e ragazze giovani, signori di mezza età, signore vistose, qualcuno dall’atteggiamento snob, ma tutti entusiasti. Viola ha già familiarizzato con una ragazza bionda dall’aria simpatica e stanno parlando come vecchie amiche. Mentre la sala quasi si riempie, getto occhiate di sfuggita fingendo di controllare messaggi e posta nel mio smartphone nuovo di zecca. Con questa tecnologia non vado molto d’accordo, ma non si può fare diversamente, specie dopo che il vecchio telefono è caduto nel lavandino sotto l’acqua scrosciante. È stato Roberto ad aiutarmi. Il mio amato vicino – l’impresario delle pompe funebri – ha la mania dei telefoni, per questo mi sono rivolta a lui. «Ne devo comprare uno anch’io!» ha replicato quando gli ho chiesto di accompagnarmi al negozio, qualche giorno prima della mia partenza. «Ma non ne hai già un paio?» ho chiesto perplessa. Lui ha sorriso, i suoi occhi di ghiaccio si sono illuminati e mi ha risposto: «Già, ma uno è rimasto dentro a una bara, non ricordo quale. Anche se provassi a chiamare, ormai sono già tutte inumate e non potrei sentire! Quindi, devo ricomprarlo per forza. Lo sai che uno mi serve per il lavoro e uno è per i fatti miei! Non mescolo affari e vita privata!»
Come replicare dinanzi a tanta logica? E’ solo che per tutto il giorno non ho fatto altro che pensare ad un telefono che suonava dentro a una bara, sotto terra, accanto a un morto. Quel poveretto non stava in pace neanche lì! Senza accorgermene, sto sorridendo. Che cosa farei senza Roberto? Ormai mi accompagna quasi sempre lui al lavoro, tranne quando è impegnato, perché le nostre chiacchierate mattutine sono diventate per entrambi un rituale irrinunciabile. Non solo mi fa ridere – e così la giornata inizia meglio – ma possiamo scambiarci idee, pettegolezzi, opinioni, o piangere delle nostre miserie l’uno sulla spalla dell’altra.
Ti senti solo stamani senza di me?
Gli scrivo aggiungendo una faccina triste e inviando l’sms. Passano pochi secondi e arriva la risposta:
Mi manchi tanto. Sto pensando di raggiungerti!
Faccina allegra. Rido.
Se succede significa che ho fatto una brutta fine.
Faccina con linguaccia.
Adoro Roberto e non so come farò senza di lui. In realtà, non so neanche come dirgli che…
Alzo gli occhi al cielo, perché sento le lacrime premere sugli occhi e lo stomaco si aggroviglia. Quante cose sono successe dall’ultima volta che ho scritto su di te, Diario mio, eppure… Le autorità sono arrivate e André prende il microfono. Il chiacchiericcio si spenge lentamente e i miei pensieri, per il momento, se ne tornano in disparte. Ovviamente, la presentazione dei vari papaveri è noiosa, nonostante la simpatia di André e della sua deliziosa assistente. Il presidente dell’associazione bla bla, il responsabile dell’ente bla bla, il funzionario bla bla, perfino un rappresentante dell’Ambasciata Italiana – quale onore! Ciascuno deve fare il proprio intervento e avrei proprio voglia di sbadigliare. Mi chiedo come mai debbano farci sprecare tanto tempo in ciance: ma dico, lo sanno che c’è Parigi là fuori? E noi dobbiamo stare chiusi in questa bellissima sala, una gabbia dorata, ad ascoltare il solito linguaggio ‘burocratese’ che riempie l’aria di parole altisonanti senza però alcun significato. Mi volto e noto che anche gli altri danno segni di impazienza, pur mostrandosi apparentemente attenti. Qualcuno sta giocando con il telefonino, qualcun altro manda sms… Mamma mia, che noia! Margherita almeno è uscita con la scusa di portare fuori Nicola: quasi quasi la raggiungo e mi offro di darle il cambio... O magari approfitto dell’occasione per imparare ad usare il nuovo telefono perché devo fare ancora molta pratica. Mentre armeggio cercando allo stesso tempo di assumere un atteggiamento composto – come se ascoltassi davvero con interesse – il telefono comincia a vibrare. Meno male che sono riuscita a mettere la modalità giusta, anche se intorno a me sento suonare in continuazione e c’è un via vai di persone tale che sembra di essere per il Corso nell’ora della passeggiata! Mi alzo di scatto e scivolo fuori veloce: chiunque sia a chiamarmi, non lo ringrazierò mai abbastanza! «Ciao splendore! Dove sei?» La voce inconfondibile di Giacomo mi mette di buon umore. Chissà perché ogni volta che lo sento mi sembra di attraversare una serie di dossi e curve. «Ciao! Sono arrivata a Parigi, ma mi hanno sequestrata e non mi fanno uscire! Uffà!» protesto con il tono di una bambina contrariata. Lo sento ridere. «Non avrai mica creduto di andare in vacanza, vero?»
«No, ma neanche di dover perdere tempo ad ascoltare queste mummie!» Sto parlando a bassa voce e mi guardo intorno con circospezione per evitare di farmi sentire. «Allora, ti do una buona notizia: domani arrivo anch’io a Parigi. Sei contenta?» Il tono suadente mi lusinga e ho un inspiegabile vuoto allo stomaco. «Certo che lo sono! Ultimamente non ci siamo visti spesso e… almeno non rimarrò da sola con Viola e Margherita!» Sto cercando di scherzare, ma Giacomo riesce sempre a scombussolarmi con quella voce profonda e le battute allusive. Mi sento avvampare, eppure, prima di riuscire a fermarmi, ho il coraggio di chiedere: «Verrai da solo, oppure…?» La domanda mi muore sulle labbra. Da otto mesi circa sta insieme a Carol, un’affascinante architetto che lavora nella sua stessa azienda. Carol è bella, intelligente, ricchissima, separata dal primo marito, un parlamentare scozzese, e ama Giacomo alla follia. Mi hanno mandato delle foto, ci siamo visti su Skype e finalmente Giacomo mi è sembrato ‘preso’ da una ragazza. Non so se sia davvero innamorato, comunque Carol lo rende felice ed io le sono infinitamente grata per questo. E’ come se mi sentissi meno in colpa, come se non dovessi più essere un peso, un’ingombrante presenza nel suo cuore, visto che non sono in grado di ricambiare il suo affetto. O meglio, non il genere di affetto che vorrebbe lui. Questo però succedeva all’inizio. Adesso invece è subentrata una strana sensazione che non riesco assolutamente a comprendere. Dopo averci riflettuto, mi sono convinta di avere la sindrome da “La volpe e l’uva”. Ti ricordi, Diario, quella favola de La Fontaine in cui una volpe affamata cercò di prendere dell’uva, ma, siccome era troppo in alto per lei e non era in grado di raggiungerla, andò via dicendo che era acerba e non le piaceva? Ecco, finché ero sicura che Giacomo fosse innamorato di me, io ero convinta di non esserlo. Adesso che sta con un’altra, il mio ego non sembra in grado di sopportare che lui non sia più innamorato di me, ho paura di perdere il mio amico. So di essere egoista a ragionare così, ma non posso farci nulla.
Comunque, la mia domanda l’ha messo in imbarazzo in qualche modo perché non risponde subito. Il silenzio pesa come un macigno e la terra sembra sprofondarmi sotto i piedi. Che stupida che sono! «Sarò solo… almeno fino a Parigi. Devo incontrare un cliente, che poi tornerà con me a Londra.» La sua voce è esitante e mi sto mordendo le labbra per essermi lasciata sfuggire delle parole che non dovevo. «Ok, allora ci vediamo domani!» mi affretto a concludere in tono forzatamente allegro. «A domani…» risponde senza convinzione. Accidenti! Rientro nella sala mentre stanno leggendo l’elenco delle pasticcerie selezionate ed è un buon segno, perché significa che la cerimonia sta per finire. Però a turno dobbiamo alzarci e presentarci: un bel problema. La prima a sfilare è la titolare della pasticceria milanese, una tipa vistosa, con dei tacchi vertiginosi e un trucco da star di Hollywood, strizzata in un abitino che forse sarebbe più adatto ad una ventenne che a una cinquantenne. Con mosse feline, si avvicina al microfono, lo afferra con le mani piene di anelli e dalle unghie improbabili – certamente finte, perché altrimenti non potrebbe lavorare! – mentre accanto a lei trotterella un ragazzo più o meno della mia età, a testa bassa, le guance arrossate, l’aria annoiata. «Salve! Sono Moana, titolare della pasticceria Tiramisù di Milano. Accanto a me, Mirko, il mio compagno e abile pasticciere. Senza di lui, sarei perduta!» Una risatina e un sospiro. Mirko alza appena la testa con un sorriso tirato. Ha degli splendidi occhi verdi, unico pregio in un viso anonimo, su un corpo esile e sgraziato. Poi è la volta di una coppia di ultrasessantenni piemontesi energici ed iperattivi, accompagnati dalla figlia e dal barman. In seguito tocca alla Sicilia, ed io sto quasi sbadigliando, un po’ per la stanchezza, un po’ per la monotonia di questi cerimoniali, quando mi accorgo di essere osservata da due occhi neri come il buio più profondo. Davanti a noi c’è Turi, un trentenne,
che, con il fratello Peppe, la sorella Concetta e la cameriera Immacolata gestisce la pasticceria Il cannolo di Trapani. Non lo avevo notato prima, in mezzo a tutti quei riccioli scuri e alla barbetta incolta. Sinceramente, più che attraente, lo trovo inquietante. Per fortuna, è il turno degli altri due pasticcieri siciliani e dei napoletani, che portano una ventata di ilarità. Arrivano anche i laziali, romani per la precisione. Il pasticciere è Luca, un quarantenne alto e prestante, con occhi azzurri e capelli scuri, statuario. Ma quando inizia a parlare in dialetto romanesco diventa un personaggio quasi caricaturale. Tutto il fascino misterioso scompare all’istante, spazzato via da una simpatia travolgente. Con la coda dell’occhio, vedo che Viola pare piuttosto interessata, mentre fino ad ora si era limitata a giocherellare con aria annoiata con una ciocca di capelli. Infine, si fanno avanti i pasticcieri senesi, un’antipatica coppia di cinquantenni, che si mettono ad elencare con ostentazione tutti i premi che hanno ricevuto e i personaggi famosi che hanno avuto l’onore di servire. La loro autocelebrazione sembra non dover finire, e perfino André è piuttosto a disagio. Alla fine del loro sermone, danno la parola alla cameriera, che comincia a sperticarsi in lodi smodate sull’abilità dei datori di lavoro, della conduzione familiare, delle figlie che non sono potute venire per non lasciare il locale chiuso… Un brusio si leva dalla folla, mentre qualcuno comincia a mostrare segni di impazienza. Insomma, un po’ di rispetto! Se tutti ci comportassimo così, non basterebbe una giornata! In fondo, siamo ospiti in casa d’altri e abbiamo un programma da seguire! Comunque, alla fine tocca a noi. Con emozione, mentre Margherita rientra nella sala con Nicola – lo aveva portato un po’ in giro per distrarlo da questa noia, poverino! – mi piazzo dietro ad Antoine e Viola, concedendo solo un sorriso quando viene fatto il mio nome. Meno male che è un’esperienza breve, perché stare lì davanti a tutti, con tanti occhi puntati addosso, sinceramente mi terrorizza. Non che non lo debba fare: ovviamente, quando sono a lavorare dietro al bancone della pasticceria non me ne accorgo nemmeno, visto che non sono abituata ad alzare lo sguardo sul ‘pubblico’! Ma questa è tutta un’altra cosa, accidenti!
Finita la parata, passiamo in un salone riccamente decorato con dei divani in velluto cremisi e un immenso camino. A quel punto, la forma lascia il posto alla sostanza, così tutti si riempiono piatti e bicchieri con quello che riescono ad arraffare e l’atmosfera si stempera nelle chiacchiere tra le nuove conoscenze. Io sono troppo arrabbiata con me stessa per mostrarmi socievole, così preferisco riempirmi la bocca di cibo per evitare di parlare, incollandomi a Margherita e a Viola, per prevenire ulteriori avvicinamenti. D’altronde sono solo una cameriera: se mai devono essere i titolari delle pasticcerie a conoscersi tra di loro. «Non hai ancora niente da bere. Ti posso portare qualcosa?» La voce alle mie spalle suona quasi minacciosa. Lo spiccato accento siciliano mi fa intuire subito che si tratta di Turi. Mi volto lentamente e i suoi occhi neri come la pece penetrano quasi con prepotenza nei miei. Sul suo viso aleggia un sorriso, che vuole essere accattivante, anche se appare piuttosto una smorfia. «Grazie, sei molto gentile, ma sono astemia…» rispondo cercando di essere gentile. «Lo immaginavo. Per questo ti ho preso del succo d’arancia. Non è come una spremuta di arance siciliane, ma dobbiamo accontentarci!» Accidenti! Da cosa ha capito che non bevo alcolici? Ce l’ho scritto in fronte? Mica sarà un medium, uno stregone o un affiliato di qualche setta? Un brivido di paura mi attraversa la schiena, mentre cerco di mascherare il disagio – chiamiamolo così! – sfoderando un sorriso smagliante, uno di quelli che uso di solito al locale per spiazzare i clienti più rompiscatole e attaccabrighe. Afferro il bicchiere, evitando accuratamente il contatto con la sua mano e ringrazio. «Senti, la tua amica, laggiù, è single?» chiede all’improvviso, indicando Viola con un cenno del capo. Che maniere, però! Questo tipo non perde tempo in chiacchiere, neanche si è presentato e va subito al sodo. Comunque, sapere che non sono io l’oggetto del suo interesse mi solleva parecchio. «Quella non è la mia amica, ma il mio capo. E non mi occupo della sua vita privata!» La mia risposta asciutta lo irrigidisce per un istante. Meno male, si è accorto di essere stato cafone, mi sono detta. Invece, un lampo divertito nei suoi occhi fa
balenare un pensiero orribile nella mia mente: mica avrà creduto che mi ritengo offesa perché non sono io la sua preda ambita? Vorrei correggere il tiro, ma non me lo permette. Mi appoggia la mano sul braccio con compassione e mormora: «Hai ragione, scusa se sono stato inopportuno. Mi dispiace…» Non so di quale tonalità di rosso sia diventata la mia faccia, ma di certo è quella più accesa. Non riesco a spiccicare parola, tanto è l’imbarazzo per l’incredibile equivoco che si è creato. Ma che diavolo mi succede oggi? «Turi, smettila di infastidire la ragazza, per favore! Non farti conoscere subito per il mascalzone che sei!» Una voce squillante con un chiaro accento siciliano mi salva dall’incresciosa situazione. Mi volto e accanto a me c’è una ragazza bionda piuttosto robusta ma dai bei lineamenti e con un sorriso aperto. «Ciao! Sono Filomena, la titolare della pasticceria concorrente di questo brutto ceffo! Ti stava importunando, vero?» Cerco di riprendermi dal blocco psicologico e rispondo con una tonalità un po’ troppo acuta: «Non c’è problema! Non c’è problema!» Lo so che suona forzato, ma non riesco a fare di meglio. Turi comunque non si arrende. «Come si chiama il tuo capo?» insiste. Filomena accorre di nuovo in mio aiuto: «Perché non vai e lo chiedi direttamente a lei? Per motivi di privacy, solo lei può rispondere, ammesso che lo voglia!» Turi continua ad ignorare Filomena e a fissare me. In quel momento, Viola si volta e mi osserva con aria interrogativa: chissà che espressioni sono dipinte sul mio volto! Il suo sguardo si sposta per un istante su Turi e probabilmente capisce che la nostra conversazione riguarda lei, perché serra le labbra indispettita e impallidisce. «Posso presentarmi? Io sono Turi…» si fa avanti tendendole la mano.
Viola sembra sul punto di scappare e la capisco: quegli occhi demoniaci puntati addosso non sono affatto tranquillizzanti. Comunque, si fa coraggio, allunga il braccio per stringergli la mano e mormora: «Piacere! Viola…» «Ma guarda che coincidenza! Una ragazza bellissima con il nome del mio fiore preferito!» risponde lui. Non è molto originale come esordio! Oddio, in questo casino non mi sono resa conto che il telefono sta vibrando nella mia tasca da diversi istanti. Mi scuso e mi allontano in fretta, benedicendo Meucci e gli inventori di smartphone che mi hanno salvato già due volte in neanche un’ora. Mi rifugio in un angolo appartato e rispondo. «Ciao, sorellina! Come stai?» La voce rassicurante di Angela mi giunge come un balsamo. Il cuore si apre e si riempie di calore. «Ciao, giramondo! In che parte dell’universo ti trovi?» «Sono in Spagna, con Gabriel. Siamo stati a casa dei suoi e ora ci siamo presi qualche giorno di vacanza in giro qua e là per la Costa Brava! E tu come te la passi a Parigi?» «Per ora l’ho solo vista dalla finestra, accidenti! Siamo nel bel mezzo di una cerimonia ufficiale, sai le solite chiacchiere! Stasera poi abbiamo una serata di gala, ma dobbiamo preparare noi i dolci!» Mia sorella ride. «Allora c’era il trucco nel viaggio gratis a Parigi! Se devi lavorare non è più gratis!» «Già! E figurati se non era così!» «Comunque ti do una buona notizia: io e Gabriel abbiamo deciso di venire a Parigi a trovarti! Sei contenta?» «Bugiarda! Non vieni per me, ma per farti una vacanza romantica col tuo ragazzo!» Ride ancora, poi segue un silenzio strano: so già cosa mi chiederà adesso.
«Notizie?» azzarda con cautela. Sospiro. «Domani arriva Giacomo. Deve incontrare un cliente importante…» Altro silenzio. «Lo sapevo. Mi ha chiamato Andrea…» aggiunge mia sorella lasciando intendere che ha anche altre informazioni. Deglutisco a fatica. Vorrei evitare di portare avanti questo discorso. All’improvviso sento un fruscio e un mormorio. Riconosco la voce suadente di Gabriel, che sta sussurrando qualcosa ad Angela. «Scusa, Eli, ma adesso dobbiamo andare. Appena arriviamo ti facciamo sapere, ok? Ti voglio bene!» «Io di più. Non vedo l’ora di riabbracciarti!» Rimango a fissare il telefono per lunghi istanti e mi ritrovo con un groppo in gola. «ELISABETTA!» Qualcuno sta urlando il mio nome per sovrastare il vociare della folla. Margherita si sta sbracciando nella mia direzione. Rimetto in tasca il telefono e mi avvicino a grandi passi. È affranta e sembra sul punto di piangere. Non riesce quasi a parlare. «Eli, ti devo chiedere un grosso favore. Ti prego, non dirmi di no!» Mi sta supplicando. Deve essere grave sul serio, altrimenti potrebbe rivolgersi a suo marito o a sua sorella. Si sta torcendo le mani per l’agitazione e il suo viso è talmente rosso da sembrare sul punto di esplodere. «Dimmi pure,» la esorto. Mi guarda con gli occhi pieni di paura. «Stanno… stanno arrivando i miei suoceri, i genitori di Antoine e loro… non mi possono sopportare! Li ho incontrati solo durante il matrimonio, ma sono così rigidi e freddi. Chissà quali ambizioni avevano per il loro figlio, magari una manager in carriera bionda, alta e simile a una modella, come l’altra loro figlia. Lei ha sposato un
noto banchiere ed è amministratore delegato di non so quale multinazionale. Hanno due figli altrettanto perfetti e vivono alla periferia di Parigi in una mega villa.» Fa una pausa. Sta per cedere alle lacrime. «E io? Cosa sono io? Una cicciona che fa la pasticcera all’ombra del marito. Abbiamo un figlio dopo tanti tentativi e viviamo in un’anonima città italiana di provincia. Come posso essere all’altezza di certa gente che vive nel lusso? Come posso stare in mezzo a persone importanti, tra una serata di gala e un party, tra una spa e un centro estetico, tra una boutique di Lanvine e la gioielleria di Cartier?» Povera Margherita! Posso capire come si sente! Almeno Viola non avrebbe problemi sia nell’aspetto fisico che nel carattere. Ma di fronte a suoceri del genere, deve essere davvero dura! D’altronde, che cosa posso fare io? «Tu dovresti aiutarmi. Dovresti cercare di migliorare almeno il mio aspetto, consigliarmi qualche abito carino…» Aiuto! Come faccio? «Lo farei volentieri, ma forse è meglio se chiedi a tua sorella…» «No, no,» risponde scuotendo la testa con decisione. «Lei ha detto che le persone mi devono accettare per quello che sono, a maggior ragione visto che Antoine mi vuole bene, anche i suoi genitori dovrebbero volermene, per rispetto del figlio. E poi, per l’abbigliamento, tu sei più vicina ai miei parametri, non metti robe vistose o troppo aderenti!» Condivido pienamente la prima parte del discorso e sono felice che Viola ragioni in questo modo: le brutte esperienze passate l’hanno aiutata a crescere. Quanto alla seconda parte, credo che Margherita voglia insinuare che le sue forme molto rotonde siano più vicine alle mie… E questo non è piacevole. Ma faccio finta di niente. «Ok, abbiamo un paio d’ore prima delle cinque per andare in giro,» rispondo sospirando. Sì, perché avevo già pregustato un passeggiatina solitaria come prima escursione a Parigi, tanto per prepararmi al pomeriggio libero che ci verrà concesso domani e per il quale ho già fissato un itinerario con le tappe principali. «Scusa se ti rompo anche qui, ma mi fido solo di te, sei… sei l’unica amica che ho!» si mette a piagnucolare. Essere considerata la sua unica amica mi fa uno strano effetto, non so se positivo o negativo.
«Mi fa piacere aiutarti, non ti preoccupare! Alle tre fatti trovare nella hall, così usciamo insieme.» Margherita abbozza un sorriso e sembra un po’ più sollevata. Abbiamo la fortuna di alloggiare in Rue de Faubourg-St-Honoré, la strada che attraversa uno dei quartieri principali di Parigi. Qui intorno ci sono tutte le Ambasciate più importanti, vicino ci sono gli Champs-Elysées e in questa specie di corso gigantesco ci sono le sedi delle principali firme della moda mondiale, da Lanvine, a Gucci, Ferragamo, Prada, Valentino, e poi per l’estetica Lancôme e poco più in là L’Oreal. Sarà una pacchia scegliere dove andare.
Pomeriggio
Infatti, quando ci ritroviamo alle tre in punto nella hall deserta dell’hotel, decidiamo di azzardare infilandoci subito nel vicino atelier di uno stilista giapponese di cui non ho mai sentito parlare. La vetrina è colorata e ci sono degli abiti che fasciano i manichini come dei kimoni adattati allo stile tipicamente europeo. Appena entriamo, l’aria fresca profuma di essenze orientali, una musica rilassante si diffonde nell’ambiente e una delle commesse, dai tratti rigorosamente nipponici, perfetta come una modella, si rivolge a noi con un sorriso aperto. Anche se non lo dà a vedere, ci ha squadrate da capo a piedi ed è già in grado di sapere anche la taglia delle nostre mutande. Margherita mi guarda come un cagnolino abbandonato: sono io che devo farmi avanti. «Mi scusi,» abbozzo nel mio migliore inglese. «Cercavamo un abito elegante per la mia amica, che ha una cena importante domani sera…» La commessa annuisce e serra le labbra in una specie di smorfia. Poi, risponde con una voce talmente bassa che riesco a malapena a sentire: «La nostra collezione arriva fino alla taglia 44, mi dispiace…» È visibilmente in imbarazzo, anche se continua a sorridere. Margherita mi guarda con aria interrogativa. «Non hanno abiti per serate di gala,» le spiego mentendo.
La commessa sembra comprendere la mia bugia a fin di bene e mi fa un cenno come di gratitudine. Ma Margherita non si lascia abbindolare: «Non è per quello, è per la taglia, vero? Come farei a mettermi quella specie di kimono senza sembrare una palla?» Meglio evitare che si metta a piangere o, peggio, faccia una scenata qui dentro, così mi limito a negare con convinzione mentre la spingo in fretta verso l’uscita e saluto ringraziando la commessa. Camminiamo per la città baciata da un sole limpido – l’ideale per una passeggiata turistica rilassante che al momento mi viene impedita! – mentre Margherita è scossa dai singhiozzi. «E dai, non buttarti giù! Gli orientali sono per natura più bassi e gracili di noi europei, non possono adattare i loro abiti al nostro stile!» invento per tentare di calmarla. Inutile. Passare davanti alle vetrine più famose non le è d’aiuto. Addirittura adesso si rifiuta perfino di entrare da qualche altra parte, per paura di farsi giudicare dalle commesse che sono perfette quanto i manichini. Non so cosa fare, finché mi viene un’idea e chiamo un taxi. So che è un grave spreco di denaro, ma adesso non c’è tempo per comprare la tessera della metro e mettersi a cercare sulla piantina della città. «La Fayette, merci!» chiedo gentilmente al taxista. In questo caso ringrazio di essere già stata a Parigi, anche se insieme a Samuele, il ragazzo con cui dovevo mettere su casa e che invece ho trovato a letto con Giulia, la sorella di Giacomo. All’epoca della nostra vacanza – insieme ad Alessandro, il mio migliore amico e la sua ragazza, Sara - eravamo fidanzati, mi portò ai famosi magazzini La Fayette e volle che comprassi tutto quello che desideravo. Stordita dalla sorpresa, non riuscivo davvero a scegliere, finché trovai una borsa di Prada a un prezzo speciale, un profumo di Chanel e un completino intimo di pizzo che lo fece letteralmente impazzire. Ricordo che anche Sara voleva farsi comprare lo stesso completo da Alessandro, ma lui la convinse a cambiare articolo. Mi sembra ancora di vedere la sua espressione imbarazzata in quella situazione…
Ma non c’è tempo per questi ricordi. Il taxista sta guidando a una velocità folle, districandosi in un traffico altrettanto folle come se fossimo dei criminali inseguiti dalla polizia. Mi reggo forte allo sportello per evitare di essere sballottata qua e là. Margherita invece è stranamente silenziosa. È demoralizzata per il fatto di non riuscire a trovare qualcosa di adatto da indossare e preoccupata dall’incontro con i suoceri. So cosa significa sentirsi inadeguata, lo sperimento tutti i giorni! Però lei almeno ha un marito che le vuole bene e un bambino adorabile, ha una famiglia su cui contare. Ma io su chi posso contare? Lascio perdere queste considerazioni, visto che siamo già arrivate a destinazione. «Dove andiamo adesso?» mi chiede Margherita come se si fosse appena svegliata. «Muoviti e non fare domande,» le ordino con dolcezza mentre scendo in fretta e pago una cifra esosa al taxista senza discutere – non ne ho il tempo, ma ne avrei voglia! Varchiamo le porte e Margherita rimane a bocca aperta: «Mi hai portato a La Fayette? Ommioddio, Eli, grazie! Sei davvero un’amica!» Stordite dai profumi del piano terra, in cui c’è tutto sulla cosmesi, ci avviamo verso il piano dell’abbigliamento femminile. Guardo con ansia l’orologio: sono quasi le quattro e rischiamo di fare tardi. Mi auguro solo che una mano divina ci aiuti a trovare alla svelta quello che cerchiamo. Già: ma che cosa cerchiamo? Faccio un respiro profondo per tenere a bada l’ansia. Il piano dedicato all’abbigliamento da donna sembra infinito. Dobbiamo cominciare a fare una cernita. «Allora, pantaloni o gonna? Vestito o tailleur? Che cosa preferisci?» chiedo con una certa premura. Margherita mi guarda di nuovo con aria smarrita. Ha le guance arrossate dal pianto, i capelli arruffati e la maglietta che indossa, insieme ai pantaloni extralarge, non fanno altro che mettere in risalto la sua ciccia in eccesso. Mi chiedo se sia possibile riuscire a mascherarne almeno un po’. «Non saprei… Tu che dici?» mi chiede con gli occhi ancora lucidi.
Che dico? Boh! Mi guardo in giro disperata, nella speranza di trovare qualcosa che almeno mi ispiri, mi dia un suggerimento… Una signora gentile si avvicina con un sorriso e ci chiede in francese se abbiamo bisogno di aiuto. Faccio cenno di sì e Margherita inizia a parlare con lei, visto che conosce la lingua, a differenza di me. Santa pazienza, in fondo il problema è suo, mica devo fare tutto io per risolverlo! Dopo un veloce scambio di battute, si volta raggiante verso di me: «Questa signora è una consulente di shopping. Ha detto che mi aiuterà a scegliere l’abito giusto e provvederà al trucco, ai capelli e a tutti gli accessori. Devo presentarmi qui domani a mezzogiorno. Oh, Elisabetta, non so come ringraziarti!» Mi getta le braccia al collo e mi abbraccia così forte che mi sento soffocare. La signora le rivolge alcune domande sui suoi gusti in generale e si fa lasciare nome e recapito. Dopo neanche mezz’ora siamo già sul taxi che ci riporta all’hotel. Margherita non smette di parlare e ringraziarmi, ringraziarmi e parlare. «Sai come ho conosciuto Antoine?» spara ad un certo punto, senza che sia riuscita a seguire il filo del suo delirio logorroico. Mi volto, sinceramente interessata: mi sono sempre chiesta come avesse fatto un uomo dai modi garbati come Antoine a innamorarsi di una ragazza sgraziata come Margherita. «Allora, devi sapere che mia zia, la sorella più grande di mia mamma, era venuta ad abitare a Parigi quando aveva vent’anni, dopo aver sposato un noto pasticciere che aveva conosciuto durante una vacanza. Per imparare il mestiere, all’inizio della nostra attività di famiglia, la zia mi ha ospitato nella loro pasticceria. Ero fortunata a poter stare accanto ad uno dei maestri parigini, in molti venivano da lui per apprendere la professione, anche se faceva una durissima selezione: solo quelli che riteneva capaci e dotati potevano restare nel suo laboratorio. Uno di questi fu Antoine. Era il rampollo di una famiglia dell’alta borghesia parigina, ma aveva un carattere ribelle e aveva abbandonato gli studi giuridici imposti dalla sua posizione per dedicarsi alla passione per i dolci. La famiglia aveva contrastato la sua scelta, ma
alla fine lui aveva preso in affitto un piccolo monolocale e trovato lavoro come cameriere per mantenersi, per poter inseguire il suo sogno. Così, quando si era presentato da mio zio, si era fatto subito notare per il talento e l’innata abilità per l’arte pasticcera ed era stato accolto come apprendista. Ricordo ancora il giorno in cui l’ho visto entrare in laboratorio, con quegli occhi neri così profondi, i modi eleganti e l’espressione determinata di chi sa cosa vuole. È stato un vero colpo di fulmine, ma lui non mi ha degnata di uno sguardo per giorni. Era talmente assorto nel suo lavoro da non pensare ad altro. Non avevo la minima speranza di avvicinarlo, a maggior ragione per le mie scarse attrattive fisiche. Mi bastava osservarlo senza che se ne accorgesse, passargli accanto e sfiorargli una mano, sentire il suo respiro, il suo profumo… Finché un giorno, mentre toglievo una teglia di croissant dal forno il mio braccio è venuto a contatto con la parete incandescente, così ho urlato per il dolore gettando a terra la teglia. Antoine è subito accorso insieme a mio zio e a un altro aiutante. Senza dire nulla, mi ha preso il braccio con delicatezza, l’ha osservato e mi ha rassicurata. Per la prima volta mi ha guardata negli occhi ed io mi sono sentita sciogliere. Da quel momento, lentamente, abbiamo iniziato ad essere amici e a frequentarci anche fuori dal lavoro, finché una sera siamo finiti a passeggiare sotto la Tour Eiffel. Mi ha voluto trascinare in cima alla torre, nonostante mi opponessi per via delle vertigini, e, una volta arrivati sulla vetta, davanti al panorama mozzafiato di Parigi, mi ha stretta forte a sé e mi ha baciata.» Sospira rumorosamente. «È stato incredibile! Da allora non ci siamo più lasciati. A quel punto alcune ragazze e ragazzi che frequentavano l’ambiente della pasticceria hanno cominciato ad insinuare che Antoine si era messo con me perché ero la nipote di uno dei più importanti pasticcieri di Parigi e gli servivo per fare carriera. In realtà, non avevo nessuna influenza su mio zio e neanche mi importava delle malelingue. Infatti, quando per me è venuto il momento di tornare in Italia, Antoine sarebbe potuto rimanere e avviare una brillante carriera. Invece, ha deciso di seguirmi per poter continuare a lavorare e stare insieme a me. Dopo tre anni ci siamo sposati e… eccoci qua!» Fa una breve pausa e sorride. Ha una luce negli occhi che le invidio. È felicità pura, quella che io non riesco a trovare. «Sai, gli ho chiesto che cosa lo ha fatto innamorare di me. Dico, non sono alta, né snella, non ho lunghi capelli fluenti, occhi da gatta o altro. Sai cosa mi ha risposto?» È quello che vorrei sapere anch’io, così magari riesco a capire se esiste un trucco.
«Antoine ha detto di essere stato colpito dalla mia sincerità, dal mio sguardo dolce, dai miei modi semplici, dalla mia umiltà. Avrei potuto darmi delle arie, visto che ero la nipote di un celebre pasticciere. Avrei potuto mostrarmi arrogante e altezzosa. Invece, sono rimasta quella che sono, una ragazza di provincia un po’ imbranata ed eccessivamente onesta. Lui che proveniva dai ranghi dell’alta società non era abituato ad essere giudicato per quello che era, ma solo per ciò che doveva apparire. In questo modo, senza volerlo, l’ho spiazzato e conquistato. Oddio, ma non è romantico da morire?» Già, romantico da morire! Sorrido per cercare di condividere il suo entusiasmo. Lei ha trent’anni, un lavoro sicuro, un bell’appartamento, dei genitori e una sorella su cui fare affidamento, un marito e un figlio. Io, a ventisette anni suonati, che cosa ho? Una laurea, un lavoro da cameriera che mi serve per sopravvivere e pagare l’affitto di una casa non mia, uno striminzito lavoro di tirocinio, una famiglia sgretolata su cui non posso contare e nessuna relazione che possa definirsi tale. C’è chi ha tutto e chi nulla. Per fortuna il flusso deprimente dei miei pensieri si interrompe perché siamo di nuovo all’hotel. Nella hall sono già tutti riuniti, pronti a partire per la destinazione di stasera. Dobbiamo andare in un ristorante italiano a preparare i dessert per una cena di gala, dove verrà illustrato finalmente il programma di questa settimana.
Sera
Mi cambio in fretta e mi infilo di corsa nell’autobus che ci porterà a destinazione. Il tragitto non è molto lungo e arriviamo di fronte a un bel locale, da cui si intravede la famosa Torre. Mi chiedo se ce la farò a vederla da vicino durante questa settimana. Il ristorante è molto ampio e di lusso, con tappeti rossi all’entrata, lampadari di vetro di Murano e le pareti interamente dipinte che riproducono i tipici calli con i palazzi veneziani. Al centro, una gondola, che ha tutta l’aria di essere originale. Il proprietario ci accoglie con calore e ci indirizza subito in una cucina che sembra una fabbrica, tanto è grande. Abbiamo addirittura una zona riservata per preparare i nostri dolci.
Margherita è rimasta in albergo con Nicola per stasera, anche se da domani il piccolo starà con i nonni paterni durante i nostri impegni di lavoro. I genitori di Antoine si sono offerti di badare al nipotino e questo sembrerebbe già un buon inizio. Margherita continua a temere il peggio, ma sa che non può opporsi – ha comunque chiesto al portiere di cercarle una baby-sitter, in modo da essere preparata ad ogni evenienza. Accanto a me stasera c’è solo Viola e mi preoccupa parecchio, visto che non c’è la sorella a fare da cuscinetto tra me e lei. C’è comunque Antoine e questo serve a rassicurarmi un poco. Indossiamo le uniformi e i cappelli, poi iniziamo a prendere gli ordini dal nostro pasticciere. Sa già cosa dovrà preparare: una torta di pan di spagna con crema e cioccolata a forma di Tour Eiffel ed una bavarese con fragole e mirtilli. Ovviamente, la particolarità sarà nella decorazione, perché Antoine punta sempre sulla qualità, prima di tutto. Il suo motto è: “Buono e bello”. Insomma, non serve fare scena con coloranti e diavolerie varie che impressionano solo la vista ma non deliziano il palato. Sto prendendo lo zucchero dai carrelli sotto il tavolo di acciaio, quando il telefono inizia a suonare nella mia tasca. Accidenti! Mi sono dimenticata di mettere la vibrazione! “Personal Jesus” dei Depeche Mode rimbomba a pieno volume, attirando l’attenzione generale. Mi affretto ad afferrare il telefono, ma ho solo una mano libera e pulita. Tocco lo schermo per rispondere, ma nella fretta non mi accorgo di aver messo in vivavoce: «Betty, sei arrivata a Parigi?» La voce sensuale di Alessandro riecheggia tutto intorno. Sono quasi le sei a Parigi, ma a Los Angeles sono le nove di mattina. «Sì, Ale…» rispondo, cercando di cambiare modalità e di non farmi più guardare da tutti come se fossi l’attrazione principale del circo. «Ciao, Ale! Quando torni, tesoro?» si intrufola Viola, sopraggiunta alle mie spalle. Mi sta guardando con un sorriso - oserei dire - perfido. «Viola, che piacere sentirti! Dalla voce sembri sempre più bella!» «Non fare il cascamorto con me! Qui dobbiamo lavorare, mica ce la spassiamo come te!» Il monito è rivolto a me, ovviamente, non ad Alessandro.
«Allora, non vi disturberò ancora. Io ho appena finito il mio turno e devo andare a dormire…» risponde lui, che ha capito l’antifona. «Da solo?» insinua lei guardandomi con aria di sfida. Mi sento avvampare per la vergogna di questa conversazione pubblica – mi sembra di essere nuda davanti a tutti! – e per la rabbia nei confronti della solita Viola. «Visto che tu non ci sei, non posso fare altrimenti!» risponde Ale in tono malizioso. «Sì, va beh! Ciao, tesoro!» conclude lei con una risata, allontanandosi finalmente da me. Tiro un sospiro di sollievo e, dopo aver appoggiato lo zucchero e ripristinato la modalità normale del telefono, mi avvicino alla zona delle lavastoviglie, affinché il rumore delle macchine copra la mia conversazione. «Sì, sono arrivata a Parigi. Non ti è arrivato il messaggio su Facebook?» rispondo alla sua domanda. «Sì, ma volevo sentirti. Sono quasi dieci giorni che non ci vediamo sul web e tre giorni che ci mandiamo solo messaggi…» Da lontano Viola mi guarda come se volesse trapassarmi con un coltello. Sono vicina alla porta della toilette e mi infilo dentro. «Lo so, Ale, ma capisci che non è facile…» «So che arriva Giacomo a Parigi, vero?» mi chiede a bruciapelo. «Sì, mi ha chiamato stamani. Ma qui siamo molto impegnati. Abbiamo un programma fitto di appuntamenti, corsi, pranzi e cene. Anche adesso siamo in un ristorante a preparare i dolci per una serata di gala!» Lo sento sospirare dall’altra parte del telefono e del mondo. «Ale, mi dispiace, devo andare o Viola verrà a cercarmi anche se mi sono chiusa dentro il bagno.» «Sì, lo so…» Lo sento esitare.
«Come stai? Come va il lavoro?» chiedo per non essere scortese e per sentire ancora la sua voce. «Sono stanco, ho fatto un turno di dodici ore e sono a pezzi. Ma non posso mollare, non adesso che…» «Adesso cosa?» chiedo mentre il cuore fa un tuffo. «Non lo so… È presto per dirlo e preferisco non parlarne, così non mi faccio illusioni.» Fa una breve pausa. Lo sento soffiare via il fumo della sigaretta. Me lo immagino, con la testa tra le mani, gli occhi socchiusi, disteso sul letto… «ELISABETTA!» L’urlo di Viola mi arriva fin qua dentro limpido e chiaro. E lo sente anche Alessandro. «Ok, vai via, prima che ti venga a prendere per il collo per colpa mia! Ce la faremo domani a vederci in video?» «Ci proverò, te lo prometto!» rispondo in fretta, mentre esco per ritornare nella cucina. Riattacco senza neanche dirgli ciao, perché la gola è serrata da un groppo e le lacrime premono per uscire. Da quando se n’è andato, il gennaio dello scorso anno, Alessandro non è ancora ritornato. Ha risolto la questione di Crystal, la donna che aveva sposato per errore in una notte di bagordi a Las Vegas. Il matrimonio è stato annullato in poco tempo e la gravidanza che lei aveva annunciato era solo una scusa per spillargli quattrini e far ingelosire il suo ex, proprio come Alessandro aveva sempre creduto. È stato un sollievo sapere che non c’era più nessun matrimonio e nessun figlio. D’altro canto, però, avendo rinunciato per orgoglio ai soldi del padre, dopo aver sostenuto le spese legali per risolvere la questione con Crystal, Alessandro è rimasto praticamente al verde. Il suo unico sostentamento sono i soldi che guadagna lavorando da qualche mese nella clinica di un amico – che gli ha anche affittato un monolocale ad un prezzo stracciato – mentre nel frattempo ha terminato gli studi di specializzazione. Per questo non ha avuto né il tempo né il modo di tornare in Italia. E neanche io sono potuta andare in America per gli stessi motivi.
È dura portare avanti una relazione a distanza, anche se non si può parlare di relazione, dopo un anno e mezzo passato senza mai vedersi di persona, senza mai frequentarsi, toccarsi… All’inizio abbiamo provato a fare finta di cenare insieme guardandoci mangiare a vicenda attraverso il video del computer. Abbiamo provato perfino a fare sesso via Internet e per telefono, ma era tutto talmente ridicolo che non smettevamo più di ridere – abbiamo iniziato giocando a “Che cosa vorrei farti”, lasciando correre la fantasia ad occhi chiusi: mentre Ale è riuscito a dire «Vorrei accarezzare le tue labbra e poi baciarle», io ho esordito con «Vorrei baciarti gli occhi» invece di «Vorrei baciarti guardandoti negli occhi». Oppure, «Vorrei toccarti… Oddio, mi ha punto una zanzara!» E quando abbiamo cercato di spingerci oltre, non siamo riusciti neanche a parlare!
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