Il sole dietro la collina

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IL ROMANZO La vita non è stata tenera con Adriana. Emigrata dalla Romania a Matera con la promessa di un lavoro e la speranza di riscatto, si ritrova invece in un ambiente piĂš ostile del previsto. La morte dell’amato Nichita recide poi drammaticamente i legami con la sua terra di origine. Delusioni, tradimenti e ostacoli di ogni sorta mettono a dura


prova Adriana, ma il sostegno dell’amica Nadine e la sua vitalità contagiosa le infondono il coraggio per provare ad aprirsi ancora e scoprire che nella sua vita forse c’è ancora posto per la speranza, la felicità e l’amore. L’AUTORE Tommaso Carbone è nato a Grassano, in provincia di Matera, nel 1963, si è laureato in Pedagogia e insegna nella scuola primaria. Nel 2012 ha pubblicato Niente è come sembra (Rusconi). Il suo racconto Un angelo vestito di nero è stato incluso nella raccolta Carabinieri in Giallo 3 (Mondadori).

Il sole dietro la collina di

Tommaso Carbone © 2015 Libromania S.r.l. Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO) www.libromania.net ISBN 9788898562954 Prima edizione eBook dicembre 2015 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail info@clearedi.org e sito webwww.clearedi.org L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali omissioni o errori di attribuzione. Realizzazione digitale NetPhilo S.r.l. Copertina Immagine © Masson / Shutterstock Art direction Elisa Zampaglione / DUDOT Design Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale e indipendente dalla volontà dell’autore.

Il sole dietro la collina Ai miei adorati Angelo e Gaetano papà Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Blaise Pascal

ADRIANA –1– Terzo giorno di viaggio. Il cartello segnava la fine della provincia di Salerno. Adriana diede un’occhiata alla cartina: mancavano ancora duecento chilometri.


L’aveva trattenuta per più di tre ore e adesso non ce la faceva più. La vescica era gonfia come un pallone e avvertiva dolorose fitte. L’autista si sarebbe arrabbiato. Durante la sosta nell’area di servizio di Contursi si era raccomandato di approfittarne, perché dopo non si sarebbe più fermato. Adriana si fece coraggio e avanzò lungo il corridoio barcollando come se camminasse sul ponte di una nave con mare in burrasca. Jacob guidava da cani, con improvvise accelerazioni e brusche frenate. L’autista imprecò. Accostò e aprì la portiera. Soffiava un gelido vento di tramontana. Adriana si allontanò una decina di metri, scavalcò il guard-rail, calò i pantaloni fino al ginocchio, rabbrividì, si accucciò ai piedi di un albero e finalmente si liberò. Nel pullman c’era un piacevole tepore. Raggiunse il suo posto e tentò di dormire un po’. Lasciata la statale Appia proseguirono lungo una strada sterrata piena di buche. I continui sobbalzi avevano finito per svegliarla. Il pullman si fermò in una radura ai margini del bosco. Adriana e le altre, stanche e assonnate, scesero alla spicciolata. L’autista, un uomo sulla quarantina, alto e magro, con sottili baffetti, diede un sorso alla fiaschetta e si accese una sigaretta. «Miscativa cu bagagjele!1» disse. Prese il telefonino, compose il numero e attese. «Pronto?! Sì, siamo dove detto tu. Quando venire? Aspettare. Okay, aspettare, capito». Schiacciò con la punta della scarpa la cicca e iniziò a tossire. L’aria era fredda e dal cielo cadevano volteggiando radi fiocchi di neve. Sulla collina di fronte si vedevano le luci di un grumo di case spalmate sul versante della montagna. Adriana aprì il borsone e scartò uno dei panini che la mamma le aveva preparato due giorni prima. Il pane era secco e il salame aveva un colore bluastro. Lo divorò. Dieci minuti dopo arrivò un Ford Transit bianco. Scese un uomo con la testa calva insaccata nel bavero del giaccone. «Ciao Jacob, come stai?». «Bene, Michele. E tu?». «Non mi posso lamentare. Com’è andato il viaggio?». «Tutto okay. Niente polizia, niente controlli... tutto okay». «Tieni. Contali». «Mi fido». «Quando il prossimo viaggio? Ho un sacco di richieste...». «Repede2. Dieci, quindici giorni. Trovare altre donne e partire subito». «A presto, allora». «Ciao».


Gheorghita le fece segno di sedersi accanto. Era sulla cinquantina, corpulenta e goffa nei movimenti, con un faccione tondo e due occhi piccoli e grigi. Lavorava in Italia da tre anni. Abitava in un villaggio vicino. Suo cugino Stefan l’aveva pregata di trovarle un lavoro. Le disse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene. Adriana abbozzò un sorriso. Con il dito disegnò un oblò sul vetro appannato e restò a fissare il buio. Strette come sardine, dopo un viaggio che le sembrò lunghissimo, giunsero a una masseria. Michele suonò ripetutamente il clacson. Dalla porta laterale della vecchia costruzione in pietra e mattoni uscì un uomo smilzo con il viso rovinato dall’acne. Si diresse verso un capannone e aprì la porta scorrevole. «Venite, che si gela» disse a Gheorghita. Adriana passò accanto all’uomo che le lanciò uno sguardo carico di desiderio. «Ciao, Gheorghita». «Ciao, Pasquale». «Ora abbiamo anche il bagno» disse ironico. «È in quella baracca di legno laggiù». «Con tutti i soldi che ci guadagni, è il minimo». «Una percentuale onesta. Ricordati che lavorate grazie a noi». Nel capannone erano allineate delle brande. Su un tavolo di assi di legno c’erano alcuni cartoni con tranci di pizze, panini, bibite e un po’ di frutta. Dalle bocche uscivano nuvole di vapore. «Visto che bella accoglienza?» disse l’uomo. Aveva gli occhi lucidi e un ghigno beffardo. «Avrete tutte un lavoro. Comportatevi bene. Non voglio rogne. Domani sveglia alle sette. Buonanotte e sogni d’oro». Gheorghita tradusse. Molte, sfinite dal lungo viaggio, si addormentarono subito. Qualcuna russava. Il guanciale era giallo di sporco. Avrebbe dormito senza cuscino. Tirò la ruvida coperta fino a coprire la testa. Nonostante fosse stanca non riusciva a prendere sonno. Pensava alla famiglia, a suo padre malato, ai sacrifici fatti per raccogliere i soldi per il viaggio. Li immaginò seduti davanti al camino nella piccola casa di campagna immersa nel verde con i monti dalle cime imbiancati di neve che toccavano l’orizzonte. Si rannicchiò sulla branda. La fatica e la tensione ebbero il sopravvento e sprofondò in un sonno inquieto e intermittente. Un pallido sole entrava dai finestroni del capannone. L’aria era gelida. «Sveglia!» gridò Pasquale. «Dopo la colazione si parte». Adriana uscì fuori. Vicino al capannone c’era un recinto con un centinaio di pecore e una tettoia di eternit sotto la quale erano accatastati grandi cilindri di paglia. Il bagno era una lurida latrina con il cesso alla turca. L’odore era nauseabondo. Si lavò la faccia e uscì.


Pasquale fece segno a Gheorghita di seguirlo. «Siediti» le disse. «Vuoi un caffè?». «Sì, grazie». Riempì le tazze. «Quella ragazza bionda... quella alta. Dille che se vuole può lavorare per me. Le do settecento euro, molti di più di quelli che guadagnerebbe facendo la badante o qualsiasi altro lavoro». «Lasciala stare. È una mia parente» rispose Gheorghita, mentendo. Lo aveva già fatto con altre ragazze. Sceglieva le più carine, le blandiva con soldi e regali, e dopo che se l’era portate a letto le costringeva a prostituirsi. «Come non detto». Adriana, seduta su una panca, fissava l’orizzonte. Gheorghita la raggiunse. «Lavorerai presso una vecchia signora. È malata e ha bisogno di assistenza. Riceverai cinquecento euro al mese, più vitto e alloggio. Se hai bisogno di me chiamami in qualunque momento. Questo è il mio numero». Adriana l’abbracciò commossa. Gheorghita prese dei soldi e glieli porse. Adriana non voleva accettarli. «Prendili, possono servirti». «Grazie». Il piccolo paese era circondato da alte montagne ricoperte di boschi di cerri. Le strade erano strette e le case addossate le una alle altre. La signora Mariangela Blasi abitava in un antico palazzo seicentesco nel centro storico, un dedalo di strette viuzze di impronta araba, nei pressi della cattedrale romanica. Adriana suonò al citofono. «Chi è?». «Adriana, la ragazza rumena». «Ti stavamo aspettando, sali». Il portone si aprì. Sulla volta dell’atrio era dipinto lo stemma gentilizio su cui capeggiava un leone d’oro attraversato da una fascia azzurra ornata di tre conchiglie e sormontato da una corona marchesale. Attraversò il cortile interno con al centro una cisterna col parapetto ottagonale e giunse ai piedi della scala in pietra che conduceva, biforcandosi, al piano superiore. In cima l’attendeva la governante, una donna magra con i capelli grigi tagliati a caschetto. «Accomodati, prego. Io mi chiamo Antonietta» le disse porgendole la mano. «Parli italiano?». «Poco. Se lei parla piano, io capisco». «Allora parlerò piano. Andiamo a conoscere la signora Mariangela». Bussò alla porta, attese un attimo e girò la maniglia. «Signora, è arrivata la ragazza rumena» disse restando sull’uscio.


«Falla entrare». La stanza, con la volta a crociera dalla quale pendeva un enorme lampadario di Murano, era ampia e illuminata. C’era odore di lavanda. La signora Blasi, sostenuta da due guanciali, leggeva un libro. «Come ti chiami?» le chiese fissandola. «Adriana, signora». «Antonietta, le hai spiegato quali sono i suoi compiti?». «Sì, signora». «Bene, potete andare» e riprese a leggere. «Buonanotte, signora. Vieni, ti mostro la casa, così potrai muoverti con più facilità». Il palazzo era enorme. Il salone centrale, con un grande camino in marmo, comunicava con la cucina e permetteva l’accesso alle camere da letto, allo studio e alla ricchissima biblioteca. «Sarai affamata. Per cena c’è della verdura, della carne e delle mozzarelle. Nel frigo c’è un po’ di tutto. Se ti occorre qualcosa, non hai che da chiedere». «Grazie». Entrò scodinzolando un cocker spaniel con le orecchie attaccate all’altezza degli occhi bruni e il muso squadrato. «Lui è Brando. È un coccolone tenero e giocherellone. La signora ci tiene molto. Bisogna spazzolarlo spesso. Fai attenzione a quello che mangia e soprattutto non dargli schifezze... dolci, biscotti». «Sì». «Durante la notte la signora potrebbe aver bisogno di te. Se ti chiama corri subito. In questo periodo è un po’ irritabile ma tu non farci caso, e se si arrabbia non preoccuparti. Lo fa con tutti. Ci vediamo domani». «Buonanotte». La stanzetta aveva un letto in ferro battuto, un comodino con un vecchio abat-jour, un armadio a due ante, una toeletta e alcune sedie. C’era odore di chiuso. Aprì il balcone. Una folata di vento gelido entrò. Di fronte sorgeva un edificio con la facciata puntellata da un groviglio di tubi Innocenti. Una coppietta si scambiava tenere effusioni in un angolo buio. Sistemò la sua roba con cura e cenò. Il palazzo era immerso nel silenzio della notte, interrotto dal rintocco della pendola. Spense la luce e si addormentò. Il campanello continuava a suonare. Si alzò di scatto e si precipitò nella stanza della signora Mariangela. «È mezz’ora che ti chiamo. Cominciamo bene. Signorina, sei pagata per accudirmi, non per dormire. Devi correre immediatamente. Capito?». «Mi scusi...» farfugliò. «Devo andare in bagno. Aiutami ad alzarmi».


Adriana restò sveglia tutta la notte. Il campanello suonò altre volte. Verso l’alba si addormentò. Alle sette si alzò, fece una doccia e preparò la colazione. Sentì la chiave girare nella toppa. La governante poggiò le due buste sul tavolo. «Buongiorno, Adriana». «Buongiorno, signora». «Tutto bene stanotte?». «Sì». «Ho fatto un po’ di spesa. Dovrai imparare a cucinare qualche piatto italiano. Può capitare che mi assenti, e allora dovrai farlo tu. La signora è abituata alla buona cucina ed è piuttosto esigente. Ora mangia solo pastine in brodo e passati di verdura, ma appena si rimetterà sono certa che vorrà piatti più saporiti». Il palazzo era più grande di quanto immaginasse. C’era anche una cappella con altare in stucco e affreschi alle pareti. Un’intera ala, quella che un tempo era stata la foresteria, era chiusa, mentre i locali al pian terreno, tranne le scuderie e alcuni magazzini, erano stati fittati. I saloni, alcuni con decorazioni al soffitto, erano arredati con sontuosi mobili, tende di broccato, quadri, tra i quali molti ritratti, soprammobili e argenteria. Nello studiolo del barone c’era incassata nel muro una vecchia cassaforte costruita a Vienna nel 1815. Si soffermò a guardare le vecchie foto color seppia. «La signora è molto ricca» le disse la governante ammiccando. «Il marito è morto due anni fa. Le figlie vivono fuori e vengono solo a Natale e a Pasqua. Sono al suo servizio da oltre trent’anni. È stata molto male, un ictus provocato da un trombo: un calvario, povera signora. Per mesi solo cardiologi, neurologi, fisioterapisti. Prima che si ammalasse era una donna piena di interessi, dinamica, allegra e con uno spiccato senso dell’umorismo. Adesso si è ripresa abbastanza bene ma perde facilmente la pazienza. A volte è dispotica, ma in fondo è buona». Adriana aveva capito quasi tutto, tranne “dispotico”. Avrebbe cercato il significato sul vocabolario. Nei mesi precedenti la partenza si era procurata una grammatica della lingua italiana e un dizionario e aveva iniziato a studiare. Un giorno aveva incontrato Blandina, un’amica di sua madre che aveva lavorato in Italia per un lungo periodo, e le aveva chiesto di insegnarle l’italiano. Due mesi dopo era partita. «Qui ci sono le medicine che la signora prende. Ho scritto su ogni scatola l’ora e il numero di compresse che devi darle. Tutto chiaro?». «Sì». «Sei libera dalle diciassette alle diciannove. Non preoccuparti se vedi la polizia, i vigili e i carabinieri chiudono un occhio. A Campominore ci sono molte straniere quasi tutte sprovviste di permesso di soggiorno e senza un regolare contratto di lavoro». Distesa sul letto pensava a Nichita.


Appena avesse messo da parte un po’ di soldi si sarebbero sposati. Avrebbe avuto una piccola casa, con un giardino e un cane. Nichita era un bel ragazzo, biondo e muscoloso. Lavorava in una miniera. Adriana gli voleva un gran bene, nonostante avesse un carattere irascibile e spesso alzasse il gomito. Chissà se era ancora arrabbiato con lei. La governante la chiamò: «Adriana, la signora deve fare la doccia». «Arrivo subito». Adriana accompagnò la padrona in bagno, l’aiutò a spogliarsi, le sistemò la cuffia, aprì il miscelatore e attese che l’acqua fosse a giusta temperatura. La signora si sedette sullo sgabello, Adriana chiuse l’anta scorrevole della cabina e aspettò. Quando uscì dalla doccia le porse l’accappatoio. «Fai piano, non sono mica di cemento» la rimproverò. «Mi scusi». «Cerca di essere più delicata. Strofini come se dovessi carteggiare una parete». Le diciassette e trenta. Poteva uscire, ma non sapeva dove andare. Guardò fuori. La piazza era deserta. Accese la tivù e restò a guardarla fino alle venti. Servì la cena. «Vuole che l’aiuti?» domandò. La signora Mariangela la congedò con un gesto della mano. 1 2

Sbrigatevi con quei bagagli! Presto.

–2– «È una settimana che sei qui» disse Antonietta, «e sei rimasta tutto il tempo chiusa in casa. Guarda che non ti succede niente». «Lo so...». «E allora, cosa aspetti? Muoviti, su, esci. Con la signora resto io». «Allora vado». «Vai, vai» le fece cenno con la mano. La giornata era bella nonostante facesse freddo. Pennacchi di fumo grigio salivano pigramente dai comignoli verso il cielo. Adriana camminava senza una meta. Come una turista si fermava a guardare le chiese, i palazzi, i monumenti, ma dopo un’ora e mezza si sentì stanca. Si sedette su una panchina della villa comunale. L’angoscia dei giorni precedenti sembrava di colpo svanita. I bambini si rincorrevano tra i vialetti mentre le mamme chiacchieravano tra loro. In piazza i vecchi si godevano la giornata di sole. «Allora, come ti sembra il paese?» le chiese la governante. «Mi piace. È molto antico».


«Sono contenta che ti piaccia. Vedrai che ti troverai bene» la rincuorò. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Ti manca la tua famiglia?». «Molto». L’abbracciò. «Su, andiamo, il pranzo è pronto. Ti ho preparato delle cotolette alla milanese con contorno d’insalata». Si era abituata ad alzarsi quattro cinque volte per notte: accompagnava la signora in bagno, le somministrava le medicine o soddisfaceva qualche capriccio, come quando pretese una tazza di cioccolata alle tre di notte. Da casa giungevano notizie confortanti. Le condizioni del padre erano ancora critiche ma c’erano segnali di ripresa. Nichita in quindici giorni non l’aveva ancora chiamata. Forse aveva avuto dei problemi, forse era ammalato... o semplicemente la stava punendo per essere venuta in Italia. Quando gli aveva comunicato la decisione di partire, era andato su tutte le furie. Che si aspettava di trovare? Gli italiani consideravano i rumeni tutti allo stesso modo: zingari, criminali o ladri. Quelli della Lega, Borghezio in testa, li volevano fuori dalle palle dal primo all’ultimo. Le donne giovani e carine rischiavano di finire sul marciapiede. Aveva cercato di spiegargli che non era così. Sarebbe stata via un anno, un anno e mezzo al massimo, giusto il tempo di mettere da parte un po’ di soldi. La sua famiglia ne aveva bisogno, lui lo sapeva. I soldi sarebbero serviti anche per comprare i mobili e far fronte alle spese del matrimonio. Nichita aveva ribattuto che ai soldi ci pensava lui. Avevano finito per litigare e non si era fatto più vivo. Adriana una sera lo aveva aspettato sotto casa. Verso le undici era sbucato nel vicolo. Barcollava. «Vattene! Non ho bisogno di nessuno!» le aveva urlato. A quelle sfuriate c’era abituata. Si era fatta dare le chiavi, lo aveva aiutato a spogliarsi e messo a letto. La mattina gli aveva preparato la colazione. Nichita, chiuso in un ostinato silenzio, sorseggiava il tè. Fu, ancora una volta la dolcezza di Adriana a prevalere: uscì per telefonargli. La cabina era libera. La voce di Nichita era roca e impastata dall’alcol. Le rivolse alcune frasi di circostanza e rispose laconicamente alle sue domande. Sprofondata nella morbida poltrona aveva appena iniziato a leggere, quando il campanello suonò. Scattò come una molla. «Ma dove ti eri cacciata? Quante volte devo ripeterti che devi correre appena ti chiamo». «Mi scusi...».


«Invece di scusarti, datti una mossa. Mi sembri la Bella addormentata nel bosco. Vai alle poste e spedisci questa raccomandata. Poi passa dalla farmacia e prendimi le medicine. Torna presto, mi raccomando». Il cielo era scuro e le nuvole spinte dal vento si spostavano veloci. Nel viale due ragazzi chiacchieravano seduti sui motorini. «Bionda, dove te ne vai tutta sola? Se vuoi un po’ di compagnia non hai che da chiedere. Qui ci sono dei bei maschioni» disse un biondino toccandosi la patta. «Viene dalla Transilvania, terra di vampiri» aggiunse l’altro. «Le piace succhiare». «Allora attaccati a ’sto cannello!». I ragazzi risero sguaiatamente. Adriana accelerò il passo. L’ufficio postale era pieno di vecchi in attesa di riscuotere la pensione. Adriana compilò il modulo, si mise in fila e aspettò il suo turno. «Ma si può sapere dove sei stata tutto questo tempo?». «All’ufficio postale... per la lettera...». «Quasi tre ore?». «C’era molta gente...» «Accompagnami in bagno. È dalle nove che non la faccio. Le infermiere volevano che mettessi il pannolone, ma non sono ancora così decrepita da pisciarmi addosso. Neanche la pala ho voluto. Finché le gambe mi reggeranno, andrò a pisciare da sola. Maledizione, il telefono. Rispondi tu». «Pronto? La signora è in bagno. Va bene... Buongiorno». «Chi era?». «La signora Loredana. Ha detto che richiamerà». «Lo so io cosa vuole, quello sciacallo. Ma ho in serbo per lei e il marito una sorpresina che se la ricorderanno a lungo. Vedranno, vedranno che le combina la vecchia mammina. Ci sarà da ridere». «Signora, deve prendere la medicina». «Queste maledette compresse! Passami il bicchiere, va’». Deglutì e si abbandonò sui cuscini come spossata da un sforzo prolungato. Adriana preparò una tazza di tè. Accese il televisore. Fissava lo schermo, ma pensava a Nichita, che negli ultimi tempi era sempre più freddo. Quando glielo faceva notare, le ripeteva che le romanticherie erano roba da femmine. Dopo otto ore in miniera si torna a casa distrutti e si ha solo voglia di un buon goccetto e di una donna con cui fare l’amore. Gli altri uomini erano diversi. Il marito di sua sorella, per esempio, era pieno di premure, le regalava fiori, le faceva le coccole. Nichita invece trascorreva la maggior parte del tempo libero con Radu, l’amico d’infanzia con cui condivideva le sbornie. Radu era un attaccabrighe. L’anno prima erano venuti alle mani per futili motivi con alcuni ragazzi e Nichita si era beccato una coltellata di striscio al fianco.


Nichita adorava Radu, era soggiogato dalla sua allegria contagiosa, dalla sua bontà, e se lui gli avesse chiesto di seguirlo in capo al mondo lo avrebbe fatto senza un attimo di esitazione. Sperava solo che non si cacciasse nei guai. Il giorno dopo la signora era di umore pessimo. Non le risparmiò rimproveri e insolenze. Perfino la governante, abituata ai suoi repentini sbalzi d’umore, ritenne che avesse davvero esagerato. Adriana le faceva tenerezza; i suoi occhi verde smeraldo erano velati di malinconia. La strinse a sé come faceva con sua figlia. «Oggi è giorno di mercato» le disse. «Ce ne usciamo un po’?». «E la signora?». «Farà a meno di noi per un’oretta». Antonietta bussò e senza attendere la risposta entrò. «Signora, noi andiamo a sbrigare una commissione. Ritorniamo presto». «Uscite, uscite... tanto se schiatto non gliene frega niente a nessuno. Qualcuno sarebbe addirittura contento» disse parlando a se stessa. Dalla piazza giungevano voci, richiami, canti. Dialetti lucani, pugliesi, campani si mescolavano in una singolare babele linguistica. «Cinque paia di calze sette euro, cinque paia sette euro. Iamm signò, è n’affare. Filo di scozia. Calze accussì in negozio le pagate almeno il doppio». La governante si avvicinò. Ne prese un paio, lo osservò attentamente e saggiò la consistenza del tessuto strofinandolo tra il pollice e l’indice. «Se ne prendo dieci me li fai dodici euro?». «Tredici, meno non posso». «Allora, niente». «Oggi siamo generosi!». Un capannello di donne si era formato davanti a una bancarella. Un venditore maneggiava un utensile decantandone i vantaggi: «Signore, osservate con attenzione questo meraviglioso attrezzo: potete affettare, grattugiare, tagliare a listelli...». Adriana si era fermata a guardare un giaccone. «Indossalo. Vediamo come ti sta» disse Antonietta. «Stavo solo dando un’occhiata» disse, «non ho portato i soldi». «Su, provalo». «Signorì, le sta ’na meraviglia. Sembra cucito addosso a lei. Novanta euro è n’affare». Novanta euro. Una cifra esorbitante. «Lo prendiamo» disse la governante, «ma» aggiunse ritirando la banconota da cento, «dobbiamo fare settanta». «Signò, meno di ottanta, non posso davvero...». «Settantacinque e non ne parliamo più». «E vada per settantacinque!».


«Grazie, Antonietta». Continuarono il giro delle bancarelle. Adriana era incantata dalla teatralità degli ambulanti: le grida, le imprecazioni, i gesti avevano qualcosa di esagerato, di innaturale. Alla fine del corso, imboccarono una ripida stradina e raggiunsero il palazzo. La governante si affacciò sull’uscio della porta della signora Mariangela. «Dorme» disse a bassa voce. «E ora ci prepariamo un bel pranzetto. Ti insegno come si cucinano le linguine agli scampi. Per la signora riso in bianco e mozzarella». Dopo pranzo si sedettero a chiacchierare davanti al grande camino in pietra. I ciocchi scoppiettavano e gialle lingue di fuoco salivano su per la cappa. Nel pomeriggio fece una pennichella. Quando si svegliò, la stanza era immersa nel buio. Scostò la tenda. Pioveva di sbieco e nella strada l’acqua scorreva in rigagnoli. Rinunciò alla passeggiata, unico antidoto alla clausura del lavoro.

–3– Le pesanti tende di broccato erano accostate e uno spiraglio illuminava la stanza quel tanto che bastava per distinguere i contorni degli oggetti. La signora Mariangela giaceva immobile, lo sguardo fisso alla parete di fronte. «Signora, tutto bene?». Le fece cenno di andare. Richiuse la porta. Solo verso le dieci diede segni di vita. La chiamò protestando per il ritardo con cui era accorsa. «Portami l’elenco del telefono!». Adriana ritornò poco dopo. «Da’ qua!». Inforcò gli occhiali e cercò il numero. «Pronto? Buongiorno, notaio. Sono Mariangela Blasi... Abbastanza bene, grazie... Vorrei incontrarla per definire la questione del testamento... Sì, per me va bene. Allora l’aspetto domani». Poggiò la cornetta. «E così sistemiamo tutto. Vedrà la cara Loredana di cosa sono capace» aggiunse piena di livore. «Sei ancora qui? Vai, vai». Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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