L'arte fa bene

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Indice Il libro L’autore

Premessa

Parte prima L’allieva e il professore. Dialoghi sull'arte

1. L’arte fa bene? 2. Gli artisti sono matti? 3. Che cos’è l’arte contemporanea? 4. Perché la pittura informale? 5. La scultura è già dentro la roccia?

Parte seconda I benefici dell'arte

1. Perché l’arte nella scuola 2. Che cos’è l’arte? 3. Il panorama odierno dell’arte 4. Arte e società 4.1 Il pubblico dell’arte 4. 2 Gli artisti e il pubblico


Parte terza Viaggio nei territori dell'arte

1. Una visita al museo 2. Il laboratorio d’arte 3. Primo esempio: Giuseppe Capogrossi 4. Secondo esempio: Wassily Kandinsky 5. Contaminazioni e assemblaggi 5.1 Notazioni preliminari 5.2 Una proposta di lavoro a) Assemblaggio libero b) Contenuto e contenitore

6. Considerazioni conclusive

Indicazioni bibliografiche

Tav. I Tav. II Tav. III Tav. IV Tav. V Tav. VI Tav. VII Tav. VIII


Tav. IX Tav. X Tav. XI Tav. XII Tav. XIII Tav. XIV Tav. XV Tav. XVI

Il libro

La consuetudine con l’arte fornisce validi strumenti critici e sviluppa una sensibilità estetica che può mettere al riparo dal rischio della omologazione. Questo è quanto l’insegnamento dell’arte può fare. Il libro sostiene tale tesi, indicando gli obiettivi da perseguire e i percorsi per realizzarli. È diviso in tre parti. Nella prima vi sono cinque dialoghi tra un’allieva e il suo professore. L’allieva, in modo garbato e arguto, pone domande sull’arte e avanza dubbi, il professore fornisce risposte, mai definitive. Nella seconda parte, si presentano le ragioni per cui la scuola può e deve utilizzare l’arte come materiale didattico ed educativo. Vengono qui affrontati anche temi molto attuali riguardanti lo stato dell’arte oggi, il rapporto del pubblico con l’arte e vengono presentate alcune opere ed esperienze artistiche attuali. La terza parte contiene esempi e indicazioni metodologiche per i laboratori d’arte. Un corredo di illustrazioni nel testo e di tavole a colori completa la necessaria documentazione visiva. L’opera è rivolta agli insegnanti e a quanti amano l’arte e desiderano approfondire le loro conoscenze in materia.

L’autore


Paolo Gheri si occupa da anni di arte e di educazione. Laureato in pedagogia, prima come insegnante elementare e poi come dirigente scolastico, ha tenuto numerosi corsi di aggiornamento e laboratori d’arte dedicati sia a insegnanti della scuola dell’obbligo che a gruppi eterogenei di adulti di “Università popolari”. Pittore egli stesso, si è sempre interessato alla storia dell’arte e all’educazione estetica, è autore di saggi di didattica artistica, collabora con alcune riviste. Paolo Gheri

L’arte fa bene Viaggio nei territori della creatività

Edizioni Conoscenza

I edizione in ebook aprile 2015 2010 copyright by Valore Scuola coop arl Via Leopoldo Serra, 31- Roma ISBN ebook: 978-88-95920-69-6 Redazione: Loredana Fasciolo Realizzazione ebook: Luciano Vagaggini


Premessa

Circa settant’anni fa Herbert Read sostenne una tesi radicale sull’educazione nel suo famoso libro Education Through Artpubblicato a Londra nel 1943. In Italia fu pubblicato dalle Edizioni di Comunità nel 1954 col titolo: Educare con l’arte ed è divenuto ormai un classico. Read era uno studioso di vasti interessi culturali che spaziavano dalla letteratura alla filosofia e all’educazione, ma fu soprattutto un eccellente critico e storico dell’arte. La sua tesi è che l’arte può essere la base dell’educazione e che l’educazione in una società democratica ha una grande importanza: ogni individuo nasce con certe facoltà che, in una società liberale, consentono la formazione di un’illimitata varietà di tipi. è un punto di vista pienamente condivisibile e attuale, di enorme valore strategico, basti pensare alla necessità oggi irrinunciabile di attribuire al sistema educativo il compito di educare all’intercultura e ai valori del rispetto e della comprensione delle diversità. Tutta l’opera di Read sostiene questa tesi ed è sorprendente osservare come dopo più di mezzo secolo essa conservi ancora intatta tutta la sua attualità. Anzi, appare oggi più urgente e drammatica di allora, rivelando il valore anche profetico di quella tesi che ipotizza un sistema educativo e una pratica scolastica fondati sull’esperienza artistica come esperienza integrale e che prevede una serie completa di attività che mirano a sviluppare le quattro grandi funzioni dei processi mentali – la sensazione, l’intuizione, il sentimento, la riflessione – attraverso un corretto e costante esercizio del disegno e della scultura, della musica e della danza, della poesia e del teatro, di quello che egli chiama “mestiere”, cioè una sorta di educazione costruttiva. Se questa tesi può apparire utopica, occorre ricordare che la scuola sta attraversando oggi un tale stato di disorientamento e di appiattimento su una incerta e approssimativa gestione del quotidiano, che solo una buona dose di utopia può


salvarla dal degrado estremo e al tempo stesso rigenerarla, indicandole la strada per ritrovare un senso e degli obiettivi chiari da perseguire. E, d’altronde, c’è anche un problema di forte e diffusa demotivazione da parte degli alunni e spesso anche dei docenti. I problemi che si lamentano più di frequente nella scuola sono lo scarso impegno nello studio, la difficoltà a concentrarsi, la scarsa motivazione e la fatica a interessare gli alunni. Il fatto è che i ragazzi oggi sono sottoposti a una quotidiana sovraesposizione mediatica che, quasi sempre, ricevono in modo passivo, avendo scarse occasioni di riflessione critica e di interventi attivi. I modelli di riferimento che essi assorbono, data la suggestiva potenza dei mezzi visivi e audiovisivi (prima di tutto la televisione), sono conformisti e stereotipati, ed è perciò necessario e urgente metterli in contatto con l’arte per tentare di contrastare questo strapotere mediatico, non cercando di sostituirlo, ma piuttosto fornendo loro delle valide alternative. La consuetudine con l’arte fornisce ai ragazzi dei validi strumenti critici e sviluppa una loro sensibilità estetica che li può mettere al riparo dal rischio della omologazione. Questo è quanto l’insegnamento dell’arte può fare. Questo libro sostiene tale tesi, indicando gli obiettivi da perseguire e vari percorsi didattico-metodologici per realizzarli. Esso è diviso in tre parti.Nella prima, “L’allieva e il professore”, quasi come in una introduzione generale ai problemi dell’arte, vi sono cinque dialoghi tra un’allieva e il suo professore; l’allieva pone molte domande sull’arte e avanza molti dubbi; il professore fornisce delle risposte, anche se mai definitive. Nella seconda parte, la più teorica, si presentano e si analizzano le ragioni che stanno alla base della tesi che formula la necessità che la scuola utilizzi l’arte come materiale didattico ed educativo. Ma vengono affrontati anche temi molto attuali riguardanti lo stato dell’arte oggi, il rapporto del pubblico con l’arte e con gli artisti, e vengono presentate anche alcune opere ed esperienze artistiche attuali. La terza parte contiene molti esempi e molte indicazioni metodologiche per i laboratori d’arte; presenta una “visita al museo” di un gruppo di partecipanti ad un laboratorio d’arte; mostra e descrive alcune esperienze con l’ausilio anche di varie illustrazioni. Questa parte è quella più direttamente collegata alle esperienze dell’autore. Vi sono infine delle brevi considerazioni conclusive. Un corredo di tavole a colori completa la necessaria documentazione visiva.


Alla fine vi sono delle indicazioni bibliografiche ragionate in cui si indicano alcune direzioni per gli eventuali approfondimenti. I cinque dialoghi della prima parte erano comparsi su altrettanti numeri di VS La Rivista dal maggio al dicembre del 2005.

Parte prima L’allieva e il professore. Dialoghi sull'arte 1. L’arte fa bene?

Allieva - Professore perché l’arte fa bene? Professore - Come? Che cosa vuoi dire? A. - La terapista, l’altro giorno, ci ha detto che l’arte è come una medicina benefica per i ragazzi disturbati. Ma come è possibile? P. - Di quale terapista parli? A. - La terapista che seguiva i ragazzi disturbati... Sì, l’altro giorno ci hanno portato a visitare un centro di recupero per ragazzi disturbati, e c’era un grande salone in cui tutti stavano dipingendo, alcuni su dei cavalletti, altri su dei tavoli e altri ancora sdraiati per terra; c’erano ragazzi di varie età, e alcuni mi parevano molto gravi. P. - Da cosa l’hai notato? A. - Uno teneva la testa piegata in avanti vicinissima al disegno che stava facendo, con la schiena piegata in modo esagerato, sembrava assente, infatti non si è nemmeno accorto di noi che siamo entrati; un altro ci guardava invece con un’espressione strana e rideva di continuo con sussulti improvvisi; alcuni si


muovevano continuamente con un’andatura instabile e dondolando la testa, uno aveva la bocca aperta con la lingua di fuori. P. - E cosa stavano dipingendo? A. - Alcuni dipingevano paesaggi con una cura meticolosa, con piccolissimi pennelli che intingevano di continuo nel colore; uno dava sulla tela dei colpi col pennello così violenti e improvvisi che il colore schizzava tutto intorno; altri facevano delle figure umane molto infantili; alcuni dipingevano delle figure davvero strane, pazzesche. P. - Fammi qualche esempio dei lavori che stavano facendo. A. - Uno aveva fatto una donna dipinta di blu, grande, sproporzionata, che occupava tutto il cielo e sembrava svolazzare a braccia aperte sopra un piccolissimo paesaggio verde con molte casette tutte attaccate insieme e con i tetti rossi a triangolo, come fanno i bambini. P. - Mi sembra codesto un modo di dipingere molto emotivo, e probabilmente evocativo di ricordi lontani; forse è anche un modo di evadere dalla realtà; mi fa venire in mente Marc Chagall che in molti suoi capolavori usava mettere strane figure fluttuanti nel cielo, avvolte da atmosfere fiabesche. A. - Professore, non mi vorrà dire che quei ragazzi facevano dei capolavori; e che basta così poco per fare delle opere d’arte! P. - Non voglio dirti questo, anche se a volte basta davvero così poco per fare delle opere d’arte; ma tu lo conosci Chagall? Hai mai visto le sue opere? A. - No non le ho viste; questo nome per me è sconosciuto. P. - Forse sarebbe bene che tu dessi un’occhiata a quelle straordinarie opere. A. - Forse... ma volevo ancora raccontarle di un altro dipinto che ho visto in quel Centro: era una specie di ritratto, una figura di uno strano essere con una testa molto grande sopra a un corpicino gracile e inerte, come sospeso nel vuoto; la faccia aveva una bocca aperta e informe, e gli occhi erano rossi infuocati e strabici; ma la cosa più strana è che questo disegno assomigliava in modo sorprendente al suo autore. P. - Sento, da come l’hai descritto, che quel ritratto ti ha molto colpito; ma forse non era poi così somigliante, come tu dici, al suo autore: eri probabilmente un po’ suggestionata dal luogo e dalle persone.


A. - Sì, forse ero suggestionata, ma sicuramente un po’ impressionata lo ero davvero, e non vedevo l’ora di uscire. P. - Probabilmente quelle deformazioni e quelle sproporzioni della figura rivelavano un atto creativo in qualche modo liberatorio, come se l’autore, avendo trasferito le sue emozioni e i suoi conflitti nel dipinto, avesse potuto, pur nella composizione piena di contraddizioni, tenerli a bada almeno per il tempo che dura l’atto creativo. A. - La terapista ci ha spiegato che per questi ragazzi è molto importante poter comunicare attraverso la pittura, per loro la pittura ha un effetto benefico, una vera e propria terapia; ma perché? P. - Perché, come ti ho detto a proposito di quello strano ritratto, questa attività riesce a riempire, anche se parzialmente e per poco tempo, quel vuoto interiore che spesso attanaglia e terrorizza le persone disturbate, e permette loro di esercitare un bisogno umano importante come quello di esprimersi, togliendole dall’isolamento in cui sono precipitate. Ma questo effetto benefico dell’arte lo è per tutti, non solo per le persone disturbate. A. - Capisco che per quei ragazzi l’arte sia importante, dato che molti di loro, a causa dei gravi disturbi che hanno, non avrebbero altre possibilità di comunicare, ma chi è normale e non ha particolari disturbi, penso che ne possa fare a meno benissimo senza conseguenze, a meno che non abbia una particolare passione per la pittura. P. - Il concetto di normalità è così provvisorio e incerto, continuamente sottoposto a slittamenti di senso soggettivi... A. - Ma professore! Non vorrà sostenere ora che non esistono le persone normali e che queste non possano essere facilmente distinte da quelle che non lo sono. P. - Sì, sì, si distinguono, qualche volta; ma non voglio ora affrontare un argomento, come questo, che ci porterebbe sicuramente fuori strada, e torniamo al nostro argomento; e ti assicuro che, anche se uno non ha la passione per la pittura, l’esercizio dell’arte può avere comunque per tutti un effetto molto benefico. A. - Io ne faccio a meno benissimo di questo “esercizio”; faccio tante altre cose e sto bene lo stesso: ascolto la musica, frequento gli amici, vado al cinema, in discoteca, in palestra.


P. - Tu stai bene certamente, si vede e si sente; ma hai mai provato a dipingere? A misurarti con il foglio bianco davanti? Con quella strana sensazione che si prova di fronte al vuoto da riempire con dei segni? A. - No, mai; almeno in questi ultimi anni; solo quando frequentavo la scuola media, e soprattutto le elementari, disegnavo e dipingevo, ma era quasi un gioco, un passatempo piacevole in mezzo ai compiti più impegnativi e noiosi. P. - Ebbene, dovresti provare; perché, anche se stai bene e non hai problemi di nessun genere, devi sapere che ci sono comunque esperienze e attività che, oltre ad essere divertenti, danno un grosso contributo allo sviluppo del pensiero, a tutte le età, e soprattutto nell’età giovanile. A. - Penso che a questo contribuiscano soprattutto le materie come la filosofia e la storia, e i contatti sociali e le conversazioni come questa che stiamo facendo. P. - Quello che dici è certamente vero, ma resta il fatto che il potenziale formativo dell’arte è stranamente sottovalutato e trascurato, paradossalmente proprio in un Paese, come l’Italia, che è stato per secoli la culla e l’esempio di tutte le arti. Per cercare di farti capire quello che voglio dire ti racconterò un episodio molto significativo. A. - Me lo racconti, l’ascolterò con interesse, perché ancora non ho ben capito le ragioni di questi benefici. P. - Qualche anno fa, in una cittadina del senese, si teneva un laboratorio di pittura ad acquerello nell’ambito di una Università popolare; fra i partecipanti vi era una signora di oltre sessant’anni, pensionata, che non aveva mai dipinto, avendo lavorato in fabbrica tutta la vita e pensato a mandare avanti la famiglia; ora che aveva un po’ di tempo libero frequentava questa Università e non so come fosse finita in quel laboratorio; fatto sta che si appassionò molto a quella attività, si impegnò con grande determinazione e autentica curiosità, e un giorno dipinse un piccolo paesaggio davvero ben fatto, ingenuo e spontaneo nel disegno, ma dai colori così trasparenti e vivi che suscitò molti commenti favorevoli e l’ammirazione di tutti i partecipanti; ricordo ancora l’espressione tra lo stupefatto e il soddisfatto di quella simpatica signora, raggiante e luminosa come il lavoro che aveva fatto. A. - Capisco la soddisfazione di codesta signora, è quello che si prova tutti quando si riesce a portare a termine un lavoro ben fatto, ma non ci vedo nulla di straordinario,


e, soprattutto, non vedo come questo esempio possa dimostrare quegli effetti benefici dell’arte di cui lei ha parlato. P. - Lo straordinario sta nel fatto che quella signora, forse per la prima volta in vita sua, era riuscita a dare una forma ai propri sentimenti, ad esprimere le proprie emozioni; era stata riconosciuta e accettata dagli altri e si era riconosciuta; specchiandosi, piena di felice meraviglia, nel lavoro che aveva prodotto, era come se si fosse detta: guarda cosa so fare, cosa c’è in me, guarda chi sono! Quando lavorava in fabbrica o quando puliva la casa, difficilmente trovava qualcuno che apprezzasse il suo lavoro, anche se ben fatto; era il suo dovere, socialmente prescritto e codificato, e anche se qualcuno distrattamente lo approvava era pur sempre un lavoro “servile”, necessario e rivolto ad altri, per necessità esterne; questa volta, invece, aveva fatto, liberamente e per se stessa soltanto, un lavoro divertente e creativo che le aveva dato la possibilità di mettere in contatto il suo mondo interiore, fatto di sentimenti e di sensibilità, con quello esterno, per mezzo di carta, colori e pennelli, creando un qualcosa di originale che prima non c’era. Capisci la grande differenza? A. - Capisco che per lei, professore, la differenza tra un lavoro come quello della signora, in fabbrica o a casa, e il dipingere consista nel fatto che il primo è obbligatorio e destinato ad altri, e il secondo libero e senza fini esterni e perciò più soddisfacente e creativo; ma io credo che anche da un lavoro materiale e obbligatorio, come per esempio pulire la casa, possano derivare delle soddisfazioni per una persona che ci tiene all’ordine; come un mobile ben fatto può dare certamente delle soddisfazioni all’artigiano che l’ha costruito; non credo che queste soddisfazioni siano inferiori a quelle prodotte dal dipingere. P. - Sono certamente delle soddisfazioni anche codeste ma di un genere molto diverso e molto meno coinvolgenti, a parte il fatto che avrei molto da ridire sulle soddisfazioni della casalinga, probabilmente tu non le fai le faccende domestiche, ed è per questo che hai fatto codesto esempio. A. - No non le faccio io, le fa mia madre, ma che c’entra? P. - C’entra eccome! Ma ora siamo arrivati a un punto morto della nostra conversazione e stiamo un po’ divagando; tu ammetti che questi effetti benefici si possano realizzare con le persone disturbate, ma l’esempio che ti ho fatto non è servito a diradare i tuoi dubbi circa i benefici che l’esercizio dell’arte può produrre su tutte le persone; occorre perciò ripartire da qui, riformulando la domanda in questi


termini: quali benefici possono derivare alle persone dall’esercizio dell’arte? Sia come fruitori che come produttori? A. - Intende chiedersi se sarebbe vantaggioso interessarsi dell’arte anche solo per studiarla? Anche senza esercitarla dipingendo? P. - Sì intendo dire proprio questo. Ma ora voglio chiederti se non considereresti importante un’attività che fosse dilettevole e, al tempo stesso, ti suggerisse interrogativi e riflessioni sul mondo e su di te. A. - Penso di sì, professore, purché fosse davvero divertente e non mi costringesse a lunghi e noiosi esercizi. P. - Tu non puoi pretendere di raggiungere degli obiettivi senza alcuno sforzo; ma vediamo: ti chiedo ancora se non considereresti importante un’attività che, coinvolgendoti emotivamente, facesse nascere in te nuove idee e pensieri. A. - Credo proprio di sì. P. - Allora prendiamo in esame un’opera d’arte, ragioniamoci sopra e vediamo se riusciamo a trarre da questa esperienza qualche suggerimento interessante e qualche nuova idea; sceglila tu l’opera tra quelle che conosci. A. - Scelgo questa: un quadro di Van Gogh che è anche riprodotto in un mio libro e che ho visto tante volte, e che perciò conosco bene, anche se in questa riproduzione, molto grande e nitida, si vedono molto meglio tutti i particolari; ma mi pare di aver visto già tutto quello che c’era da vedere: un caffè di notte, dipinto con colori molto accesi e con alcune persone, che non si distinguono molto bene, sedute qua e là ai tavoli, e un grande bigliardo al centro della scena. P. - È il Caffè di notte: interno, come lo intitolò lo stesso Van Gogh che lo dipinse nel settembre del 1888; l’hai guardato molte volte, ma forse non hai visto tutto quello che c’è e che potrebbe esserci; per esempio: come è rappresentata la sala dal punto di vista spaziale?


A. - È uno spazio molto aperto verso chi guarda, dilatato dalle parti in modo un po’ esagerato; come una scatola che fosse stata aperta e smembrata dalle parti... non so come dire. P. - Hai detto molto bene, è uno spazio che contiene delle vere e proprie distorsioni prospettiche: una scatola dilatata, appunto, in cui i vari elementi sono rappresentati come se fossero visti contemporaneamente da diversi punti di vista. A. - Infatti i tavoli, quella sedia in primo piano a sinistra, il bigliardo al centro, sembra che non siano ben posati a terra, sembrano traballanti. P. - Si trovano su piani diversi; è l’effetto prospettico dovuto al fatto che i vari oggetti sono stati rappresentati come se il pittore li avesse dipinti cambiando posizione e quindi punto di vista; è una soluzione che fu adottata, anche se in modo più razionale e scientifico, pure da Cézanne: si tratta di una vera e propria rivoluzione rispetto alla visione prospettica centrale di origine rinascimentale che non era mai stata messa in discussione fino a quel momento; è una cosa molto importante, sai? è come se quegli artisti ci invitassero a guardare la realtà da vari punti di vista e non da uno soltanto. A. - A questo non ci avevo mai pensato guardando il quadro; ma i vari oggetti e i personaggi sono disegnati in modo un po’ infantile, approssimativo, con i contorni ripassati con grossi segni scuri e tortuosi. P. - Che conferiscono però una forza, una vibrante energia a tutta la composizione; è lo stesso Van Gogh che in una lettera all’amatissimo fratello Theo spiega la cosa con


queste parole: «io non voglio che le mie figure siano corrette secondo le leggi accademiche, quello che desidero di più è fare di queste inesattezze, deviazioni e rimaneggiamenti o aggiustamenti della realtà qualcosa che sia magari non veritiero ma più vero della verità letterale.» A. - Quindi, secondo Van Gogh, l’artista deve essere libero di interpretare la realtà e di rappresentarla secondo un suo personale modo di vederla? P. - È proprio così; ma osserva ora i colori. A. - Sono molto brillanti e fortemente contrastati; domina soprattutto il forte contrasto tra il verde del soffitto e il rosso delle pareti; chissà se quel locale era davvero a tinte così forti? P. - No sicuramente, perché questo è un lavoro di pura fantasia, cioè fatto a memoria, anche se richiama un locale tipico dell’epoca e della zona di Arles, dove l’artista viveva a quel tempo; e l’uso del colore è volutamente simbolico, come lui stesso scrisse in varie lettere al fratello, che accennavano a questo lavoro, a cui evidentemente teneva molto. A. - Ma quanto scriveva Van Gogh? P. - Molto, e soprattutto al fratello Theo, a cui, in certi periodi, scriveva anche più di una volta alla settimana; in totale noi conosciamo oltre 650 lettere scritte a Theo più svariate altre decine scritte ad altri corrispondenti, esse rappresentano una vera e propria opera letteraria, uno splendido documento umano di grande interesse, anche per chi non si occupa abitualmente di arte, ma per gli studiosi esse sono un documento insostituibile di grande importanza. Ma torniamo ai colori del nostro quadro. A. - Colori esagerati, eccessivi che però hanno un valore simbolico, mi stava dicendo; e cosa ha scritto in proposito Van Gogh? P. - Ha scritto molte cose, perché, come ti dicevo, ne parla diverse volte nelle sue lettere, e, in sostanza, affermò che il caffè notturno era un posto dove ci si poteva rovinare, diventare pazzi o commettere crimini, e con quel quadro egli aveva voluto rappresentare quelle terribili passioni umane con l’uso complementare del colore, i rossi e i verdi più vari. A. - Che cosa vuol dire, professore, uso complementare del colore?


P. - Sono chiamati complementari quei colori il cui accostamento produce un particolare effetto di contrasto, una vera e propriavibrazione ottica, visiva, come il rosso e il verde, il blu e l’arancione o il giallo e il viola. A. - Ah, questi effetti li conosco benissimo negli accostamenti di colore, quando devo scegliere i capi di abbigliamento! Ma non sapevo che si trattasse di colori complementari. P. - Lo vedi che lo studio delle opere d’arte ti può aiutare anche a scegliere con maggiore precisione gli abiti da indossare? A. - Professore, ora lei mi sta prendendo in giro. P. - No, no; ma in questa opera l’artista ha usato i colori con molta accortezza, calcolandone in maniera perfetta l’effetto che complessivamente è sorprendente; guarda quella figura al centro, dietro il bigliardo, che rappresenta il proprietario del locale, non a caso è dipinto di bianco, è l’unica macchia di bianco di tutto il quadro, un vero e proprio punto di riposo in mezzo a tanti colori così crudi e intensi da suggerire una fornace del diavolo, per usare le parole dello stesso Van Gogh; una fornace infuocata che, laggiù in fondo, attira come in un vortice irresistibile lo sguardo dell’osservatore. A. - Però, professore, devo ammetterlo, quante cose ci sono in questo quadro che avevo guardato tante volte senza vederle! O meglio, tutte queste cose ce le ha viste lei. P. - Non fa differenza. Ora vorrei mostrarti un’opera che può essere utilizzata invece come materiale didattico per produrre degli elaborati, come si potrebbe fare in un laboratorio d’arte. A. - Professore io non li capisco questi adulti che frequentano i laboratori d’arte; se non hanno talento è inutile; artisti si nasce, non si diventa; se uno non ha rivelato particolari inclinazioni per le attività artistiche, non è che queste inclinazioni gli spuntano improvvisamente, da anziano, quando ha molto tempo da perdere e non sa cosa fare; con la tendenza artistica uno ci nasce; io, per esempio, questa tendenza non ce l’ho e non me ne fo un problema, anche se frequentassi il miglior laboratorio non ci tirerei fuori nulla di buono. A. – Sbagli, non è così; intanto lo scopo dichiarato di questi laboratori non è quello di creare artisti, e chi li frequenta, a meno che non sia posseduto da insane illusioni,


non lo fa certo per diventare un artista, ma per sollecitare e sviluppare la propria sensibilità e creatività; perché la creatività, come ha dimostrato fin dagli anni Trenta del Novecento un grande psicologo russo, è una caratteristica umana che ha una base organica, si trova in ciascuno di noi e non solo nei geni, ed è educabile; egli usa, a questo proposito, una famosa e bellissima metafora: come l’elettricità si manifesta sia nelle grandi tempeste con fulmini abbaglianti sia in una piccola pila tascabile, così la creatività si trova non solo nelle grandi opere degli uomini di genio, ma dovunque c’è un essere umano che immagina, combina, modifica e realizza qualcosa di nuovo, anche di modeste proporzioni. A. - Quindi lei mi vuole dire che anche io potrei fare qualcosa di originale sviluppando la creatività che è in me? P. - Proprio così, purché tu lo voglia. A. - Ne dubito molto. P. - Ma ora ti voglio proporre questo esempio che ti dicevo: è un’opera che si presta molto bene per produrre gli stimoli necessari per sviluppare la creatività e la comprensione dell’arte. A. - Mi faccia pure questo esempio. P. - Vedi questa riproduzione; è un quadro di un artista italiano molto interessante; hai mai visto un’opera del genere? A. - Non mi pare; però codeste strane forme nere che ci sono nel quadro non mi sono del tutto sconosciute; non lo so, ma mi sembra di averle riviste da qualche parte, però non so chi sia l’artista. P. - è un quadro di Giuseppe Capogrossi intitolato: Superficie 209, ed è stato dipinto nel 1957; probabilmente tu hai visto questi segni, combinati in qualche modo, in certe immagini pubblicitarie o in qualche decorazione di stoffe.


A. - Sì, forse ho visto figure simili in un foulard, e in effetti questa immagine è molto decorativa ed elegante. P. - L’eleganza è certamente una caratteristica che deriva a quest’opera da un rigoroso equilibrio spaziale e cromatico. Capogrossi è un artista molto singolare: era nato a Roma nel 1900 e aveva seguito fin da giovane la carriera artistica, partecipando con successo alla vita artistica e culturale della prima metà del secolo con una pittura figurativa dai toni delicati e quasi metafisici; poi, improvvisamente, nel 1949, abbandonò il figurativo per l’astratto, e incominciò a dipingere superfici, come questa qui riprodotta, in cui compare questa singolare forma, piatta, bidimensionale, generalmente scura su fondo chiaro: una sorta di forchetta, di tridente, di artiglio, come è stata variamente definita, forma che, ripetuta, ribaltata, giocata in negativo/positivo, accostata in mille modi, si snoda in sequenze o raggruppamenti creando effetti percettivi molto particolari, come l’effetto di variabilità figura/sfondo, ma conservando sempre la sua identità strutturale. A. - Tutte queste forme dentate, fitte fitte, che si rincorrono in lunghe e tortuose file, creano uno strano brulichìo e si vedono figure nere su sfondo bianco e contemporaneamente figure bianche su sfondo nero, e poi proprio al centro quell’unica forma rossa viva, quasi una fiamma; è davvero una immagine molto bella, decorativa.


P. - L’hai descritta molto bene, cogliendone le caratteristiche essenziali. A. - Ma come può essere usata in un laboratorio un’opera del genere? P. - Te lo dirò molto brevemente, perché occorrerebbe lavorare in concreto; si può preliminarmente studiare l’opera di questo artista con delle illustrazioni o meglio con delle proiezioni, per cercare di capire come ha costruito le sue immagini; quindi si può passare ad una analisi materiale di un’opera presa a modello. A. - Cosa intende per analisi materiale? P. - Beh; si possono fare delle fotocopie, ingrandendo alcuni particolari di una illustrazione del quadro e ritagliandoli in diversi pezzi, poi si può provare a disporre questi pezzi sul foglio e, muovendoli nelle varie direzioni, cominciare a vedere gli effetti visivi che si creano e si disfano sotto i nostri occhi: allontanando e avvicinando le varie forme, disponendole in sequenze, ribaltandole, muovendole in diversi raggruppamenti, finché non si trova l’effetto complessivo che ci pare più soddisfacente; poi si fissano questi pezzi incollandoli sul foglio, e si possono aggiungere altri interventi grafici o per collage; ottenendo così un elaborato che, oltre ad avere una sua valenza estetica, chiaramente derivata dalla manipolazione dell’opera presa in esame, serve anche a comprenderla meglio, a capire la sua genesi, il suo percorso creativo. A. - Professore, lei vuol dire dunque che l’attività del laboratorio d’arte può servire anche a capire meglio le opere d’arte? P. - Sì, proprio così; in un laboratorio come questo si può operare in vari modi, con materiali diversi e con diverse tecniche, ma sempre partendo dall’esame di un’opera, che viene analizzata e smontata, e poi, ispirandosi al percorso tecnico fatto dall’artista, si realizzano elaborati che, in qualche modo, fanno rivivere a chi li produce le stesse esperienze spaziali, materiche, visive compiute dall’artista, fornendo in tal modo all’allievo un’occasione conoscitiva, e forse anche emotiva, del tutto particolare. A. - Ma occorrerà comunque avere sempre una certa abilità e una passione artistica, saper disegnare, saper dipingere, per frequentare codesti laboratori. P. - No, non occorre; ho visto persone di tutte le età e dai più diversi livelli culturali, con e senza esperienze artistiche, produrre elaborati anche straordinariamente originali e significativi, dopo aver conosciuto e analizzato opere di Kandinsky, Mirò,


Klee, Fontana, Burri, Capogrossi; e gli elaborati migliori non erano sempre quelli di coloro che già avevano esperienze artistiche. A. - Quello che mi dice mi sorprende molto, non l’avrei creduto possibile. P. - è molto più semplice di quanto possa sembrare: la fruizione dell’arte che si propone in questi laboratori, introduce il necessario uso di ritmi temporali molto distesi, in un clima collaborativo molto intenso, perché queste immagini d’arte e il lavoro che viene proposto, invitano naturalmente all’osservazione lenta e accurata, alla elaborazione comune di strategie operative che comportano un’attivazione più consapevole della percezione visiva, della ponderazione, dei confronti e della mediazione, che sono importanti dimensioni dell’intelligenza e della personalità. A. - Mi ha talmente incuriosito che quasi quasi mi verrebbe la voglia di provare a frequentare uno di codesti laboratori... se ne avessi il tempo. P. - Il tempo lo dovresti trovare... ma non ti pare sorprendente che la scuola, a tutti i livelli, continui a sottovalutare l’arte come materiale didattico e di studio, col potenziale educativo che potrebbe avere per voi giovani? A. - Sì, forse.

2. Gli artisti sono matti?

Allieva - Professore, perché gli artisti sono matti? Professore - Cosa? Che vuoi dire? Non capisco. A. - Sì, gli artisti sono tutti un po’ matti: Van Gogh aveva gravi disturbi mentali e finì più volte in manicomio; Ligabue viveva da solo nei boschi come un animale e anche lui era matto, e tutti e due sono pittori molto famosi; altri erano alcolizzati o drogati... P. - Ma non tutti, ve ne sono anche che avevano e hanno un comportamento normale; del resto vi sono in giro molti matti davvero che non praticano affatto l’arte.


A. - Tutti gli artisti famosi dell’ultimo secolo, se non sono proprio matti, hanno comunque qualcosa di molto strano nel loro comportamento e nelle loro opere. P. - Fammi qualche esempio. A. - C’è quello là che espone in una galleria un orinatoio rovesciato e lo intitola Fontana; quell’altro che scaraventa i colori sulla tela con forza e a caso; quello che con una lama taglia le tele bianche senza nemmeno dipingerle e le espone come se fossero quadri; se è arte questa! ma il più matto di tutti è quello che... professore mi vergogno a dirlo... P. - Ma no, dì pure, non aver paura, le nostre conversazioni non ammettono censure. A. - Mise i propri escrementi in un barattolo e ci scrisse sopra... ma è una parolaccia! P. - Dilla pure, se l’ha scritta un artista non è una parolaccia. A. - Merda d’artista ci scrisse sopra, e ci fece anche la firma e la data! Se non sono matti questi! Ma che razza di arte è questa! Come si fa a parlare di opere d’arte di fronte a cose del genere? P. - Vedo che stai occupandoti della storia dell’arte del Novecento. A. - Sì, e mi piace anche abbastanza, se non altro per queste stranezze che sono alla fine anche divertenti. P. - Ti ricordi qualche nome di quegli artisti di cui hai citato le opere? A. - No, mi pare che quello più strano di tutti avesse un nome... come il nostro più grande scrittore, ecco sì Manzoni.

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