L'ultimo treno per istanbul (enewton narrativa)

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1074 Titolo originale: Last Train to Istanbul Copyright © 2002 by Ayse Kulin All rights reserved. Traduzione dall’inglese di Luca Di Maio Prima edizione ebook: novembre 2015 © 2015 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-8716-0 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Librofficina Realizzazione cover: Carol Gullo

Ayse Kulin

L’ultimo treno per Istanbul

Ankara 1941 Nonostante quella mattina, prima di uscire, Macit avesse avvertito Sabiha che sarebbe rientrato a casa tardi, la sua buona educazione lo fece sentire a disagio quando si rese conto che erano già le otto passate. Chiese scusa e uscì dalla sala riunioni, si diresse nel suo ufficio e chiamò casa con il telefono nero dal quadrante rumoroso. «Abbiamo un’altra riunione stasera. Per favore, non mi aspettare per cena», disse. «Ancora?», rispose sua moglie esasperata. «Sono quasi tre settimane che non riusciamo a cenare assieme. Seriamente, tesoro, non hanno moglie e figli da quelle parti?» «Per l’amor del cielo, dove vuoi andare a parare? L’esercito bulgaro è alle porte e tu mi parli della cena! Tipico delle donne!», disse riagganciando. Sua moglie era come sua madre. Badare alla casa, la pappa e la nanna dei bambini, tutta la famiglia riunita per cena: erano queste le priorità delle casalinghe ben organizzate. Il tentativo dell’Atatürk di renderle donne di mondo era stato vano, pensò Macit. Evidentemente le nostre donne sono buone solo a fare le madri o le casalinghe.


E stava addirittura cominciando a pentirsene. Sabiha non aveva forse abbandonato i suoi doveri di madre, affidando l’educazione della figlia a una tata? Nel profondo, Macit stava indubbiamente cominciando a trovare strano il comportamento della moglie. All’inizio era arrabbiato, pensando che quel suo atteggiamento distante fosse una silenziosa protesta contro le infinite riunioni che lo portavano a fare le ore piccole. Che diritto aveva lei di arrabbiarsi per i suoi straordinari? Dopotutto, erasua la responsabilità della guerra? Era sua la colpa di quelle lunghe notti? E se la Turchia si fosse veramente trovata a combattere? Se fosse successo, quale delle donne del loro giro avrebbe visto anche solo di sfuggita il marito? Eppure in cuor suo Macit sapeva che l’atteggiamento di Sabiha non era dettato da semplice egoismo. Sembrava sull’orlo di una crisi di nervi. Era da un po’ che quella ragazza a cui piaceva andare ai picnic, assistere alle corse di cavalli col bel tempo e giocare a carte nei giorni di pioggia, sembrava non apprezzare più nulla. Spesso, quando rientrava a casa, trovava la moglie che dormiva profondamente. Se, quando si metteva a letto, la cingeva, lei si girava dall’altra parte. Nelle rare occasioni in cui riuscivano ad andare a letto allo stesso orario, lei trovava sempre una scusa per addormentarsi subito. Era ovvio che aveva un problema, ma aveva scelto il momento sbagliato per farsi venire un esaurimento nervoso. Dove avrebbe trovato il tempo di prendersi cura di lei, se era sommerso di lavoro? Anche quando le riunioni finivano dopo mezzanotte, il giorno dopo Macit doveva presentarsi al ministero alle sette del mattino. Vivevano in un’epoca turbolenta. La Turchia si era ritrovata tra l’incudine e il martello. Da una parte c’era la Gran Bretagna, che aveva a cuore solo i propri interessi e che faceva pressioni affinché la Turchia diventasse un suo alleato; dall’altra c’era l’atteggiamento minatorio della Germania. Come se non bastasse, la Russia aveva teso alla Turchia un pugno di ferro in un guanto di velluto. Il loro interesse in Kars, in Ardahan, nel Bosforo e nei Dardanelli pendeva come la spada di Damocle. Se la Turchia avesse scelto la fazione perdente, la Russia le avrebbe fatto pagare un conto molto salato soprattutto per Bosforo e Dardanelli. E quell’incubo andava avanti da due anni. La prima guerra mondiale aveva insegnato al presidente Inönü qual era il prezzo da pagare nello scegliere la parte sbagliata, e lui aveva imparato bene la lezione. Avrebbe dato qualunque cosa per sapere chi sarebbero stati i vincitori questa volta ma, verosimilmente, non esisteva indovino in grado di predire l’esito della guerra. Ogni possibile contingenza era stata discussa, considerata e messa a verbale durante quelle infinite riunioni che si trascinavano fino a notte fonda. Macit era orgoglioso di essere membro dello stato maggiore. Al contempo, da quando gli italiani avevano attaccato la Grecia, il cerchio di fuoco si era andato restringendo, e gli impiegati del governo e le loro famiglie stavano cominciando ad agitarsi.


La capitale, Ankara, si stava nuovamente preparando a un’estate calda. In Turchia gli inverni erano estremamente rigidi e pieni di neve, mentre d’estate faceva un caldo insopportabile. Risultava già evidente che i mesi estivi alle porte sarebbero stati infernali. Circa una settimana prima, l’ambasciatore tedesco, Franz von Papen, aveva consegnato al primo ministro un messaggio personale da parte di Hitler, e gli ufficiali avevano atteso con il fiato sospeso che l’incontro finisse. Macit indovinò correttamente il contenuto del messaggio di Hitler: in apparenza la lettera era piena di buoni auspici e di buone intenzioni. Offriva alla Turchia ogni genere di armamenti e di aiuti per rafforzare il controllo sul Bosforo e sui Dardanelli, promettendo di non mandare soldati tedeschi in suolo turco. Tuttavia, se letta tra le righe, lasciava intendere che era arrivato il momento per la Turchia di prendere una decisione e che, se non fosse stata dalla parte della Germania, ne avrebbe patito le conseguenze quando, a guerra finita, sarebbero state prese le decisioni riguardo le sue vie marittime. In seguito a quel lungo incontro, Inönü disse: «I tedeschi ci stanno dicendo di non mettere alla prova la loro pazienza, e che da un momento all’altro potrebbero stringere un’alleanza con la Russia alle nostre spalle». Proseguì dicendo: «La Gran Bretagna sta combattendo contro la Grecia, e in Libia per loro è stato un disastro, per cui non sono nella posizione di venirci in soccorso. È per questo che non dobbiamo correre il rischio di far arrabbiare i tedeschi. Signori, dobbiamo trovare un modo per salvaguardarci». Ciò che stavano cercando era un modo di temporeggiare senza dire di sì o di no a nessuna delle parti: un modo per accarezzare loro la schiena senza farle indispettire. Il mattino seguente a quella lunga notte, il primo ministro invitò l’ambasciatore britannico al ministero per spiegargli la difficile situazione della Turchia. Il Paese stava andando incontro ai giorni più spaventosi della seconda guerra mondiale. La guerra era come un incendio in un bosco che si propagava in tutte le direzioni, ed entrambe le parti avevano delle aspettative sulla Turchia. Nel suo ufficio, Macit accese una sigaretta, fece due tiri e spense il mozzicone nel posacenere di cristallo prima di tornare nella sala riunioni. Il ministro degli Esteri e il segretario generale non erano più lì. «Macit, il presidente ha chiesto di vedere le valutazioni della giornata», disse il suo assistente. «Le ho preparato i rapporti. La sta aspettando nel suo ufficio». Macit si affrettò a tornare nel suo ufficio, nella sezione assegnata al ministro degli Esteri. Da qualche mese lavoravano lì, in modo da poter fare immediatamente rapporto e da ricevere istruzioni da Inönü. Macit prese dal cassetto alcuni fascicoli che aveva aggiornato qualche ora prima, gli diede un’occhiata e volò via. Inönü era seduto in una poltrona di pelle dietro un grande tavolo. Aveva l’aria ingenua – più piccolo e irritato del solito – mentre sfogliava le carte che la sua segretaria personale aveva preso da Macit. Mentre guardava le pagine pareva stesse


ascoltando versi di volpi nella testa, ma non diceva nulla. Anche gli altri uomini che sedevano attorno al tavolo erano in silenzio. All’improvviso chiese: «Avete ascoltato la radio, oggi?» «Sì, signore. I nostri colleghi sono stati ad ascoltare tutte le stazioni europee. Ho consegnato il nostro rapporto al segretario generale poco fa. Non hanno avuto un attimo di riposo, signore, eppure rimangono in ascolto della Bulgaria, preparando rapporti ogni mezz’ora». «I nostri agenti in Bulgaria ci tengono informati quotidianamente. Tuttavia, non si sa ancora se Hitler abbia intenzione di dirigersi a sud o a nord per attaccare i russi, signore», disse un altro giovane ufficiale. I giovani lasciarono la stanza e Macit rimase indietro. «Grazie a lei», disse il ministro degli Esteri, «siamo stati in grado di prendere tutte le precauzioni per assicurarci che questo incendio non giunga fino a noi. Stia tranquillo, ora può andare a Yalova con la coscienza a posto. La terremo costantemente informata sugli sviluppi». Macit udì Inönü borbottare: «Magari sapessi in che direzione andranno i tedeschi. Ah! Se solo lo sapessi». I tedeschi avevano trovato un accordo con la Bulgaria, diventando in questo modo confinanti con la Turchia. Inönü era terrorizzato poiché non conosceva la successiva mossa di Hitler. I moderni armamenti e il possente esercito di Hitler erano proprio al confine. Forse voleva andare in Egitto passando per la Turchia. O avrebbe potuto spostarsi verso il Caucaso. Nessuno, nemmeno il suo staff, sapeva quale sarebbe stato il prossimo obiettivo, per cui la Turchia doveva essere preparata a ogni evenienza. Lo scenario peggiore sarebbe venuto da un accordo tra la Germania e la Russia. Sarebbe stata una catastrofe per la Turchia. Macit attese che gli uomini finissero di leggere i rapporti per poi tornare alla sala riunioni assieme al segretario generale. Era in corso un lungo incontro, con ulteriori rapporti da leggere, sistemare e mettere assieme prima che li potessero presentare a Inönü. Ore più tardi, mentre camminava da solo verso casa, Macit era preoccupato. Il governo stava pagando un prezzo elevato per evitare che quell’incendio si propagasse in tutto il mondo. A casa tutte le donne, come in un coro, si lamentavano dei prezzi alti. Se i funzionari statali di Ankara e le loro famiglie erano stressati, figuriamoci come si doveva sentire la povera gente dell’Anatolia. Nello sforzo di proteggere i funzionari, lo stato stava vendendo i prodotti statali – tessuti, scarpe, zucchero – a prezzi notevolmente ridotti. Inoltre, per prevenire il mercato nero e i cartelli, aveva messo in atto un sistema di razionamento, il che significava che ogni carta d’identità era ricoperta di timbri. Nonostante queste precauzioni, il mercato nero prosperava. Persone senza scrupoli cercavano di arricchirsi vendendo merci dal retro dei camion. La maggior parte della gente era arrabbiata ma rassegnata; non riusciva a trovare o a


permettersi i beni di prima necessità, e non aveva altro da mangiare che pane e cereali. Il presidente riteneva che la sua prima preoccupazione – un problema di vita o di morte – fosse evitare che il Paese entrasse in guerra. Avvicinarlo con le lamentele della gente non aveva senso. Per un uomo come lui, che aveva vissuto di persona l’inferno della guerra, tutto il resto passava in secondo piano. Macit era sfinito. Era quasi certo che Inönü sarebbe andato a Yalova l’indomani, e ciò voleva dire che probabilmente la settimana successiva non ci sarebbero state riunioni che avrebbero tirato per le lunghe. Forse sarebbe riuscito a tornare a casa prima, evitando così i rimproveri di Sabiha. «Asso di spade». «Due di quadri». «Passo». «Passo… mi spiace, scusa. Quattro di spade». La ragazza alzò lo sguardo dalle carte sul tavolo per guardare Sabiha. Lei arrossì. Il suo vestito color malva la faceva apparire magra e delicata. «Sei distratta, oggi», disse Hümeyra. «Qual è il problema, cara?» «Nulla. Non ho dormito stanotte. Non riesco a concentrarmi. Non può prendere Nesrin il mio posto?» «Oh, assolutamente no! Facciamoci un tè. Un bel tè ti rimetterà in sesto». «Hümeyra, me ne devo comunque andare prima delle cinque». «Perché?» «Devo andare a prendere Hülya dalla lezione di danza da Marga». «Non se ne occupa la tata?» «Ha altro da fare oggi». «Oh, per l’amor del cielo, cos’altro fanno le tate?» «Vuole fare delle compere prima di tornare in Inghilterra, a fine mese». «Non sapevo stesse partendo, Sabiha! Perché?» «Be’, Hülya è cresciuta; è una ragazza ora. Non ha più bisogno di una tata che si prenda cura di lei». «Ma pensavo che stesse dando a Hülya anche lezioni di inglese». «Ha appreso abbastanza. Suo padre vuole che si regga sulle sue gambe e che sia più indipendente». Tutte le signore posarono le carte e si alzarono dal tavolo. Sabiha si incamminò verso la stanza dove veniva servito il tè. Non aveva voglia né del tè né dei pasticcini che si trovavano sul tavolo. Avrebbe voluto solo uscire a prendere una boccata d’aria fresca, invece prese una tazza e bevve un sorso, con la speranza di evitare ulteriori domande. Le altre donne seguirono Sabiha al tavolo, muovendo la testa al ritmo della musica che proveniva dalla radio. All’improvviso la musica si interruppe e si udì la voce tesa dell’annunciatore.


«Signore e signori, interrompiamo la trasmissione per fornirvi alcune importanti informazioni riguardo l’incontro di questa mattina tra il comitato di Stato e il primo ministro». «Shh! Shh! Ascoltate!», disse Belkis. Anche Sabiha si avvicinò alla radio, tazza e piattino nella mano. Le dita le tremavano mentre ascoltava quelle tetre notizie. Le truppe si erano ritirate in Tracia, dietro la linea di Catalca e, a quanto pareva, si stavano trincerando. Il governo stava ordinando a tutti i cittadini di Istanbul di costruire rifugi nelle cantine. Inoltre, veniva offerto un trasferimento gratuito a tutti coloro che risiedevano in Anatolia, con la possibilità di portare fino a cinquanta chili di bagaglio a famiglia. «Mio Dio, che notizie lugubri. Per l’amor del cielo, Hümeyra, spegni quella radio», disse Nesrin. «No, per favore non lo fare, potrebbero esserci delle notizie sulla Francia», disse Sabiha, «chissà cosa…». Nesrin la interruppe. «Che importanza ha la Francia? Chi se ne frega». Sabiha la guardò costernata, poggiando tazza e piattino sul tavolo. «Prendi un po’ di torta alla frutta; ti piace», propose Hümeyra. Sabiha declinò l’offerta: «Devo aver preso un colpo di freddo durante le corse, lo scorso weekend. Ho la nausea, tesoro. Non ho per niente appetito». «Avete saputo che stanno evacuando Edirne?», continuò Belkis. «Insomma, la guerra è alle porte!». «Mio marito sarà insopportabile», disse Necla senza tanti giri di parole. «A stento risponde di sì o di no in questi giorni. Ve lo immaginate come sarebbe se entrassimo in guerra?». Sabiha si sentì soffocata dalla conversazione delle amiche. Mentre erano occupate con il tè e i dolci, si scusò con Hümeyra e lasciò velocemente la casa. L’inebriante profumo di glicine e lillà riempiva l’aria di Ankara. Il bellissimo glicine che scendeva dalle mura del giardino pendendo come grappoli d’uva sembrava accentuare l’umore cupo di lei. Il vestito color malva era l’unica cosa che si armonizzava con l’ambiente. Le passavano per la testa mille e una cosa mentre camminava verso casa a Kavaklidere. Urtò contro un signore anziano e, mentre chiedeva scusa, inciampò in una pietra e per poco non cadde. Si sentiva molto infelice. Non era capace di dare attenzioni né alla figlia, né al marito, e tutto stava cominciando a sgretolarsi. Si stava a poco a poco allontanando da coloro che la circondavano. Sin dall’inizio, sua figlia era stata una delusione, visto che si aspettava un maschio; a suo marito interessava solo il suo lavoro; i suoi genitori erano costantemente ammalati; e lei aveva cominciato ad avere sempre meno in comune con le sue amiche. Era quasi come se si stesse staccando dalla vita stessa. Macit era talmente impegnato che pareva – almeno a lei – non aver nemmeno notato il suo cambiamento. Ciò le rendeva più semplice tenerselo per sé. Per quanto riguardava le amiche, ultimamente aveva cominciato a inventare delle scuse per non


partecipare agli incontri. La tata non era affatto in giro per compere quel giorno, e lei non doveva andare a prendere Hülya alla scuola di danza di madame Marga. Di vero c’era solo che sarebbe sicuramente tornata in Inghilterra. Macit aveva voluto così. Credeva che Hülya non avesse più bisogno di una tata ora che andava a scuola, e che Sabiha dovesse dedicare più tempo alla figlia. Sabiha era cosciente di aver perso il controllo sulla propria vita da un po’. Era quella maledetta guerra a governarla! Guerra che, oltretutto, non era nemmeno nel suo Paese. Nei negozi non si trovava niente e nessuno poteva viaggiare; la guerra era l’unico argomento di conversazione. Macit era come un prigioniero; come un soldato! Erano stati una coppia talmente felice, si erano divertiti così tanto assieme, molto tempo prima: prima che sua sorella se ne andasse, prima della guerra. A Sabiha mancavano quei giorni perduti. D’altra parte, non riusciva a smettere di ringraziare la sua buona stella ogni qual volta leggeva il giornale o ascoltava la radio. Almeno ad Ankara le loro vite erano al sicuro. Nessun poliziotto o soldato bussava alla loro porta in orari assurdi. Attorno non c’era gente che portava distintivi gialli sul petto come degli asini marchiati. Asini marchiati! Di chi erano quelle parole? L’unica che avrebbe potuto fare un’osservazione tanto crudele era Necla. All’improvviso Sabiha si ricordò: due settimane prima, durante un bridge, Necla, in uno dei suoi momenti d’umore insensibile, aveva detto: «Quei poveri ebrei sono stati costretti a portare dei distintivi gialli sui vestiti, proprio come degli asini marchiati!». «Che stai dicendo?», urlò Sabiha. «Come fai a paragonare le persone agli asini? E dici di essere la moglie di un diplomatico. Ma ti senti?». Necla, quasi in lacrime, aveva chiesto alle amiche: «Ma cos’ha? Perché mi urla addosso in questo modo?» «Questa guerra ci ha rese tutte nervose, ragazze», aveva detto la loro ospite, cercando di sdrammatizzare. «Ultimamente basta una scintilla per causare un’esplosione. Su, continuiamo la partita. A chi toccava?». Adesso Sabiha si sentiva in imbarazzo ripensando a quel suo scatto. Doveva essere di un umore terribile. Come ogni giorno, quando leggeva le notizie sui giornali. I nazisti che invadevano l’Europa… gli emigranti in fuga… la Francia… oh! Sabiha si allungò per toccare uno dei boccioli di glicine su un muro, ma proprio quando stava per raccoglierlo, ritirò la mano. Non si sarebbe ripresa spezzando un fiore. All’improvviso sentì un groppo in gola e, mentre si voltava in direzione della strada, le lacrime le scesero lungo il viso. Mentre calava la sera, lei annaspava. Quella giornata triste si sarebbe trasformata in una notte triste. Probabilmente Macit sarebbe rientrato tardi. Hülya avrebbe chiesto i suoi infiniti perché, quando e dove durante la cena. Sicuramente la tata si sarebbe seduta a tavola, parlando della guerra. Ankara, che era così ricca di ricordi felici, adesso rappresentava solo tristezza. Non solo tristezza, ma anche monotonia e squallore. La vita era grigia e niente più!


Macit aprì la porta dell’ingresso il più piano possibile: non voleva disturbare la moglie in caso stesse dormendo. Entrò in punta di piedi nella stanza da letto e vide, alla pallida luce rosa della lampada del comodino, che era ancora sveglia. Era sdraiata sul letto, con i capelli sparsi su tutto il cuscino, e lo guardava con gli occhi rossi e gonfi. «Che c’è? Perché hai pianto?», chiese Macit. Sabiha si mise a sedere di scatto dritta sul letto. «Sono molto tesa. Questa lettera è arrivata con la consegna serale; il postino l’ha lasciata sullo zerbino. L’ho trovata quando sono andata a portare fuori la spazzatura. Ecco, leggila». «Di chi è? Di tua madre? È di nuovo tuo padre?» «Non arriva da Istanbul, Macit. La lettera è di Selva». «Davvero?» «Macit, ho paura. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo farla venire qua. Non può andare avanti così. Prima o poi mia madre verrà a conoscenza di quello che sta succedendo in Francia e, giuro, le verrà un infarto». Macit prese la lettera e tentò di leggerla a quella luce soffusa. «Selva non accetterebbe mai di venire qua, abbandonando Rafo», disse. «Rafo non acconsentirebbe a tornare». «Ma non può andare avanti così. Selva deve tenere conto di nostra madre. Ho fatto richiesta al centralino per mettermi in contatto con lei. Dio solo sa quanto ci vorrà. Forse in mattinata o domani…». «Cos’è che hai fatto, Sabiha? Quante volte ti ho detto di non chiamare Selva da questa casa?» «Be’, di certo non posso andare a casa d’altri a quest’ora della notte. Devo parlare con mia sorella, devo convincerla prima che sia troppo tardi». «Cancellerò la chiamata», disse Macit, affrettandosi verso il telefono. «Come puoi farlo? È mia sorella. Non lo capisci?». Macit rientrò nella stanza. «Sabiha, io lavoro al ministero degli Esteri, i tedeschi sono al confine, la guerra è alle porte, e tu hai prenotato una telefonata a un’ebrea in Francia. Stai cercando rogne!». «Sono stufa del tuo ministero degli Esteri. Davvero stufa. Penso sempre di essere seguita da delle spie». «Manca poco alle vacanze scolastiche. Poi tu e Hülya potrete andare dai tuoi genitori a Istanbul. Mi chiedo solo se tuo padre sarà comprensivo come lo sono io nei confronti di tua sorella». Sabiha sentì suo marito andare in fondo all’ingresso, chiamare l’operatore, cancellare la telefonata e andare in salotto. Si rimise a piangere, molto piano. Macit uscì sul balcone. Prese una sigaretta guardando il lontano, lontanissimo orizzonte blu di mezzanotte. Le fresche sere di Ankara lo rendevano felice ma quella notte, per la prima volta, aveva freddo e si sentiva a disagio. Tentò di riscaldarsi le braccia sfregandole. Non era soltanto il clima a dargli i brividi. Stavano vivendo dei


giorni che – per coloro che capivano cosa stesse accadendo – erano così pericolosi da far rizzare i capelli. Né l’uomo della strada, né la sua capricciosa moglie che singhiozzava dentro casa erano coscienti di quanto si trovassero sull’orlo del precipizio. Accendevano la radio, ascoltavano i notiziari, e poi si lamentavano del mercato nero e dei prezzi alti, prima di avvolgersi nelle coperte e sprofondare nel sonno, tutto qua. Non si rendevano conto di niente. Nessuno capiva le dimensioni della catastrofe che la Turchia avrebbe affrontato se fosse stata trascinata in guerra da una qualsiasi delle parti. Come potevano immaginare il filo del rasoio su cui stavano camminando Inönü e i suoi colleghi? Il governo stava facendo del suo meglio per non spaventare i civili o creare il panico. Macit si chiedeva se fosse meglio divulgare la verità in modo che tutti potessero affrontare la questione, oppure assumere il ruolo di un padre protettivo che tiene i figli lontani dalle brutte notizie. Non molto tempo prima, giusto qualche mese, il Paese era stato risucchiato nel vortice della guerra. La guerra… peggio di una fogna, una lurida fogna! Macit gettò il mozzicone con rabbia. Cadde da qualche parte nell’oscurità color pece. Ricordava le storie che suo padre, eroe di guerra, gli aveva raccontato su quell’oscurità e sulla luce delle sigarette di notte – una, due, tre luci, dieci luci – sui corpi senza braccia, senza gambe, e sui cadaveri senza testa. Persone infelici, affamate, ricoperte di pidocchi, come animali feriti e rinsecchiti. Bambini abbandonati che morivano di fame. Donne che avevano perso la loro umanità; uomini senza soldi, casa o speranza. Si ricordò vagamente di suo padre in quello stato, davanti al cancello del giardino, pelle e ossa, ricoperto di pidocchi e con l’uniforme a brandelli. Aveva barcollato fino al bordo della piscina ed era crollato. Era un ricordo impresso nella mente di Macit, ma non era sicuro di averlo visto davvero o se gliel’avessero raccontato in seguito. Quello che ricordava era che il giardiniere non aveva riconosciuto il padrone, pensando che fosse un mendicante. Ci volle un po’ prima che realizzassero chi fosse quell’uomo. L’alto, forte e socievole Ruhi era diventato un cadavere, uno scheletro senza spirito che trascinava una gamba, senza il solito barlume negli occhi. Questa era la guerra! Macit era sicuro che la vittoria si ottenesse attorno a un tavolo, non sul campo di battaglia. Stava lavorando sodo per salvare i suoi connazionali da un destino nuovamente minaccioso, ma come avrebbe fatto a spiegarlo alla moglie che piangeva? Sprofondato in una poltrona di vimini e vagando nei ricordi, si rese conto di essersi abituato al fresco del balcone. Si era speso molto contro la ratifica dell’accordo con la Gran Bretagna e la Francia nel 1939. Secondo tale accordo, i francesi e gli inglesi avrebbero fornito all’esercito turco il suo fabbisogno vitale. In cambio, durante la guerra la Turchia doveva vendere alla Francia il cromo che produceva. Il ministro degli Esteri turco stesso era andato in Francia con Macit per firmare l’accordo. Si erano recati a Parigi con grandi aspettative ma, sfortunatamente, il risultato finale deluse le loro speranze. La Francia aveva un bisogno disperato dei soldi che avrebbe fatto vendendo il cromo turco ma, nonostante l’insistenza di Menemencioglu per fornire il cromo per tutta la durata della guerra, la Francia voleva impegnarsi solo per


due anni. Al che la Gran Bretagna ridusse drasticamente la quantità di braccia, carrarmati e cannoni antiaerei che aveva intenzione di vendere alla Turchia. L’esercito turco aveva bisogno di undici milioni di munizioni e di seimilacinquecento mitragliatrici. Gli inglesi erano pronti a dare solo due milioni di munizioni e duecento mitragliatrici. Con queste forniture pietose, come diamine ci si poteva aspettare che la Turchia fermasse i tedeschi nei Balcani? Si poteva capire se si fosse trattato di persone che combattevano a mani nude per salvare il proprio Paese, ma combattere per gli inglesi, i quali avevano aizzato gli arabi contro i turchi nella prima guerra mondiale mentre avevano messo gli occhi su Mossul e Kirkuk, era troppo. Allo stesso momento altre nazioni europee, per svariate ragioni, avevano sostenuto diverse tribù mediorientali in cerca dell’indipendenza. Fosse stato per Macit, non avrebbe alzato un dito per nessuno di loro. Che gli europei si azzannassero la gola tra loro. Non bastava che si stessero trascinando l’un l’altro in quella guerra? Macit non aveva dubbi che se, per qualche motivo, la Turchia fosse stata costretta a entrare in guerra, avrebbe dovuto pagare il conto delle ambizioni delle grandi potenze. Durante un pasto sul treno di ritorno da Parigi, Macit apprese che il ministro degli Esteri era preoccupato anche di un’altra cosa. Si rivolse alla delegazione. «Signori, per come la vedo io, gli inglesi non hanno armi a sufficienza e i francesi non ne hanno affatto. Non sono in grado di fornirci alcunché perché sono in malafede. È semplicemente impossibile. Mi sono reso conto di questa situazione durante i nostri colloqui a Parigi. Ho la testa piena di domande. Ho molti dubbi riguardo a una loro possibile vittoria. Mi chiedo se stiamo puntando sul cavallo sbagliato, firmando questi trattati che ci renderanno loro alleati». Era stato un anno di discussioni infinite: chi avrebbe vinto la guerra? Chi avrebbe supportato la Turchia? Si era deciso che la Turchia dovesse sostenere i francesi e gli inglesi. Ora, a Parigi, avevano scoperto la mancanza di armi da parte dei francesi. Gradualmente avevano cominciato a rendersi conto che forse avevano scelto l’alleato sbagliato. Nonostante non fossero tornati ad Ankara a mani vuote, erano profondamente amareggiati dal fatto che fossero state soddisfatte meno della metà delle loro richieste. Alla fine dei colloqui, la sera del loro ultimo giorno a Parigi, Macit riuscì a tenere fede alla promessa fatta a Sabiha di incontrarsi con Selva. Aveva detto agli amici che doveva vedersi con un parente che viveva a Parigi, e loro furono così cortesi da non fare domande. Macit scelse di incontrare Selva al Café de Flore, perché era un po’ appartato. Selva arrivò con un sacco di regali per la madre, la sorella e la nipote. Abbracciò forte Macit e lo baciò su entrambe le guance. Era ovviamente felicissima di vedere qualcuno che veniva da casa. Fece domande dettagliate su tutti: Sabiha legava ancora i capelli di Hülya con dei grossi nastri di seta? Invitavano sempre gli stessi vecchi amici alle soirée del venerdì sera? Chi era il compagno di bridge di Sabiha? La mamma aveva


chiuso la casa estiva a fine stagione o quando aveva cominciato a fare più freddo? Chiese persino di suo padre, che era così deluso da lei. Macit guardò tutti i regali che sua cognata aveva ammucchiato su una sedia. Con un’espressione imbarazzata disse: «Non posso proprio portare tutta questa roba con me, Selva, ho solo una valigetta». «Per favore, Macit, non negarmi il piacere di mandare queste poche cose alla mia famiglia. Potrei non averne più occasione in futuro. Posso volare a prendere un’altra borsetta da Lafayette». «No, per l’amor del cielo, no! Cosa penserebbero i miei colleghi? Siamo qui per questioni ufficiali. Diranno che ho fatto talmente tanto shopping per me e la mia famiglia da essermi dovuto comprare una valigia in più per poter portare tutto». «Prendi almeno i profumi alla lavanda che ho preso per mia madre e mia sorella. C’è anche della cioccolata per Hülya…». «Mi spiace che ti sia data tutto questo disturbo; devi aver speso parecchi soldi. Che peccato». Dopo che si furono scambiati gli aggiornamenti, improvvisamente ci fu un attimo di calma nella conversazione. Fu solo allora che Macit notò i cerchi neri sotto gli occhi di Selva. Al sole della sera si rese conto di quanto fosse pallida e smunta. Indossava ancora l’impermeabile verde che Macit conosceva bene, il che stava a indicare che lì a Parigi non poteva permettersene uno nuovo. Quella era la figlia di Fazil Resat Pasa, nata con la camicia! Che cosa non si fa per amore! Macit non poteva fare a meno di chiedersi se Sabiha avrebbe avuto il coraggio di agire allo stesso modo nel caso in cui i genitori non l’avessero approvato. Non era sicuro di voler conoscere la risposta. Probabilmente Sabiha non avrebbe scelto di sopportare tante difficoltà per amore. L’avrebbe sposato se fosse stato di un’altra religione, se fosse stato armeno, per esempio? No! Nemmeno in un milione di anni. Senza dubbio il fatto che lui provenisse da un’antica e rispettabile famiglia di Istanbul, che avesse una buona istruzione e una buona carriera, aveva contribuito in modo sostanziale alla scelta di lei. Ma perché ci sarebbe dovuto rimanere male? Non aveva fatto anche lui delle scelte simili? Sabiha non era forse una ragazza bella, intelligente, istruita e che, oltretutto, aveva ricevuto una buona educazione in una famiglia rispettabile ed equilibrata? Si ricordò del consiglio pratico che Sabiha aveva dato alla sorella in quei giorni in cui Selva aveva perso la testa per amore. Non aveva avuto molto effetto, ma non era quello il punto. «L’amore è come una fiamma, alla fine si consuma bruciando», aveva detto Sabiha a Selva. «E poi che farai? Quando finalmente ritornerai in te, se te ne pentirai e vorrai divorziare da Rafo, non sarà come divorziare da uno qualsiasi. Nessuno vorrà sposarti dopo. Fidati, finirai come una vecchia zitella». «Perché sarei considerata lo scarto di un marito ebreo, è così? Non ti preoccupare, sorella cara, sono sicura che se, come dici tu, la fiamma si consumerà bruciando, la nostra amicizia sopravvivrà. Saremo amanti e migliori amici».


«E se – Dio ce ne scampi e liberi – dovesse accadere qualcosa a Rafo? Tornerai a casa come l’ebrea Signora Alfandari?» «Sicuramente no. Non tornerò nella casa di nostro padre, che mi ha ripudiata solo perché mi sono innamorata di un uomo che non è musulmano. Chissà, per allora forse potrei avere comunque dei figli miei o addirittura dei nipoti». Quando Sabiha si rese conto che non sarebbe andata lontano con Selva, fece il tentativo di parlare con loro padre. «I tempi sono cambiati, Padre. Questo tipo di differenze non ha più importanza. Per favore, non fate nulla di cui potreste pentirvi in futuro. Vi supplico, Padre, per favore, siate pratico. Guardate la nuora di Sami Pasa: è greca, no? Poi c’è la moglie di Vecdi, che è tedesca. Che mi dite di loro? Inoltre, avete studiato in Europa. Si suppone che siate di vedute più ampie». «Se sposerà quell’uomo, non sarà più una delle mie figlie. Dovrà persino dimenticarsi di esserlo stata». «Ma Padre, come potrebbe mai dimenticare di essere vostra figlia!». Fazil Pasa guardava lontano, fuori dalla finestra. «Vuoi dire “essere stata”». Quell’orribile situazione aveva scombussolato la famiglia e non durò solo pochi giorni, settimane o mesi, bensì anni. Il tentativo fallito di Fazil Pasa di spararsi non fermò Selva; semplicemente aspettò che si fosse rimesso e tornò dal suo amante. Poi fu il turno della loro madre di creare scompiglio. Si ammalò e dovette stare a letto per molto tempo: aveva bisogno di cure e di attenzioni costanti. Fazil Pasa si rifiutava di uscire di casa. La famiglia provava molta vergogna, non riuscivano a guardare gli amici negli occhi. Quell’incidente non aveva fatto bene alla famiglia, ma almeno adesso sapevano chi gli era veramente vicino. Ora persino gli amici che avevano considerato intimi sparlavano alle loro spalle, biasimando Pasa perché aveva fatto studiare le figlie in scuole cristiane, come, d’altronde, avevano fatto molti di loro. Sabiha e Selva, come la maggior parte dei figli dei loro amici, erano state mandate alla scuola americana di Gedik Pasa a fare le elementari, e poi alla scuola francese per l’istruzione secondaria e, infine, al college americano. Entrambe le sorelle crebbero parlando fluentemente inglese e francese. Macit si ricordò di quanto ne era rimasto colpito molti anni addietro. Quando aveva visto per la prima volta la sua fidanzata leggere dei poemi di Baudelaire e di Byron. Persino sua madre – pace all’anima sua – ne era rimasta impressionata. «Proprio il tipo di moglie adatta a un diplomatico», aveva commentato. La voce di Selva lo riportò alla realtà. «Allora, la Turchia entrerà in guerra?» «No». «Ne sei sicuro?» «Stiamo facendo del nostro meglio per evitarlo. Di sicuro non possiamo permetterci un’altra guerra, Selva». «Macit… ho bisogno di chiederti una cosa».


«Prego, fa’ pure». «Mio padre? Mi… mi perdonerà mai?» «Onestamente non lo so, Selva. Tua sorella e io abbiamo chiuso con quest’argomento. Non ne parliamo più». «Davvero?» «Sì, che altro c’è da dire?» «Lo credi davvero, Macit?». Macit prese un sorso di caffè prima di rispondere. «Quello che credo io non ha importanza. Hai fatto quello che volevi. Non sei felice, almeno? Ne è valsa la pena, fare tutto quel casino?» «Mi dà fastidio il tuo atteggiamento, te lo devo dire. Parli come se tu non avessi mai conosciuto Rafo». «Non capisco perché dovresti infastidirti, quando ti sto solo dicendo la verità. Semplicemente non volevi stare a sentire nessuno. Sei andata per la tua strada e hai tagliato i ponti. Hai fatto del male a tuo padre, a tua madre e a Sabiha. Spero solo che ne sia valsa la pena. Tutti noi speriamo che non avrai rimpianti». «Io amo moltissimo Rafo, Macit. Non ho rimpianti, ma sono molto infelice…». Le lacrime le solcavano il viso. Macit le prese la mano tremante. «Su, Selva, non dovresti essere infelice se lo ami così tanto. Pensa a tutto quello che avete dovuto sopportare per stare assieme. Sei una persona molto forte; hai sempre saputo ciò che volevi e sei sempre rimasta fedele ai tuoi principi. Sono sicuro che lo sa anche tuo padre. Forse non ti ha ancora perdonata, ma sono sicuro che dentro di sé ti ama profondamente». «Mi mancano tutti… così tanto». «Il tempo cura tutto. Datti ancora un po’ di tempo». «Mi chiedo quanto ancora», disse Selva con ansia. Ne era rimasto?, pensò Macit. Il tempo era una cosa molto preziosa ultimamente – in particolare negli ultimi mesi – prezioso come l’oro. Non era forse il tempo il motivo per cui la delegazione turca era venuta a Parigi? Il presidente Inönü era a caccia di tempo, più di ogni altra cosa: il tempo per pensare, il tempo per distrarsi, il tempo per evitare la guerra. In effetti, Inönü continuava a rispondere alle domande sulla guerra dicendo: «Solo il tempo può dirlo». Adesso Macit diede la stessa risposta a sua cognata. «Non lo so, Selva. Solo il tempo può dirlo!». Si rese conto che stava utilizzando delle strategie diplomatiche nella sua vita privata. Aveva sempre pensato che tutto potesse cambiare in un batter d’occhio, portando a risultati imprevedibili. Ma, nelle attuali circostanze, l’Europa non poteva trovare conforto nelle previsioni o nella speranza. Prima di salutare Selva, Macit le strinse forte le mani e la guardò negli occhi. «Tutto può cambiare, Selva, e cambiare rapidamente. Se dovesse accadere qualcosa che metta in pericolo le vostre vite, dovete tornare a casa immediatamente». «Ma non posso tornare senza Rafo, Macit».


«Invece dovresti. Lui è un uomo: è in grado di badare a se stesso». «Abbiamo giurato di restare uniti per tutta la vita. Non tornerebbe. Sai bene tutto quello che abbiamo passato, tutti gli insulti. E io non posso lasciarlo così». «Pensaci bene. La vita è una. E ne siamo gli unici responsabili». «Cerca di capire, Macit. Non sono solo responsabile della mia, di vita». «Esatto. Anche in mare le donne e i bambini abbandonano la nave per primi». «Non capisci: non sto parlando di Rafo». Macit, che si era alzato per andarsene, si rimise a sedere. «No! Non mi starai mica dicendo che…». «Sì». «Quando?» «All’inizio del prossimo anno». «E perché non me l’hai detto prima?» «Speravo che te ne saresti accorto». Guardandola meglio, Macit vide effettivamente che aveva messo peso sul girovita e che i seni erano più pieni di quanto ricordasse. D’altra parte, però, il viso era sciupato. Doveva essere pazza a rimanere incinta in tempo di guerra. In modo piuttosto riluttante, Macit le fece gli auguri. «Vuoi che lo dica a Sabiha?», chiese. «Le ho già scritto, ma forse non ha ancora ricevuto la mia lettera. Se domani sei di ritorno, puoi benissimo spargere la voce, ma preferirei che lei lo venisse a sapere prima da me!». «Certo». «Ho scritto anche a mia madre». «Pensaci bene, Selva. Adesso hai una ragione in più per tornare a Istanbul». «Non posso crescere mio figlio senza il padre. Non preoccuparti, Macit. Anche Rafo è del parere che rimanere qui sia pericoloso. Sta seguendo alcune opportunità di lavoro fuori Parigi, da qualche parte in campagna. Probabilmente, entro questo mese lasceremo la capitale». Alla fine Rafo e Selva erano riusciti a lasciare Parigi e a trasferirsi a Marsiglia, ma a che pro? I nazisti avevano gettato la loro ombra persino lì. Per salvare la parte meridionale del Paese dall’invasione, il governo appena formato dal maresciallo Pétain sacrificò gli ebrei per fare fronte a Hitler. Poco alla volta gli ebrei francesi che avevano pensato di riuscire a passare inosservati vivendo in aree remote cominciarono a rendersi conto di essersi sbagliati. I tedeschi penetravano ovunque, come il fumo. Era impossibile sfuggirgli. Rafo aveva cominciato a lavorare a Marsiglia con un amico che faceva il farmacista. La madre di Selva aveva venduto all’asta un anello di diamanti ed era riuscita a mandare i soldi alla figlia minore, senza che il marito venisse a saperlo. Rafo investì i soldi in una società con l’amico farmacista. Lui e Selva vivevano in un attico proprio sul lato opposto della strada del negozio. Selva dava lezioni di inglese e di pianoforte


a tre ragazzine, che erano delle vicine di casa. Erano riusciti a farsi degli amici, ma la migliore amica di Selva rimaneva sempre la sorella. Scriveva a Sabiha ogni giorno, fornendole tutti i particolari della loro vita. La gravidanza proseguiva bene. Nessuna nausea mattutina. Nessun problema finanziario, però vivevano alla giornata. L’unico lusso era il telefono che avevano installato per permettere alle sorelle di tenersi in contatto. Tuttavia Rafo e Selva erano coscienti della rete che si stava stringendo attorno a loro. Selva aveva addirittura sentito dei racconti atroci su uomini che venivano fermati dalla polizia, e a cui veniva chiesto di abbassarsi i pantaloni per controllare se fossero circoncisi. Fortunatamente, Rafo non era stato oggetto di quest’umiliazione. Tutti i loro amici li consideravano turchi, dato che tra loro avevano parlato sempre turco. A marzo Selva aveva persino digiunato per il Ramadan, facendo in modo che tutti lo sapessero. Nonostante tutti i loro sforzi, temeva che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Macit sapeva che sua moglie era costantemente preoccupata per la sorella, ma non poteva farci molto. In quei giorni i drammi personali erano una goccia nel mare, paragonati a quelli che doveva affrontare la nazione. Rientrò dopo aver finito la seconda sigaretta. Stava tremando e si diresse nella stanza da letto. Si fermò fuori dalla camera sentendo la moglie che respirava pesantemente; Sabiha era riuscita ad addormentarsi. Si trascinò lentamente in bagno e si cambiò lì, in modo da non disturbarla. Poi si mise nel letto caldo, ma non riuscì a prendere sonno. Tossiva e si girava, fin quando non sentì il telefono squillare. Oh, Dio!, pensò. Probabilmente si sono dimenticati di cancellare la chiamata. Si precipitò fuori dal letto e, senza nemmeno fermarsi per infilare le pantofole, corse nel salone, afferrando il telefono e rispondendo senza fiato. «Pronto?» «Mi scusi, signore. Sapevo che l’avrei svegliata, ma…». «Pronto… pronto… chi parla?» «Sono io… Tarik… Tarik Arica». «Oh, Tarik». Macit fece un respiro profondo. «Che è successo?» «Mi scusi se chiamo a quest’ora. Spero di non aver svegliato il resto della famiglia». «Mi dica, di che si tratta?» «Cattive notizie, temo. Sono di servizio in ufficio e, ecco, mezz’ora fa i tedeschi hanno attaccato Rodi». Macit si accasciò nella poltrona. «Non posso crederci», mormorò. «Temo che sia proprio così. Il segretario generale, il ministro e il capo di stato maggiore si riuniscono tra venti minuti. Il presidente è stato informato». «Capisco», rispose Macit, «arrivo subito. Grazie». Si trascinò di nuovo nella stanza da letto. Sabiha sembrava ancora addormentata. Andò in bagno e si rimise gli stessi vestiti che si era levato poco prima.


Quando Sabiha sentì Macit chiudere la porta, si mise a sedere sul letto e aspettò un po’ al buio. Accese la lampada sul comodino. Le lacrime le cadevano dal volto sulla camicia da notte rosa. Alzò le braccia per pregare. «Ti prego, Dio, proteggi la mia amata Selva. Salva mia sorella da quell’inferno. Ti supplico, Dio». Strinse il volto tra le mani, agitandosi per la disperazione. «Perdonami, sorellina», sussurrò. «Perdonami, Selva».

Istanbul 1933 Selva si stava asciugando i lunghi capelli biondi al sole, pettinandoli con un pettine d’avorio e, contemporaneamente, scuotendoli e spargendo una miriade di goccioline simili a palline di cristallo. Sabiha la guardava con invidia. «Non ti asciugare i capelli qui sopra, mi macchierai il vestito», disse in tono aggressivo. «Stai scherzando? Quando mai si è sentito che l’acqua lasci macchie?» «Ti assicuro che l’acqua macchia la seta». Selva si allontanò dalla finestra e si mise a sedere sul letto con le gambe incrociate, continuando ad asciugarsi i capelli. «Avresti potuto portarmi con te, lo sai!». «Ma non mi andava». «Perché?» «Perché sei troppo giovane, ecco perché. L’anno prossimo, forse». «Ma sono più alta di te». Sabiha guardò arrabbiata la sorella. Stava per risponderle ma, per un po’, si morse le labbra. Sapendo quanto Selva fosse orgogliosa dei suoi capelli lunghi, Sabiha non riuscì a trattenersi. «Sai, penso che sia arrivato il momento che ti tagli i capelli. Presto ci spazzerai il pavimento». «Nostro padre non me li lascerà tagliare». «Stai mentendo. Non ti va e basta. Tutto qua!». «Può essere…». «È così fuori moda, Selva, ti arrivano quasi alle caviglie! Sono difficili da lavare, e anche difficili da asciugare. Sono anni che porti quel nodo sulla testa. Due file di capelli intrecciate in un nodo più alto. Non ne sei stanca, per l’amor del cielo?» «No». «Bene, per me va benissimo, ma se vuoi venire ai ricevimenti con me, devi fare qualcosa a quei capelli. Non posso farti camminare a fianco a me con l’aspetto della regina Vittoria. Spero tu lo capisca». «Certo, Sabiha». Sabiha non fu sorpresa dalla risposta della sorella. Era una di quelle persone che non contraddicevano mai nessuno, ma che, in qualche modo, riuscivano sempre a farsi


strada. Era impossibile litigare con lei, per cui Sabiha cambiò argomento. Mentre provava delle collane davanti allo specchio, chiese alla sorella: «Quale, secondo te?» «Quella!», suggerì Selva. «No, credo sia meglio questa. Questa andrà bene. Puoi aiutarmi a chiuderla, per favore?». Sollevò i capelli e si inginocchiò per lasciare che la sorella l’allacciasse. Selva ammirava la scelta della sorella. «Avevi ragione, è perfetta. Sarai la ragazza più bella di tutto il ricevimento». Sabiha si guardò allo specchio: i tre fili di perle controbilanciavano il vestito di seta verde chiaro. Molto elegante, pensò. Si toccò i capelli. Stava benissimo; sorrise al suo riflesso nello specchio. Subito dopo, sua madre aprì la porta della stanza da letto. «Le tue amiche sono qui, cara. Sbrigati e, per l’amor del cielo, non tornare tardi. Devi essere qui prima di tuo padre o saranno guai!». Sabiha mandò un bacio alla sorella e seguì sua madre fuori dalla stanza. Pochi attimi dopo tornò di corsa, abbracciò Selva, le disse: «Ti prometto che la prossima volta ti porto con me», e corse di nuovo via. Selva ascoltò i loro passi nel salone, si alzò dal letto, raccolse i capelli in delle trecce e si portò davanti allo specchio, sistemando le mollettine. «Non vi perdonerò mai, mio Lord; no, no, mai. Non vi perdonerò mai, Lord Seymour. Mi sono fidata di voi con tutto il mio cuore. E voi ora forse mi lascerete», disse indicando la porta. Sentendo la figlia, la madre ritornò nella stanza da letto. «Che caspita stai facendo, figlia mia?», chiese. «Oh, Madre! Non vi avevo sentita entrare», disse ridendo. «Sto provando il saggio di fine semestre. Faccio la parte di Elisabetta I…». «Chi fa il re?» «Non c’è nessun re, Madre. Quando Enrico VIII morì, scoppiò l’inferno. Questo dramma parla della rivalità tra due donne che si contendono il trono d’Inghilterra. Mualla farà Maria Stuarda e Rafo sarà Lord Seymour. Ovviamente ci sono anche altri ruoli, preti e nobili, eccetera. Per favore, Madre, posso invitare gli attori a prendere un tè la settimana prossima? Vi prego, non ditemi di no». «Puoi invitare solo le ragazze». «Suvvia Madre, come si fa a provare solo tra donne? Chi farà la parte dei ragazzi?» «Povera me! Cosa dovrò fare ancora con tuo padre? Lo sai cosa ne pensa. Sai benissimo cosa ho passato per convincerlo a farti andare alle feste». «Che volete dire? Non mi mandate mai alle feste». «Ma cara, non hai nemmeno ancora compiuto diciott’anni». «Non vi agitate, Madre. Non ho intenzione di andare alle feste, nemmeno quando avrò diciotto anni. Dico che voglio andarci solo per prendere in giro mia sorella». «E perché mai non vorresti andarci?»


«Pensate che non sappia perché le ragazze vanno alle feste? Ci vanno per trovare un marito!». «E questa da dove esce?» «Sento Sabiha parlarne con le amiche. Sembra che tutte cerchino la stessa cosa, hanno tutte una sola cosa in testa». «E cosa c’è di sbagliato, se posso chiedere? È vero, a queste feste vengono invitati uomini papabili e ben istruiti. Parlano tutti diverse lingue e si comportano in maniera impeccabile. Inoltre, queste feste si tengono sempre in casa, dove i loro genitori possono tenere tutto sott’occhio». «Lo so, ed è proprio questo che mi dà fastidio. Le madri organizzano queste feste per poter scegliere il marito adatto alle loro figlie». «E cosa c’è di sbagliato in questo? Che c’è di sbagliato in una madre che vuole un buon matrimonio per la figlia?» «Be’, di sicuro io non lo voglio!». «D’accordo. Io e tuo padre non ti aiuteremo. Puoi affidarti ai metodi di una volta, come ho fatto io. Vediamo come reagirai quando l’organizzatore di matrimoni verrà a bussare alla tua porta!». «Che Dio me ne scampi e liberi: non è affatto quello che intendevo!». «Mi riuscirebbe difficile immaginarti felice». «Giammai. Dovranno passare sul mio cadavere!». «Ne dubito… e quindi dove vuoi andare a parare?» «Non lo so bene. Mi fa solo strano che dei buoni partiti e delle dolci ragazzine vengano ammassati insieme per provare a… oh… lascia stare… non mi so spiegare». «Però forse mi saprai spiegare come farai a trovare il ragazzo adatto a farti da marito. Li vendono al mercato, per caso?» «Quello che so è che mi troverò un marito da sola. Odierei trovare qualcuno attraverso una gara organizzata da delle madri scrupolose». «Ottimo; hai appena parlato come la bambina che sei. Che cosa ne può sapere una della tua età di come si sceglie un marito? Ne ho abbastanza, faresti meglio a continuare le prove». Mentre la madre lasciava la stanza, Selva la chiamò: «Madre, aspettate! E le prove della prossima settimana qui a casa? Mi date il permesso di invitare almeno un ragazzo, uno solo, voglio dire almeno quello che ha il ruolo principale?» «Ebbene, chi sarebbe la star?» «Rafo, Rafael Alfandari». «Alfandari? È il figlio del famoso dottore?» «Il nipote». «Be’, che posso dire? Credo di sì. Credo che tuo padre conosca la sua famiglia. Potrebbe non essere contrario». Leman Hanim lasciò la stanza e Selva continuò a ripassare le sue battute davanti allo specchio.


Più tardi Selva stava studiando, quando sua madre entrò nella stanza in preda all’agitazione. «Selva, sono le cinque e mezzo e tua sorella non è ancora tornata». Appena lo ebbe detto, il cucù emise un suono dall’interno dell’orologio nel corridoio, come faceva ogni mezz’ora. «Appunto», disse Leman Hanim. «Non vi agitate, Madre, sarà qui da un momento all’altro». «Spero solo che torni a casa prima di tuo padre». Selva andò alla finestra e guardò fuori. «Eccola, sta arrivando». Madre e figlia si accalcarono nella finestra a golfo e videro Sabiha correre verso casa, il mantello e il vestito che si gonfiavano per la velocità. «Ferma, non correre che cadi», gridò sua madre, come se Sabiha potesse sentirla. Kalfa, il domestico, aveva già aperto la porta prima che Selva fosse arrivata al piano di sotto. Sabiha era raggiante. Gli occhi le brillavano e il volto era luminoso. Leman Hanim la chiamò dalla balaustra: «Come è andata? Ti sei divertita? C’erano persone interessanti?» «Quello che Madre vuole dire è se c’erano dei buoni partiti». Leman Hanim si arrabbiò per il commento di Selva. «Ne ho abbastanza, Selva, hai già espresso il tuo parere e ora stai diventando noiosa». Selva si rese conto di aver oltrepassato il limite. «Scusate, Madre». Sabiha consegnò il mantello a Kalfa e salì di corsa in camera sua. Si buttò sul letto, portò le mani sotto il mento e si mise a fissare il vuoto, perdutamente innamorata. La madre la seguì nella stanza. «Mio Dio, ti rovinerai quel bel vestito. Non dovresti sdraiarti con quel delizioso vestito di seta. Su, non tenerci sulle spine. Chi c’era? Com’è stata?» «Oh, Madre, è stata meravigliosa. C’era un ragazzo che si chiamava Macit. A quanto pare, è il nipote di Necmiye Hanim. Ha studiato a Parigi ed è entrato al ministero degli Affari esteri. Era fantastico: cioè, molto bello». «E…?» «Be’, è difficile dirlo. Ha danzato con Necla, ma ha passato la maggior parte del tempo a parlare con me. Sembrava molto interessato a me». Selva la interruppe. «Non ti avevo detto che saresti stata la più carina?» «Anche le altre ragazze erano carine, ma ha passato la maggior parte del tempo con me». «E gli altri? Chi altro c’era?» «Fatemi pensare, c’era il fratello di Necla, Burhan, per esempio». «Che mi dici di lui? Che fa?» «Chi?» «Questo Burhan». «Ah! Non lo so proprio. Me l’ha detto ma non me lo ricordo». «Capisco. Sembra che questo Macit ti entusiasmi. Meglio che io m’informi su di lui prima di andare oltre».


«Non c’è nulla di cui informarsi. Ve l’ho detto, Madre». «Faresti meglio a toglierti quel vestito, prima di rovinarlo definitivamente. Tuo padre dovrebbe essere a casa tra poco», disse Leman Hanim uscendo dalla stanza. Selva guardò Sabiha spogliarsi. Non poteva fare a meno di ammirare sua sorella mentre si levava gli abiti, studiandosi allo specchio. «Ti sei innamorata davvero, Sabiha?» «Non credo. Ci si può innamorare in un sol giorno? Però era davvero attraente!». «Ho chiesto a nostra madre il permesso di invitare alcuni compagni di scuola qui la settimana prossima. Perché non inviti anche lui?» «Con tutte quelle ragazze? Stai scherzando? Si annoierebbe a morte». Non le andava di far conoscere Selva e Macit. Dopotutto, era più alta di Sabiha, se non più bella. «Inviterò anche Rafo». «Il ragazzo ebreo?» «Sì, il ragazzo ebreo», disse Selva, facendole il verso. «Non fare la spocchiosa. Ho detto il falso? È ebreo, no?» «Sì, ma è diverso dagli altri. È molto più intelligente, è ben istruito ed è molto maturo…». «Non c’è bisogno che continui. Risparmia il fiato. Qualunque cosa sia, è una situazione impossibile». «Impossibile? Si può essere amici solo puntando al matrimonio? È così?» «La vita è troppo breve, Selva. Quante volte nostro padre ci ha parlato del valore del tempo? Il tempo non va sprecato». «Se la vita è così breve, non è più sensato fare quello che ci sentiamo di fare? Vivere come si vuole?» «Questo vuol dire che è Rafo quello che vuoi?». Selva non rispose. «Rafo…», proseguì Sabiha. «Di sicuro è un gentiluomo, non lo nego. D’altra parte, se rimanete solo amici, perché no?» «Se è un gentiluomo, perché non lo si dovrebbe sposare?» «Non essere sciocca: lo sai che è impossibile». «Perché? Non abbiamo fondato la repubblica turca proprio per sbarazzarci di questi ridicoli pregiudizi?» «Fermati, Selva. L’abbiamo fondata io e te la repubblica? Smettila con questa storia del “noi”! Inoltre, coloro che hanno fondato la repubblica non avevano in mente il matrimonio tra ragazze turche e non-musulmani, poco ma sicuro. Comunque, questa è una tipica discussione alla Selva. Non so perché continui con queste idee strampalate. Ti stai di nuovo comportando coma una bambina, tutto qua». Selva decise di non proseguire la discussione e i pensieri di Sabiha partirono per la tangente. Se sua sorella fosse stata occupata con quel Rafo, si sarebbe evitata la loro rivalità per Macit. Perché gli uomini erano sempre attratti da ragazze come Selva, che


non si curavano di essere attraenti, di vestirsi bene o addirittura di flirtare? Per quanto ne sapeva, le uniche cose che salvavano Selva erano i capelli lunghi e il collo da cigno. Era educata e sincera, e alcuni ragazzi le trovavano qualità affascinanti. L’acqua cheta, pensò. Sabiha ebbe una fitta di invidia. Era stata la nonna paterna la prima ad averle piantato il seme dell’invidia nel cuore: sempre con quella storia dell’altezza. Sabiha si ricordava ancora di come la nonna le misurasse contro la porta della stanza da letto quasi ogni giorno e di quante arie si era data quando Selva, di due anni più giovane di Sabiha, aveva raggiunto la sua stessa altezza. Credeva che lei e Sabiha, con quegli occhi verde perla, fossero state tagliate dalla stessa stoffa e desiderava moltissimo che sua nipote fosse alta e slanciata. Quando segnava la loro altezza con una matita, rimproverava Sabiha: «Non stai bevendo abbastanza latte. Guarda Selva: si fa sempre più alta. Rimarrai nana se non farai attenzione». Sabiha sentì addirittura sua nonna sgridare Leman Hanim mentre sua madre tentava di cancellare i segni della matita dalla porta con acqua e sapone. Ascoltò di nascosto sua madre dire: «Per favore, smettetela. State sottoponendo Sabiha a una pressione inutile». «Lo faccio apposta, per incoraggiarla ad assumere più latticini». «Madre cara, non è così semplice. I geni sono geni. Selva li ha presi da mio nonno, Sabiha no. È molto semplice e ci si può fare ben poco». «Oh, Dio! Oh, Signore! Come puoi dire una cosa del genere? Vuoi che tua figlia rimanga una nana?» «Non è affatto una nana, è piuttosto normale per la sua età. È l’altra che è una spilungona». «L’altezza è una cosa meravigliosa. Sta bene sia agli uomini che alle donne. Io l’adoro». «Non credo stia bene alle donne. Le donne dovrebbero essere piccoline. Dopotutto, non si dice che nelle botti piccole c’è il vino buono?». Sabiha non era abbastanza grande per apprezzare la saggezza del proverbio e se ne tornò in camera sua. Lei era la figlia bella di suo padre mentre Selva era quella intelligente. Per quanto Fazil Resat cercasse di celare questa debolezza alla figlia minore, non riusciva a nasconderlo. La sua ammirazione era chiara a chiunque avesse visto il suo sguardo pieno di affetto. Non era colpito dai bellissimi occhi verdi di Sabiha, incorniciati nelle ciglia lunghissime, proprio come quelle della madre. Sabiha sapeva fin troppo bene che suo padre era molto più impressionato dal cervello che dalla bellezza. Ci si era abituata, ma ora ci si metteva pure la questione dell’altezza. Le botti piccole, come no! Lei era quello che era, una botte piccola. Aveva il viso più bello, ma non contava. Era comunque bassina se paragonata alla sorella, un intero palmo più bassa, una botte piccola. Sabiha affondò la faccia nel cuscino e si mise a piangere.


Selva era seduta in modo innocente, in ammirazione della sorella, ignara della coscienza sporca di Sabiha, che si stava organizzando per evitare una potenziale rivale. «Rafo è senza dubbio un gentiluomo», disse Sabiha, «e oltretutto è molto bello. Non credo che ci sarebbe qualcosa di male nel flirtare un po’». «Dici davvero?» «Sì, perché no? Perché non lo inviti al ballo della scuola?» «Stai scherzando? Non lo permetterebbero mai». «Vengo io con te». Selva si gettò tra le braccia della sorella e per poco non la soffocò di baci. «Non mi ero resa conto di quanto pensassi a Rafo. Perché non mi hai detto nulla prima?» «Be’, l’ho fatto ora, ecco qua». Selva guardava la sorella con i suoi occhioni castani. Perché quell’improvviso ripensamento?, pensò. Anche Sabiha stava pensando. Come avrebbe reagito Macit sapendo che sua sorella minore usciva con un ebreo? Gli avrebbe dato fastidio? Per qualche motivo, credeva di no. Dopotutto, un ragazzo che ha studiato in Francia doveva essere di vedute più ampie. Che importanza poteva mai avere per lui se sua sorella flirtava con un ragazzo di un’altra religione? Meglio con lui che con nessuno. Ma poi, in quel caso, Macit sarebbe potuto essere interessato a Selva, visto che era più alta, con gli occhi da cerbiatta e dalle idee coraggiose. «Su, invitiamoli entrambi per un tè. Tu ti concentri su Rafo e io mi prenderò cura di Macit». Selva batté le mani con gioia. Una settimana più tardi si stavano godendo tutti un ricevimento. I compagni di classe di Selva provarono la recita, e poi misero su il grammofono per ballare il foxtrot sulle note dei loro 78 giri. Il giorno dopo, Leman Hanim non riuscì a evitare di chiedere alla figlia maggiore notizie di Rafo. «Hai visto come Selva continuava a guardare quel ragazzo ebreo? Quasi lo divorava con gli occhi ogni volta che apriva bocca». «È un ragazzo educato. Per quanto ne so, è molto più galante di questi ragazzi turchi pieni di sé». «Gli Alfandari sono una famiglia antica e affermata. Discendono da rispettati medici di corte. Hanno savoir faire, ma, allo stesso tempo, la nostra ragazza è… be’, lo sai com’è. È imprevedibile e testarda. Fa di testa sua». «Sì, Madre, ma Rafael non oserebbe andare oltre con Selva. Per favore, non vi preoccupate. E poi non dimenticatevi che ci sono io e, se noto qualcosa di sconveniente, ve lo dirò».


La promessa di Sabiha tranquillizzò un po’ Leman Hanim. Dopo quel primo tè, lo stesso gruppetto andò a diversi concerti e picnic e, ogni volta, Leman Hanim mandava Kalfa a fare la guardia. Sabiha e Macit si fidanzarono subito ufficialmente ma, come voleva la tradizione, Leman Hanim insistette affinché Selva accompagnasse la coppia ovunque andasse. Sabiha volse la cosa a proprio vantaggio. I tre uscivano di casa assieme e si dirigevano verso un punto prestabilito, dove li attendeva Rafo. Da lì, le due coppie prendevano ognuna la propria strada, finché non si faceva ora di tornare a casa. Quando Sabiha si rese conto di quanto tutto ciò fosse sbagliato, era già troppo tardi. Diciotto mesi più tardi Sabiha e Macit si sposarono. Dopo una cerimonia splendida, si trasferirono ad Ankara, in modo che Macit potesse iniziare il lavoro al ministero degli Esteri. Selva si iscrisse all’università per studiare letteratura, mentre Rafo decise di seguire le orme della famiglia e studiare farmacia. Spesso Rafo andava a prendere Selva dopo le lezioni o, se aveva il tempo, seguiva addirittura i corsi con lei, giusto per poterle stare vicino. Ad alcuni degli altri studenti la cosa non andava a genio e, a volte, facevano a botte con lui perché osava corteggiare una ragazza musulmana. Uno di questi protestò con Selva: «Non riesci a trovartene uno della nostra religione in tutta Istanbul?». Un altro studente che veniva dall’Est le disse: «Dalle mie parti, ti avremmo sparato per questo!». «Vai veramente fiero di questi pensieri da troglodita?», gli chiese Selva. «In che modo sparare a una persona si accorda con l’essere musulmani, mi chiedo». Ci fu un’escalation di soprusi e molestie nei loro confronti fino al momento in cui, dopo due anni di studi, Rafo dovette lasciare l’università. Selva era a pezzi: Rafo doveva abbandonare l’università a causa sua. Cominciò a saltare le lezioni e, alla fine dell’anno, anche lei interruppe gli studi. Le fu molto difficile spiegarlo a suo padre. I pettegolezzi sull’amore tra il figlio degli Alfandari e la figlia minore di Fazil Resat Pasa arrivarono piano piano anche alla famiglia. Quando giunsero alle orecchie di Leman Hanim, questa si attivò perché non arrivassero anche al marito. A Rafo fu proibito presentarsi a casa e Selva non aveva più il permesso di uscire da sola. Passava il tempo suonando il pianoforte, leggendo libri e scrivendo lettere a sua sorella ad Ankara. Le uniche persone che vedeva erano amici di famiglia e parenti. Fazil Resat Pasa non era molto contento dell’atteggiamento severo che la moglie aveva nei confronti della figlia. Pensava che Leman Hanim stesse mettendo troppo impegno nel cercare di controllare Selva, ora che Sabiha viveva lontano da casa. Suggerì che Selva fosse mandata a vivere da Sabiha con il pretesto di aiutarla con la bambina. A Leman Hanim l’idea piacque e sperava che la figlia minore potesse incontrare un buon partito. Poiché aveva ricevuto parecchie lettere da parte della madre su quest’argomento, Sabiha si diede da fare per presentare a Selva quanti più dei loro amici possibile. Organizzava feste a casa e portava Selva con sé ovunque fossero invitati. Tramite Macit, le presentò ogni scapolo papabile dell’ufficio degli esteri. Selva si prese una


cotta per molti di quei giovani, ma nessuno le interessava davvero. Li lasciò tutti ad Ankara e se ne tornò a casa. Poi Leman Hanim spinse affinché Selva passasse un po’ di tempo con lo zio a Cipro. La povera donna sperava che, se la figlia se ne fosse andata, la fiamma si sarebbe spenta, mettendo fine ai pettegolezzi. Ma tutti i suoi sforzi disperati non portarono a niente. Selva mantenne viva la fiamma attraverso scambi di lettere con Rafo, dovunque si trovasse. Fu inevitabile che il padre ne venisse a conoscenza e, quando accadde, andò su tutte le furie. Il Pasa si confrontò con la figlia. «È vero quello che sento? Ti prego, dimmi che sono false accuse messe in giro da persone stupide. Dimmi che si tratta solo di pettegolezzi maliziosi», disse. «Magari potessi, Padre, ma io amo Rafael Alfandari con tutto il cuore e se voi me lo permetteste, lo sposerei». «Mai! Dovrai passare sul mio cadavere! Ti aspetti che io permetta una cosa del genere? Così facendo distruggeremmo tutti i valori della nostra famiglia e diventeremmo degli zimbelli. È così che mi ripaghi per essermi preso tanta cura di te e per averti mandata nelle scuole straniere?» «Credevo che la mia istruzione servisse a espandere i miei orizzonti, che voi voleste che io fossi una persona giusta, Padre». «Ho fatto studiare te e tua sorella sperando che un giorno vi presentaste con dei nipotini, non perché vi ribellaste contro di me». «Ribellarmi contro di voi è l’ultimo dei miei pensieri, Padre; tutto ciò che chiedo è di poter scegliere da me il mio compagno di vita. Non vi sto chiedendo di accettare una persona immorale e priva di valore come genero. L’unica cosa che gli si può obiettare è che non è musulmano. Non ci avete forse detto innumerevoli volte che le persone dovrebbero essere libere di credere esattamente in quello che vogliono e che ogni religione è sacra?». La gravità della situazione portò con sé una collera che non si confaceva al tipo di gentiluomo che era Fazil Resat Pasa. Riuscì a controllare le proprie azioni nei confronti della figlia ma, appena ebbe finito con lei, ruppe quasi tutti i vasi di cristallo e tutti gli specchi della stanza. A Sabiha fu chiesto di tornare a casa da Ankara per cercare di calmare il padre e convincere Selva a lasciar perdere la sua ossessione. Sia lei che Leman Hanim passarono giorni cercando ininterrottamente di riportare Selva alla ragione. Leman Hanim era fuori di sé. Non dormiva la notte e passava ore camminando da una stanza all’altra strappandosi i capelli. Come siamo arrivati a questo? Perché diamine ho lasciato che quel serpente si intrufolasse in casa mia? Perché non me ne sono accorta? Vedendo la disperazione della madre, Sabiha si sentiva molto in colpa, ma non aveva la forza di dirle la verità. Se solo fosse stata capace di dire “non è colpa vostra,


Madre, sono stata io, sono io che ho usato Rafo per non farmi intralciare da Selvaâ€?. Solo queste poche parole le avrebbero ripulito un po’ la coscienza. Avrebbe voluto essere cattolica. Se lo fosse stata, si sarebbe trattato giusto di un problema di confessione, e di accettare qualsiasi pena accordata dal prete. Almeno si sarebbe levata quel peso. Quando comprese che Selva era una causa persa, Sabiha rivolse la sua attenzione al padre. Questi credeva che Sabiha avesse fatto una buona scelta e avesse trovato un buon marito, ma lei non riusciva a gioire nemmeno di questo, sapendo come ci era arrivata. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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