La casa per bambini speciali di miss peregrine (best bur)

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Quali mostri popolano gli incubi di Abraham, il nonno di Jacob, unico sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia di ebrei polacchi? Sono la trasfigurazione della ferocia nazista o piuttosto qualcos’altro, qualcosa di vivo, presente e ancora mortalmente pericoloso? Quando una tragedia impossibile lo colpisce, Jacob sa che non può più rimandare: deve scoprire cos’è successo a suo nonno e, soprattutto, cosa ha visto, o crede di aver visto, con i suoi stessi occhi. Non gli resta che attraversare l’oceano e trovare l’inaccessibile orfanotrofio inglese che durante la guerra ospitò Abraham e altri piccoli orfani ebrei. Ma per raggiungere quel luogo avvolto nella leggenda non ha molti indizi, a parte i vecchi racconti del nonno e una sparuta collezione di bizzarri fotomontaggi d’epoca. RANSOM RIGGS è autore di cortometraggi, blogger, scrittore di viaggi e collezionista di fotografie d’epoca. Vive a Los Angeles e questo è il suo primo romanzo, di cui arriverà presto il seguito.


Proprietà letteraria riservata Š 2011 by Ransom Riggs First published in English by Quirk Books, Philadelphia, Pennsylvania


Published by agreement with Trentin e Zantedeschi Literary Agency © 2011 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-63825-5 Titolo originale dell’opera: Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children

Art Director: Francesca Leoneschi Progetto grafico: Andrea Cavallini / theWorldofDOT Prima edizione digitale 2012 da Prima edizione BUR ottobre 2012 In copertina: fotografia di copertina per gentile concessione di Yefim Tovbis Art Director: Francesca Leoneschi Progetto grafico: Andrea Cavallini / theWorldofDOT

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NON C’È SONNO, NON C’È MORTE; CHI SEMBRA MORIRE VIVE. CASA IN CUI NASCESTI, AMICI DELLA TUA PRIMAVERA


UOMO ANZIANO E GIOVANE FANCIULLA, IL LAVORIO DEI GIORNI E LA SUA RICOMPENSA, STANNO TUTTI SVANENDO, INVOLANDOSI TRA FAVOLE, NON SI PUÒ ORMEGGIARLI. RALPH WALDO EMERSON (Illusioni, in La condotta di vita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008)

PROLOGO Mi ero appena rassegnato a un’esistenza noiosa, quando iniziarono a succedere cose straordinarie. La prima fu davvero traumatica. E come tutto ciò che ti cambia per sempre, spaccò la mia vita in due metà: il Prima e il Dopo. Anche questo, al pari di molti altri eventi incredibili che sarebbero accaduti in seguito, aveva a che fare con mio nonno, Abraham Portman. Fin da bambino, il nonno era per me la persona più affascinante al mondo. Era cresciuto in un orfanotrofio, aveva combattuto in guerra, aveva attraversato gli oceani in piroscafo e i deserti a cavallo, si era esibito in un circo, sapeva tutto sulle armi da fuoco, l’autodifesa e la sopravvivenza in condizioni estreme. Parlava almeno tre lingue oltre l’inglese. Tutto ciò appariva insondabilmente esotico a un ragazzino mai uscito dalla Florida, e ogni volta che lo vedevo lo scongiuravo di raccontarmi una storia. Lui mi accontentava sempre, dandomi l’illusione che quelle storie fossero segreti riservati esclusivamente a me. A sei anni decisi: se volevo una vita emozionante anche solo la metà di quella del nonno, dovevo per forza diventare un esploratore. Il nonno mi dava corda. Passavamo pomeriggi chini sulle carte geografiche, pianificando spedizioni immaginarie con lunghe file di puntine da disegno rosse, mentre lui mi narrava delle terre fantastiche che un giorno avrei scoperto. Quando tornavo a casa, mi aggiravo con un tubo di cartone appoggiato sull’occhio, gridando «Terra!» e «Prepariamoci allo sbarco!» finché mamma e papà mi spedivano a giocare fuori. Temevano, credo, che il nonno mi infettasse con qualche incurabile fantasticheria da cui non mi sarei più ripreso; che quelle illusioni, in qualche modo, potessero vaccinarmi contro ambizioni più pragmatiche. Così, un giorno, mia madre


mi fece sedere e mi spiegò che non potevo diventare un esploratore perché al mondo tutto era già stato scoperto. Ero nato nel secolo sbagliato, e mi sentii tradito. Mi sentii ancor più tradito quando capii che le storie migliori del nonno non potevano essere vere. Quelle più assurde riguardavano la sua infanzia: per esempio, diceva di essere nato in Polonia e che a dodici anni l’avevano spedito in un orfanotrofio su un’isoletta al largo del Galles. Se gli chiedevo per quale ragione avesse dovuto lasciare i genitori, la risposta era sempre la stessa. I mostri, diceva, gli davano la caccia. All’epoca la Polonia pullulava di mostri, a sentir lui. «Che tipo di mostri?» chiedevo io, sgranando gli occhi. La conversazione si ripeteva sempre uguale. «Mostri terribili, con la gobba, la pelle rugosa e gli occhi neri» rispondeva. «Camminavano così!» E mi inseguiva imitando l’andatura degli zombi dei vecchi film, mentre io scappavo via ridendo. Ogni volta aggiungeva qualche nuovo dettaglio disgustoso: i mostri puzzavano come liquami di fogna; di loro si vedeva soltanto l’ombra; in bocca avevano un mucchio di tentacoli viscidi e li sputavano fuori all’improvviso per risucchiarti tra le zanne affilate. Dopo un po’ cominciai a soffrire d’insonnia: la mia vivace immaginazione trasformava lo stridio degli pneumatici sull’asfalto bagnato in rantoli rauchi proprio fuori dalla mia finestra o le ombre sotto la porta in tentacoli ritorti e grigiastri. Avevo paura dei mostri, però era bellissimo immaginare il nonno che li combatteva e ne usciva vincitore. Ancor meno credibili erano i racconti sull’orfanotrofio. Era un posto incantato, diceva il nonno, pensato per tenere i bambini al sicuro, su un’isola dove ogni giorno splendeva il sole e nessuno si ammalava o moriva mai. Vivevano tutti insieme in una grande casa, protetta da un vecchio uccello saggio… o almeno così sosteneva lui. Con il tempo, inevitabilmente, iniziai a nutrire qualche dubbio. «Che tipo di uccello?» gli domandai un pomeriggio – avevo sette anni – fissandolo con aria scettica dall’altra parte del tavolino su cui mi stava lasciando vincere a Monopoli. «Un grande falco che fumava la pipa.» «Tu mi prendi per scemo, nonno.»


Sfogliò il suo misero mazzetto di banconote arancioni e azzurre. «Non penserei mai questo di te, Yakob.» Sapevo di averlo offeso, perché nella sua voce era riaffiorato l’accento polacco che non era mai riuscito a eliminare del tutto, sicché aveva detto penzerei e qvesto. Mi sentivo in colpa, e decisi di concedergli il beneficio del dubbio. «E perché i mostri volevano farvi del male?» gli chiesi. «Perché non eravamo come le altre persone. Noi eravamo Speciali.» «Speciali in che senso?» «Oh, in tanti sensi. Una bambina sapeva volare. Un ragazzino aveva uno sciame di api nella pancia. E altri due, fratello e sorella, erano in grado di sollevare pesi immani fin sopra la testa.» Era difficile credere che potesse dire sul serio, d’altra parte il nonno non era tipo da barzellette. Mi lesse in faccia il dubbio e corrugò la fronte. «Va bene, non devi credermi sulla parola» continuò. «Ho le fotografie.» Spinse indietro la sedia da giardino ed entrò in casa, lasciandomi solo sulla veranda. Un attimo dopo tornò con una vecchia scatola da sigari. Mi sporsi a guardare mentre tirava fuori quattro fotografie ingiallite e spiegazzate. La prima immagine era sfocata: sembrava un abito senza nessuno dentro. Oppure una persona senza testa. «Ce l’ha sì, la testa.» Il nonno sorrise. «Però non la vedi.» «Perché no? È invisibile?» «Ehi, ma che bel cervello abbiamo qui!» Inarcò le sopracciglia, come se l’avessi colpito con le mie abilità deduttive. «Millard, si chiamava, uno strano ragazzino. A volte se ne usciva con un: “Ehi, Abe, so cos’hai fatto oggi”, e ti raccontava per filo e per segno dov’eri stato, cosa avevi mangiato, se ti eri messo le dita nel naso pensando che nessuno ti vedesse. Ti seguiva, silenzioso come un topo, senza vestiti addosso, così non lo vedevi... Ti guardava e basta!» Scosse il capo. «Pensa un po’, eh?» Mi porse un’altra foto, mi lasciò un momento per esaminarla, poi chiese: «Allora? Cosa vedi?». «Una bambina?»


«E...?» «Ha una corona in testa.» Picchiettò col dito sul bordo inferiore. «Non noti niente qui sotto?» Guardai meglio. I piedi non toccavano terra. Ma la bambina non stava saltando: pareva galleggiare a mezz’aria. Restai a bocca aperta. «Vola!» «Quasi» disse il nonno. «Sta levitando. Non sempre riusciva a controllarsi. Figurati che ogni tanto dovevamo legarla con una fune per evitare che prendesse il largo!» Non riuscivo a staccare gli occhi da quel viso da bambola. Era inquietante. «È vera?» «Certo!» sbottò lui, riprendendo la foto e porgendomene un’altra: un ragazzo mingherlino che sollevava un masso. «Victor e sua sorella non erano molto svegli, ma accidenti se erano forti!» «Dall’aspetto non si direbbe» ribattei io, osservando le braccia smilze del ragazzo. «Be’, una volta ho sfidato Victor a braccio di ferro e mi ha quasi strappato la mano!» La foto più strana era l’ultima. Raffigurava la nuca di un uomo con una faccia dipinta sopra. Continuai a fissarla, mentre il nonno spiegava: «Aveva due bocche, vedi? Una davanti e una dietro. Ecco perché era tanto grasso!». «Ma è finta! La faccia è solo disegnata.»





«Certo, la pittura è finta. Era per il circo. Giuro! Aveva due bocche. Non mi credi?»


Ci riflettei, studiai le foto e poi lui, il suo volto schietto e sincero. Perché mai avrebbe dovuto mentirmi? «Sì, ti credo.» E gli credetti sul serio, almeno per qualche tempo. Perché volevo credergli, come gli altri bambini della mia età volevano credere a Babbo Natale. Ci aggrappiamo alle favole finché il prezzo da pagare per le nostre illusioni diventa troppo alto, e per me lo diventò un giorno in seconda elementare, quando Robbie Jensen mi tirò giù i pantaloni in mensa davanti a una tavolata di bambine, annunciando che credevo nelle fate. Me l’ero cercata, raccontando ai compagni quelle strane storie. In pochi, umilianti secondi ebbi la certezza che il soprannome «ragazzo delle fate» mi avrebbe perseguitato per anni e, forse ingiustamente, diedi la colpa proprio al nonno. Quel pomeriggio venne a prendermi a scuola. Lo faceva spesso quando i miei genitori erano al lavoro. Montai sul sedile del passeggero della sua vecchia Pontiac e sentenziai che le sue favole non mi interessavano più. «Quali favole?» domandò, scrutandomi serio da sopra gli occhiali. «Lo sai. Le storie. Quelle sui bambini e i mostri.» Sembrò confuso. «Chi ha mai parlato di favole?» Una storia inventata equivaleva a una favola, gli dissi, e le favole erano roba da mocciosi. E sapevo, aggiunsi, che anche le foto erano false. Immaginavo si sarebbe arrabbiato invece si limitò a un: «Va bene», e ingranò la marcia. Con un colpo del piede sull’acceleratore ci allontanammo dal cancello. E tutto finì lì. Doveva aspettarselo: crescendo, prima o poi avrei smesso di crederci. Ma lasciò cadere l’argomento troppo in fretta e a quel punto ebbi la certezza che mi aveva mentito. Non capivo perché si fosse inventato tutte quelle assurdità. Me lo spiegò mio padre qualche anno dopo: il nonno aveva raccontato anche a lui alcune di quelle storie, e non erano proprio bugie, ma versioni esagerate della verità, perché la storia della sua infanzia non era affatto una favola. Era un racconto dell’orrore. Il nonno era stato l’unico della sua famiglia a lasciare la Polonia prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Aveva dodici anni quando i genitori lo affidarono a dei perfetti sconosciuti: caricarono il figlio minore su un treno diretto in Gran Bretagna, con un’unica valigia e i vestiti che aveva indosso. Era un biglietto di


sola andata. Non rivide più sua madre e suo padre, i fratelli, i cugini, le zie e gli zii. Prima che compisse sedici anni erano già tutti morti, uccisi dai mostri a cui lui era sfuggito per un soffio. Però quelli non erano i mostri che può immaginare un bambino di sette anni, con i tentacoli e la carne putrefatta: avevano un volto umano, uniformi inamidate e la croce uncinata sul petto. Mostri così ordinari che non capisci cosa sono davvero finché non è troppo tardi. Anche quella dell’isola incantata era una mezza verità. In confronto agli orrori dell’Europa continentale, l’orfanotrofio in cui il nonno era finito doveva sembrargli un paradiso, quindi nelle sue storie lo era diventato: un porto sicuro, fatto di estati eterne, angeli custodi e bambini magici, che non sapevano davverovolare o rendersi invisibili o sollevare pesi immani. Erano «speciali», e perseguitati, semplicemente perché ebrei. Erano orfani di guerra, approdati su quell’isoletta cavalcando un’onda di sangue. Erano straordinari non perché avessero poteri miracolosi: il loro unico miracolo era essere riusciti a sfuggire al ghetto e alle camere a gas. Non chiesi più al nonno di raccontarmi le sue storie e forse per lui fu un sollievo. I ricordi della sua infanzia scomparvero in una nube di mistero, nella quale io non volli ficcare il naso. Aveva passato le pene dell’inferno, quindi aveva diritto ai suoi segreti. Mi vergognavo di averlo invidiato, visto il prezzo che aveva dovuto pagare, e mi sforzavo di sentirmi grato per la mia vita sicura e mediocre, che non avevo fatto nulla per meritare. Poi, quando avevo quindici anni, accadde una cosa straordinaria e terribile. Da lì in avanti ci fu solo il Prima e il Dopo.

CAPITOLO UNO Trascorsi l’ultimo pomeriggio del Prima a costruire una replica dell’Empire State Building in scala 1:10.000 con scatole di pannoloni per anziani. Era una vera bellezza, larga un metro e mezzo alla base e più alta degli scaffali del reparto profumeria: pannoloni misura extralarge per le fondamenta, taglia mini per il ponte d’osservazione, e campioncini meticolosamente impilati a formare l’inconfondibile pinnacolo. Era quasi perfetta, tranne per un dettaglio cruciale. «Hai usato i Mai più Gocce» disse Shelley, scrutando scettica la mia opera d’artigianato. «Quelli in offerta sono i Sempre Asciutti.» Shelley era la direttrice del


negozio: le spalle spioventi e l’espressione severa facevano parte dell’uniforme non meno della polo blu d’ordinanza. «Avevi detto Mai più Gocce» ribattei, perché era vero. «Sempre Asciutti» ribadì lei, scuotendo la testa con rammarico, come se il mio grattacielo fosse un cavallo da corsa azzoppato e lei brandisse la pistola con il calcio di madreperla. Ci fu un silenzio breve ma carico d’imbarazzo, durante il quale Shelley continuò a scrollare il capo, saettando lo sguardo da me alla torre e viceversa. Io la fissavo con occhi spenti, fingendo di non aver colto il messaggio. «Ooohhhh!» esclamai infine. «Allora devo rifarla da capo?» «Be’...» «Non c’è problema, ricomincio subito.» Con la punta della scarpa da ginnastica nera assestai un colpetto a una delle scatole delle fondamenta. In un attimo l’imponente struttura si abbatté a terra alzando un’ondata montante di pannoloni, le confezioni rimbalzarono sulle gambe degli sbigottiti clienti e rotolarono fino alla porta automatica, che si aprì lasciando entrare una vampata dell’afa d’agosto. Le guance di Shelley assunsero il colore del melograno maturo. Avrebbe dovuto licenziarmi in tronco, ma non potevo aspettarmi una fortuna simile. Era tutta l’estate che cercavo di farmi cacciare da Smart Aid, e l’impresa si era dimostrata impossibile. Arrivavo sempre in ritardo accampando le scuse meno credibili; sbagliavo di proposito nel dare il resto; sistemavo la merce sullo scaffale sbagliato, il tonico accanto ai lassativi e gli anticoncezionali insieme allo shampoo per bambini. Di raro mi ero impegnato così a fondo in qualcosa, eppure, per quanta incompetenza ostentassi, Shelley si ostinava a tenermi sul libro paga. Ebbene sì. Era impossibile per me essere licenziato da Smart Aid. Qualsiasi altro dipendente si sarebbe ritrovato fuori dalla porta per molto meno. Fu la mia prima lezione di politica. Ci sono tre punti vendita Smart Aid a Englewood, la sonnolenta cittadina di mare in cui vivo. Ce ne sono ventisette nella contea di Sarasota e centoquindici in tutta la Florida, disseminati come pustole di un eczema incurabile. Io ero «illicenziabile» perché i miei zii possedevano tutti quei negozi. E non potevo andarmene perché lavorare da Smart Aid come primo impiego rappresentava una consolidata tradizione di famiglia. La mia campagna di autosabotaggio mi aveva


fruttato solo la disapprovazione di Shelley e il risentimento profondo e duraturo dei colleghi. I quali, per la verità, si sarebbero risentiti in ogni caso. Perché non importava quante pile di barattoli abbattessi, o a quanti clienti dessi il resto sbagliato: un giorno io avrei ereditato una bella fetta dell’azienda, loro no.

Shelley guardò la distesa di pannoloni e mi piantò un dito sul petto. Stava per dirmi qualcosa di spiacevole quando l’altoparlante la interruppe. «Jacob, al telefono sulla linea due. Jacob, linea due.» Ancora paonazza, restò a fissarmi con astio mentre me ne andavo, lasciandola tra le rovine della mia torre.

La sala dei dipendenti era una stanza umida e senza finestre. Lì trovai l’assistente del reparto farmacia, Linda, che sbocconcellava un tramezzino illuminata dal riflesso del distributore di bibite. Accennò col capo al telefono appeso al muro. «Linea due. Non so chi sia, ma sembra abbia visto il diavolo in persona.» Afferrai la cornetta che penzolava dal filo. «Yakob? Sei tu?» «Ciao, nonno.» «Yakob, grazie a Dio! Mi serve la chiave. Dov’è la chiave?» Pareva sconvolto, aveva il fiatone. «Quale chiave?» «Non è il momento di scherzare. Lo sai, quale chiave.» «L’avrai lasciata da qualche parte.» «Ti ha convinto tuo padre a fare così? Dimmelo, forza! Lui non lo verrà a sapere!» «Nessuno mi ha convinto a fare alcunché.» Cercai di cambiare argomento. «Hai preso le pillole stamattina?»


«Stanno venendo a prendermi, Yakob, capisci? Chissà come diavolo hanno fatto a trovarmi, dopo tutti questi anni. Con cosa dovrei difendermi, secondo te? Con un accidenti di coltello per il burro?» Non era la prima volta che lo sentivo parlare così. Mio nonno stava invecchiando, e per essere sinceri cominciava a non starci più molto con la testa. I primi segnali erano stati lievi: dimenticava di fare la spesa o chiamava mia madre col nome di mia zia. Ma nel corso dell’estate la situazione si era aggravata vistosamente. Le storie fantasiose che aveva inventato sugli anni della guerra – i mostri, l’isola incantata – per lui erano diventate orribilmente reali. Nelle ultime settimane era particolarmente irrequieto e i miei genitori, temendo che potesse diventare un pericolo per se stesso, stavano prendendo in considerazione di rinchiuderlo in una casa di riposo. Chissà perché, io ero l’unico destinatario delle sue telefonate apocalittiche. Feci del mio meglio per calmarlo. «Sei al sicuro. Va tutto bene. Tra un po’ ti porto un film da vedere, okay?» «No! Resta dove sei! Qui non è sicuro!» «Nonno, i mostri non possono venire a prenderti. Li hai uccisi tutti durante la guerra, ricordi?» Mi voltai verso il muro cercando di non farmi sentire da Linda, che mi scoccava sguardi curiosi mentre fingeva di leggere una rivista di moda. «Non tutti» ribatté lui. «No, no, no. Ne ho ammazzati tanti, sì, ma ce ne sono sempre di nuovi.» Lo sentivo girare per casa, aprire cassetti, sbattere sportelli. Era in piena crisi. «Tu sta’ lontano da qui, capito? Me la caverò... Gli taglio la lingua e gli pianto il coltello in mezzo agli occhi, è così che bisogna fare! Se solo trovassi quella maledetta CHIAVE!» La chiave in questione apriva un gigantesco armadio nel garage del nonno. Dentro c’era una scorta di fucili e coltelli sufficiente per equipaggiare una piccola milizia. Aveva passato metà della vita a collezionarli; visitava fiere di armi negli Stati confinanti, partiva per lunghe battute di caccia e nelle domeniche di sole ci trascinava tutti al poligono di tiro per insegnarci a sparare. Amava talmente tanto quegli aggeggi che a volte se li portava a letto.


Mio padre conservava una vecchia foto in cui il nonno dormiva con la pistola in mano.


Quando avevo chiesto a papà perché fosse così fissato con le armi da fuoco, mi aveva risposto che era un problema tipico dei veterani di guerra e di chi subisce un trauma. Dopo tutto ciò che aveva passato, non si sentiva più al sicuro da nessuna parte, neppure a casa propria. Ora le illusioni e la paranoia iniziavano ad avere la meglio su di lui, e paradossalmente i suoi timori si avveravano: non era più al sicuro in casa sua, non con quell’arsenale a portata di mano. Per questo mio padre aveva fatto sparire la chiave. Ripetei la bugia: non sapevo dove fosse la chiave. Udii altre imprecazioni e altri tonfi. Il nonno la stava ancora cercando. «Bah!» esclamò alla fine. «Che la tenga pure. Lasciagli anche il mio cadavere!» Posi fine alla telefonata, poi chiamai papà. «Il nonno dà fuori di matto.» «Ha preso le medicine?» «Non vuole dirmelo. A sentirlo giurerei di no.» Papà sospirò. «Perché non passi da lui per controllare se sta bene? Io non posso uscire, adesso.» Mio padre era volontario part-time al rifugio per uccelli, dove aiutava a riabilitare aironi investiti dalle macchine e pellicani che avevano inghiottito ami da pesca. Era un ornitologo dilettante e un aspirante naturalista, con una pila di manoscritti a dimostrarlo. Solo se hai la fortuna di essere sposato con l’erede di centoquindici drugstore puoi permetterti lavori del genere. Ovviamente neppure il mio era un lavoro con tutti i crismi, quindi potevo uscire quando mi pareva. Ci sarei andato, gli dissi. «Grazie, Jake. Sistemeremo presto questa faccenda del nonno.» Questa faccenda del nonno. «Cioè lo metterete in un ospizio» ribattei. «Così diventerà il problema di qualcun altro.» «Io e la mamma non abbiamo ancora deciso.» «Invece avete deciso.» «Jacob…» «Posso occuparmene io, papà. Sul serio.»


«Per il momento, forse. Ma peggiorerà.» «Va bene. Fa lo stesso.» Riappesi e chiamai il mio amico Ricky per chiedergli un passaggio. Dieci minuti dopo udii nel parcheggio l’inconfondibile clacson rauco della sua scalcinata Crown Victoria. Mentre oltrepassavo la porta automatica diedi la cattiva notizia a Shelley: la sua torre di Sempre Asciutti doveva attendere l’indomani. «Emergenza in famiglia» spiegai. «Come no» brontolò lei. Nell’afa della sera trovai Ricky che fumava una sigaretta in piedi sul cofano del suo catorcio. C’era qualcosa in lui – gli scarponi incrostati di fango, il modo in cui le volute di fumo gli uscivano dalle labbra, il sole al tramonto sui suoi capelli verdi – che mi ricordava una versione punk e sudista di James Dean. Era tutte quelle cose insieme, una bizzarra impollinazione incrociata di subculture, possibile soltanto nella Florida meridionale. Mi vide e balzò giù dal cofano. «Ce l’hai fatta a farti licenziare?» gridò da un capo all’altro del parcheggio. «Shhhh!» sibilai, correndogli incontro. «Non sanno del mio piano!» Mi batté un pugno sulla spalla, un gesto di incoraggiamento che rischiò di slogarmi l’articolazione della scapola. «Non temere, Special Ed. C’è sempre un domani.» Mi chiamava Special Ed perché frequentavo alcuni corsi avanzati che rientravano nel programma di «educazione speciale» della scuola; questa sottigliezza terminologica per lui era fonte di interminabile spasso. La nostra amicizia era così: irritazione e cooperazione in parti uguali. La cooperazione consisteva in un accordo non scritto, «cervello contro muscoli», per cui io lo aiutavo a non farsi bocciare in inglese, e in cambio lui mi aiutava a non farmi ammazzare dai sociopatici imbottiti di steroidi che si aggiravano per i corridoi della scuola. Un ulteriore vantaggio era costituito dal fatto che Ricky metteva in estremo disagio i miei genitori. Insomma, era il mio migliore amico... un modo meno patetico per dire che era il mio unico amico. Sferrò un calcio alla portiera del passeggero della Crown Vic (si apriva solo così) e mi fece salire. La Vic era fantastica: un inconsapevole pezzo da museo di arte folk. Ricky l’aveva comprata alla discarica con un barattolo di monetine, o così sosteneva.


Neppure la foresta di alberelli profumati appesi al retrovisore era in grado di mascherare la traccia olfattiva di quel pedigree. I sedili erano rivestiti di nastro isolante, per evitare che le molle erranti dell’imbottitura ti si infilassero nelle chiappe. La cosa migliore era la carrozzeria: un panorama lunare di buchi, ammaccature e ruggine, esito di un piano che prevedeva di guadagnare soldi extra per la benzina permettendo a ragazzi ubriachi di avventarsi sulla macchina armati di mazza da golf, per un dollaro al colpo. Con un’unica regola, mai fatta rispettare con severità: era vietato mirare alle parti di vetro. Il motore si accese crepitando in una nube di fumo bluastro. Mentre uscivamo dal parcheggio e passavamo davanti a una serie di centri commerciali, dirigendoci a casa del nonno, iniziai a temere ciò che vi avremmo trovato. Tra gli scenari peggiori: il nonno che correva nudo in strada, o brandiva una doppietta da caccia, o perdeva bava dalla bocca, o se ne stava appostato tra i cespugli con un oggetto contundente in mano. Tutto era possibile. Ero nervoso soprattutto perché avevo parlato tanto bene di lui a Ricky, e ora l’avrebbe visto per la prima volta. Il cielo stava virando a un violaceo livido quando entrammo nel suo quartiere, uno sconcertante labirinto di stradine senza uscita intrecciate tra loro, noto come Circle Village. Ci fermammo alla guardiola per annunciare il nostro arrivo, ma il vecchio custode russava in portineria e il cancello era spalancato. Proseguimmo. Il mio telefono trillò: mio padre chiedeva notizie via sms; e nel poco tempo che impiegai a digitare la risposta, Ricky si perse. Gli dissi che non avevo idea di dove fossimo, lui imprecò e si esibì in una serie di inversioni a U facendo stridere le gomme e sputando dal finestrino grumi di tabacco misto a saliva, mentre io mi guardavo intorno in cerca di un punto di riferimento. Non era facile, anche se andavo spesso a trovare il nonno. Le case erano tutte uguali, basse e tozze con minime variazioni, le pareti esterne rivestite di alluminio o di legno scuro in stile anni Settanta, oppure decorate da colonnati in gesso, pretenziosi fin quasi all’utopia. I cartelli stradali, metà dei quali sbiaditi dal sole, non mi furono d’aiuto. Gli unici oggetti riconoscibili erano gli strani e variopinti ornamenti da giardino, di cui il Circle Village costituiva un’installazione all’aria aperta. Alla fine riconobbi una cassetta delle lettere tenuta in palmo di mano dalla statua in metallo di un maggiordomo, che malgrado la schiena ritta e l’espressione sussiegosa sembrava piangere lacrime di ruggine. Gridai a Ricky di svoltare a sinistra. Le gomme della Vic fischiarono e io fui scaraventato contro la portiera. L’impatto dovette smuovermi qualcosa nel cervello, perché d’un tratto mi tornò in mente la


strada. «Gira a destra all’orgia di fenicotteri! A sinistra dopo il tetto con i Babbi Natale multietnici! Prosegui dritto oltre i cherubini che pisciano!» Superati i cherubini, Ricky rallentò fin quasi a fermarsi e scrutò con aria dubbiosa dove abitava il nonno. Nessuna luce in veranda, nessuna tv accesa dietro le finestre, nemmeno un’auto di lusso sotto le tettoie. Erano emigrati tutti a nord per sfuggire all’afa, lasciando gli gnomi ad affogare nell’erba alta e le persiane antiuragano ermeticamente chiuse. Le case somigliavano a tanti piccoli rifugi antiaereo dipinti in colori pastello. «L’ultima a sinistra» dissi. Ricky schiacciò l’acceleratore e sussultammo giù per la strada. Vidi un vecchio che annaffiava il giardino: calvo come un guscio d’uovo, era in accappatoio e pantofole e l’erba gli arrivava alle caviglie. La casa alle sue spalle era buia e sigillata. Mi voltai a guardarlo, e mi sembrò che ricambiasse; ma non avrebbe potuto, perché mi accorsi con stupore che aveva gli occhi di un bianco lattiginoso. Strano, pensai, il nonno non mi ha mai detto di avere un vicino cieco. La strada terminava con un filare di pini e Ricky svoltò a sinistra con decisione entrando nel vialetto giusto. Spense il motore, scese dalla macchina e aprì la mia portiera con un calcio. Le nostre scarpe calpestarono silenziose l’erba secca fino alla veranda. Suonai il campanello e restai in attesa. Un cane abbaiò da qualche parte, unico rumore nell’aria soffocante della sera. Non udendo risposta picchiai sulla porta. Forse il campanello era rotto. Intanto Ricky schiacciava i moscerini che ci avvolgevano come una nube. «Magari è uscito» disse ridendo. «Si è trovato la ragazza.» «Ridi, ridi» replicai. «È più facile per lui che per noi. È pieno di vedove, da queste parti.» Facevo lo spiritoso solo per calmarmi i nervi. Quel silenzio mi dava l’ansia. Recuperai la chiave nascosta tra i cespugli. «Aspettami qui.» «Col cavolo! E perché?» «Perché sei un metro e novantadue, hai i capelli verdi... Mio nonno non ti conosce e ha in casa un assortimento di armi.» Ricky fece spallucce, si infilò in bocca un’altra manciata di tabacco e andò a stravaccarsi su una sdraio in giardino, mentre io aprivo la porta.


Anche nella luce evanescente, capii al volo che era tutto a soqquadro. Sembrava fossero entrati i ladri: scaffali e credenze svuotati, i soprammobili e le edizioni per ipovedenti del «Reader’s Digest» sparpagliati a terra, cuscini del divano e sedie rovesciati. Il frigo e il congelatore avevano lo sportello aperto e le confezioni di cibo si stavano sciogliendo in pozzanghere appiccicose sul linoleum. Mi sentii raggelare. Alla fine era successo. Il nonno aveva perso la testa. Lo chiamai, ma non ebbi risposta. Controllai le stanze una per una, accendendo la luce e rovistando in ogni angolo che un vecchio paranoico potesse scegliere per nascondersi dai mostri: dietro i mobili, sotto gli spioventi in soffitta, sotto il tavolo da lavoro in garage. Non tralasciai nemmeno l’armadio dei fucili, ma naturalmente era chiuso a chiave; la maniglia coperta di graffi mi disse che il nonno aveva cercato di scassinarlo. In veranda, una forca di felci rinsecchite e brunastre dondolava nella brezza; mi inginocchiai sull’erba sintetica e guardai sotto le panchine di vimini, atterrito al pensiero di cosa avrei potuto scoprire. Vidi balenare un lampo nel giardino sul retro. Riattraversai la casa di corsa. C’era una torcia elettrica, subito oltre la porta, abbandonata nell’erba e puntata verso gli alberi al margine del giardino, una selva disordinata di palme basse che si estendeva per un chilometro e mezzo tra il Circle Village e la zona residenziale successiva, Century Woods. Stando alle leggende locali, il bosco pullulava di serpenti, procioni e cinghiali. Quando pensai al nonno là fuori, sperduto, ammattito, magari in accappatoio, mi montò in cuore un orrido presentimento. Una settimana sì e una no sentivi al telegiornale di qualche anziano che inciampava, cadeva in un laghetto artificiale e veniva divorato dagli alligatori. Lo scenario più fosco non era difficile da immaginare. Chiamai Ricky a gran voce. Un momento dopo svoltava l’angolo. Notò subito qualcosa che a me era sfuggito: un lungo, spaventoso taglio sulla controporta. Fece un fischio basso. «Accidenti, che squarcio. Roba da cinghiali. O magari una lince... hanno certi artigli...» Sentimmo provenire da poco lontano il verso rauco di un animale. Trasalimmo entrambi e ci scambiammo un’occhiata nervosa. «Oppure un cane» mormorai. Si propagò una reazione a catena in tutto il quartiere, e ben presto fummo assordati da una cacofonia di latrati.


«Sarà» bofonchiò lui. «Ho una calibro 22 nel portabagagli. Aspetta qui.» Andò a prenderla. I cani smisero di abbaiare e al loro posto si levò un coro di insetti notturni, un ronzio inquietante. Il sudore mi colava sul viso. Era buio, ormai, la brezza si era placata e l’aria era ancora più irrespirabile. Raccolsi la torcia elettrica e mi avvicinai agli alberi. Mio nonno era là fuori da qualche parte, ne ero sicuro. Ma dove? Né io né Ricky eravamo cacciatori. Eppure qualcosa sembrava guidarmi – un sussulto nel petto, un sussurro nell’aria umidiccia – e d’un tratto seppi di non poter aspettare un solo istante in più. Mi tuffai nel sottobosco come un segugio all’inseguimento di una pista invisibile. È difficile correre nei boschi della Florida, dove ogni metro quadrato non occupato dagli alberi è invaso da foglie di palmetta seghettata che arrivano alla coscia e da tralci di rampicanti. Mi feci strada a fatica continuando a chiamare il nonno, mentre fendevo l’aria con il fascio di luce. Con la coda dell’occhio vidi un lampo bianco e corsi in quella direzione: era soltanto un vecchio pallone da calcio sgonfio perso anni addietro. Stavo per arrendermi e tornare da Ricky, quando notai uno stretto corridoio di foglie schiacciate di fresco. Lo imboccai, ruotando la torcia tutt’intorno; le foglie erano macchiate di una sostanza scura. Mi si seccò la gola. Mi feci forza e presi a seguire il sentiero. Più mi addentravo, più mi si stringeva lo stomaco, come se il mio corpo sapesse cosa mi attendeva e volesse mettermi in guardia. Poi il sentiero di foglie appiattite si allargò. E lo vidi. Il nonno giaceva a pancia in giù, le gambe divaricate e un braccio ripiegato sotto il corpo. Ero sicuro che fosse morto. Aveva la canottiera intrisa di sangue, i pantaloni strappati e gli mancava una scarpa. Per un lungo momento rimasi a fissarlo, paralizzato, la torcia che mi tremava in mano. Quando ricominciai a respirare lo chiamai per nome, ma lui non si mosse. Caddi in ginocchio e gli premetti il palmo sulla schiena. Il sangue era ancora caldo. Udivo i suoi respiri stentati. Feci scorrere le braccia sotto di lui e lo girai supino. Era ancora vivo, gli occhi vitrei, il volto pallido e scavato. Poi vidi gli squarci sullo stomaco, e quasi svenni. Erano tagli larghi, profondi, sporchi di fango; la terra intorno a lui era impastata di sangue. Cercai di coprire le ferite con quel che restava della camicia, senza guardarle.


Sentii Ricky gridare. «SONO QUI!» urlai, e forse avrei dovuto aggiungere qualcos’altro, tipopericolo o sangue, ma ero incapace di articolare le parole. Riuscivo soltanto a pensare che i nonni devono morire nel loro letto, in un silenzio rotto solo dal ronzio delle macchine, non nel fango puzzolente con le formiche che gli camminano addosso e un tagliacarte di ottone stretto nella mano. Un tagliacarte. L’unica arma con cui si era potuto difendere. Glielo sfilai dalle dita e lui tentò invano di riappropriarsene. Le mie dita con le unghie rosicchiate si intrecciarono alle sue, esangui e venate di capillari viola. «Devo portarti via da qui» gli dissi, infilandogli un braccio sotto la schiena e l’altro sotto le gambe. Cominciai a sollevarlo, ma mi bloccai quando lo sentii gemere e irrigidirsi. Non sopportavo l’idea di fargli male, però non potevo neppure lasciarlo lì. Dovevo aspettare Ricky. Gli tolsi delicatamente la terra dalle braccia e dai radi capelli bianchi. E vidi le labbra muoversi. Gli era rimasto un filo di voce, meno di un sussurro. Mi chinai e gli posai l’orecchio sulla bocca. Borbottava qualcosa, con sprazzi di lucidità, alternando l’inglese al polacco. «Non ho capito» mormorai. Continuai a chiamarlo per nome finché i suoi occhi sembrarono mettermi a fuoco; a quel punto tirò un gran respiro e disse, a voce bassa ma scandendo bene le parole: «Vai sull’isola, Yakob. Qui non è sicuro». La solita paranoia. Gli strinsi la mano e lo rassicurai che eravamo salvi, che sarebbe guarito. Quel giorno gli mentivo per la seconda volta. Gli chiesi cosa fosse successo, quale animale l’avesse ridotto così. Lui non mi ascoltava. «Vai sull’isola» ripeté. «Là sarai al sicuro. Promettimelo.» «Sì, lo prometto.» Avevo alternative? «Pensavo di riuscire a proteggerti» ricominciò. «Avrei dovuto dirtelo molto tempo fa…» Non gli restava molto da vivere. «Dirmi cosa?» chiesi, trattenendo le lacrime. «Non c’è tempo» sussurrò il nonno. Alzò la testa, tremando per lo sforzo, e mi mormorò all’orecchio: «Trova il falco... Dentro l’anello... Oltre la tomba del vecchio...


3 settembre 1940». Annuii, ma lui si accorse che non capivo. Con le ultime forze soggiunse: «Emerson… la lettera. Va’ da loro e racconta tutto, Yakob». Si lasciò ricadere all’indietro, spossato e agonizzante. Gli dissi che gli volevo bene. E poi lui parve chiudersi in se stesso. Non guardava più me ma il cielo, ora trapunto di stelle. Un attimo dopo Ricky uscì rumorosamente dal sottobosco. Ci vide e indietreggiò di un passo. «Oh, mamma. Oh, Gesù. Oggesù!» esclamò, strofinandosi il viso, e mentre blaterava di trovare una pulsazione e chiama la polizia e hai visto qualcosa nel bosco, io fui colto da una sensazione stranissima. Adagiai a terra il corpo del nonno e mi rialzai, ogni mia terminazione nervosa percorsa da un istinto che non sapevo di avere. C’era qualcosa in quel bosco. Sì, lo sentivo. Non c’era la luna e nulla si muoveva, a parte noi. Eppure, chissà come, indovinai il momento giusto per sollevare la torcia e la direzione in cui puntarla. Per un istante in quella lama di luce scorsi un volto. Sembrava riaffiorato dagli incubi della mia infanzia e ricambiava il mio sguardo con occhi che nuotavano in un liquido scuro, la pelle nera come il carbone, ripiegata in pliche sulla schiena gibbosa. Dalla bocca, spalancata in un ghigno grottesco, usciva un groviglio di lingue che si dimenavano come anguille. Gridai. La creatura si voltò e sparì, scuotendo il cespuglio e richiamando l’attenzione di Ricky che, alzando la calibro 22 e sparando – bang-bangbang-bang – , disse: «Cos’è stato? Cosa diavolo era?». Ma lui non l’aveva visto. Io non riuscivo a rispondergli. Ero raggelato. La luce morente della torcia tremolava sui tronchi del bosco deserto. Poi devo essere svenuto, perché lo sentii urlare Jacob, Jake, ehi, Ed, stai-bene-che-ti-prende. Non ricordo altro.

CAPITOLO DUE I mesi successivi alla morte del nonno furono un purgatorio fatto di sale d’aspetto incolori e uffici anonimi. Mi analizzarono, mi interrogarono, parlavano di me come se non fossi lì, annuivo quando mi rivolgevano la parola, ripetevo le stesse cose, ero oggetto di mille sguardi compassionevoli e fronti corrugate. Per i miei genitori ero ormai un fragile cimelio di famiglia da trattare con ogni cura, e si sforzavano di non litigare o innervosirsi in mia presenza, nel timore di vedermi andare in mille pezzi.


Ero tormentato da incubi da cui mi svegliavo gridando, al punto di dovermi mettere un paradenti perché nel sonno digrignavo le mascelle. Se chiudevo gli occhi, rivedevo quell’orrore nel bosco, con i tentacoli in bocca. Ero convinto che avesse ucciso mio nonno e che presto sarebbe tornato a prendere anche me. A volte provavo la stessa nausea mista a panico di quella notte, e allora sapevo con certezza che quella cosa mostruosa mi stava aspettando, appostata nel buio tra gli alberi, dietro una macchina in un parcheggio, rintanata nel garage dove tenevo la bici. Escogitai una soluzione: non uscire più di casa. Per settimane mi rifiutai perfino di avventurarmi nel vialetto per raccogliere il giornale del mattino. Dormivo in un intrico di coperte sul pavimento della lavanderia, l’unica stanza senza finestre e con una porta che potevo sbarrare dall’interno. Trascorsi lì il giorno del funerale, seduto sull’asciugatrice con il computer sulle ginocchia, cercando di perdermi nei giochi online. Era colpa mia. Se solo gli avessi creduto era il mio ritornello. Invece non l’avevo fatto. Nessun altro l’aveva fatto. Ora sapevo come doveva essersi sentito, perché nessuno credeva a me. La mia versione degli eventi sembrava perfettamente razionale, finché non mi costringevano a ripeterla a voce alta. A quel punto diventava assurda alle mie stesse orecchie, soprattutto il giorno in cui dovetti raccontarla al poliziotto che venne a casa nostra. Gli dissi tutto, anche della creatura, mentre lui annuiva seduto al tavolo della cucina, senza scrivere niente sul bloc-notes. Alla fine se ne uscì con un: «Ottimo, grazie», poi chiese ai miei genitori se mi ero «fatto vedere da qualcuno», probabilmente convinto che fosse una frase incomprensibile, per me. Gli annunciai che avevo un’altra dichiarazione da rilasciare: gli mostrai il dito medio e me ne andai. I miei mi sgridarono per la prima volta da settimane. Fu un sollievo, in un certo senso, sentire di nuovo le buone, vecchie, care urla. Risposi strillando cattiverie. Erano contenti che il nonno fosse morto, urlai. Solo io gli avevo voluto bene davvero. Il poliziotto e i miei restarono a parlare per un po’ nel vialetto, poi l’agente tolse il disturbo.


Tornò un’ora dopo con il disegnatore di identikit, che aveva con sé un grosso album e mi domandò di descrivergli la creatura, e mentre io parlavo lui la tratteggiava, fermandosi ogni tanto per sollecitare chiarimenti. «Quanti occhi aveva?» «Due.» «Capito» mugugnò, quasi che i mostri fossero ordinaria amministrazione per un esperto di identikit della polizia. Un tentativo di tranquillizzarmi abbastanza spudorato. A riprova della mia teoria, cercò di regalarmi il disegno. «Non serve per l’archivio o roba del genere?» gli chiesi. Lui scambiò un’alzata di sopracciglia con il poliziotto. «Certo! Cosa mi è passato per la testa?» Mi offesi a morte.


Non mi credeva neppure Ricky, il mio migliore – nonché unico – amico, e lui c’era stato, lì con me. Giurava e spergiurava di non avere visto nessuna creatura nel bosco, quella notte – sebbene io l’avessi illuminata con la torcia – e fu proprio questo che


raccontò agli agenti. Aveva sentito abbaiare i cani, però. Quelli li avevo sentiti pure io. Quindi non si stupì nessuno quando la polizia concluse che il nonno era stato ucciso da un branco di cani selvatici. A quanto pareva la settimana prima avevano morso una donna a Century Woods. Di notte, pensa un po’. «È proprio di notte che è più difficile vedere le creature!» protestai. Ricky scosse la testa e mormorò qualcosa su uno «stiracervelli». «Si dice strizzacervelli» sbottai, «e grazie tante. È bello sapere di poter contare sul sostegno degli amici.» Eravamo seduti in terrazza sul tetto di casa mia, a guardare il tramonto sul golfo. Ricky stava arrotolato come una molla su una sedia a sdraio Adirondack irragionevolmente costosa che i miei si erano comprati in un viaggio nella contea degli Amish. Teneva le gambe ripiegate sotto il corpo e le braccia incrociate, fumando una sigaretta dietro l’altra con un’aria di cupa determinazione. Quando veniva da me sembrava sempre vagamente a disagio, ma dal modo in cui il suo sguardo mi scivolava addosso, seppi che stavolta non era la ricchezza della mia famiglia a metterlo in imbarazzo. Ero io. «Fa lo stesso, ti sto solo dicendo come la penso» ribatté. «Se continui a parlare di mostri ti rinchiuderanno. Allora sì sarai Special Ed.» «Non chiamarmi così.» Scrollò la sigaretta e sputò un enorme scaracchio lucente oltre la ringhiera. «Stavi fumando e masticando tabacco allo stesso tempo?» «Cosa sei, mia madre?» «Ti sembro una che si fa sbattere dai camionisti in cambio di buoni pasto?» Ricky se ne intendeva di insulti alle madri, ma stavolta avevo proprio esagerato. Balzò su dalla sdraio e mi spintonò con tanta forza che rischiai di cadere dal tetto. Gli gridai di andarsene, lui però lo stava già facendo. Non lo rividi per mesi. Begli amici!


Alla fine, i miei mi portarono sul serio da uno strizzacervelli, un uomo taciturno dalla pelle olivastra, un certo dottor Golan. Non mi opposi. Sapevo di avere bisogno di aiuto. Pensavo che sarei stato un caso difficile, invece il dottor Golan si sbrigò prima del previsto. Il suo tono di voce pacato e distaccato era quasi ipnotico, e nel giro di due sole sedute mi aveva persuaso che la creatura era stata il prodotto della mia fervida immaginazione. Il trauma della morte del nonno, insomma, mi aveva fatto vedere qualcosa di inesistente. Le storie che mi aveva raccontato mi avevano piantato quella creatura nella mente, mi spiegò, quindi era logico che, inginocchiato lì con il suo cadavere tra le braccia e avendo appena subìto lo shock peggiore della mia breve vita, avessi evocato il suo Uomo Nero. Quella faccenda aveva anche un nome: disturbo acuto da stress. «Diagnosi acuta...» commentò la mamma. La battuta non mi diede fastidio: qualsiasi etichetta suonava meglio di pazzo. Solo perché non credevo più all’esistenza dei mostri, però, non voleva dire che stessi meglio. Avevo ancora gli incubi. Ero nervoso, paranoico, incapace di interagire con gli altri. A quel punto i miei mi trovarono un insegnante privato, così potevo andare a scuola solo quando me la sentivo. E poi – finalmente – mi permisero di licenziarmi da Smart Aid. «Sentirmi meglio» diventò il mio nuovo lavoro. Ben presto mi ripromisi di farmi licenziare anche da lì. Una volta chiarita la piccola questione della mia pazzia temporanea, il ruolo del dottor Golan si ridusse perlopiù alla compilazione di ricette. Hai ancora gli incubi? Prendi questo. Un attacco di panico sullo scuolabus? Quest’altro ti farà bene. Non riesci a dormire? Aumentiamo il dosaggio. Tutte quelle pillole mi rendevano gonfio e stupido, e stavo ancora malissimo, dormivo tre o quattro ore per notte. Ecco perché iniziai a mentire al dottor Golan. Fingevo di stare bene, anche se non potevo nascondere le occhiaie e i balzi felini che spiccavo al minimo rumore. Per una settimana scrissi un falso diario dei sogni, facendoli sembrare blandi e inoffensivi. Sogni normali di una persona normale. Sognavo di andare dal dentista, o di volare. Due notti di fila, gli riferii, avevo sognato di essere nudo a scuola. A quel punto lui mi interruppe. «E le creature?»


Mi strinsi nelle spalle. «Non si sono più viste. Forse sto guarendo, no?» Il dottor Golan picchiettò la penna sul tavolo per un momento, poi scrisse qualcosa. «Spero tu non mi stia dicendo quello che voglio sentirmi dire.» «No, no» ribattei, guardando la parete con i diplomi incorniciati che attestavano la sua competenza in varie sottodiscipline della psichiatria, compresa, ne ero certo, la tecnica per smascherare le bugie di un adolescente con disturbo acuto da stress. «Siamo seri per un attimo.» Posò la penna. «Davvero non hai fatto quel sogno neppure una volta, questa settimana?» Non avevo mai imparato a mentire bene. Per non rischiare l’umiliazione, mi arresi. «Be’» mormorai, «forse una volta.» La verità era che quella settimana mi aveva perseguitato tutte le notti, con minime variazioni. L’incubo faceva così: sto accovacciato in un angolo della camera da letto del nonno, nella luce ambrata del tramonto, e miro alla porta con un fucile ad aria compressa, di plastica rosa. Al posto del letto c’è un enorme distributore di dolci tutto illuminato, ma è pieno di pugnali affilati come rasoi e pistole caricate con pallottole perforanti. C’è anche il nonno, lì, con indosso la vecchia uniforme dell’esercito britannico; sta dando in pasto alla macchina banconote da un dollaro. Però ce ne vogliono tante per comprare una pistola e noi non abbiamo più tempo. Finalmente, una scintillante calibro 45 avanza ruotando verso il vetro, ma resta incastrata nel meccanismo. Il nonno impreca in yiddish, sferra un calcio al distributore, poi si inginocchia e infila una mano nello sportello per cercare di agguantarla. E gli resta incastrato anche il braccio. In quel momento arrivano loro, i mostri, con le lunghe lingue nere che strisciano sull’esterno della finestra, cercando una via d’ingresso. Gli punto addosso il fucile ad aria compressa e premo il grilletto. Non succede niente. Il nonno strilla come un matto – trova il falco, trova l’anello, Yakob, oy! Non capisci niente stupido di uno yutzi maledizione a te – e poi le finestre vanno in mille pezzi ed entra la pioggia e le lingue nere ci sono addosso, ed è allora che di solito mi sveglio, in un bagno di sudore, con il cuore in gola e lo stomaco attorcigliato.


L’incubo era sempre lo stesso e ne avevamo parlato cento volte, eppure ogni volta il dottor Golan mi chiedeva di raccontarlo da capo. Sembrava volesse condurre un esame incrociato del mio subconscio, in cerca di un indizio che gli era sfuggito per la novantanovesima volta. «E nel sogno, cosa dice tuo nonno?» «La solita roba... il falco, l’anello e la tomba.» «Le sue ultime parole.» Annuii. Il dottor Golan unì le punte delle dita e se le premette sul mento, la classica posa da strizzacervelli meditabondo. «Ti è venuta qualche nuova idea su cosa potrebbero significare?» «Un cavolo di niente.» «Dai, non lo pensi davvero.» Volevo dare l’impressione che non mi importasse un cavolo delle sue ultime parole. Invece non era così. Mi perseguitavano quasi quanto i sogni. Mi sembrava di doverlo al nonno: non potevo liquidare come una sciocchezza insensata l’ultima cosa che aveva detto in vita sua. Se avessi compreso il significato degli incubi – questa era la teoria del dottor Golan –, forse me ne sarei liberato. Quindi ci provavo. Una parte di quelle parole aveva senso. Il nonno temeva che i mostri mi dessero la caccia, e pensava che solo sull’isola sarei stato al sicuro, proprio com’era capitato a lui da bambino. Dopodiché aveva aggiunto: «Avrei dovuto dirtelo», ma poiché non c’era stato tempo di spiegare cosa avrebbe dovuto dirmi, mi chiedevo se non mi avesse lasciato, almeno, una pista di briciole di pane per permettermi di arrivare a qualcuno in grado di farlo, qualcuno a conoscenza del suo segreto. Immaginavo fosse questo il senso di tutta quella roba criptica sull’anello, la tomba, la lettera. Per un po’ pensai che l’«anello» fosse una strada del Circle Village – un quartiere interamente composto da vicoli ciechi che si ripiegavano su se stessi – ed «Emerson» qualcuno a cui il nonno aveva scritto delle lettere: un vecchio commilitone con il quale si era tenuto in contatto o qualcosa del genere. Forse questo Emerson viveva


in uno degli anelli del Circle Village, vicino a un cimitero, e una delle lettere era datata 3 settembre 1940 e io dovevo leggerla. Certo, era assurdo, ma cose più assurde di questa si sono rivelate vere. Così, non avendo trovato niente su internet, andai al centro di aggregazione sociale del Circle Village, dove i vecchi giocavano a bocce e si raccontavano i loro ultimi interventi chirurgici, per informarmi sul cimitero e chiedere se qualcuno conoscesse un certo Emerson. Mi guardarono come se avessi due teste: un adolescente aveva rivolto loro la parola... da non credere! Non c’erano cimiteri nel Circle Village, mi spiegarono, nessuno nel quartiere si chiamava Emerson e non c’era nessuna strada con la parola «anello» nel nome. Fallimento su tutta la linea. Ma il dottor Golan mi spronò a non arrendermi. Mi suggerì di indagare su Ralph Waldo Emerson, che a quanto pareva era un vecchio poeta famoso. «Emerson scrisse un mucchio di lettere» mi svelò. «Forse tuo nonno si riferiva a questo.» Un tentativo disperato, all’apparenza. Tuttavia, per far contento Golan un pomeriggio chiesi a mio padre di accompagnarmi in biblioteca. Scoprii subito che esisteva un voluminoso epistolario di Ralph Waldo Emerson. Per circa tre minuti mi entusiasmai, perché mi sentivo vicino alla soluzione, poi però mi divennero chiare due cose: primo, Ralph Waldo Emerson era vissuto e morto nell’Ottocento, quindi non avrebbe potuto scrivere una lettera datata 3 settembre 1940. Secondo, aveva una prosa così densa e arzigogolata che non avrebbe mai potuto interessare il nonno, non proprio un lettore serio. Incocciai contro le doti soporifere di Emerson nel modo peggiore, addormentandomi con la faccia sul libro, sbavando sulle pagine di un saggio intitolato Fiducia in se stessi e facendo, per la sesta volta quella settimana, l’incubo del distributore di dolci. Mi svegliai gridando e fui cacciato dalla biblioteca senza tanti complimenti. Me ne andai imprecando contro il dottor Golan e le sue stupide teorie. La goccia che fece traboccare il vaso arrivò qualche giorno dopo, quando i miei decisero che era giunto il momento di vendere la casa del nonno. Ma prima di portarci i potenziali acquirenti, bisognava mettere ordine. Su consiglio del mio psichiatra «rivivere l’ambientazione del mio trauma» mi avrebbe fatto bene. Fui quindi reclutato per aiutare papà e zia Susie a sistemare le cianfrusaglie.


Per un po’, dopo essere entrati, mio padre continuò a tirarmi da parte, domandandomi se stavo bene. Stranamente mi sembrava di sì, nonostante i brandelli di nastro adesivo della polizia ancora attaccati ai cespugli e la controporta rotta e scossa dalla brezza. Quelle cose – come pure il cassonetto preso a noleggio che stazionava sul marciapiede in attesa di fagocitare i resti della vita del nonno – mi rattristavano, ma non mi incutevano paura. Una volta appurato che non stavo per avere una crisi di nervi, ci mettemmo al lavoro. Armati di sacchi della spazzatura procedemmo con determinazione da una stanza all’altra, svuotando scaffali, armadi, ripostigli, scoprendo sculture di polvere sotto oggetti mai spostati da decenni. Edificammo piramidi di cose da salvare e piramidi di cose destinate al cassonetto. La zia e papà non erano persone sentimentali: il mucchio del cassonetto era sempre il più alto. Insistetti per tenerne alcune, per esempio la pila alta due metri di vecchie copie del «National Geographic» mangiate dall’umidità e in equilibrio precario nell’angolo del garage (quanti pomeriggi avevo passato a sfogliarle, immaginandomi tra gli uomini di fango della Nuova Guinea o scoprendo un castello abbarbicato su un precipizio nel regno del Bhutan?), ma mi ritrovavo sempre in minoranza. Non mi permisero di tenere neppure la collezione di vecchi maglioni da bowling («Sono imbarazzanti» dichiarò mio padre), i dischi a settantotto giri di swing e big band («Qualcuno pagherà una fortuna per questi») o il contenuto dell’enorme armadio dei fucili, ancora sigillato («Scherzi, vero?»).

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