«Che peccato, Balistreri!»
Dopo il successo internazionale della Trilogia del Male, il commissario Balistreri torna in un thriller che trascina il lettore nelle spire di una suspense mozzafiato Nel maggio del 2001, a Roma, due coppie, il professore italoamericano Victor Bonocore e la moglie Nicole Steele, il pubblico ministero Bianca Benigni e il marito Nanni. Due matrimoni come tanti, a volte felici, a volte meno. Tra loro una ventenne pericolosa, Scarlett, sorella di Nicole. Intorno, la terra di mezzo del Sordomuto e del Puncicone, gli appalti pubblici, il gioco d’azzardo, l’usura, e la morte atroce di una ragazza, Donatella. Sembra essere l’ennesimo atto di violenza patito da una donna per mano di un uomo violento, l’assassino viene scoperto e giustizia è fatta. O forse no? Quando viene ucciso Victor Bonocore, Michele Balistreri dirige la terza sezione della squadra Mobile e indaga insieme al pm Bianca Benigni. La miscela è esplosiva, le modalità di conduzione dell’indagine contro le sorelle Steele sono fuori dai confini della legge e l’esito è disastroso. L’arresto di Scarlett e Nicole incrina le relazioni tra Italia e Stati Uniti. Tutto finisce male. Nel 2011 una rivelazione inattesa spinge Balistreri a riaprire quel caso rimasto senza colpevoli. Ma se non è tardi per la giustizia, forse lo è per l’amore e per la vita. O forse no. (Tripoli, 1952), ingegnere, consulente aziendale, oggi dirigente della Luiss. È autore per Marsilio della Trilogia del Male con protagonista il commissario Michele Balistreri, bestseller in Italia e già pubblicata negli Stati Uniti e nei maggiori paesi europei, premio speciale Giorgio Scerbanenco 2014 quale “migliore opera noir degli anni 2000”. ROBERTO COSTANTINI
Roberto Costantini
La moglie perfetta Marsilio Dello stesso autore nel catalogo Marsilio Tu sei il male Alle radici del male Il male non dimentica In copertina: illustrazione di ALE+ALE. © 2016 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2016
ISBN 978-88-317-4015-9 www.marsilioeditori.it ebook@marsilioeditori.it Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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Questo libro è un romanzo. L’autore non ha avuto la pretesa di ricostruire la verità ma ne ha immaginate di possibili. Di conseguenza, i riferimenti a persone realmente esistite o esistenti, a luoghi reali e a fatti realmente accaduti sono asserviti alle esigenze della finzione narrativa. Tutti gli altri personaggi e le situazioni a essi collegate sono pura invenzione letteraria.
Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Dello stesso autore - Copyright
Dagli appunti del dottor Giovanni Annibaldi Parte prima Domenica 29 aprile 2001 Lunedì 30 aprile 2001
Martedì primo maggio 2001 Mercoledì 2 maggio 2001 Giovedì 3 maggio 2001 Venerdì 4 maggio 2001 Sabato 5 maggio 2001 Domenica 6 maggio 2001 Lunedì 7 maggio 2001 Venerdì 11 maggio 2001 Sabato 12 maggio 2001 Domenica 13 maggio 2001 Lunedì 14 maggio 2001 Martedì 15 maggio 2001 Mercoledì 16 maggio 2001 Giovedì 17 maggio 2001 Venerdì 18 maggio 2001 Venerdì 18 maggio 2001 Sabato 19 maggio 2001 Domenica 20 maggio 2001 Lunedì 21 maggio 2001 Notte tra lunedì 21 e martedì 22 maggio 2001 Martedì 22 maggio 2001 Mercoledì 23 maggio 2001 Giovedì 24 maggio 2001 Venerdì 25 maggio 2001 Sabato 26 maggio 2001 Domenica 27 maggio 2001 Martedì 29 maggio 2001 Mercoledì 30 maggio 2001
Intermezzo Parte seconda
Domenica 27 novembre 2011 Lunedì 28 novembre 2011 Martedì 29 novembre 2011 Mercoledì 30 novembre 2011 Giovedì primo dicembre 2011 Domenica 25 dicembre 2011 Lunedì 26 dicembre 2011
LA MOGLIE PERFETTA a Milena, Carolina, Fabrizio
Dagli appunti del dottor Giovanni Annibaldi Il matrimonio può, nel migliore dei casi, solo approssimarsi alla perfezione. È a questo che i miei pazienti non vogliono rassegnarsi. È escluso dalla logica e dalla statistica che la persona che ci sta accanto per una vita sia quella più adatta a regalarci un’esistenza davvero piena, che sia il massimo per noi. Perché ci si sposa sempre troppo presto o su premesse sbagliate. C’è chi si sposa molto giovane e non conosce nemmeno se stesso. C’è chi si sposa più maturo ma lo fa sulle ceneri di ciò che non ha funzionato in passato, cercando persone diverse da quelle che lo hanno fatto soffrire. C’è chi si sposa perché è arrivato il momento di farlo, e non perché ha trovato la persona giusta. Con queste premesse è ovvio che il meglio che si possa ottenere nel tempo sia l’affetto e la stima reciproca. Di più è impossibile. E l’amore? Provo a spiegare ai miei pazienti che l’amore è esattamente questo, affetto e stima reciproca a lungo termine. E l’altro amore, quello vero, dottore? Quello che ci fa battere il cuore? Cosa dovrei dire? Che quello esiste, è là fuori da qualche parte la persona perfetta per te, ma è meglio non incontrarla mai. Perché la nostra educazione, le nostre regole, i vincoli che ci siamo creati col tempo sono una gabbia dorata. Uscire da quella gabbia è possibile solo a prezzo di un dolore troppo grande da infliggere o da
subire e non siamo né forti né deboli abbastanza da andarcene e dimenticare. Saremmo costretti a rinunciare, e allora è meglio risparmiarsela questa esperienza. Il marito perfetto e la moglie perfetta sono pronti a qualunque cosa pur di salvaguardare quell’unione imperfetta ma preziosissima. Anche a uccidere. Perché Nietzsche sbagliava: l’unione è al di là del bene e del male, non l’amore.
Il Sordomuto Ce devi esse nato dentro a ’sta cloaca. Come a me, mezzo secolo fa. Ce devi esse nato e vissuto veramente. Da morto de fame in borgata o da principe a piazza di Spagna o sui colli dell’Aventino o dei Parioli. Meglio tutt’e due, così lo sai che nun ce sta er confine. Che a Roma tra li borgatari e li principi ce sta, come se dice, ’n’osmosi continua: passano persone, proggetti, droga. E naturalmente la grana, fiumi de grana de modo che in tanti se ne pijano ’n poco e in pochi se ne pijamo tanta. Devi bazzicà de tutto, dalle bische de Tor Bella Monaca e San Basilio, ai circoli esclusivi lungo il fiume, ai ristoranti vicino al Parlamento. Devi conosce tutti dentro a ’sta cloaca. Politicanti, impiegatucci pubblici, avvocati tosti e commercialisti disinvolti. Di questi a Roma ce ne stanno quanti ne vòi. Eppoi hai da conosce quelli cor ferro caldo e cor core freddo, che quanno serve se fanno ’na bbotta e fanno cacà sotto quelli di cui sopra e nel caso sparano in faccia agli ’nfami o a chi s’entraversa. Devi da esse come ’sta città, fregartene ’n cazzo de tutto e de tutti, generoso pe’ necessità e pronto a fotterte pure tu’ madre quanno serve. Qua c’avemo ’n contesto unico, er mejo der monno. Qua nessuno se more proprio de fame come in Messico o in Colombia, ma tutti vonno de più. Quinni è facile spaventà chiunque e corrompe chiunque. Nun ce stanno cor de leone o gladiatori, è ’na lotta sorda e quotidiana tra finta ggente per bene. Molti, specie i potenti, rubbano ogni giorno e manco ce fanno più caso. Lassamo perde la droga, le mignotte, er gioco d’azzardo. Lì ce stanno quelli grossi davero, mafia, ’ndrangheta, camorra. Io la coca la tiro e basta, come la ggente per bene. Noi campamo tranquilli co’ li sordi che non fanno male a nessuno. Tanto li sordi che se rubbamo tutti de chi so’? Dello Stato? Der Comune? E che so’, persone? Nun so’ nessuno. Noi mica rubbamo ai poveracci, ’sti sordi so’, come se dice, pubblici. Cioè
de tutti e de nessuno. Mejo che se li pijamo noi. Poi caso mai li prestamo a li poveracci, ’sti poveri cristi de commercianti e baristi, a un buon tasso d’interesse. Bono pe’ nnoi, ovvio.
Parte prima Domenica 29 aprile 2001 Il Sordomuto L’architetto Aimone è un po’ nervoso. «Il pm è quella stronza della Benigni. Dovemo levassela dai cojoni.» L’avvocato Greppi la butta sul ridere. «Seconno me è comunista e juventina, tifa pure a quei ladri che ce vonno rubbà lo scudetto. Ma nun la potemo mica ammazzà!» Guardo fuori dalla vetrata, verso la piscina olimpionica della mia villa sull’Appia Antica. È una domenica mattina spazzata dallo scirocco, troppo calda per la fine di aprile. Mio figlio di tre anni gira lì fuori sul triciclo intorno alla piscina e quello di otto scorrazza sul prato in sella alla motoretta, tra la Ferrari nera e il Land Rover, sotto gli occhi della colf filippina. Poi fa la gincana intorno al fratello sul triciclo sfiorando il bordo della piscina. Il ragazzino è coraggioso, un po’ incosciente, come me da piccolo. Non rispondo all’architetto e all’avvocato, come se non avessi sentito. È per questo che mi chiamano Sordomuto. E non mi piacciono molto, né l’architetto di sinistra né l’avvocato di destra. Che poi oggi so’ tutte cazzate, nun ce stanno più né destra né sinistra. So’ passati i bei tempi in cui ce credevo. Oggi c’è solo chi ce sa fa’ e chi se la pija ner culo. Aimone s’accende la pipa. Si dà arie da intellettuale, l’architetto, perché ha una laurea comprata ricattando un preside cocainomane. Che sniffa la mia roba. Veste pure ricercato, peccato per l’accento. Ma grazie a quella laurea siede in molte commissioni d’appalto di opere pubbliche.
«Avvocato mio» dice l’architetto, «dico per dire, sto a scherzà. Nessuno ammazza nessuno, tanto meno un magistrato. Ma questa gara la dovemo vince. Al giudizio tecnico ce penso io. Ma l’offerta è da presentà ’sta settimana. E Caruso ce fa un culo così. Che dite?» L’avvocato Vito Greppi annuisce. «La ditta di Caruso fa prezzi troppo bassi, quello stronzo usa i negri che costano poco e non paga tangenti a nessuno. Per batterla non c’esce un soldo di profitto.» E Aimone insiste ancora. «A’ Se’, lo dovemo fa’. L’amico nostro ce l’ha chiesto, e mica come favore. Così pijamo du’ piccioni co’ ’na fava sola. Famo un favore a lui e famo un favore a noi.» Non mi piace ’sta storia. E poi mentre sto a guardà li regazzini mia. Una cosa era mettere una bomba in un cestino di una piazza o su un treno, chi cazzo li conosceva quelli che ce lasciavano la pelle? Altra cosa è far ammazzare una persona ben precisa, e neanche un nemico, un’innocente. La figlia di uno che conosco da anni, con cui sono stato in società. Ma Caruso è sempre stato testardo, troppo. E ’sta cosa ce l’ha chiesta l’Americano, quello c’ha amici, in Sicilia e in America, con cui non dovemo litigà. Mi giro, guardo Greppi. «Fallo fa’ stasera, Vito. Usa ggente che nun c’ha a che ffa’ co’ nnoi.» «Ne ho già parlato cor Puncicone. Lui la conosce de vista e c’ha l’amici adatti.» Gianni Tozzi, il ragazzo coi capelli rasati e quei cazzo de tatuaggi. Lo chiamano Puncicone nella curva nord della Lazio, fuori dallo stadio è uno bravo a bucà gli ultras avversari. Lo presi a lavorà nei miei cantieri solo perché è il nipote del direttore di banca che mi fa meno problemi sul giro dei contanti. Ma in due anni er Puncicone è migliorato. Da ragazzone capace di sbudellare un cristiano per uno sguardo di troppo in discoteca o fuori dall’Olimpico si è trasformato in un efficiente esattore delle rate dei prestiti a usura e dei pizzi dei commercianti. «Va bene, ma er Puncicone è dei nostri. Dilli d’usà ’n amico suo, nun lo deve fa’ lui.» «Certo, Se’, tranquillo.» «Ora ve saluto, devo annà a messa co’ mi moje e i regazzini.»
Lunedì 30 aprile 2001 Balistreri La prima volta, luglio 1982, fu il greto del Tevere. E poi, in quasi vent’anni nella polizia, posti di ogni genere: dalle discariche alle ville di lusso. Lo aveva scritto Chandler: in fondo cosa cambia quando sei morto? Ma una cosa l’ho imparata in tutto questo tempo. È il prima che cambia, non il dopo. Ho visto la serenità negli occhi di chi è morto per un colpo alla tempia inatteso o avvelenato nel sonno. Ho visto la paura di chi si è trovato improvvisamente davanti una pistola o un coltello sapendo che un minuto dopo sarebbe crepato. E ho visto quella inaccettabile, tranquilla rassegnazione, quasi il sollievo, di chi è morto dopo aver attraversato l’inferno. Guardo gli occhi di Donatella Caruso, morta a ventun anni su questa spiaggia, e so che era felice di morire per farla finita. «Le fotografi gli occhi» ordino al tecnico della Scientifica. Poi mi rivolgo al medico legale di turno. «E poi lei glieli chiuda.» Ostia dista mezz’ora circa da Roma. Popolosa d’inverno, sovrappopolata d’estate per le sue spiagge, gli stabilimenti balneari e i locali con le discoteche all’aperto. Donatella Caruso è stata lì ieri sera, a ballare sulla sabbia al Beach Dance con centinaia di coetanei, approfittando del primo fine settimana dal clima estivo. Questo lo sappiamo già con certezza dall’amica con cui era e che verso le tre di notte l’ha cercata per tornare insieme a casa, senza trovarla. Il cellulare risultava spento e alla fine la ragazza si è fatta coraggio, ha chiamato casa di Donatella e il padre ha avvertito la polizia di Ostia. Il corpo è stato ritrovato all’alba in uno spogliatoio dello stabilimento Due Remi, a cinquecento metri dalla discoteca dalla quale la Caruso era sparita. E la polizia di Ostia ha avvertito subito la mia sezione, la Omicidi. «Chi è il pm di turno?»
L’ispettore Antonio Coppola, ultraquarantenne napoletano dalla tagliente ironia di meridionale che si sente discriminato, era già alla Omicidi quando me l’hanno affidata. I colleghi lo hanno soprannominato Nano, ma questo non soffoca la galanteria sfrenata che gli ha già causato due divorzi e mi costringe a tenerlo lontano dalle indagini in cui sono coinvolte donne troppo belle, anche ora che è felicemente sposato, per di più con un figlio. «È Ezio Conti, l’ho avvertito io. È lui di turno ma non viene. Ha detto che si fida di lei e di fargli sapere quando torna a Roma. Uno sfaticato cronico...» Per fortuna la maggior parte dei pm è così, non viene sulla scena del delitto, aspetta i rapporti, dà istruzioni vaghe che posso piegare alle mie modalità di indagine. Ezio Conti ne è l’esempio perfetto. Ma non mi fa piacere che il Nano si esprima in quel modo su un pubblico ministero. «Non è affar tuo, Coppola. Preferisci restare qui con la Scientifica e il medico legale per raccogliere le prime informazioni o andare a Roma ad avvertire i genitori della ragazza prima che lo sappiano dalla radio?» Impallidisce visibilmente. «Preferisco restare qui, dottore. Se vuole vado anche a interrogare il personale della discoteca e dello stabilimento, li ho già fatti chiamare.» «Va bene. Senti anche l’amica con cui era venuta a ballare la ragazza. Ci vediamo più tardi in ufficio.» Lui mi strizza l’occhio. «Comunque, chillo è ’nu sfaticato.» Non posso picchiare un nano. Oltre tutto così simpatico.
Nanni La donna piange. Mormora qualcosa. «È colpa mia se mi hai tradita, amore, ti avevo lasciato troppo solo.» Il marito annuisce.
Io li guardo, seduti davanti a me, ma non li ascolto già più. Sono solo le nove e cinque, ho di fronte i primi pazienti della mattina, eppure sono già stufo. Certo, ascoltare le coppie è il mio lavoro. Ricevo ogni giorno, tranne la domenica e il sabato pomeriggio, nel mio studio all’Eur, periferia sud di Roma, in un’isolata villetta con giardino e ingresso auto sul retro. Studio scelto da Bianca, come i mobili e come quasi tutto il resto nella mia vita. In alternativa allo psicologo avrei potuto fare il venditore o il politico, che poi sono la stessa cosa. Avrei anche il talento, ma farmi pagare per ascoltare è molto più semplice. Coppie che si siedono davanti a me e mi raccontano le stessevarianti degli stessi problemi. Illusioni amorose che sono diventate gabbie. Tanto più frustranti perché sono loro a chiudervisi dentro e a gettare via la chiave. Sopportano i tradimenti, le liti, a volte le botte. Non si arrendono a una tristezza quotidiana che a volte negano persino di fronte a se stessi. Sanno che è troppo tardi per uscire dalla gabbia, che è meglio restare lì dentro, con chi si conosce. Anche se l’amore di un tempo è sbiadito nell’affetto, quando va bene, il sesso, se c’è, è una routine, il futuro è la difesa del passato, e lasciare tutto così com’è sembra il modo per soffrire di meno in attesa del giorno in cui la vita finisce. Vengono da me per ritrovare l’amore perduto tra loro, pur sapendo benissimo nel fondo del cuore che l’amore esiste ma non va cercato lì. Vengono da me perché hanno paura di fare l’unica cosa che ovviamente potrebbe fargli trovare di nuovo l’amore, rischiare, mollare tutto e cercarlo altrove. Ma io so che esiste una sola ricetta per aiutarli davvero: fargli credere che possono farcela, e che fuori il mondo è troppo crudele. Li ascolto e ogni volta penso al mio matrimonio, che dopo dodici anni ancora tiene, come i motori delle auto di una volta. Certo, con Bianca le divergenze di vedute ci sono, ma non degenerano mai in vere liti. Al peggio si fa come dice lei e a me va bene così, perché in cambio lei mi dà tutto. Serenità, conforto, persino il sesso, fatto meno di passione e più di tenerezza. Ma ci amiamo ancora? Una domanda crudele, insensata, autolesionista. La domanda che tormenta gli illusi, i romantici: i miei pazienti. Una domanda inutile.
La vita non può essere fatta di montagne russe. E Bianca è quella che spiana le vette e riempie le vallate.
Balistreri C’è Roma e Roma. Ci sono i condomini di lusso della Camilluccia, le belle case d’epoca dei Parioli e di Prati, le ville e i grattacieli scintillanti dell’Eur. Se conti qualcosa, perché sei ricco di famiglia o hai un buon lavoro o sei bravo a rubare, abiti in un posto del genere. Gli altri, invece, vivono in posti simili a quello in cui abitano i Caruso. Esteticamente meno gradevoli ma molto più veri. La villetta in borgata Ottavia, tra la ferrovia e un carrozziere, è già sintomo di un discreto successo economico se non di emancipazione sociale. Un giardinetto ben curato, infissi dipinti, colori tenui, mobili fatti da un falegname amico. Suono e mi apre la porta un’adolescente sui diciotto anni, la copia perfetta di Donatella Caruso, il volto teso dall’apprensione. Le mostro il tesserino identificativo generico, quello che dice solo polizia e non sezione Omicidi. «Sono Michele Balistreri, ci sono i tuoi genitori?» «Sì, io sono Alessandra, la sorella di Donatella.» Mi fa strada in un corridoio, si sentono delle voci e in sottofondo la tv. Saranno amici e parenti, tutti in attesa di notizie. Devo sbrigarmi, prima che sia il telegiornale ad annunciare a tutta la comunità riunita che la figlia, sorella, nipote, amica è stata picchiata, stuprata e strangolata. Quella prima volta, quasi vent’anni fa, quando trovai i genitori di Elisa Sordi davanti al mio ufficio, mi limitai a dire mi dispiace e a chiudere la porta sui loro volti in disfacimento. Sono invecchiato da allora. Avevo poco più di trent’anni e oggi ho passato i cinquanta. Ma il tempo trascorso non mi ha cambiato. Tutte le sigarette, il whisky, le donne di cui ho consumato il corpo e cancellato l’anima non sono serviti né a seppellire il passato né a farmi desiderare un futuro. Non siamo affatto artefici del nostro destino, recitiamo una parte insignificante in qualcosa che non comprendiamo, e le nostre grandi tragedie individuali non contano più della formica che ho appena calpestato attraversando il giardino.
Faccio solo un lavoro. Cerco assassini finché li catturo. Non so consolare, non so capire il dolore di un padre e di una madre. Per questo oggi mi è più facile guardarli negli occhi mentre dico loro le stesse parole che dissi nel 1982 ai genitori di Elisa. «Mi dispiace.»
Nanni Gli ultimi due pazienti se ne sono appena andati, sono le diciannove e non ricevo mai oltre. Mi sobbarco sette ore al giorno di sedute di terapia dal lunedì al venerdì e quattro il sabato mattina. Faccio un lavoro ormai ripetitivo che deprime il mio talento, ma presto finirà. Trasformerò le registrazioni di migliaia di incontri in un bestseller e chiuderò questo maledetto studio. Mi alzo dalla scrivania, chiudo gli appunti, scosto la tendina. La vecchia Ford Fiesta di Bianca è lì ad aspettarmi. Puntuale, come sempre, dal giorno in cui l’ho conosciuta. Quel giorno avevo visto le spalle e la nuca prima del volto. Ero in quella biblioteca da tre ore e non ero mai davvero riuscito a concentrarmi sui libri. Niente di strano, ero così e lo ero da sempre. Preferivo ascoltare piuttosto che leggere. Chiacchierare piuttosto che studiare. In fin dei conti un bel carattere aperto, come dicevano tutti. Avevo ascoltato musica in cuffia, mi ero pavoneggiato un po’ con qualche studentessa sulle mie nuovissime Nike Air Max 1 che mi ero fatto arrivare dagli States, ero andato un po’ dietro ai miei pensieri. Ma mentre quasi tutti gli altri ogni tanto si alzavano, si voltavano, si stiracchiavano, andavano alla toilette o al distributore di bevande quelle spalle e quella nuca erano lì, immobili e curve sui libri da quando ero arrivato. Avevo visto entrare due mie amiche, le avevo abbracciate e quando loro mi avevano detto che volevano provare i miei nuovi Levi’s 501 avevo riso. Allora, per la prima volta lei aveva girato la testa e io avevo incrociato il suo sguardo, solo per un attimo. Più che irritata era incredula. Non poteva neanche concepire che qualcuno ridesse in una biblioteca! Le avevo sorriso istintivamente. Eppure non sorridevo mai a una ragazza prima di avvicinarla. E non prendevo mai l’iniziativa, un lusso dell’essere bello. E una tecnica appresa con l’esperienza precoce. Invece avevo sorriso. Quella nuca era già china di nuovo sui libri. Mi ero avvicinato alla ragazza, l’avevo toccata sulla spalla.
Quel giorno del 1987 in biblioteca io avevo ventisei anni e lei venticinque. Arrancavo a psicologia quando lei si era già laureata in legge con una sessione di anticipo e a pieni voti, e stava finendo il tirocinio e preparando il concorso in magistratura che naturalmente avrebbe poi vinto. Nel 1989 completai finalmente i miei studi e ci sposammo. Per i figli Bianca volle che io finissi a mia volta il tirocinio. Solo allora eliminò i contraccettivi e nel 1990 nacque Luca. Niente fu lasciato al caso. Il sole non è ancora tramontato, le giornate diventano lunghissime e c’è l’aria tiepida della prima estate. Salgo in macchina e bacio Bianca sulla guancia. Viene dalla procura, di sicuro da una giornata stressante. Eppure è inappuntabile. Si è rifatta il trucco e si è messa il rossetto nella toilette dell’ufficio per essere perfetta per il mondo e in primis per me. Ma è un po’ più pallida del solito. «Qualcosa non va, Bianca?» Scuote il capo. «Questa mattina hanno ritrovato il cadavere di una ragazza di ventun anni. Un maniaco l’ha presa all’uscita di una discoteca a Ostia, l’ha picchiata, stuprata e strangolata. Come può esistere gente così, Nanni?» Mia moglie si occupa prevalentemente di inchieste sulla corruzione e sul malaffare, conosce solo quel tipo di male. Non l’anima più nera degli esseri umani. Quella, posso dirlo, la conosco meglio io. «Ma te ne devi occupare tu?» «No, per fortuna no. Era di turno quell’idiota di Ezio Conti. Solo che il padre di questa ragazza so chi è, per un’inchiesta che sto seguendo. Una brava persona.» Decido di cambiare discorso, il suo lavoro non mi ha mai interessato. «Domani è festa, dove vogliamo andare a cena?» La nostra vita è così, molto regolata. Il lavoro, la scuola di Luca, tutte le sere a casa tranne quelle prima dei giorni festivi, in cui usciamo da soli o con gli stessi amici di sempre. E poi si fa sesso, visto che il giorno dopo si può dormire fino a tardi. Lei mi mostra un cartoncino, un invito all’Auditorium dell’università.
«Li ha ricevuti il procuratore capo dall’università e ce li ha dati. Un dibattito e poi un aperitivo rinforzato. Che ne dici?» Il dibattito è su Etica e ricerca scientifica, tra un cardinale e un tal Victor Bonocore, scienziato, di cui non ho mai sentito parlare. L’argomento non mi interessa affatto, ma ho imparato a non contraddire Bianca se non è inevitabile. «Va bene, dai, andiamoci.» Quando arriviamo all’Auditorium il dibattito è appena iniziato e la sala è già quasi piena. Mi siedo accanto a mia moglie in ultima fila. Siamo a cinquanta metri dal palco su cui ci sono tre poltroncine. A sinistra, in rosso, il cardinale. Al centro Anselmo Guidi, il vicedirettore del Domani. Il terzo dev’essere lo scienziato, Victor Bonocore. Da lontano mi appare come un uomo sui cinquanta, alto, spalle larghe, capelli neri striati di grigio, lisci e un po’ troppo lunghi, una folta barba brizzolata, occhiali grandi con le lenti spesse. Indossa una giacca grigia di tweed su un dolcevita nero e i blue jeans. Il vicedirettore del Domani lo presenta calorosamente. «Il professor Bonocore è nato negli Stati Uniti, dove ha concluso i suoi studi e ha creato una società di successo di cui poi ha ceduto le sue quote. Da alcuni anni insegna alla New York University e fa ricerca sulle nuove tecnologie applicate alla medicina. È qui a Roma dallo scorso giugno, e sta terminando il suo anno sabbatico. Victor è uno scienziato, un uomo molto riservato che non troverete mai sui giornali o in tv. Da quando è in Italia siamo diventati buoni amici e ho avuto il piacere di conversare con lui diverse volte. Non di matematica e tecnologia, ma di etica. È la prima volta che accetta un impegno pubblico. E per questo lo ringrazio.» Mi aspetterei un cenno, un sorriso, una frase da parte di Bonocore. Ma lui non dice nulla, sembra persino poco interessato dietro quelle lenti grandi e spesse. Anselmo Guidi gli cede la parola. «Allora, ci parli della lotta per sconfiggere il male, Victor?» Bonocore non sorride, non ringrazia, non saluta il pubblico. Inizia direttamente a parlare. In un discreto italiano, con l’accento americano. Non usa il microfono. Non guarda la platea, fissa le proprie mani intrecciate sullo stomaco. La voce è bassa e ci sono alcuni brusii di protesta dal fondo, ma Bonocore non se ne cura. Continua a parlare guardandosi la punta delle scarpe.
«La matematica e la fisica applicate alla medicina... il bombardamento cellulare per fermare il cancro, per... i difetti genetici. Questa è la lotta del bene... Il male è chi ostacola la scienza, in qualunque modo. Purtroppo in questa lotta non tutti... la Chiesa... La natura è una forza caotica, illogica. La scienza cerca di darle un ordine che in partenza non c’è. Se ci fosse stato un Dio creatore benevolo non avremmo bisogno della scienza. Questo rende ancora più assurdo che chi ci crede ci ostacoli.» Il cardinale sorride con aria impassibile e condiscendente. Non mi stupisce la sua imperturbabilità. I preti son passati dal pulpito ai salotti televisivi. Magari seguono anche i corsi di public speaking. Aspetta che Guidi gli passi la parola e poi sorride al pubblico, ringrazia Guidi e tutti i presenti, si rivolge con cortesia allo scienziato. «Se ben capisco, il professor Bonocore ritiene che l’esistenza stessa del male, delle guerre, delle malattie, neghi automaticamente l’esistenza di Dio. Ritiene che le obiezioni a certe forme di ricerca scientifica siano dalla parte del male. Del resto il relativismo non riconosce nulla come certo, non soltanto Dio. Per noi cattolici questa è solo la decadenza della ragione. Assolutismo.» Bonocore non lo degna neanche di un’occhiata. Lo interrompe, senza aspettare che Guidi gli ripassi la parola. «Sono le religioni monoteiste a essere assolutiste. Non avrai altro Dio all’infuori di me non è esattamente un principio liberale. E questo Dio buono e onnipotente non è conciliabile con miliardi di cellule maligne che divorano il corpo di un bambino.» Vedo il cardinale sobbalzare leggermente, agitarsi sulla poltroncina. Non è abituato a quel tipo di rudezza negli edulcorati dibattiti con gli intellettuali italiani sempre attenti a non offendere i cattolici. Cerca di controllare il tono e di restare cortese. «Ci sono mali che servono un bene superiore, professore.» «Un bene superiore e invisibile a noi comuni mortali, cardinale?» «Esiste anche il giudizio del cuore. Da molto prima degli studi sulle particelle o di internet.» Sul volto di Bonocore appare un ghigno. Sembra contento di aver affondato l’impassibilità del cardinale. La sua voce è un sussurro irridente. «Caro cardinale, la certezza è più obiettiva della speranza. Le faccio un esempio. I mariti che portano soldi a casa sono una certezza, quelli fedeli alla moglie solo una speranza.»
Brusio generale, poche risate nervose, nessun applauso. Le mani di Bianca sono immobili, pallide e intrecciate in grembo. Temo stia per chiedermi qualcosa su ciò che Bonocore ha appena detto, così mi alzo. «Scusami, tesoro, soffoco, ho bisogno di un po’ d’aria.» Avrei potuto essere un po’ più diplomatico, devo andare alla toilette oppuredevo telefonare a un paziente. Ma sono saggio. Le piccole bugie sono inutili pericoli, bisogna ricorrervi solo quando è proprio indispensabile, altrimenti ci si abitua e si rischia. E mia moglie è una vera esperta nel fiutare le bugie, è il suo mestiere. Lascio la sala. In una adiacente sono pronti gli aperitivi e il buffet. Entro e mi faccio versare un prosecco dal cameriere, poi da una portafinestra esco su una veranda. Il sole è tramontato e la veranda è debolmente illuminata. C’è solo una ragazza, avrà sì e no vent’anni, mi dà le spalle appoggiata alla balaustra, fuma e sorseggia qualcosa che dev’essere vino bianco. Ha capelli biondi scalati che scendono lisci fino alle spalle. Indossa un top nero con spalline sottili e dei blue jeans aderenti. La silhouette è sensazionale anche se non supera il metro e sessantacinque. Deve aver avvertito la mia presenza silenziosa perché si gira di colpo e i suoi occhi mi fissano divertiti. «Mi stai guardando il culo?» Parla italiano con un forte accento americano. Sono abituato per deformazione professionale a controllare le mie reazioni. Tranquilla indifferenza di fronte all’aggressività. E imperturbabilità anche di fronte alle donne bellissime. La mia specialità. Il modo migliore per incuriosirle. «Non le interessa la conferenza, signorina?» Lei scrolla le spalle, scuote i capelli biondi, mi scruta. So cosa vede. Un uomo sulla quarantina, ma giovanile, fisicamente in forma, con i capelli ancora scuri ben tagliati e pettinati, i baffetti curati, nel suo completo grigio di sartoria con camicia celeste e cravatta di Marinella. Mi domando se ha visto la fede all’anulare sinistro. «Un prete che parla con l’uomo più materialista del mondo? Sai che palle. Vuoi fumare?» Mi allunga una specie di sigaretta accesa che deve aver arrotolato da sola. Le mani sono piccole, sottili, in armonia con il corpo delicato ma con tante curve. Le unghie
laccate di rosa, come le labbra. È un colore particolarmente adatto a lei. Sento il suo profumo dolce e la crema idratante sulle spalle scottate dal primo sole caldo di questi giorni. «Grazie, signorina. Non fumo.» «Dovresti. È molto più meglio che sentire quei due.» Nonostante l’errore, il suo italiano è decisamente buono per un’americana. Come quello dello scienziato antipatico. Le sorrido, educato ma non troppo amichevole. Non mi dispiace flirtare un po’. Soddisfa il mio ego senza far danni, se Bianca non vede. «Grazie lo stesso.» Lei mi guarda col capo leggermente inclinato, come se mi stesse valutando. Tiene la sigaretta tra le labbra ben disegnate, aspira e butta fuori il fumo in modo che passi tra i suoi occhi e i miei. Mi ricorda la panna sul gelato che mia nonna mi comprava la domenica da bambino. «Non c’è solo tabacco. Secondo me ti piacerebbe.» Commenti troppo personali. Narcisismo, insicurezza. Sorrido della mia diagnosi involontaria e scuoto il capo, cortese. L’erba, ai bei tempi, l’ho provata, ma Bianca non ne ha mai saputo niente. Come dicevo, omissioni, mai bugie. «Grazie comunque. Ora devo tornare dentro. Da mia moglie.» Mostro la fede. Lo faccio sempre in certe circostanze. Tanto so che le attira, non le respinge di certo. Lei si gira, spegne male la canna sulla balaustra e la butta mezza accesa sul piazzale sottostante. Si volta a guardarmi. «Come ti chiami?» Le tendo la mano. «Giovanni Annibaldi.» Lei ignora la mia mano, mi dà un’ultima occhiata ironica. «Bene, Johnny. Io mi chiamo Scarlett.»
Si gira verso la balaustra. Come se fossi scomparso o non fossi mai arrivato. Dalla sala arriva un applauso, e il rumore di corpi in movimento annuncia che il dibattito è finito. Torno nella sala dell’aperitivo proprio mentre Bianca sta entrando con i suoi colleghi della procura. Gente barbosissima. Svicolo e mi dirigo al bar. Gli aperitivi dopo le conferenze generalmente sono noiosi. Molte conversazioni con sconosciuti non sempre sobri circoscritte all’argomento dell’incontro. Dopo un po’ si tende a ribadire il proprio punto di vista, con leggere varianti, a interlocutori diversi che stanno facendo la stessa cosa. Se ci si distrae c’è il rischio di ripresentarsi o ripetere tutta la solfa a qualcuno con cui si è già parlato. Tocca stare concentrati per futili motivi, una stupida e inutile fatica, per cui mi aggiro senza una rotta, con il mio martini in mano, evitando qualunque conversazione. In fondo alla sala intravedo Victor Bonocore col bicchiere pieno accanto al vicedirettore del Domani. Il professore, alto e barbuto, sembra Mefistofele. È circondato da signore che lo guardano un po’ invaghite ma anche timorose, forse senza capire bene cosa dice. Ha indubbiamente il suo fascino, lo scienziato. Un fascino che definirei sordido, maledetto. Ma so che alle donne i tipi così piacciono. Specialmente se sono degli intellettuali e hanno fatto un sacco di soldi. Mi avvicinerei volentieri ad ascoltare, più che altro per interesse professionale. Ma Bianca non gradirebbe e mi tengo a distanza. In un altro capannello mia moglie chiacchiera con il cardinale e altre persone tra cui Ezio Conti, il suo collega di pari grado, un misogino che in procura vede Bianca come una minaccia, pur considerandola semplicemente una segretaria un po’ troppo evoluta. «Johnny!» Mi giro, Scarlett mi sorride, ha ancora un bicchiere di vino bianco in mano. Accanto a lei c’è una spilungona con uno spolverino elegante, un po’ fuori luogo data la temperatura primaverile. Ha bellissimi occhi verdi, calmi come il mare in un giorno di sole senza vento, e i capelli rossi raccolti in uno chignon fermato con una spilla d’argento. Ha sicuramente meno di trent’anni ma l’abbigliamento, l’acconciatura, lo sguardo sono da signora. «Ti presento Nicole» dice Scarlett. La donna tende la mano. Ha dita lunghe, fredde. Unghie corte e senza smalto.
«Giovanni Annibaldi, molto piacere.» Lei mi fa un sorriso educato. «Nicole Bonocore, molto piacere.» Rimango un attimo interdetto. «Lei è la figlia del...» Il suo sorriso mi dice che non devo sentirmi in imbarazzo per l’errore. «La moglie.» Sono seccato. Ho parlato senza riflettere. Cose che a volte faceva il giovane Nanni. Ma non il dottor Giovanni Annibaldi. Anche Nicole parla un italiano abbastanza corretto, ma l’accento americano è molto forte. Scarlett fa una piccola riverenza insolente che mette in mostra la scollatura. «E io sono la sua sorellina minore. Scarlett Steele, molto piacere.» Sento gli occhi di Bianca su di me da una decina di metri. Cerco di essere allo stesso tempo educato e rapido nel liberarmi. «Piacere, signora Bonocore. Piacere, signorina Steele. Ora...» Nicole sta per salutarmi ma Scarlett interviene. «Nicole, perché non presenti il signor Annibaldi al tuo boss?» Usa proprio quel termine, boss. Nicole non si scompone. «Non credo che al signor Annibaldi interessi. E poi volevamo andare a casa. Stare in mezzo a troppa gente per Victor è una fatica. Magari un’altra volta, signor Annibaldi?» Sento che lo fa per educazione, per togliere me dall’imbarazzo. Ha intuito che non ci tengo a quella presentazione. Scarlett mi rivolge un’occhiata ironica. «Dovresti farli conoscere, Nicole. Johnny ha ascoltato Victor con grande interesse!» Si volta e ci pianta in asso. Io e Nicole ci guardiamo.
«Vuole davvero che le presenti mio marito?» Ora tocca a me toglierla d’impaccio. Le rispondo nel mio ottimo inglese. «Mi piacerebbe, signora Bonocore. Suo marito ha un modo di ragionare ed esprimere i suoi convincimenti davvero interessante per il lavoro che faccio. Ma capisco che ora non è il momento.» Lei mi guarda e mi sorride grata. «Lei è un teologo o un filosofo, signor Annibaldi?» «Nessuna delle due. Sono uno psicologo specializzato nella terapia di coppia.» Lei annuisce in silenzio, per un lungo momento, come attraversata da un pensiero molesto. «Allora forse dovrei presentarle davvero mio marito. Ma, come ha detto lei, non qui.» Resto un attimo perplesso, sto per fare una domanda ma Bianca ci sta ancora osservando. Mi preparo a un congedo educato ma lei mi anticipa. «Arrivederci, dottor Annibaldi.» Per fortuna Bianca non mi chiede nulla. Rosa, la nostra collaboratrice domestica, cuoca, baby sitter e mia segretaria a distanza, ci aspetta a casa. «Luca dorme da un pezzo. Dopo cena ha disegnato per due ore, poi gli ho letto un po’ di Harry Potter e si è addormentato.» La ringraziamo e lei se ne va. Ci laviamo i denti, Bianca si strucca e indossa una delle sue camicie da notte prefestive. Quelle delle sere in cui facciamo sesso. L’approccio con Bianca è da tempo poco soddisfacente. Lei ci mette impegno e dedizione. È decisa a rendere piacevole qualcosa che ritiene funzionale al matrimonio, e il suo matrimonio non può essere imperfetto per colpa sua.Mentre invece la colpa non è di nessuno dei due, è semplicemente un effetto naturale degli anni, dello stress per Luca, della fatica per il lavoro. All’inizio il sesso era fondamentale nel nostro rapporto. In un certo senso era l’unico momento in cui le davo più di ciò che ricevevo. Ora, anche lì, sto lentamente mollando e Bianca si sta trasformando in una geisha che io vedo più come un’infermiera al capezzale di un marito che spesso fa cilecca. Ma anche di fronte a
un mio insuccesso Bianca lo fa suo. Non chiede mai, come farebbero altre donne: Non ti piaccio più? Hai un’altra? Il dubbio neanche la sfiora. Così cambia camicia da notte, massaggi, fantasie. Se non fosse per le barriere morali della sua educazione affitterebbe una videocassetta porno. È sempre stata attenta alle mie esigenze, rassicurante e consolatoria quando serviva. Ma la Passione, con la P maiuscola, è lentamente svanita. E io non sono uno dei miei pazienti, uno sbandato alla ricerca delle emozioni perdute. Io ce l’ho già la donna della mia vita e le sono rimasto materialmente fedele. Mi sono dato delle regole molto precise: flirtare e basta, abbaiare senza mordere. Mai con donne con cui Bianca abbia o possa avere il benché minimo contatto. Il confine tra il pensiero e l’azione forse non esiste eticamente ma è decisivo in concreto.
Martedì primo maggio 2001 Balistreri Attraversare a piedi il centro di Roma alle sette di mattina di una giornata festiva mi fa pensare ogni volta alla tragica e indicibile utilità delle guerre. Non solo perché riducono la quantità delle persone, ma anche perché possono migliorarne la qualità, rendendo chi resta più consapevole e rispettoso. Mi chiudo nel mio vecchio ufficio al terzo piano, quello che tengo con le persiane socchiuse sulla vista più bella del mondo. Apro solo all’alba o di notte o per pochi minuti quando l’aria diventa irrespirabile per gli altri, a causa del fumo delle mie Gitanes. Lì fuori non mi piace niente. Coppola non bussa, entra. Non è puntualissimo e non è felice di dover passare in questura la giornata festiva. Si siede senza chiedere il permesso. «Ha visto quanti accattoni per strada, dottore?» So che è la razza di quei poveracci a disturbarlo. È fissato con questa storia che distruggeranno la nostra civiltà. «In Africa muoiono di fame, Coppola.» «E vengono qui a mangiare il nostro pane? A togliere il lavoro ai nostri figli?»
Cambio subito discorso. «Hai interrogato tutti i testimoni?» «I testimoni non sono serviti a nulla. Ragazzi sballati di birra e altra roba, non sanno un emerito cazzo.» «Coppola, ti ho già detto...» «Mi scusi, mi è sfuggito.» «Il medico legale che ha scoperto?» Lui scuote la testa. «Secondo il medico che è intervenuto sul posto la ragazza è stata picchiata, stuprata e strangolata. E questo lo capiva pure uno scemo. Per fortuna ha aggiunto che è successo tra l’una e le due di notte.» «Tracce?» «La Scientifica ne ha trovate diverse, anche di dna, nella cabina e sulla sabbia intorno. Ma dovremo aspettare per saperne di più.» Si alza, va ad aprire la finestra. Da fuori entra subito il rumore del traffico. «Senti, Coppola. Questa è la mia stanza. Chiudi la finestra.» «Ma, dottore, qua c’è una puzza di sigaretta che non si respira. E sarebbe pure proibito...» «Sai, Coppola, ci sono un sacco di posti liberi nei commissariati dei paesini di montagna. Aria ottima. Chiedo il tuo trasferimento?» Lui chiude la finestra e si siede. «Hai sentito l’amica con cui Donatella era andata in discoteca?» Non mi guarda, si è offeso. «Sono state insieme per un po’, hanno ballato e bevuto, ma dopo l’una non l’ha più vista. C’erano centinaia di persone e anche il buttafuori del locale non si ricorda di Donatella, con tutti quei ragazzi che entravano e uscivano.» «Avevano preso qualche droga?»
Coppola fa una smorfia. «L’amica di Donatella dice di no. Che Donatella era contraria, niente spinelli e niente ecstasy. Comunque, vedremo con l’autopsia.» «Lo stabilimento balneare?» «È ancora chiuso, aprono tra due settimane. La porta dello spogliatoio non aveva neanche un lucchetto.» «Hai trovato altro?» «Nei database ci sono tantissimi casi di ragazze picchiate e stuprate fuori dalle discoteche. Ma delitti ce ne sono molti meno e i colpevoli li abbiamo presi, stanno tutti in galera. Credo che quello di ieri sia uno che forse ne ha già picchiate e stuprate altre, ma è la prima volta che uccide. Solo che quando cominciano...» Coppola è così. Guarda troppi film americani, gli piace il dramma. «Va bene, Coppola. Prima di costruire la teoria di un nuovo serial killer valutiamo tutte le altre ipotesi.» «Tipo un maniaco estemporaneo che ha superato il limite?» «Ne riparliamo dopo l’autopsia. Tu intanto prepara il rapporto per il pubblico ministero.» «Oggi è festa, il dottor Conti non è in procura, ci sarà domani.» «Allora hai più tempo, Coppola. Vai a casa da Lucia e Ciro e riposati come tutti gli altri italiani. Tanto per Donatella Caruso non fa alcuna differenza.» Lui sorride. «Oggi Ciro fa dodici anni. Vuole vedere quanto è alto?» Mi mostra orgoglioso la foto di un ragazzino tra i due genitori. Ha gli occhi di Coppola ed è molto alto, come la madre. «Auguri, Coppola. Vai da loro.» Mi guarda per un attimo. «Stasera vengono un po’ di parenti e amici a festeggiare. Ci raggiunga, che ci sta a fare qui, dottore?»
Dà per scontato che non abbia nessuno con cui passare la giornata festiva e ha ragione. Nessuno con cui mi vada di farlo. «Grazie, Coppola. Ho una cena, auguri a Ciro.»
Nanni Quando mi alzo dal letto sono le dieci passate. Dormo sempre a lungo quando posso. Bianca ovviamente è già sveglia, chissà da quanto. A quasi quarant’anni è ancora snella, si allena ogni mattina dalle sei alle sette correndo con le cuffie sul tapis-roulant. Non ascolta musica, sono le registrazioni delle intercettazioni o degli interrogatori. Io ho solo un anno più di lei e tutti dicono che ne dimostro trenta, con la mia aria da intellettuale, i capelli ancora scuri, il viso liscio e abbronzato dalle uscite in barca a vela, i baffetti ben curati e l’eleganza nel vestire. Tuo marito sembra un ragazzo. Bianca sorride quando gli amici lo dicono. Eppure il quarantesimo compleanno mi è pesato maledettamente e la grande festa che mi ha organizzato Bianca con tutti gli amici l’ho vissuta come un mezzo funerale. La trovo nel salotto inondato dal sole, i capelli bagnati di doccia. Ha già terminato la sua ora di tapis-roulant, ha preparato la colazione per Luca, gli ha fatto lavare i denti, gli ha sicuramente raccomandato di fare i compiti. Ora è seduta in poltrona a studiare i fascicoli che si è portata a casa dall’ufficio, un’abitudine che non approvo. In cucina, la tavola è già apparecchiata anche per la mia colazione. Appena mi vede mi sorride, posa i suoi fascicoli, si alza e mi bacia. Poi accende il fuoco sotto la caffettiera che ha già riempito. Sa che il caffè espresso, caldo e forte, insieme alla lettura del Domani, che è già scesa a comprare, è il modo che preferisco per iniziare la giornata. Bianca è la persona che tutti vorrebbero avere accanto. Ma a volte penso che nessuno tranne me vorrebbe averla sempre accanto. Per quanto sia stimolante, non è semplice convivere con qualcuno che senti costantemente migliore di te. Qualcuno pronto a farsi carico dei problemi in ogni occasione. I suoi e quelli degli altri. Lei è così. Ha perso il padre poliziotto sotto i colpi della camorra quando aveva dodici anni e durante il liceo ha accudito fino all’ultimo la madre malata di tumore. Perché si è messa con me? Perché mi ha scelto per il suo progetto di famiglia perfetta?
Sono certo che il mio aspetto e il sesso abbiano giocato un ruolo determinante all’inizio. E poi il fatto che appena ho conosciuto lei ho desiderato anch’io la stabilità. Ma poi, nel tempo? Oggi, che ci conosciamo da quattordici anni e siamo sposati da dodici? Bianca torna alla poltrona e si reimmerge nei suoi fascicoli. Io scorro i titoli del Domani sorseggiando il caffè. In prima pagina campeggia quello sulla tragica morte di una ragazza, Donatella Caruso. Non ho alcuna voglia di leggere l’articolo, firmato da un certo Franco Romero. In un angolo della cronaca locale c’è un breve trafiletto sul dibattito all’Auditorium di ieri sera. Senza sapere bene perché o fingendo di non saperlo vado al computer e digito victor bonocore su Google. Ci sono alcuni riferimenti vecchiotti a pubblicazioni su riviste scientifiche di università americane. Trovo una biografia molto scarna su Wikipedia. Figlio di immigrati italiani, nato a New York, cinquantaquattro anni. Dopo le scuole superiori era stato ammesso a Princeton. Erano seguite velocemente una laurea in fisica e una in matematica, poi era andato in California per il dottorato a Stanford. Nella Silicon Valley era stato tra i pionieri della rivoluzione tecnologica. La sua società, fondata nel 1985, era stata una delle prime a capire come collegare in rete i computer. Dieci anni dopo, Bonocore aveva venduto le sue quote per tornarsene alle amate aule universitarie, ma si era trasferito di nuovo a est e aveva scelto la New York University. Lì insegnava e faceva ricerca avanzata. Bianca posa un attimo il fascicolo. Si toglie gli occhiali, mi guarda senza alzarsi dalla poltrona. «Nanni, io ho un sacco di fascicoli arretrati e dopo pranzo devo fare un salto in procura. Puoi occuparti tu di Luca? Deve fare i compiti, non vorrei che passasse tutto il tempo a scattare fotografie dal balcone.» Sono contrariato, non è certo quello che avevo in mente per oggi. L’onnipresenza del lavoro di mia moglie mi dà fastidio, occupa uno spazio indebito. E stare dietro a Luca è l’ultima cosa che voglio. Nostro figlio è un bambino di undici anni di aspetto normalissimo, ma parla e socializza poco con gli altri. A scuola è svogliato e le sue uniche passioni sono il disegno e le foto, grazie alla macchina che gli abbiamo regalato. Io penso che la soluzione non sia alla nostra portata e che bisognerebbe farlo vedere da uno specialista, ma Bianca non è d’accordo. Secondo lei dipende solo da noi, dal nostro amore e dalla nostra presenza al suo fianco. Dove io sono assente
e lei onnipresente. È una battaglia frontale in cui lei è generale e io soldato semplice, come in tutto ciò che fa. Ma forse è la sua voce che Luca ha sentito troppo, fin da neonato. E ora è istintivamente portato ad avvicinarsi a me e ad allontanarsi da Bianca. Preferisce me alla madre che gli sta sempre addosso. Ma io ho già i pazienti e ho bisogno dei miei spazi per vivere. E rapportarmi a quel bambino, mio figlio, è una fatica inaudita. In ogni caso non voglio discutere con Bianca. «Tranquilla, me ne occupo io.» «Grazie, Nanni. Che stai facendo?» «Bonocore quando era giovane è stato davvero un imprenditore di successo. A guardarlo non si direbbe.» «A me è sembrato un affarista più che uno scienziato. E magari un affarista un po’ losco...» Conosco i giudizi di mia moglie e i suoi pregiudizi nei confronti dell’ateismo, del relativismo e degli uomini che fanno battute sessiste. «Be’, ha un aspetto e dei modi non proprio da gentiluomo. Ma, se grazie ai primi brevetti ha ceduto per un sacco di soldi le sue quote della società che aveva fondato, dev’essere molto in gamba.» «C’è gente molto in gamba che non fa molti soldi. Ma com’è che sai tutte queste cose di lui?» Ecco il mio amato pubblico ministero. «Ho dato un’occhiata su Wikipedia.» «Una lunga occhiata, direi. Ti hanno colpito i suoi pensieri o le sue belle figlie?» Il suo fastidio per la mia conversazione con Nicole e Scarlett non nasce dal sospetto. Lei non dubiterebbe mai della mia fedeltà. È più un’antipatia istintiva per il tipo di ragazza che Scarlett Steele non fa mistero di essere. Il corpo usato come arma. «Non sono le sue figlie. Una, quella più alta, è la moglie. L’altra è la sorella della moglie.» Lei fa una smorfia.
«Be’, almeno la moglie non fa la stupida con gli uomini che hanno vent’anni più di lei.» «A quelle come Scarlett piace provocare e giocare, Bianca. È solo una ragazzina.» Lei mi guarda stupita. «Scarlett? Vi siete presentati?» Sono distratto, come al solito. Ma con Bianca devo stare più attento. «Lei si è presentata. Io ho solo risposto.» Fin qui i fatti sono tutti veri. E il desiderio taciuto non è un peccato. Al massimo omissione. Bianca si rituffa nelle sue carte e io nei miei pensieri. Bianca rassetta velocemente dopo pranzo, poi entriamo nella cameretta di nostro figlio. Luca sta disegnando il suo soggetto preferito: due enormi draghi e al centro la piccola figura del principe che si difende con la sua spada. Bianca gli fa una carezza. «Mamma deve andare al lavoro, amore. Resta papà con te. Fra un po’ ti metti a fare i compiti?» Luca non stacca lo sguardo dal suo disegno e non le risponde. Bianca dà un bacio a lui e uno a me, poi esce per andare in procura. Luca mi guarda. «Non mi piace l’aritmetica.» «Facciamo così. Tu prendi il quaderno, io ti dico le risposte giuste, tu le scrivi e poi ti rimetti a disegnare.» Lui spalanca gli occhi. «E mamma?» «Mamma ha un sacco di preoccupazioni, non diamole anche quella dei tuoi compiti.» Lui sembra contento. «Allora è un segreto?»
So che non è una bugia ma un’altra omissione. Bianca guarderà il quaderno di Luca, vedrà i compiti fatti e sarà tranquilla. «Sì, Luca. Dai, facciamo presto, così continui a disegnare.» Ci mettiamo un quarto d’ora in tutto. Poi chiamo Rosa. «Bianca è dovuta andare in ufficio e io ho un impegno. Potresti venire a badare a Luca?» Come sempre Rosa è disponibile e mezz’ora dopo è a casa nostra. Le affido Luca ed esco. La giornata è splendida e vado a piedi in centro. Il lungotevere è affollato di turisti, giovani e coppie, molte con bambini. Futuri clienti e spunti per il mio libro. Guardo le vetrine dei negozi chiusi per la festa. Il mio nuovo oggetto del desiderio si chiama Nokia Communicator 9210 e sarà in vendita fra un mese. Certo, costa un sacco di soldi, oltre due milioni di lire. Ma portiamo a casa due stipendi, Bianca un po’ più di me, e la casa ce l’hanno regalata i miei genitori per cui non abbiamo né affitti né mutui da pagare. E voglio essere tra i primi ad averlo. Mi fermo davanti alla vetrina di Gucci. Tornano di moda i pantaloni con la piega e le pince, un taglio che mi sta particolarmente bene. Certo, prezzo nell’ordine delle centinaia di migliaia di lire, ma so che mi si addicono molto. Di colpo mi sento chiamare. «Johnny!» Scarlett Steele è con un gruppo di ragazzi della sua età. I suoi jeans aderenti lasciano scoperto un ombelico abbronzato mentre lei lecca un ghiacciolo. Mi sorride e mi viene incontro. «Johnny! Un bel tipo come te non ha niente di meglio da fare che andarsene a spasso da solo?» Evito di sorriderle. Sono lusingato, ma non deve accorgersene. «Mi piace passeggiare da solo.» «Che stupidaggine!» «Sto lavorando, signorina Steele.» Lei mi guarda come se fossi matto.
«Mi prendi per il culo?» Le sorrido, paziente. «Sto scrivendo un libro. Mentre passeggio osservo la gente.» Per un attimo temo di essere stato un po’ troppo pomposo e che lei scoppi a ridere. Ma evidentemente no, perché sembra colpita. «Sei uno scrittore?» Chissà perché le donne sono così colpite da un uomo che può dirsi scrittore. Forse se li immaginano tutti molto intelligenti e molto sensibili. «Sono uno psicologo che lavora sulle coppie. E sto scrivendo un libro sull’argomento.» Lei fa una risatina. «Allora dovresti intervistarmi, Johnny! Sono un’esperta di mariti e fidanzati infelici! Se vieni a trovarmi ti spiego tutto.» Mi porge un biglietto. Per un attimo penso che sia un biglietto da visita, poi vedo che è di un locale, Food and Drink. «Faccio la cameriera in questo pub a Trastevere la sera. Se passi ti racconto qualcosa sulle tue coppie, Johnny...» Prendo il biglietto, lo metto in tasca, le tendo la mano e la saluto in modo formale. Mentre si allontana le guardo il sedere. Uno dei più belli che abbia mai visto. Chissà come dev’essere... È la seconda parte di quel pensiero a stupirmi. Mi dico che è un effetto normale dei quarant’anni. Pensieri un po’ più spinti. Ma solo pensieri. Torno a guardare i pantaloni di Gucci.
Mercoledì 2 maggio 2001 Balistreri
Ezio Conti ha l’aria riposata e il volto abbronzato di chi ha passato la giornata festiva sdraiato al sole. Ci conosciamo da tempo, abbiamo seguito altri casi insieme, tutti risolti. Seduto alla sua bella scrivania guarda me e Antonio Coppola con aria insoddisfatta. «Non mi pare che abbiate fatto grandi progressi.» Coppola si agita inquieto al mio fianco. Conti gli sta sullo stomaco. Troppo snob e troppo alto. Ma questa volta ha ragione, abbiamo ben poco. Forse nulla. Conti mi guarda nervoso. «Allora, c’è un serial killer in città? Guarda che qui non siamo in America. E non ci sono casi simili irrisolti, mi pare.» «Infatti. Non si tratta di un serial killer.» Mi rivolge un’occhiata interrogativa. «E questo da cosa lo deduci, Balistreri?» Coppola tossicchia. Gli piace mettere Conti in imbarazzo. «Ci scusi, signor procuratore. Se trova il tempo di leggere il rapporto preliminare della Scientifica...» Gliene porge una copia, anche se gliel’ha già inviato ieri per posta elettronica. Solo che Conti era al mare e non ha certo avuto modo di vederlo. Se lo legge ora, accigliandosi dopo le prime righe. «Niente sperma nella vagina?» Coppola previene la mia risposta. «Ha usato il preservativo, signor procuratore. Evidentemente pensa che il suo dna sia già nella nostra banca dati, per stupro o altro. Nei database internazionali ci sono pochissimi stupratori e serial killer che usano il preservativo.» Conti posa i fogli. «Un maniaco di passaggio con un preservativo in tasca?» «Hai visto il rapporto preliminare sull’autopsia?» gli chiedo. Mi guarda seccato. Naturalmente non ha visto nulla.
«L’ho letto, Balistreri. E non ci ho trovato niente di utile.» «Donatella Caruso non era ubriaca, il tasso alcolico è sotto la soglia di legge. E non aveva assunto sostanze.» Mi guarda spazientito. «E allora?» «Era una ragazza in grande forma fisica. Sai che sport praticava ogni giorno? Karate.» «Ho capito. Ma se questo era armato, su una spiaggia deserta, lei poteva pure essere cintura nera...» «Non era una spiaggia deserta, signor procuratore. Donatella era andata a ballare con un’amica in una discoteca affollatissima. Se qualcuno l’avesse trascinata fuori avrebbe opposto resistenza, visto che era sobria. E il buttafuori del locale l’avrebbe notato sicuramente.» «Sarà uscita a fumarsi una sigaretta sulla spiaggia davanti alla discoteca e quella bestia l’ha presa lì.» «Non fumava. In più, la spiaggia davanti alla discoteca è illuminata e il buttafuori avrebbe visto o almeno sentito le sue urla.» Conti mi guarda stizzito mentre Coppola si diverte un mondo. «Sarà uscita dalla discoteca per farsi una passeggiata verso lo stabilimento dove l’hanno aggredita.» «Mezzo chilometro da sola su una spiaggia buia, signor procuratore? Può essere, ma io credo che sia andata diversamente.» Ora Conti è palesemente irritato. «Senti, Balistreri. Sono anni che qui in procura sopportiamo la tua maleducazione, e sai perché? Perché sei fortunato e hai gente in gamba alla Omicidi che trova gli assassini per te. Ma se non la pianti con questo atteggiamento parlo col procuratore capo Abbiati che parlerà con il tuo capo, il questore...» Mi alzo e Coppola con me.
«La conosceva, signor procuratore. L’ha avvicinata nella discoteca e con qualche scusa l’ha convinta a fare una passeggiata sulla spiaggia, fino allo stabilimento balneare. Ci sentiamo.» Mentre usciamo Coppola ridacchia. «Sa cosa dicono alla Mobile e in procura di lei, dottor Balistreri?» «Non me ne frega niente, Coppola.» «Appunto. Uno senza cuore né sangue, dicono. Ma lei tiene il cervello, che è mille volte meglio.» «Senti, Coppola, non me ne frega...» «Lo so. Ma posso almeno dirle perché io invece mi trovo bene a lavorare per lei nonostante i suoi modi e quella stanza puzzolente?» Guardo quell’omino di un metro e mezzo. Lo trovo simpatico anch’io, forse per la sua statura, forse per i suoi difetti. «Va bene, Coppola. Me lo dici e poi non ne parliamo più.» Lui ammicca. «Un mese fa per tutti voi dirigenti c’era un corso, ricorda? Come motivare il personale.» «Non ricordo e...» «Non ricorda perché lei è stato l’unico a non andarci, si è dato malato apposta.» «Avevo un attacco della mia gastrite.» «Ma che gastrite! L’ho vista a cena con una bella fica...» «Coppola!» «Mi scusi. Comunque lei non è il tipo che va a un corso dove insegnano a metterlo nel culo ai sottoposti.» Niente, lascio perdere. Tanto col Nano è una battaglia persa.
Giovedì 3 maggio 2001
Nanni Rosa è perfettamente addestrata. Il numero del fisso del mio studio è girato sul suo cellulare e così lei mi fa da segretaria. Mi chiama tra una coppia di pazienti e l’altra. «Ha appena telefonato una ragazza con l’accento americano. Miss Steele. Mi ha lasciato il numero.» Rispondo d’istinto. «Ora non posso. Ricordamelo un’altra volta.» Non ho intenzione di parlare con Scarlett Steele. Non attraverso Rosa, sarebbe una grave imprudenza. Tanto più che Bianca l’ha vista con me e so cosa ne pensa dei tipi come Scarlett. Ma nel pomeriggio Rosa mi richiama. «Ha telefonato di nuovo Miss Steele.» Così decido di affrontare la situazione. Tanto Scarlett continuerebbe a cercarmi e non voglio che Rosa ricordi quel nome. Mi faccio passare il numero e la contatto. «Signorina Scarlett» dico con un tono molto formale. Sento una risatina. Ma non è quella irriverente di Scarlett. È una risatina di puro imbarazzo. «Non sono Scarlett, dottor Annibaldi. Sono Nicole Steele.» È la seconda gaffe che faccio con quella giovane donna ma lei non sembra curarsene. «Mi scusi, dottore. Avrei dovuto lasciare il mio cognome da sposata, lei ha pensato che fosse mia sorella a cercarla.» Non mi dispiace che Nicole pensi che non avevo voglia di richiamare sua sorella. Le rispondo in inglese. «Sì, è così. Come posso aiutarla?» Lei continua in inglese.
«Dopo averla incontrata l’altra sera, alla conferenza di mio marito all’Auditorium, ho riflettuto. Vorrei che io e Victor iniziassimo una terapia di coppia con lei.» «Signora Bonocore, ci sono due presupposti fondamentali per affidarsi a uno psicanalista: il soggetto deve essere convinto di poter trarre giovamento dalla psicanalisi e deve scegliere personalmente lo psicanalista.» «Credo ci siano entrambi i presupposti.» «Se mi consente, signora Bonocore, da quel che gli ho sentito dire l’altra sera suo marito non mi sembra un tipo da psicanalista. E inoltre non mi ha scelto lui.» Lei fa un sospiro. «In un certo senso ha ragione. Victor non chiederebbe mai aiuto a nessuno. Ma credo che sarebbe disposto a entrare in terapia se glielo suggerissi io, visto che dice di amarmi e non vuole perdermi.» «E perché proprio con me?» «Perché per me è già difficile parlare di certe questioni. Farlo in italiano sarebbe ancora più difficile. Lei parla benissimo la nostra lingua...» «Ha ragione, ma resta il fatto che suo marito non mi conosce. Comunque, se crede, glielo suggerisca e poi vedremo.» «Vorrei sapere bene cosa prospettargli. Possiamo incontrarci per discuterne di persona?» «Ricevo pazienti sino alle sette e ceno sempre con mia moglie e mio figlio alle otto.» «Posso venire nel suo studio alle sette e un quarto, dottore. Le ruberò pochi minuti.» Avverto due sensazioni, insieme. Non dovrei avere a che fare con le sorelle Steele. Ma non voglio rinunciarvi. «Va bene, signora Bonocore. La aspetto alle sette e un quarto, ma avrò pochi minuti.»
Balistreri
Pamela Neri è solo una ragazza di vent’anni. Trema, non riesce a trattenere le lacrime. È molto difficile ottenere qualcosa di utile da una testimone spaventata e distrutta per la morte dell’amica del cuore. Io e Coppola sediamo davanti a lei, a casa sua. Lei è sul divano, tra i suoi genitori. «Donatella era una ragazza straordinaria. Buona e leale. Molto sportiva. Eravamo amiche dai tempi della scuola, prima del diploma di ragioneria. Poi io ho continuato gli studi e lei è andata a lavorare nella ditta di costruzioni del padre.» «Aveva un fidanzato?» Lei si asciuga una lacrima. «Non più. Da quando aveva rotto con Paolo un anno fa...» «Erano stati insieme a lungo?» Pamela tenta un sorriso. «Sei anni. Da quando lei ne aveva quattordici. Il suo primo e unico amore.» «E perché hanno rotto?» «Perché spesso noi ragazze cresciamo più dei maschi. Donatella poi era molto matura, si era diplomata, lavorava, mentre Paolo era stato bocciato più volte, perdeva tempo con questa fissazione per il calcio, faceva parte degli ultras della Lazio, seguiva tutte le partite in casa in curva nord e pure tutte le trasferte. Alla fine Donatella aveva dovuto mollarlo...» «Per un altro?» le chiede Coppola. Lei scuote vigorosamente il capo. «No, anche se si era inventata che aveva un altro per convincere Paolo a lasciarla perdere. Sa, a volte è l’unica cosa che funziona.» «Ricorda il cognome di Paolo?» le chiedo. «Certo, Paolo Maestri, abita nella stessa borgata dei Caruso, poco lontano da casa loro.» «E c’erano nuovi ragazzi, più di recente, che le andavano dietro?» «Ce n’erano alcuni, ma nessuno di cui a Donatella importasse qualcosa.»
«Le viene in mente qualcuno in particolare? Magari un ragazzo più insistente?» Lei ci pensa un po’. «Non che io sappia. E Donatella me lo avrebbe detto.» Ora veniva la parte peggiore. «L’altra sera in discoteca. Ci siete andate da sole con l’auto di Donatella, vero?» «Sì, certo. Noi due da sole.» «Avevate appuntamento con qualcuno lì?» «No, andavamo spesso da sole a ballare, per divertirci.» «E lì avete ballato insieme?» «Sì, per un bel po’. Poi, sa come succede, nella calca sulla pista ci si perde, ci si ritrova e ci si riperde. Solo che a un certo punto Donatella è sparita...» Si rimette a piangere e un’occhiata del padre mi fa capire che sarebbe il caso di piantarla. «È sicura di non aver visto il suo ex fidanzato, Paolo, nel locale?» Lei scuote il capo. «Non c’era.» Qualcosa nella sicurezza di quella risposta mi colpisce. «Come mai ne è così certa? C’erano centinaia di persone...» «Ha ragione. Volevo dire che non l’ho visto e che Donatella mi ha detto che Paolo non c’era.» «Donatella le ha detto che Paolo non era lì? E perché le è venuta in mente una cosa del genere?» «A un certo punto, mentre ballavamo, ci siamo trovate vicino a un ragazzo che aveva sul bicipite lo stesso tatuaggio di Paolo, l’aquila della Lazio. E Donatella ha fatto una battuta del tipo: Sai che Paolo mi manca ancora? Ora vorrei che ci fosse lui qui e non questo teppista.» «Teppista? Vi stava dando fastidio?»
Lei scuote il capo. «No, affatto. È che questo tizio accanto all’aquila aveva il tatuaggio dell’ascia bipenne. E Donatella ha sempre militato in gruppi di sinistra, frequentava i centri sociali.» Resto un attimo senza parole. L’ascia bipenne, il simbolo dell’organizzazione di estrema destra Ordine nuovo, la stessa di cui avevo fatto parte io all’inizio degli anni Settanta. «Questo tizio vi ha parlato?» le chiedo. «No, con la musica a palla non si può parlare.» «Può descrivercelo?» le chiede Coppola. «In mezzo alla folla con le luci psichedeliche si vede ben poco. Era alto, grosso. Testa rasata, mi pare che avesse un pizzetto nero sul mento.» Pamela ricomincia a piangere e noi ci congediamo. Fuori, in auto, Coppola telefona per trovare l’indirizzo di Paolo Maestri. Poi mi guarda. «Lei lo sa cos’è l’ascia bipenne, dottore?» «Lo so, Coppola. Ma non è che tutti quelli di Ordine nuovo fossero assassini. Alcuni sì, altri no.» «Ma questo qua con il cranio rasato, il pizzetto, i tatuaggi...» «Coppola, noi siamo la polizia. Giudichiamo i fatti, non le persone.» «Davvero? Secondo lei, se prendiamo dieci persone come queste e dieci persone normali, che non fanno gli ultras, senza tatuaggi, abbiamo la stessa probabilità che in mezzo ci sia un delinquente?» Mi accendo una Gitane e lui apre il finestrino. «No, Coppola, non la stessa. Se tra i delinquenti metti anche gli evasori fiscali, i corrotti, i corruttori, è più probabile trovarne uno tra quelli che tu chiami normali.»
Nanni
Alle sette e un quarto precise squilla il campanello. Apro la porta e Nicole Steele è lì, con un lungo soprabito grigio sopra una camicia bianca accollata, una giacca verde smeraldo come i suoi occhi e una gonna nera che le arriva sotto il ginocchio. I capelli rossi sono tirati su e nascosti da un foulard grigio, gli occhi sono coperti da occhialoni scuri. Non riesco a capire quanti anni abbia. Pochi a giudicare dalla pelle, molti di più a giudicare dall’atteggiamento. Una donna bella, ma sessualmente insipida. Troppo algida, troppo educata, troppo moglie. L’opposto della sorella. «Si accomodi, signora Bonocore.» È così che ho scelto di chiamarla, il modo più opportuno. Dal piccolo ingresso entriamo nello studio con la mia scrivania, la mia poltrona, il divano in pelle, un’altra poltrona. Tutta roba scelta e acquistata da Bianca. Come sempre le persiane sono accostate ed è acceso solo il paralume nell’angolo opposto alla poltrona e al divano. Troppa luce toglie confidenza, l’oscurità fa paura. La luce soffusa invece scioglie le anime.
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