Le commedie delle donne (lisistrata, la festa delle donne, le donne a parlamento) (enewton zeroquara

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72 Prima edizione ebook: agosto 2012 Š 2012 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-4589-4 www.newtoncompton.com Edizione digitale a cura di Librofficina Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli Realizzazione cover: Diego Foschi per Immagine di copertina: Š Duncan Walker/iStockphoto

Aristofane

Le commedie delle donne Lisistrata, La festa delle donne, Le donne a parlamento Traduzioni integrali di Francesco Ballotto e Valentino De Carlo

Cronologia della vita e delle opere 445 ca. Aristofane nasce nel demo attico di Cidatene.


427. Esordio con i Banchettanti, commedia presentata sotto il nome di Callistrato e andata perduta, che affrontava i problemi dell’educazione. 426. I Babilonesi (perduta): qui Aristofane prende posizione contro la politica del demagogo Cleone, attirandosi così l’ostilità del potente uomo politico e, forse, anche un’azione giudiziaria. 425. Gli Acarnesi, prima delle undici commedie conservate. Attraverso la vicenda di Diceopoli, contadino attico che da solo conclude una pace separata con il nemico, Aristofane inizia la sua battaglia culturale e politica contro il partito della guerra. Ottiene il primo premio alle feste Lenee superando i due maggiori rivali: Cratino ed Eupoli. 424. Nei Cavalieri, Aristofane affronta direttamente la questione del potere politico, in un rovente attacco contro Cleone, demagogo ateniese, sostenitore della guerra. 423. Aristofane fa rappresentare Le nuvole, satira della nuova filosofia e dei nuovi metodi di educazione, che accomuna nello scherno i sofisti e Socrate. 422. Due commedie di cui una perduta, Il proagone (forse di argomento letterario), e l’altra, Le vespe, critica al sistema giudiziario e parodia della passione tipicamente ateniese per le liti giudiziarie. 421. Si rappresenta La Pace: viaggio del contadino Trigeo che libera la Pace imprigionata in una caverna. Aristofane esorta le città del Peloponneso in guerra a deporre gli odi reciproci e a scegliere la concordia in luogo dell’antica inimicizia. 414. Due commedie, l’Anfiarao, perduta, e Gli uccelli, dove si costruisce l’immagine di un fantastico regno degli uccelli fondato da due ateniesi che riescono a sostituirsi agli dèi nel governo del mondo. 411. Ben due commedie sono rappresentate in quest’anno. Lisistrata,l’ultima grande commedia sulla pace e la più significativa testimonianza del problema del riscatto femminile: nella Grecia logorata dalla guerra del Peloponneso, le donne ricattano i loro uomini attuando uno sciopero sessuale. Le Tesmoforiazuse (La festa delle donne), una commedia in cui si conferma l’interesse per i problemi dell’emancipazione femminile. 405. Le rane: prendendo spunto dalla morte di Euripide avvenuta nel 406, Aristofane affronta nuovamente il problema della politicità della cultura: Dioniso,


sceso nell’Ade per riportare in vita Euripide, gli preferisce Eschilo per la sua tempra di poeta civile. 392. Ecclesiazuse (Le donne a Parlamento): dalla tematica che già era stata della Lisistrata si sviluppa un’ipotesi di potere femminile, che si realizzerebbe nell’abolizione della proprietà privata, anche e soprattutto, sessuale. 388. Pluto: utopia di redistribuzione della ricchezza secondo criteri etici: a Pluto, dio della ricchezza, che da cieco arricchiva i malvagi, viene restituita la vista. 385. Eolosicone (perduta). 384 ca. Morte di Aristofane.

Lisistrata Commedia Traduzione di Valentino De Carlo PERSONAGGI Entrano in scena, nell’ordine: Lisistrata Calonice Mírrina Lampitò (spartana) Ismene (tebana) Ragazza di Corinto non parlano Ragazza di Beozia Corifeo Coro di vecchi ateniesi Corifea Coro di donne ateniesi Commissario


I

donna

II

donna

III

donna

IV

donna

V

donna

Cinèsia (marito di Mírrina) Manete (schiavo di Cinèsia), non parla Bambino (figlio di Cinèsia e di Mírrina) Araldo spartano Prítano ateniese Ambasciatore spartano Ambasciatore ateniese La Pace, non parla Arcieri sciti al seguito del Commissario, una ancella di Lisistrata, donne, ambasciatori spartani, ambasciatori ateniesi, un flautista. Lisistrata fu scritta nel corso del 412 o all’inizio del 411: se seguì o precedetteTesmoforiazuse non sappiamo, né si sa a quale dei due concorsi furono presentate; secondo le tesi più accreditate, fu rappresentata primaTesmoforiazuse al Leneo e due mesi dopo, nel marzo 411, Lisistrata al Dionisio, forse con l’allestimento di Callìstrato: poco dopo la disastrosa sconfitta ateniese in Sicilia e di poco precedendo il colpo di Stato dei 400. Ciò ne spiega, in particolare, l’accorato per quanto scherzoso appello alla pace che il giovane autore (Aristofane a quel tempo era sui trentacinque anni) affida a una trovata tra le più geniali di tutto il teatro comico e a un personaggio femminile che, pur delineato a tratti lievi, senza particolare approfondimento, è pervaso di umana simpatia e di accattivante femminilità come ben di rado accade nel teatro antico. Basta Lisistrata per sfatare la leggenda di un Aristofane antifemminista, anche se nelle altre due commedie del ciclo femminile non risparmia strali alle donne (ma gli uomini non vi fanno una figura edificante).


Lisistrata mette in scena il più incredibile sciopero della storia, uno sciopero delle prestazioni sessuali da parte di tutte le donne elleniche, per ottenere la fine della guerra del Peloponneso. Istigate dall’ateniese Lisistrata, le donne si impadroniscono dell’acropoli di Atene e del tesoro della Lega attica, necessario per le spese belliche; lo sciopero è dichiarato a oltranza, fino a quando gli uomini, esausti, non acconsentiranno alla pace, pur di riportare la pace anche nel talamo. Commedia pacifista e di una comicità estrosa e impudente nella forma quanto amara nella sostanza, che da sempre il pacifismo di Aristofane non è dettato dalla vigliaccheria: la sua è una lotta instancabile e generosa contro una guerra fratricida che non può portare (come porterà infatti di lì a poco) che alla rovina dell’Ellade, per colpa di uomini che hanno dimenticato e vogliono dimenticare quel che è stata l’Ellade, patria dell’arte e della democrazia. I veri nemici, come dice proprio in Lisistrata, sono fuori dai confini e attendono soltanto l’occasione favorevole per impadronirsi di quella terra, di quella civiltà (come puntualmente faranno i romani, anche se Aristofane pensa soprattutto ai persiani). Sempre più scettico sul rinsavimento degli uomini, che sembrano aver abdicato al loro ruolo di guida, cedendo incondizionatamente le armi di fronte all’istinto del sesso come forza di natura che trionfa anche sulla ragione (sebbene qui la ragione sia dalla parte di Lisistrata), si illude di poter affidare alle donne, da poeta, la fiaccola del buon senso: tesi che vent’anni più tardi, con tanta amarezza in più, riprenderà nelle Donne a Parlamento, arrivando ad auspicare la ginecocrazia e il comunismo per salvare quel poco che resta (non ultimo motivo di attualità per noi). È l’estrema illusione del poeta che non vuole arrendersi all’evidenza che il suo mondo politico e sociale sta scomparendo: mentre non potrà mai scomparire l’altra più vera Atene in cui ha sempre creduto, l’Atene dell’arte, l’Atene dei poeti e dei filosofi. Come si sa, la scena nel teatro greco classico era composta di due piani, con tre luoghi scenici: l’orchestra, circolare e in primo piano, con al centro un piccolo altare dedicato a Dioniso, e su di essa recitava e ballava il coro e occasionalmente i personaggi; la parte inferiore della scena, al di là dell’orchestra, costituita in genere da un colonnato chiuso con porte o tende dipinte per indicare i luoghi dell’azione (soprattutto nel primo periodo, si trattava spesso di un praticabile in legno); la parte alta della scena, sopra il colonnato, a cui si accedeva sia dal basso, sia per mezzo di due piani inclinati laterali. Come in basso, anche nella zona alta della scena si faceva uso di una scenografia rudimentale. Tale disposizione scenica, attraverso il teatro latino, si è tramandata sostanzialmente immutata fino al teatro moderno, come nel


caso più tipico del teatro elisabettiano, che di originale aveva aggiunto solamente dei cartelli (e nessuno ci dice che anch’essi non fossero in uso nel teatro greco). Nel caso di Lisistrata l’azione si svolge sull’Acropoli, di fronte al colonnato dei Propilei che occupa il centro della scena con le sue porte. La parte alta della scena raffigura la gradinata e il colonnato del Partenone che, un poco arretrato, sovrasta l’ingresso dei Propilei. Ai lati sono gli ingressi per il coro e i personaggi. Per quel che riguarda l’azione scenica, non si possono offrire che delle illazioni, desunte da ciò che i versi suggeriscono; in particolare ciò è vero per la scena finale, dove perfino l’attribuzione dei versi a questo o a quel personaggio è tutt’altro che sicura e non abbiamo né una traduzione né un testo critico che concordino, dal momento che i testi ci sono pervenuti senza indicazioni di sorta, al massimo con un comma a indicare (e non sempre) l’attribuzione di una battuta a un personaggio o all’altro. La soluzione qui scelta è la più logica da un punto di vista scenico: è infatti improbabile che vengano introdotti proprio alla fine nuovi personaggi se non per motivi di assoluta necessità. Come ancora oggi è uso, gli attori secondari potevano recitare più di una parte, ma il loro numero restava circoscritto, ponendo quindi dei limiti all’introduzione di personaggi per ogni singola scena. Un consiglio per le note: sono da leggere per ultime e soltanto se si vuole conoscere qualche particolare storico in più. È da sfatare la leggenda secondo la quale Aristofane si può leggere soltanto come uomo del suo tempo: la sua poesia e la sua comicità sono abbastanza «universali» da poter fare a meno di note erudite, veramente utili soltanto per chi voglia studiare Aristofane o metterlo in scena. LIS.:

Ah, se qualcuno le avesse invitate a fare festa al tempio di Bacco o di Pan, o magari al Coglìade1 per Afrodite Genitale, chi sarebbe mai passato tra il fracasso di quei timpani? E invece, ci fosse qui una femmina… ah, ecco la mia vicina. Calonice, buondì. CAL.

[entrando]: Salute a te, Lisistrata. Cos’è quella faccia stravolta? Non fare il viso scuro, figlia mia: stare accigliata proprio non ti dona. LIS.: Ma

ho la rabbia nel cuore, amica mia: mi angustio per noi donne, che gli uomini ci pensano capaci d’ogni cosa… CAL.:

Una, per Giove, l’hanno detta giusta!


LIS.:

…poi quella volta che gli raccomandi di discutere assieme un grosso affare se la dormono e non ne vedi una. CAL.:

Verranno, anima mia. Uscir di casa non è semplice mai per una donna: una ha il marito che la sbatte; l’altra lo schiavo ha da svegliare; l’altra ancora mettere il bimbo a letto, oppur lavarlo, o dargli la pappina… LIS.: Ma CAL.: LIS.:

Perché ci vuoi vedere qui riunite, Lisistrata, noi donne? è un affare tanto bello?

Eh, sì, davvero bello.

CAL.: LIS.:

è possibile che non abbiano cose più importanti?

Anche grosso, magari?

Eh, sì, anche grosso.

CAL.:

E come mai non siamo corse?

LIS.:

Non è quello che pensi, che in tal caso, è certo, saremmo già qui tutte. È un affare che da sola ho trovato e rimenato per tante e tante notti senza mai riuscire a prender sonno. CAL.:

Rimenato… l’avrai ridotto fine fine, penso.

LIS.: Un CAL.: LIS.:

Dalle donne? allora dura poco!

Risiede in mano nostra la salvezza della città: oppur sarà la fine d’ogni spartano.

CAL.: LIS.:

filo: l’avvenire della Grecia dipende solamente dalle donne.

Giove, che fortuna se sparissero!

E poi d’ogni beota la distruzione.

CAL.:

Salvami le anguille2, per piacere.

LIS.:

Quanto ad Atene, poi, meglio lasciar da parte il malaugurio. Prova invece a pensarci: se ogni donna dalla Beozia e dal Peloponneso qui venisse a raduno tutte d’accordo salveremmo l’Ellade. CAL.: Ma che cosa di grande o intelligente possiamo far noi donne? Imbellettate ce ne stiam tutto il giorno ed agghindate con camiciole gialle e le cimberiche3 diafane e ben cadenti e le scarpine a punta… LIS.:

È questo che ci può salvare: camicie gialle e profumi e scarpine, rossetto4 e sottovesti trasparenti.


CAL.: LIS.:

In modo che ogni uomo più non alzi l’asta contro un altr’uomo.

CAL.: LIS.:

La cimberica trasparente mi metto.

Né la spada.

CAL.: LIS.:

Per le dee, corro subito a tingermi la veste.

Né più prenda lo scudo.

CAL.: LIS.:

Davvero? e in che maniera?

Mi compro le scarpine…

E le altre donne non dovrebbero esser già venute?

CAL.:

Per Giove, al volo e da gran tempo, anzi!

LIS.:

E invece, anima mia, da brave attiche saranno fuori tempo. Non ne vedo una dei Pàrali né di Salamina. CAL.: LIS.:

Eppure è fin dall’alba che cavalcano a cosce larghe.

Né vedo arrivare le donne che aspettavo qui per prime, quelle d’Acarne.

CAL.:

La moglie di Teàgene per venir qui avrà fatto l’oroscopo. Ma qualcuna è in arrivo. [Entra un gruppo di donne.] LIS.:

Ed eccone altre ancora.

CAL.:

Oh, che puzza! Di dove mai verranno?

LIS.: Dalla palude CAL.:

Anagirunte.

Oh Giove, devono averla tutta rimestata.

[Entra Mírrina con alcune donne.] MÍR.: LIS.:

Siamo arrivate ultime, Lisistrata? Che hai? Perché non parli?

Quando tardi per un affare di tale importanza, vuoi che ti dica brava, Mírrina?

MÍR.: CAL.:

Se al buio non trovavo la cintura! Ma se è cosa d’urgenza parla: adesso ci siamo.

Aspettiamo, per Giove, ancora un poco che giungano le donne di Beozia e del Peloponneso.


LIS.:

Hai ragione. Ma ecco che giusto arriva Lampitò. [Entra Lampitò, conIsmene, nobile tebana, e una ragazza di Corinto; Lisistrata accarezza Lampitò.]Lampitò, salve, cara la mia spartana. Sei uno splendore, fiorente di salute e carne soda: sfiancheresti un toro! LAM.:

Te credo, pe’ li Dioscuri: in palestra gnuda vò a fà ginnastica e se zompo er culo me lo tocco coi carcagni. CAL.

[accarezzandola]: E che belle tettine.

LAM.: LIS.

Che tastate? M’avete mica presa pe’ ‘n’abbacchio da sacrificio?

[indicando Ismene]: E quest’altra bambina, di dov’è?

LAM.: LIS.:

Per Giove, la beota mette in mostra un panorama splendido.

CAL.: LIS.:

Per Giove, che eleganza: la passera ha spiumato tirandosela liscia pelo a pelo5.

E quella ragazzina?

LAM.: CAL.:

E chi l’ha mess’assieme ‘sto riduno de femmine?

Io, proprio.

LAM.: CAL.: LIS.:

Pe’ li Dioscuri: è una de Corinto: è ‘n tipo aperto.

Ti credo che sia aperta: avanti e dietro6.

LAM.: LIS.:

Pe’ li Dioscuri, è una de le mejo beote che viè qui.

Dicce allora che vòi.

Sì, amore mio: svelaci dunque quest’affare che tanto ti preoccupa.

Anche subito. Ma prima di parlare, una domanda da niente.

MÍR.:

Come vuoi.

LIS.: Dei

vostri figli non vorreste i padri? Sono lontani, al campo, lo so bene, tutti partiti per la guerra, gli uomini. CAL.:

Il mio, povera me, se n’è andato da cinque mesi in Tracia a far la guardia al proprio comandante7. MÍR.:

E il mio è a Pilo, da sette mesi interi.


LAM.:

Er mio, invece, nun è manco arrivato un po’ in licenza che riacchiappa lo scudo e te saluto! LIS.: Di

amanti poi non c’è nemmeno l’ombra. E da quando i milesi ci han tradito chi ha visto più quel bel giocattolino d’otto dita di cuoio8 che, se non altro, ci consolava un po’? Vorreste, dunque, s’io ne trovassi il mezzo, assieme a me metter fine alla guerra? CAL.:

Per le dee, certo ci sto, dovessi questa tunica mettere a pegno e bermela oggi stesso. MÍR.:

E io pure, dovessero spaccarmi come una triglia e metà darla via.

LAM.:

‘Na corsa in pizzo ar Ttàiggeto farebbe, fossi sicura de trovà la pace.

LIS.:

E allora parlo: basta coi misteri. Se vogliamo costringere i mariti a far la pace, o donne, noi dobbiamo rinunciare… CAL.: LIS.:

A che, parla!

Lo farete?

CAL.:

Lo faremo, dovessimo crepare.

LIS.:

È al cazzo che dobbiamo rinunciare. Mi voltate le spalle? Dove andate? Che è quella bocca storta, quello scuoter la testa, quel pallore? Ma guarda, anche le lacrime! Volete o non volete? Che avete per la testa? CAL.:

E chi ce la farebbe? Faccian pure la guerra.

MÍR.:

Nemmeno io, per Giove. Faccian pure la guerra.

LIS.:

E tu lo dici? Ma se un momento fa come triglia volevi farti in due.

MÍR.:

Ogni altra cosa, come vuoi. Se credi, passerò in mezzo al fuoco. È sempre meglio che rinunciare al cazzo. Non c’è nulla, Lisistrata, che possa rimpiazzarlo. LIS.:

E tu?

CAL.: LIS.:

Nel fuoco anch’io, lo preferisco!

Che razza di puttane siamo, tutte! Lo credo poi che sopra i fatti nostri ci scrivono commedie: gira e gira null’altro abbiamo in mente. Almeno tu, cara figlia di Sparta, dammi il voto, che anche noi due sole potremmo sistemare la faccenda.


LAM.:

È duro, pe’ li Dioscuri, a noi donne dormì senza l’ucello, sole sole. Però se deve fà, se vòi la pace. LIS.:

Oh, cara, tu, l’unica vera donna!

CAL.:

Ma a farne a meno, come dici tu (non vogliano gli dèi), si avrà la pace?

LIS.:

Per le dee, se l’avremo! Dunque, noi stiamoci in casa imbellettate e nude sotto le carnicine trasparenti d’Amorgo, con la passera spiumata, e quando i nostri mariti a cazzo ritto volessero chiavarci, ben lontane ce la filiamo senza farci prendere. Faranno pace subito, lo giuro. LAM.: CAL.: LIS.:

Menelao pure buttò via la spada, dicheno, a vedé le sise d’Elena.

E se gli uomini, invece, se ne fregano?

Allora, come dice il poeta9, la fregata te la darai da sola.

CAL.:

Ci vuol altro che delle imitazioni! E se invece ci acchiappano e di forza ci trascinano in camera da letto? LIS.:

Attaccati alla porta.

CAL.:

E se dan botte?

LIS.: Dagli la

pappa fredda: le faccende di letto non han sugo se son fatte a forza. Il maschio soffre e cala subito, che se tu non ci stai l’uomo non gode. CAL.:

Se così sta la cosa, siam d’accordo.

LAM.:

L’ommini nostri ce li condimo noi pe’ faje fà ‘na pace giusta e vera. Ma a quell’antri, quei burini d’Atene, chi je mette giudizio ner cervello? LIS.:

Tocca a noi; sta’ tranquilla, lo faremo.

LAM.:

Co’ tutte le triremi che je crescheno e quella mucchia de quadrini ar tempio10 de la dea, farete ‘n par de ciufoli. LIS.:

Abbiam già provveduto a questo pure: da oggi stesso, l’Acropoli è nostra. Con la scusa di fare un sacrificio, le più anziane, che ho messo sull’avviso, l’hanno occupata mentre parlavamo. LAM.: LIS.:

Questa sì ch’è ‘n’idea! E ccosì sia.

Allora, Lampitò, dobbiam giurare perché nessuna possa più sottrarsi.


LAM.:

Dicce tu che dovemo da ggiurà e noi ggiuramo.

LIS.:

Giusto. Dov’è la Scita11? [Entra l’ancella di Lisistrata, armata.] Ma dove guardi? Metti giù lo scudo, rovesciato. E passami le viscere. LAM.: LIS.:

Giuriamo sullo scudo, appena uccisa la vittima, Eschilo così ha scritto12.

CAL.: LIS.:

Lisistrata, su che cce fai ggiurà?

Per la pace vuoi giurar sullo scudo? No, Lisistrata mia.

Su che giuriamo, allora?

MÍR.:

E se prendessimo un montone13?

CAL.:

Che ci fai col montone?

LIS.:

E come giuri?

CAL.:

Per Giove, un modo l’ho trovato io. Posiamo in terra una gran coppa nera, a pancia sotto; e ci sgozziamo sopra un orcio di vin tasio e poi giuriamo di mai metterci acqua. LAM.: LIS.

Bbene mio! Questo sì è ‘n ggiuramento fatto a ciccio!

[all’ancella, che esegue in fretta l’ordine]: La coppa e l’orcio, presto!

CAL.:

Amiche care, che orcio grande: una si consola al pensiero di prenderlo.

LIS.

[all’ancella]: La coppa posala qui e dammi il cinghialetto14. Oh, dea di convinzione e tu, coppa dell’amicizia, alle donne propizie, gradite il sacrificio. CAL.:

Ha un bel colore il sangue e spilla bene.

LAM.: CAL.:

E der profumo che me dichi, pe’ Castore?

Oh, amiche, lasciate a me per prima il giuramento.

LIS.:

Per Afrodite, no, tiriamo a sorte. Lampitò, tutte la mano sulla coppa. Una per tutte ripeta quel che dico, e poi confermerete il giuramento. Nessuno mai, né amante né marito. CAL.: LIS.:

…Nessuno mai, né amante né marito…

Potrà accostarmi con il cazzo ritto. Ripeti, dunque.

CAL.:

Accostarmi potrà col cazzo ritto. Ahimè, Lisistrata, le gambe non mi reggono.


LIS.:

La vita passerò senza chiavare,

CAL.: LIS.:

In casa, ben vestita ed agghindata,

CAL.: LIS.:

…non alzerò le gambe fino al cielo…

Né accosciata starò col culo in aria16,

CAL.: LIS.:

…immobile starò, a muso duro…

Non alzerò le gambe fino al cielo15,

CAL.: LIS.:

…e se poi mi dovesse violentare…

Immobile starò, a muso duro,

CAL.: LIS.:

…né mai gliela darò di buona voglia…

E se poi mi dovesse violentare

CAL.: LIS.:

…fin che al mio uomo gli diventi fuoco…

Né mai gliela darò di buona voglia;

CAL.: LIS.:

…in casa, ben vestita ed agghindata…

Fin che al mio uomo gli diventi fuoco;

CAL.: LIS.:

…la vita passerò senza chiavare…

…né accosciata starò col culo in aria…

A me il vino, se tengo il giuramento,

CAL.:

…a me il vino, se tengo il giuramento…

LIS.: Ma CAL.: LIS.:

se tradisco mi diventi acqua.

…ma se tradisco mi diventi acqua.

Lo giurate voi tutte?

LE DON.: Sì, LIS.:

per Giove!

Ch’io la consacri, allora.

CAL.:

Su, da brava, dalla anche a noi se siamo vere amiche.

[Si odono d’improvviso grida e strepiti dall’interno dell’Acropoli.]


LAM.:

E ‘sti strilli che so?

LIS.:

L’avevo detto. Le anziane hanno occupato la rocca di Atena. Lampitò, ritorna a casa, ora, a sistemar le cose e lascia qui le tue amiche in ostaggio17. Invece noi ce ne andiamo all’Acropoli a dar mano alle altre e a serrare i catenacci. CAL.:

Non pensi tu che gli uomini al soccorso vengano, a darci addosso?

LIS.: M’importa

assai di loro. Né urlando né col fuoco mai ci convinceranno ad aprire le porte. A un solo patto: quello che noi vogliamo! CAL.:

Per Afrodite, mai! Perché noi donne dobbiam farci chiamare sciagurate e bisbetiche, senza farlo un poco? [Tutte le donne entrano nei Propilei e sbarrano le porte.] [entra da un lato guidando il coro dei vecchi]: Avanti, Drace, cauto facci strada e non far caso se la schiena duole per un ciocco d’olivo tanto greve. CORIFEO

COR. DI VEC.

[entra in scena portando a spalle due ceppi d’albero; ogni coreuta porta in mano anche un recipiente con della brace, oppure una torcia spenta]: In lunga vita / ti tocca di vederne / più che non penseresti. / Chi mai, o Strimodoro, / avrebbe immaginato / che le femmine, eterno / flagello della casa, / avrebbero violato / il santo simulacro / e ormai fatte padrone / dell’Acropoli nostra / con spranghe e catenacci / ci avrebbero persino / sbarrato i Propilei? CORIFEO:

Corriamo senza indugi sull’Acropoli, Filurgo, ad ammucchiare questi ciocchi attorno a quelle donne che hanno osato e ne facciamo, unanimi, un sol rogo: di nostra mano, tutte van bruciate e per prima la moglie di Licone. COR. DI VEC.:

No, non mi burleranno, / finché vivo, per Dèmetra. / Cleòmene18neppure, / il primo ad occuparla, / portò le penne a casa. / Con tutta la sua boria / di spartano, s’arrese / e se ne tornò indietro / mollando armi e bagagli. / Aveva solo, addosso, / un mantelluccio lercio / ed irsuto a tal punto / che parca non vedesse / acqua da almen sei anni. CORIFEO:

Un guerriero possente: lo vincemmo stringendo giorno e notte quelle porte in un cerchio di scudi in diciassette file. E ora non sbaraglio queste donne a Euripide odiose ed agli dèi? Che non rimanga più nella Tetràpoli il mio trofeo, piuttosto19.


COR. DI VEC.:

Di strada m’è rimasto / questo pezzo di salita, / per l’Acropoli, e arranco / portando questa roba / senza nemmeno un asino. / Mi straziano le spalle / questi due ciocchi, eppure / devo andare e, non basta, / anche soffiar sul fuoco / perché non mi si smorzi / intanto che cammino. / Ffu, ffu, accidenti al fumo! / Oh, Ercole20 possente, / con quale furia erompe / dalla pignatta calda / come cagna arrabbiata / e mi si avventa agli occhi. / Questo è fuoco di Lemno21 / non c’è dubbio, altrimenti / rodermi non potrebbe / l’occhio cisposo al vivo. / In soccorso ad Atena, / affrettati alla rocca: / puoi sperare, Lachète, / occasione migliore / per esserle d’aiuto? / Fffu, ffu, accidenti al fumo! CORIFEO:

S’è ravvivato il fuoco, sian lodati gli dèi. Posiamo questi legni e poi tuffiamo la torcia di sarmenti nella brace della pignatta; come arieti addosso ci scagliamo alla porta e se le donne non tolgono le sbarre, diamo fuoco alla porta e col fumo le asfissiamo. Molla il carico, dai. Accidenti al fumo! Dei tanti eroi di Samo22, nessun mi dà una mano? Questo almeno ha finito di rompermi la schiena. Pignatta, a te! Fai ardere i carboni che diano presto una fiaccola accesa. Oh Vittoria23 sovrana, dacci aiuto a trionfar delle impudenti femmine profanatrici della nostra Acropoli! [entra dal lato opposto a quello degli uomini, guidando il coro di donne]: Mi sembra, donne, di vedere fumo e fiamme, come fosse fuoco vivo. Su, dunque, che aspettate? CORIFEA

COR. DI DON.

[che entra portando anfore e brocche]: Nicòdice, su, in fretta, / vola perché Calíce / o Critilla non siano / soffocate e bruciate / dai maneggi spietati / dei maledetti vecchi. / Ma ho paura che l’aiuto / loro arrivi troppo tardi. / Alla luce dell’aurora, / laggiù al pozzo appena adesso / con fatica ho preso l’acqua / tra il gran chiasso della folla / e il clangor di recipienti, / tra la calca delle serve / e di schiavi, in fretta e furia / … / l’acqua ho preso e ora la porto / in aiuto alle compagne / da quel fuoco minacciate. / Ho sentito certi vecchi / babbuini sputar l’anima / sotto un carico di tronchi / di almeno tre quintali, / tanti da scaldarci un bagno, / minacciando ad alta voce / quelle femmine infami / che arrosto s’han da fare. / Che bruciare mai le veda, / oh dea, ma possano salvare / dalla guerra e da follia / tutto il popolo dell’Ellade. / È per questo che il tuo tempio, / dea dall’elmo tutto d’oro / che proteggi la città, / ora è invaso dalle donne. / Sii alleata, o Tritogènia24, / e se un uomo avrà il coraggio / di appiccar fuoco alle donne, / dacci mano a portar l’acqua. [al Corifeo]: Ehi, tu, fermo! Che fai? Razza di cani; uomini pii e onesti mai farebbero certe mascalzonate. CORIFEA


CORIFEO:

Chi l’avrebbe mai detto! Uno sciame di femmine arriva alla riscossa.

CORIFEA:

Te la fai sotto? Ti sembriamo troppe? Eppure diecimila volte di più siamo, e non basta. [rivolto ai compagni]: Fedria, le lasciamo abbaiare a questo modo? Bisogna che un randello sulla schiena qualcuno glielo rompa! CORIFEO

[rivolta alle donne]: Giù le anfore, ragazze. Sono un impiccio se qualcuno ha voglia di adoperar le mani. CORIFEA

CORIFEO:

Se qualcuno, per Giove, gli gonfiasse un po’ il grugno, come successe a Búpalo25, si starebbero zitte. CORIFEA:

Io non scappo, coraggio, prendimi a sganassoni: e mai più un’altra cagna ti troverà i coglioni. CORIFEO:

Zitta, o a furia di botte ti scotenno.

CORIFEA:

Forza, tocca Stratillide con la punta d’un dito.

CORIFEO:

Che mi fai se ti sgretolo a furia di cazzotti?

CORIFEA:

I polmoni ti mangio, ti strappo le budella!

CORIFEO:

Chi ha mai visto un poeta più profondo d’Euripide? «Razza più svergognata al mondo non esiste, delle femmine!26» CORIFEA:

Rodippe, in alto le anfore con l’acqua!

CORIFEO:

Che vuoi fare con l’acqua, spudorata?

CORIFEA:

E tu col fuoco? Vuoi cremarti, carogna?

CORIFEO:

Voglio fare un bel rogo e bruciarti le amiche.

CORIFEA:

Ed a me l’acqua serve per spegnere il tuo rogo.

CORIFEO:

Tu, vuoi spegnermi il rogo?

CORIFEA:

Te lo mostro coi fatti.

CORIFEO:

Non so se rosolarti subito con la torcia.

CORIFEA:

Se ti senti un po’ sporco, ti procuro un bel bagno.

CORIFEO:

Un bagno a me, schifosa?


CORIFEA:

Te lo faccio di nozze!

CORIFEO:

Ma senti che sfacciata!

CORIFEA:

Sono una donna libera.

CORIFEO:

Ti tappo io la bocca!

CORIFEA:

Non sei più in tribunale!

CORIFEO

[alla torcia]: Brucia quei quattro sterpi!

CORIFEA

[all’anfora]. Affogalo, fiumana27!

CORIFEO:

Povero me!

CORIFEA:

Era calda?

CORIFEO:

Come calda? Insomma, la vuoi smettere? che fai?

CORIFEA:

T’innaffio: hai visto mai che tu tornassi verde?

CORIFEO:

Sono quasi stecchito. Dèi, che brividi!

CORIFEA:

Il fuoco non ti manca: puoi scaldarti.

COM.28

[entra con una squadra di arcieri sciti; parla tra sé, ma ad alta voce]: Si sono scatenate un’altra volta, le donne! Gran fracasso con i timpani, invocazioni a Dioniso, e dai tetti urlano «oh Adone» come all’assemblea m’è toccato d’udirle tempo fa. Demostrato (gli venga un accidente!) per lo sbarco in Sicilia29s’ostinava; e sua moglie balbettava e strillava: «Adone, ahimè». Demostrato diceva d’arruolare gli opliti di Zacinto; la moglie, sbronza, sopra il tetto urlava: «Piangete Adone!». Per vincere quegli urli la voce alzava quello sciagurato sputaveleno, odiato dagli dèi. Di questo son capaci, le sfrenate! [rivolto al Commissario]: L’insolenza di queste non conosci. Il bagno, non contente delle offese, ci han fatto con le anfore, che sembra che davvero ci siam pisciati addosso. CORIFEO

COM.:

Ben vi sta, dio salato! Quando noi complici ci facciamo delle loro mascalzonate e gli si danno vizi, che idee vuoi che ne nascano? Uno va da un bottegaio e «Orefice», gli dice, «m’hai fatto una collana. Ora a mia moglie, nel ballare, la ghianda s’è sfilata dal foro. Io devo andare a Salamina. Ma se tu puoi cerca d’andar da lei prima di sera, a infilarle la ghianda». E un altro, al calzolaio, un giovanotto con un nerchio non


proprio da bambino, va a dire «Calzolaio, alla mia donna per colpa della fibbia le fa male il ditino del piede ch’è tanto delicato. A mezzogiorno vedi un po’ d’andare ad allargarla, perché c’entri bene». E ne vedete poi le conseguenze: io un Commissario, dopo aver trovato legna per le triremi, ora ho bisogno di soldi: ma la porta, quelle donne, m’han sbattuto sul grugno. Ma a che serve star con le mani in mano? [Dà ordini agli sciti:] Porta pali, e gliela darò io la sfrontatezza, alle donne. Che fai a bocca aperta, imbecille? E tu che guardi, senza far nulla, buono solo a andar per bettole? Sotto la porta infilate le leve per poterla forzare. Assieme a voi, anch’io forza farò da questo lato. LIS.

[esce della porta dei Propilei]: Non c’è bisogno di forzare nulla. Esco da sola. A che servono leve? Non leve ma giudizio qui ci vuole. COM.

[dà ordini a uno scita]: Davvero, scellerata? A me l’arciere! Agguanta questa donna ed alla schiena legale poi le mani. LIS.:

Arciere o altro, toccami un dito, per Artemide, e avrai da piangere, cara la mia guardia. [Lo scita esita a eseguire l’ordine.] COM.

[allo scita]: Di che hai paura? Prendila alla vita, tu e quell’altro e sbrigatevi a legarla. CAL.

[esce dai Propilei]: Per Pàndroso30, se soltanto una mano le metti addosso, a calci nella pancia io ti farò cacare. COM.

[dà ordini agli sciti, che esitano]: Ah, cacare? L’altro arciere dov’è? Legami questa per prima dal momento che ha voglia di vantarsi. MÍR.

[esce a sua volta dai Propilei e minaccia lo scita che scappa impaurito, seguito dai suoi colleghi]: Sol con un dito la devi toccare e sii certo che dopo avrai bisogno, per Ecate, di qualche cataplasma. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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