Autori: Luca Casamassima e Fabiola Danese Editor: Luigi Pignatelli Progetto grafico di copertina: Antonella Bagordo
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“Le paturnie di Miss Moon� di Luca Casamassima e Fabiola Danese
Questo libro è in parte un’opera di fantasia. I personaggi sono inventati dagli autori, ma i luoghi citati sono reali, tranne il Millennium. Se esistesse davvero, tutti noi fisseremmo un colloquio. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone vive o scomparse è assolutamente casuale.
Se stai pensando di non leggerla, caschi male. (Nota degli autori)
Quando si deve scrivere una cosa del genere, cioè una nota che informi chi legge di cosa si stia effettivamente apprestando a leggere, è un'impresa titanica che si tenta. Un po' perché ogni storia è difficile da raccontare, un po' perché si dovrebbe cercare di svelare qualcosa, magari qualche retroscena curioso, che aumenti la voglia del lettore di immergersi nelle pagine che seguiranno. Non è un'avventura da poco, ma se il Diavolo vuole cercheremo di portare a termine anche questo. Cercheremo, poi... cercherò! Sì perché Fabiola, va detto, ha delegato: <<La nota degli autori la scrivi tu, eh?>> e poi è finita lì, ha dato per assodato che non avrei protestato. E infatti... Con Fabiola ci conosciamo da circa 14 anni, ma è un calcolo approssimativo: tra anni effettivi di vicinanza scolastica e quelli in cui ci siamo persi un po' di vista, probabilmente un matematico serio diminuirebbe la cifra di un bel po'. Resta il fatto che da subito ci siamo riconosciuti come: "quelli che avrebbero voglia, un domani, di scrivere." Sognatori, insomma, che hanno conservato la voglia di mettere giù qualcosa e di fare in modo che qualcuno, oltre noi, possa leggerla. E così, dopo un paio di pubblicazioni da parte sua e una all'attivo sul mio conto (che rinnego felicemente), ci siamo ritrovati tra la fine del 2014 e l'inizio del 2015 a progettare qualcosa insieme. Qualcosa che "stringete tra le mani" se state leggendo queste parole.
Il primo ostacolo da superare è stato: come coniughiamo gli stili? Sì perché c'è una diversità di fondo, tra noi due: tra le storie romantiche, sognanti, oniriche di Fabiola ed il mio parlare di fango e di tristezza, filosofeggiando su quello che non abbiamo avuto. E poi la punteggiatura: virgole, virgolette, punto e virgola... come li usi tu e come li uso io? E poi, ancora e soprattutto: di che parliamo? Cos'è che vogliamo esprimere? Quale messaggio vogliamo lanciare ai posteri che (non) ci leggeranno tra una ventina d'anni? Abbiamo optato per una contro-proposta: noi non vogliamo lanciare nessun messaggio. Non vogliamo che rimanga altro che una storiella leggera, dai toni (si spera) brillanti, con qualche riflessione qui e lì che non abbiamo potuto fare a meno di inserire, ma tutto sommato piacevole, qualcosa che scivoli dolcemente e faccia passare qualche ora in sanissimo isolamento. Per ovviare alla profonda differenza tra noi, abbiamo scelto la via più facile: della trama si è occupata lei, degli "inserti" io. Ed ecco che è venuta fuori la divisione tra "capitoli" e "atti", che tanto simpatica ci è apparsa e che, speriamo, simpatica appaia anche a voi. Abbiamo pensato: cosa scriveranno mai, gli analisti, sui loro taccuini durante le sedute dei pazienti? E abbiamo provato a dare una risposta, che speriamo sia solo frutto di fantasia e non reale descrizione della realtà. Ci siamo divisi i compiti, ma abbiamo avuto un costante filo (telefonico) che ci ha unito nella stesura: pomeriggi interi passati a progettare, cambiare, cucire, rammendare, una trama che non offre spunti degni di un Nobel alla letteratura, ma che abbiamo ritenuto andasse bene per tempi come questi, in cui tutto è rapido e c'è bisogno di un'evasione altrettanto veloce. Aaron, April, Rose, Priscilla, Hortensia sono venuti su spontaneamente, a reggere una storia che non è propriamente d'amore, non è un dramma, non è una farsa, non è. E basta. Alcuni, dunque, potrebbero chiedersi a questo punto: <<Ma dopo tutto quello che mi hai detto, io che cavolo ho speso a fare 'sti soldi?>> Questa è una bellissima domanda, nostro carissimo lettore! Ma non risponderemo mica!
Com'è ovvio, abbiamo da fare i ringraziamenti di rito.
E dunque un primo, sincero, affettuoso ringraziamento va ad Antonella, che con la sua macchina fotografica e la sua pazienza ha saputo assecondare i nostri capricci e le nostre richieste per tutto ciò che riguarda (e riguarderà) la parte grafica dell'opera. Ringraziamo Fabio e la sua stroncatura iniziale come "lettore zero", che speriamo rimanga isolata ma che ci ha dato da pensare per tutto quello che verrà dopo questo primo esperimento comune. Un grazie a Luigi che, tra una proroga e un’altra, con santa pazienza ha risposto prontamente al nostro diktat temporale e ha realizzato un certosino lavoro di editing. Un grazie, ovviamente, a Davide e a Giulia, che si sono lasciati coinvolgere in quello che potremmo definire il "progetto grafico" dell'opera e che figurano sulla copertina, sulla quarta di copertina e sul book fotografico che ha accompagnato l'uscita del romanzo. In ultima analisi, un ringraziamento particolare va a noi due e a tutta la tecnologia che ci ha permesso di restare costantemente in contatto (pensate che abbiamo scritto una "scena" in diretta su Facebook e siamo disponibili a vendere i diritti per una commedia cinematografica, perché ne verrebbe fuori qualcosa di unico) e alla nostra voglia di buttarci nella mischia, di metterci in gioco, in un genere così distante da ciò che trattiamo ogni volta che ci mettiamo davanti ad una pagina bianca. In particolar modo, ringraziamo ogni singolo personaggio che ha fatto capolino nelle pagine: a loro diciamo che speriamo di aver reso giustizia a quanto avevano da dire, importante o meno che fosse.
E adesso, a giochi conclusi, se davvero siete arrivati a leggere fino a questo punto, ringraziamo voi che avete in qualche modo puntato su questo piccolo progetto. Accoglieremo critiche e apprezzeremo moltissimo eventuali bonifici bancari di ringraziamento, ma già l'avervi qui con gli occhi a queste parole è un successo che ci godiamo fino in fondo.
E adesso, anche se ho parlato al plurale, ricordo a voi tutti che questo sporco lavoro sulla nota è opera mia: dunque firmo per primo, mia cara Fabiola; ammettilo, devi concedermelo.
Luca Casamassima Fabiola Danese
“Il problema è che di cuori nuovi non ne vendono, altrimenti sai che fila ci sarebbe?!”
CAPITOLO 1 “Miss Moon, chi?”
“Mi chiamo April Moon e ho 29 anni (sottolineo non 30) e sono una brillante maestra delle elementari.” Beh sì, in effetti lei è April Moon e sta ripetendo la stessa frase allo specchio per la cinquantesima volta, solo per dare fondo alla sua mancanza di autostima o per dare fondo alla terza tazza di caffè della mattina. Da cosa dipende la mancanza di autostima? Quasi sicuramente dal fatto che, circa due anni fa, è stata mollata all’altare da quel grandissimo Stronzo del suo ex fidanzato. Un classico? Sì, ma di quelli alla “Jack lo squartatore”! Ma torniamo a lei, alla nostra April: una donna di corporatura minuta e ben proporzionata, dettata da ore e ore di maledettissimo pilates (che poi sembra essere il miglior nemico di una donna), occhi grandi e scuri, capelli medio/lunghi e ricci ed una bocca piccola ma piena. Insomma, assomiglia vagamente a… NESSUNO! Giusto per capirci, è una normalissima, quasi banale e per niente sana di mente ragazza italiana, del sud per essere più precisi. Ha un insano gusto per tutte le schifezze di questo mondo, ha intenzione di morire giovane, probabilmente di tachicardia, vista la quantità di caffè che riesce ad assumere, e non ha più smesso di fare sesso con uomini sbagliati negli ultimi due anni, fino a quando una donna di più che mezza età le ha severamente proibito di avere relazioni occasionali con il primo venuto, lasciando nel dimenticatoio il suo più che noto PUNTO G. Perché parliamo di lei? Perché ci abbiamo addirittura scritto un libro? Francamente ancora dobbiamo capirlo, ma il mondo di Miss Moon al momento ci intriga più di un concerto di Adriano Celentano (stile Rock Economy) o di un sabato in compagnia della Toffanin.
Lei ha un’anomalia, al momento apparentemente momentanea e passeggera, ma è singolare e di queste cose noi andiamo ghiotti. È buffo, ma va dall’analista tre volte a settimana per curare una specie di super potere sfigatissimo, che consiste nell’avere flashback ad occhi aperti, prevalentemente della sua vita passata, innescati da banalissimi dettagli presenti nella vita quotidiana. Il bello è che lei rivive esattamente, ovunque si trovi, questi flash e non può fare niente per fermarli. Forse sarà banale, ma vi garantisco che il tutto le ha causato non pochi problemi.
La sua terapista, soprannominata da lei “La regina Elisabetta” (per la longeva età e per l’ostinazione a non volersene andare in pensione), ha sempre un atteggiamento piuttosto negativo nei suoi confronti, quasi quanto una matrigna austera, per intenderci; potrebbe essere la matrigna di Lucifero, giusto per lasciare largo spazio all’immaginazione. Eppure per qualche strana ragione, oscura a tutto questo universo, lei riesce sempre a trovare le parole giuste, a chiarire e dissipare ogni dubbio presente in quella incasinata testolina. È per questo che la nostra April, continua ad andarci. I suoi flash riguardano soprattutto aneddoti sulle sue storie finite male, ricordi dei suoi ex fidanzati, prima di incontrare quello che poi avrebbe vinto il Premio Oscar del più gigantesco Stronzo dell’anno. È un premio molto ambito, probabilmente è per questo che Leonardo di Caprio ancora non ha vinto nessun Oscar: aspetta di avere questo e solo questo sul comodino della sua camera da letto. Coraggio Leo, sei tutti noi!
Uscita dalla sua prima seduta di analisi settimanale, April decise di andare a fare un colloquio di lavoro, ma che dico uno? “Il” colloquio per eccellenza, quello che ti cambia la vita, quello che ti rimette a posto con gli ultimi anni di tragedie familiari, amori sbagliati e amicizie finite nel cesso. Insomma, è quell’occasione che sistema le cose, che mette in pari la bilancia di Paolo Fox, il karma, quella che ti dà un nuovo motivo per svegliarti tutte le mattine. April ha sempre sognato di lavorare per un’importante rivista di costume e società, ha sempre sognato di fare la reporter di serate mondane, mostre e prime teatrali. Ha sempre sognato di recensire tutto ciò che è umanamente recensibile. Ma, per fare
questo, doveva ottenere il lavoro del secolo, un posto da redattrice nella rivista Millennium. Si è trasferita a Londra, per scrollarsi di dosso una madre oppressiva e per sfuggire ad una misera vita di provincia. Quel posto le era sempre stato troppo stretto e continuava ad avere tasche troppo bucate da cui scivolavano i suoi sogni. Così se ne era andata, circa otto anni prima, e si era rifatta una vita a Notting Hill, lavorando sodo e risparmiando: soldi sotto il materasso modalità on. Aveva lavorato e sgobbato per giungere fino a quel momento, fino a quel giorno e non si sarebbe tirata indietro, non questa volta. Si fece coraggio ed entrò nella sala d’aspetto, che sembrava lo studio televisivo di C’è posta per te della De Filippi. Davanti a lei ragazze al di sotto dei trenta, tutte pronte a sfilare per Armani o Valentino. Erano tutte fin troppo truccate, con la messa in piega appena fatta e con autoreggenti che a stento si reggevano. April non riusciva a capire in che girone dell’inferno fosse finita quella mattina, sapeva che la proprietaria era una donna molto esigente ma, a meno che non avesse cambiato sponda di recente, non c’era motivo di apparire così sexy e inondate da una nube di profumo che si sentiva fino all’ottantaquattresimo piano. Le ragazze cominciarono ad essere chiamate e, una dopo l’altra, uscivano da quell’ufficio dispiaciute, quasi affrante, come se avessero perso un parente caro. Sembrava di essere sul set di Titanic, una vera tragedia insomma. April cominciò ad agitarsi visibilmente, iniziò a sentirsi inadeguata e priva di qualsiasi femminilità. Era come essere un brutto anatroccolo, in procinto di essere divorato da un puma. << Miss Moon? >> Ma Miss Moon si isolò, quasi ignorando totalmente la voce di quella segretaria, che assomigliava tanto alla nonna di Tweety. << Miss April Moon? C’è? >> Stava quasi per rinunciarci, anche perché aveva attirato l’attenzione di tutte le top model presenti, in attesa di vedere che volto avesse quel nome. Alla fine alzò la mano e le altre ragazze, non appena le diedero un’occhiata, tornarono ad occuparsi del proprio make up.
April abbassò velocemente la testa e, con passi quasi impercettibili, si lasciò guidare nello studio, che assomigliava tanto al buco nero in cui sprofondava Alice, inseguendo quel maledetto Bianconiglio. Non appena entrata, capì subito l’agitazione generale e le ore passate dal chirurgo plastico. Davanti a lei non c’era una deliziosa signora di mezza età, imponente e autoritaria, ma un cavolo di uomo sui trentacinque anni, bello da togliere il fiato, troppo sexy, troppo spavaldo e troppo sicuro di sé. La bava alla bocca della nostra April era facilmente comprensibile: doveva essere la fantastica combinazione genetica di George Clooney in Ocean’s Eleven, Richard Gere in Pretty Woman, con un pizzico di Tom Cruise in Top Gun. Lui non si accorse subito di lei. Era comodamente seduto alla sua scrivania, senza prestarle la minima attenzione, così April tentò di riprendersi dallo shock e si accomodò, aspettando un suo cenno. Quando finalmente la degnò di uno sguardo, alzò appena l’arco sopraccigliare e, con un sorrisino compiaciuto, si tirò indietro e si sistemò meglio sulla sua poltrona. Infine, con uno sguardo che metteva soggezione e una punta di arroganza, le fece cominciare il colloquio. All’improvviso le sembrò di essere finita a girare Cinquanta sfumature di grigio, ma tentò di scacciare dalla sua mente quell’idea e le altre tremila idee vagamente a sfondo sessuale richiamate dal libro. << Allora, Miss Moon… che mi dice di lei? Perché si trova qui? >> April sembrò spiazzata dalla più semplice delle domande. Ma era quel tizio a metterla in soggezione, aveva l’aria troppo compiaciuta e impertinente, doveva essere abituato ad avere tutte le donne ai suoi piedi, il che era facilmente comprensibile. << Sì… ecco… dunque, mi chiamo April Moon. >> << Sì, questo lo avevo capito. >> Ok, fine della magia, perché l’idiota aveva appena messo K.O. tutte le sue fantasie ed ora poteva facilmente notare tutte quelle cose che l’accecamento della prima impressione ti toglie a mo’ di lobotomia.
Ora poteva percepire l’aria da figlio di papà, da figlio di puttana e da grandissimo stronzo colleziona-donne. E lei aveva chiuso con quel tipo di uomini: ne andava dell’incolumità dei suoi ultimi due neuroni. Il colloquio proseguì, ma April cominciava ad apparire piuttosto nervosa e continuava a torturarsi le mani sotto il tavolo. Se la sua estetista fosse stata lì, probabilmente le avrebbe tirato una testata, visto che stava volutamente vanificando tutti gli sforzi del giorno prima. Mr Price o “Mr Presunzione”, come lo aveva subito soprannominato April, ostentava sicurezza da tutti i pori. Era così sicuro e spavaldo nel suo completo di Armani grigio perla e questo contribuì all’operazione in corso “ODIA QUEL GRAN FIGO DEL TUO POSSIBILE CAPO, ALTRIMENTI SCAPPAAAAA”. Il suo cervello continuava a mandarle impulsi di ogni tipo, era come se fosse in mezzo ad una tempesta e qualcuno stesse urlando: “Abbandonare la nave! Ripeto: abbandonare la nave!”. Il codice rosso, sopra la sua testa, continuava a martellarle le terminazioni nervose ed April continuava ossessivamente a massaggiarsi le tempie. Eppure, nonostante la situazione catastrofica, il suo colloquio stava prendendo risvolti positivi. Mr Presunzione continuava a flirtare spudoratamente con lei, ma April gli teneva sorprendentemente testa. << Allora, mi dica, avrebbe problemi a viaggiare nei weekend? >> Era palese che i sottotitoli a quella domanda potevano essere solo ed esclusivamente due: Opzione A: “Allora, mi dica, il suo fidanzato le romperebbe le scatole se dovesse partire per il weekend?” Opzione B: “Allora, mi dica, avrebbe problemi a viaggiare nei weekend, magari con me, una bottiglia di champagne ed una casuale camera matrimoniale, in misteriosa assenza di camere separate?” Era subdolo, April doveva ammetterlo, ma nonostante questo, non era difficile stare al suo gioco, anzi, non era affatto male. E, proprio mentre lei cominciava a rilassarsi un po’, Mr Presunzione alzò il telefono e, dall’altra parte, una vocina sommessa ed ubbidiente gli risponse: << Sì, Mr Price? >> Lui, senza staccare gli occhi da April, accennò un sorriso e disse: << Lory,
cortesemente, mi porta due caffè… >> e poi, coprendo con la mano il ricevitore, chiese ad April: << Come lo vuole il caffè? >> April si bloccò e si ammutolì all’improvviso. Qualcosa scattò nella sua pericolosa memoria, fu giusto un secondo, giusto il tempo di sentire quello che veniva dopo quella domanda, dopo l’evidente esitazione. << Tranquilla, faccio io. Allora Lory, me ne porta uno macc… >> Il resto della conversazione sfumò proprio davanti ad April e lei sentì che la situazione stava per precipitare, proprio lì, proprio mentre cominciava ad avere la sua chance. Uno dei suoi maledetti flash la stava rapendo, per portarla altrove, e lei non poteva assolutamente permettersi di mettere su un bel teatrino, sarebbe morta di vergogna e voleva così disperatamente quel lavoro… Niente da fare, se non l’inevitabile, ma sapeva già che se ne sarebbe pentita per il resto della sua triste e squallida vita da “gattara”, perché era questo quello che l’aspettava, una volta uscita inspiegabilmente da quell’ufficio. Mr Presunzione era ancora al telefono quando April si alzò e, con la vista annebbiata, comunicò che doveva assolutamente andare via perché le era venuta una terribile emicrania/allergia/influenza/demenza senile. Così si precipitò fuori dall’ufficio, lasciando un Mr Presunzione in balia dello stupore più totale.
<< E questa volta dove le è successo? >> April era a dir poco depressa, sull’orlo di una crisi di pianto e la vecchiaccia, quella dispettosissima donna, le stava chiedendo di rivivere tutto un’altra volta. LA ODIAVA, quasi quanto sua madre. << Ero al colloquio della mia vita, quello che non mi avrebbe lasciata diventare una zitella, gattara, senza speranze. Lo so, morirò così, circondata da 44 gatti, in fila per sei col resto di due. >> << Non ho capito. >> << Lasci perdere! È una vecchia canzoncina italiana. Esatto, VECCHIA, proprio come meeeee!!! >>
E cominciò a sciogliersi in una valle di lacrime. Ma se c’era una cosa che davvero la faceva uscire di testa era proprio la regina Elisabetta, con quell’aria indolente, come se sul suo lettino non ci fosse una che era prossima al suicidio, ma fosse una tranquilla domenica mattina tra amiche (gattare). << Si faccia coraggio! Mi dica cosa ha scatenato il flash questa volta e cosa ha visto. >> April prese coraggio, insieme ad una scatola di clinex/rotolo di carta igienica, e si tirò su a sedere e, poco prima di cominciare il suo racconto, non poté fare a meno di chiedersi cosa diamine stesse scrivendo sul quel dannato taccuino.
<< Dunque… ero al colloquio e questo tizio irritante, non faceva altro che mettermi a disagio, ma io gli tenevo testa, fino a quando non mi ha chiesto come volessi il caffè, terminando con un: “Tranquilla faccio io.” E allora mi si è annebbiata la vista, come al solito, e mi è tornato in mente Clark, quel deprimente tizio che ho conosciuto ad un bar dietro casa, in un tranquillo sabato londinese. Era carino, sembrava simpatico, vagamente vintage, ma con l’aria intelligente. Un’ora e dieci sigarette dopo ho capito che non solo era un cretino totale, ma che aveva l’insana abitudine di chiedermi come lo volessi il caffè (che di per sé è già una domanda da idioti, dopo che ti ho fatto notare più volte di essere italiana, anzi meridionale, per la precisione), per poi finire col dire: “Tranquilla, faccio io” e, puntualmente, mi faceva arrivare cose improponibili da provare, come caffè all’orzo, caffè al ginseng e altre cavolate salutari o dall’aspetto vagamente biologico. E pensare che sembrava così carino. E pensare che sembrava così normale. E pensare che, pur di farlo stare zitto, me lo sono portato a letto e ci sono uscita due settimane, perché se c’era una cosa che davvero sapeva fare, era andare a letto. Avevamo un’intesa sessuale da paura, era tutto perfetto, ma, non appena apriva bocca, rovinava tutto. Cosa non si fa per un po’ di sano sesso… Vabbè, comunque, dicevo che ho resistito tra un caffè macchiato con lo Zymil e porzioni monodose, ad alta digeribilità, fino a quando tra un “Tranquilla, faccio io a colazione, pranzo, cena, il sabato sera, nei weekend, ecc ecc…” eravamo lì lì per fare… insomma, ci siamo capite, no? Ecco, eravamo lì e mi fa: “Dai, senti, facciamo qualcosa di diverso, qualcosa di strano, dimmi cosa vuoi.” Dimmi cosa vuoi??? Continuavo a pensare e ripensare a quella domanda, mentre lui, con lo sguardo malizioso, aspettava una mia risposta. Ma io, a dir poco scioccata da
quella stupida richiesta, mi sono staccata da lui, ho raccolto le mie cose, l’ho guardato un secondo, giusto il tempo di dirgli: “Guarda, fai tu.”
LA REGINA ELISABETTA (Atto I)
L'ultima volta che qualcuno mi ha chiesto di far ‘qualcosa di strano’ era il 1847 e Samuel Colt aveva venduto il primo revolver al governo americano. "Il punto è, piccola mia, che agli uomini andrebbero tagliati i mignoli." Ricordo perfettamente la scena che mi si parava davanti ogni volta che andavo a trovare la zia Lisetta, nella sua orripilante casetta in campagna, dove tafani grossi come porcellini d'India cascavano nelle minestre, come se non avessero altro compito da svolgere, a questo mondo. Già all'epoca, e siamo nel 1942 e cioè quando io avevo
6 anni tondi tondi, mi piaceva entrare nelle teste delle persone e, quando non ne avevo di sufficientemente interessanti intorno, facevo lo stesso procedimento con gli animali. Solo che, in quella casa maledetta dove faceva sempre caldo anche a Gennaio (ricordo la voce di mia zia che commentava ridendo con le amiche: "La mia casa sta andando in menopausa da circa 50 anni!") e per un motivo sconosciuto alla fisica e alla chimica salivano ondate di calore simili ad alcuni venti del deserto di cui parlavano gli esploratori, gli unici animali disponibili erano appunto i tafani. E le galline, ma quelle non potevo contarle perché mia zia non mi permetteva di andare in cortile. "Ci sono le bubbole!" diceva. Ed io, che in fondo nell'essere umano ancora ci credevo, mi fidavo del fatto che nella vita non stava bene per una signorina avere a che fare con le bubbole. Insomma la scena era sempre la stessa: il portico, il caldo, la macchina della zia parcheggiata davanti all'ingresso da sempre (e presumibilmente mai guidata) e sfilze di fagioli da pulire. Pareva che mia zia non aspettasse altro che il mio arrivo per andare a comprare chili e chili di fagioli, che poi pulivamo insieme; in silenzio, con un po' di fortuna, oppure nei giorni di maggiore predisposizione alla vita con il sottofondo della voce di mia zia, che dispensava consigli inutili e frasi che mi avrebbero salvata, a suo dire, dai mali del mondo.
"Il punto è, piccola mia, che agli uomini andrebbero tagliati i mignoli." mi aveva detto una volta. Al mio sguardo stupito di bambina ingenua, che non si capacitava di come la zia potesse essere così cattiva, lei aveva replicato: "Devi renderli zoppi. Sennò vanno via." C'è da dire che la storia di zia Lisetta non era stata delle migliori, sotto il profilo sentimentale. Si era sposata una prima volta con un uomo parecchio più grande di lei. Un tipo autoritario, tutto baffi e stivali sporchi stile Far West, che pare si chiamasse Alfredao per un errore dell'anagrafe. In pratica, i genitori di Alfredao si erano recati lì dove dovevano per farlo registrare e l'addetto aveva capito di dover registrare la signorina Alfreda Mangiagrassi. Capirete bene il disagio quando Alfreda, adolescente attratto dalle pulzelle e mascolino all'inverosimile, venne a sapere tramite un documento
ufficiale che il suo vero nome (tutti lo avevano sempre chiamato Alfredo, non sospettando minimamente il terribile misfatto) era al femminile. Prima di recarsi a lavoro, dunque, rimediò con un più esotico Alfredao. "Non posso cambiare l'ultima lettera," aveva detto il tizio, "ma posso aggiungerne una." E dunque, col suo nuovo nome in tasca, Alfredao Mangiagrassi si era ritrovato a tu per tu con Lisetta Porretti Ferrara, intenta a far fare la cacca al suo meticcio proprio davanti alla proprietà di Mangiagrassi. Com'è come non è, si erano nell'ordine: sposati, presi un caffè, conosciuti, odiati, salutati. Il secondo matrimonio era stato ben diverso. Lisetta, spinta al cinismo più puro dalla sua ultima storia sentimentale, aveva optato per un gelido: "Ciao anche a te." al saluto che il bellissimo Marietto Saltinghi le aveva rivolto entrando nello stesso negozio dove lei faceva la commessa. Una bottega, diremmo noi oggi... ma quelle che per noi sono botteghe per quei tempi erano negozi. Buffa la vita. "Lavora qui da molto?" aveva chiesto lui, che era entrato (ufficialmente) solo per provare un paio di calzini color... "Come ha detto che li vuole?" "Pervinca." aveva detto lui, per poi ripetere: "Dicevo: lavora qui da molto?" "Un po'." "Non l'ho mai vista." "Solitamente di questo posto pulisco il cesso." aveva risposto lei, prima di buttare all'aria l'intero cassetto dove erano riposti i calzini da uomo esclamando: "Ma chi accidenti lo sa come diavolo è fatto il color pervinca?" Lui l'aveva amata all'istante per quella sfacciataggine così rara, a quei tempi. Lei lo aveva amato all'istante e basta; lì, sulla cassa del negozio. Poi a casa di lui. Di lei. Dietro un arbusto. Durante la proposta di matrimonio. Nel bagno della chiesa. Al ricevimento. Nel tinello della nonna Rosina. E proprio lì lui, così giovane, così di bell'aspetto, così forte, aveva avuto un infarto in pienissima regola.
"Nonna!" aveva urlato Lisetta. "Eh?" aveva risposta l'anziana donna. "Marietto è morto!" "Beh, cosa ti aspettavi da uno con un nome del genere?"
Il terzo matrimonio lo aveva avuto con i fagioli, evidentemente, da cui non si era ancora separata dopo tutti quegli anni passati a metterli in scodelle di ceramica dopo averli puliti con una attenzione maniacale. Restava il fatto che io venivo tirata su a suon di castagne e di frasi senza senso sul perché bisognasse privare un uomo dei mignoli.
Questi ragazzi di oggi, così poco inclini al romanticismo e così pieni di cose da fare che non li portano da nessuna parte, non hanno minimamente idea di cosa significhi contemporaneamente: stare al mondo, avere una coscienza civile, trovare il tempo di dar da mangiare agli affamati e pulire i fagioli con zia Lisetta. Ricordo benissimo di quando mi parlò di una sua amica, tale Rosamunde Alberpinchle, che era andata a cena da lei il giorno prima, alla presenza di una cugina di lei dal presunto nome (la zia non lo ricordava bene) Amerina. Me ne parlò, inutile dirlo, mentre pulivamo fagioli. "Non sai cosa mi è successo!" aveva esordito Rosamunde. "Cosa?" aveva detto lei. "Ho conosciuto un uomo che vuole incontrarmi solo per sesso!" "Dio Dio Dio Dio Dio Dio!" aveva scandito Amerina, partendo a razzo con un segno della croce ripetuto infinite volte. "Rosamunde, ma cosa dici? Ma ti paiono argomenti da tirare fuori a cena?" "Sei troppo cattolica per poter essere felice." l'aveva apostrofata la donna.
Che una zia raccontasse ad una ragazzina di 16 anni tutto ciò forse non era proprio seguire un'etichetta giusta, ma in fondo le sono grata di avermi tenuto compagnia così a lungo. "Fu una cena memorabile." mi disse la zia. "E come andò a finire tra Rosamunde e quell'uomo?" "Ah non saprei dire! Rosamunde venne trovata morta dopo qualche giorno nei campi dietro casa sua. Ma non è questo il punto!" mi aveva detto. E già i miei occhi si riempivano di lacrime al pensiero di una vita spezzata per chissà quale motivo. "E qual è?" chiesi. "Il punto è che agli uomini bisogna tagliare i mignoli!"
Non ho mai scoperto il motivo che aveva spinto mia zia a ripetermi per così tanto tempo la stessa frase. Dopo la sua morte (avvenuta intorno al mio ventesimo compleanno per cause ancora da capire, ricordo solo che la trovarono qualche giorno dopo con le dita infilate in un tostapane da cui stava evidentemente tentando di recuperare qualcosa) ho persino sperato che mi apparisse in sogno e mi spiegasse il motivo di quel mantra. Nulla da fare. Niente. Vuoto cosmico. Tuttavia, se questa Moon la smettesse di parlarmi dei suoi problemi così patetici che qualche idiota potrebbe scriverci sopra un libro e avere persino successo, riuscirei magari a venirne a capo da sola. Invece no. Quella sua piccola boccuccia continua ad ispirare aria e a farla uscire sotto forma di discorsi che non capisco nemmeno. Credo sia in qualche modo stata limitata dall'assenza di una zia Lisetta nella sua esistenza.
Mi verrebbe quasi voglia di dirle che è tutta questione di mignoli, nella vita. E infatti glielo dico.
CAPITOLO 2 “Nessuno è perfetto. E meno male.”
C’erano volte in cui le sedute dalla Regina Elisabetta non le garantivano il buon umore. È per questo che, tornando verso casa, si fiondava nel suo bar preferito, prendeva un espresso doppio e subito dopo filava a casa per correggerselo un tantino. La giornata era una di quelle che “Era meglio che ti stavi a letto”, così April accettò l’invito e si rifugiò sotto le coperte per il resto di quella che pensava essere la sua vita da gattara. Si sistemò sotto il piumone caldo e avvolgente, fin sopra la testa, giusto per non dare l’impressione di essere totalmente depressa. Si accese la tv, mettendo su tutto quello che poteva peggiorare ancora di più il suo umore, tutti i film tratti dai libri di Nicholas Sparks, per intenderci. Cominciò a piangere come se non ci fosse un domani. Bridget Jones al suo confronto sembrava una dilettante, una di quelle per cui sembrava esserci ancora speranza. Le donne sono creature molto forti, è per questo che hanno affidato a loro il compito di generare vite, solo loro sono in grado di reggere un simile dolore, ma se c’è una cosa che sanno fare altrettanto da Dio, è deprimersi, rendendosi irriconoscibili, come se non ci fosse un domani, appunto.
E per la serie “Non c’è mai fine al peggio”, udendo i richiami abbastanza chiari di PROSSIMA FERMATA SUICIDIO, la sua migliore amica, nonché dirimpettaia Rose, si fiondò nel suo appartamento, mirando direttamente alla sua camera da letto. April e Rose erano così dannatamente diverse, a partire proprio dall’aspetto fisico: se April si lamentava dei suoi ricci spenti e ribelli, Rose decantava la sua folta criniera rossa ordinata e piastrata. Se April si lamentava di qualche chilo in più e meditava di mettersi a dieta, Rose si ingozzava come un maiale e pesava sempre quegli splendidi 50 chili. Se April lamentava i suoi banali occhi grandi e scuri, Rose decideva quale ombretto stesse meglio con i suoi perfetti occhi verdi. E, nonostante questo, non potevano fare l’una a meno dell’altra, perché, forse, è proprio una persona completamente ai tuoi antipodi a servirti in una vita in cui gli stereotipi non mancano. Quando finalmente trovò i resti di quella che sembrava essere la sua amica, le restò solo una cosa da fare. Si alzò le maniche, come per andare a lavorare in miniera, prese la rincorsa e tirò via le coperte. Ecco, immaginate la scena come se ci fosse la moviola, ne vedrete delle belle. Una volta tolto il primo strato di depressione, seguirono le fasi: -
quattro schiaffi, così vediamo se ti riprendi;
sequestro di armi improprie: telecomando e dvd di film tratti dai libri di Nicholas Sparks; -
che te ne fai del caffè corretto, quando ho portato la tequila.
Una brava migliore amica sa sempre come agire in questi casi, pur non sapendo assolutamente cosa sia successo. << Rose, ho deciso: da oggi sarò una persona migliore, più sicura di sé, non mi farò condizionare la vita da questa specie di super potere demenziale e avrò la migliore storia d’amore di tutti i tempi. >> << Magari che ne dici se cominci da domani? Ora mi sembri un tantino fuori gioco per iniziare la tua conquista del mondo. E, per l’amore del cielo, mi vuoi dire che diamine è successo? >>
April fece una di quelle facce contrariate da bimba di cinque anni, una di quelle che si fanno dopo che i tuoi genitori ti hanno negato una doppia porzione di zucchero filato al Luna Park, così Rose incalzò. << Guarda che mi porto via la tequila. >> << Ok, ok. Dà qua. Te lo dico. >> << Brava bambina. >> << Ho fatto il colloquio per il Millennium e lui era uno tutto alla Christian Grey di Cinquanta sfumature. Non che io abbia letto il libro, s’intende. >>
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