Marilena Barbagallo
LUI VUOLE TUTTO Titolo originale: LUI VUOLE TUTTO Copyright © 2015 Marilena Barbagallo Copertina: Aleksey Mnogosmyslov Progetto grafico: Marilena Barbagallo Questa è un’opera di fantasia. Nomi, persone, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale. Questo libro contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in
alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941). I Edizione Febbraio 2016
LUI VUOLE TUTTO
Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti. Luigi Pirandello
1
KRUM
Seimila leva bulgari. È la cifra con cui Mr x acquistò la mia vita per rivenderla a Mr y che mi cedette al Padre. Come una merce da esportare, all’età di dodici anni, venni imballato in un pellicciotto e fatto sbarcare al porto di Venezia. La cosa dovrebbe turbarmi? Niente affatto. Ma quei seimila leva bulgari continuano a fluttuare nell’aria dei pensieri, come un promemoria che riflette il poco valore che ha la mia vita. Poco più di tremila euro per acquisire la proprietà di un essere umano. Se si potesse dare un valore all’esistenza, esso quale sarebbe? Sconosco ogni forma di valore. I valori che mi hanno insegnato sono stati totalmente esasperati dalla visione del Padre. Il Padre mi ha insegnato tutto. Al Padre devo la mia rinascita. Se lui mi ha comprato è stato solo per creare una meravigliosa creatura. Così disse al nostro primo incontro. Per il Padre darei la vita. Per il Padre ho dato tanto. Per il Padre ho sopportato un anno di prigionia, trecentosessantacinque giorni di carcere, ottomilasettecentosessanta ore di reclusione e potrei sopportare ben altro, perché io sono fedele. Fede. Unico valore che conosco. Per essere corretti, non ho ancora completato il giorno numero trecentosessantacinque. Ho ancora sopra di me la rete del letto a castello. La fisso con l’appagante consapevolezza che è l’ultima volta che ne esamino gli intrecci arrugginiti. Considero la mia permanenza al San Vittore di Milano come una vacanza relax. Non capisco perché la gente si lamenti di stare in prigione. Là fuori è tutto così…
complicato. Qui non hai nulla a cui pensare, niente da sistemare e non ci sono giorni della settimana. È come se ci fosse un ottavo giorno, dopo la domenica, chiamato nulla, e ogni giornata fosse esattamente nulla. Non c’è mai stato il lunedì, né il sabato, solo nulla. E a me piace il nulla, perché non è impegnativo, perché non è fatto di persone, perché ti garantisce la totale solitudine. Sì, sono un solitario, amo stare solo, amo non avere gente intorno, per me il nulla si riempie sempre di qualcosa che, perlopiù, si carica di pensieri. Pensieri miei. Totalmente miei. I pensieri sono l’unica cosa di privato che possediamo, unico riflesso di noi stessi. Ma in questi anni qualcosa li ha contaminati, come un veleno che si dirama lento e letale. Ogni tanto ci ripenso, qualche volta la rivedo. Era giovane, indifesa e tremante. Era così piccola. Un tabù. Chissà come sta oggi! Sarei curioso di sapere se i miei occhi la tormentano nei suoi incubi. Di certo, io sono il suo incubo peggiore. La brandina cigola. Questi letti bastano a stento a contenere il mio corpo. Se Tommaso si volta ancora una volta, salgo su, sul suo letto, e lo riempio di cazzotti. Avrei dovuto obbligarlo a cedermi il letto di sopra. Ora russa. Vorrei soffocarlo. Mi passo le mani sul viso, ho riscoperto il piacere di portare la barba incolta. Decido di alzarmi per il bene di Tommaso, ma anche per il mio, non vorrei dover mettere a repentaglio la mia scarcerazione. Do un’occhiata alla faccia del mio compagno di cella che dorme beato e il ricordo della volta in cui gli ficcai la testa dentro al cesso mi fa sorridere. Da allora non ha più osato fare domande sulla mia vita. Col tempo siamo diventati compagni. Non amici. Nella mia vita ci sono solo comparse. Come faccio da un anno, mi fletto sul pavimento e comincio la mia sessione di flessioni. Il carcere forgia gli uomini, è vero, soprattutto i fisici. Non avendo un cazzo da fare ogni dannato giorno, ho deciso di sottoporre il mio corpo a un allenamento estenuante. L’attività fisica aiuta a spegnere quella del cervello. Dieci, venti, trenta, cinquanta…
A cento mi fermo. Ma non riesco. Vado oltre. Il bianco della parete di fronte, così sterile e insito di nulla, fa sì che i miei occhi si incantino, mentre le gocce di sudore solleticano la fronte e le palpebre, insinuandosi nelle mie orbite scure. Sento i muscoli pompare, le braccia soffrire il peso della mia stazza. Il corpo si fa pesante e il petto brucia. Mi affloscio sul pavimento, mi volto e ora vedo il soffitto. Bianco. È come se sentissi il bisogno di riempire il vuoto di qualcosa, di rendere il nulla dei miei giorni significativo. In queste occasioni mi incazzo come una iena perché sento di dover riempire i pensieri, percepisco che essi non sono più intimi e personali, ma aperti all’ingresso di quella figura. Sempre lei. L’ho rivista una volta, dopo tanti anni, dopo quello che era successo. Stranamente, per ragioni che non ho mai compreso, avevo avvertito il bisogno di vedere com’era cambiata, cosa era diventata. Volevo osservare il suo viso e cercare i segni che le avevo lasciato. Avevo la necessità di sapere se ero rimasto in lei al punto da riflettermi nel suo sguardo. Volevo sapere se anche lei pensava ancora a me. Una volta l’ho seguita. So tutto di lei, so dove vive e so anche i voti degli esami che ha sostenuto all’università. Oggi dovrebbe essere laureata. Sicuramente. Mi volto di nuovo e comincio un’altra sessione di flessioni. Stavolta voglio esagerare. Eccola ancora, la sua immagine. Quel ricordo. Prendeva un caffè in Piazza San Marco, a Venezia, insieme a un figlio di papàcollega universitario. Era stato facile avere informazioni su di lui, avevo dedotto che era un coglione. Quel giorno avevo capito che io esistevo ancora per lei, che non mi aveva dimenticato, che il ricordo dei miei occhi era divenuto una costante nella sua vita. Avevo letto nel suo sguardo il timore di un tocco, proprio quando il Coglione le aveva sfiorato una ciocca di capelli biondo cenere. Lei lo aveva rifiutato
scostandosi indignata. Si era tolta le lenti da sole e i suoi occhi color oro erano apparsi così spenti. Guardarla era stato estasiante. Aveva ancora paura di me, di ciò che ero stato per lei. Io ero dentro di lei e lo sarei stato per sempre. Paura. Lei avrebbe avuto sempre paura di me. Lei avrebbe avuto sempre paura degli uomini. Io sarei stato tutti gli uomini della sua vita. Quando avevo metabolizzato il tutto, mi ero trovato a correre via come una furia. Continuare a guardarla mi provocava emozioni troppo esasperanti. Quel giorno decisi di non osservarla mai più e così feci. Dopo quella volta e quest’altra, non la rividi più, se non nella mia testa, dove è diventata un pensiero costante, una curiosità allettante e incomprensibile. Centoventi, centoquaranta e… crollo. Mi stendo di nuovo sul pavimento e fisso ancora quel soffitto. Lei. Brutta puttana che non è altro. Non la voglio nella mia testa. Non la voglio adesso più che mai, perché so che uscito di qui, la prima cosa che farò sarà cercare di stare alla larga dai luoghi in cui so di trovarla. Cancellala. Dovrei ucciderla, scavare una fossa e seppellirla dentro. Solo così potrei evitare di cercarla ancora, e se volessi rivederla la dissotterrerei, per trovare il suo corpo in un ammasso putrefatto. Sì, questo potrebbe annientare la sua bellezza, questo potrebbe farmi passare la voglia di… pensarla. Mi preparo alla terza sessione di flessioni, ma dopo il quarto piegamento sento il pugno della guardia battere sulla porta di ferro. «Botev, preparati!» Sfiato. È il mio momento. Lascio la vacanza relax di un anno e torno alla realtà. Doccia, borsa e un “addio, Tom” per il mio compagno di cella. In un attimo sono fuori che percorro i corridoi del San Vittore, scortato da due guardie che mi
prendono per il culo. Stringo i pugni e faccio convergere la rabbia sulle nocche che si sbiancano. Non posso di certo fracassare la faccia delle due guardie mentre sto per lasciare il carcere. Sono un violento, ma non stupido. Indosso i vestiti con cui sono arrivato qui un anno fa: un jeans sbiadito, una T-shirt nera, il mio giubbotto di pelle nero e gli anfibi pesanti. Mi hanno ridato gli occhiali da sole e l’orologio, regalo del Padre. Sfilare davanti alle celle degli altri reclusi è eccitante. Posso vedere l'invidia tingergli le facce, sentire i loro auguri e i loro insulti. Sono tranquillo, diciamo che ho insonorizzato tutto, a parte il frastuono di alcuni carcerati che battono pentole sulle grate delle celle e in coro intonano il mio soprannome “Led, Led, Led”. Ghiaccio. Così mi chiamano, per via del mio totale disinteresse verso l’essere umano. Giungo al confine tra le celle e l’atrio esterno, non sono ancora fuori, ma il profumo della libertà lo avverto già potente. Non pensavo mi sarei sentito di nuovo libero. «Botev, quale sarà la prima cosa che farai uscito di galera?» mi chiede quella faccia di culo della guardia. «Mi scoperò tua moglie.» Non sto scherzando. La troverò davvero. «Te la sei cercata.» commenta l’altro. «E magari chiamo anche la tua.» lo punzecchio. Le due guardie impallidiscono, ma non hanno il tempo di replicare perché un loro collega mi prende per il braccio e mi trascina via verso il suo settore. Altro corridoio, rinnovato senso di libertà. La luce è anche diversa, sembra più reale. Non ci sono i soliti neon che lampeggiano a intermittenza negli atri spogli, ma grandi finestre da cui si vede l’esterno. Comincia a intravedersi la vita. Davanti all’uscita del carcere noto una delle guardie che ha assaggiato i miei pugni. Quasi quasi mi dispiace, sembra un bravo ragazzo. Ma no, non mi dispiace affatto! Faccio un paio di passi e mi fermo, attendendo che apra il portone. «Vattene affanculo, Botev.»
Non gli ho lasciato un bel ricordo. Sorrido malizioso e gli faccio il saluto militare. Sento il frastuono del portone che si spalanca e la luce del sole pomeridiano mi batte sui capelli castani. Libero. Metto un piede fuori e l’aria profuma di speranza, ma è densa di oscurità. Non mi aspetta di certo qualcosa o qualcuno, ma poi sento il rombo della Maserati di Oscar. Non posso fare a meno di sentire le labbra flettersi in una specie di sorriso. Una specie. Il borsone mi scivola dalla spalla e metto le mani in tasca attendendo ilfratello che avanza verso di me. «Dobre doshul otnovo.» Bentornato. Mi omaggia nella mia lingua: il bulgaro. «Blagodarya, brat.» Grazie, fratello. Mi cinge il corpo in un abbraccio e io indugio a mantenere le mani in tasca. Anche se sono lieto di rivederlo non significa che debba lasciarmi andare a inutili espressioni di affetto. Non mi appartengono, in nessuna occasione. Lui lo sente, ma non ci fa caso, sa come sono fatto. Si scansa e mi dà una pacca sulla spalla. «Il Padre ha ancora il coraggio di darti la Maserati?» osservo. «La Ferrai era troppo, non credi?» «Non credo tu conosca il significato della parola troppo.» «Mi conosci così bene. Mi sei mancato, cazzo.» A me non è mancato proprio nulla. Mi avvio allo sportello e mi accomodo nei sedili in pelle. Oscar è elettrizzato, credo più per via della serie infinita di feste di bentornato a cui mi sottoporrà. Non mi dispiace, se ci saranno donne e fiumi di vodka solo per me. Appena accende il motore l’aria si riempie della voce penetrante di Marilyn Manson, Oscar ne abbassa il volume e, ingranando la marcia, comincia a sfoggiare il suo sorriso enigmatico. Ha i capelli più lunghi rispetto all’ultima volta che ci siamo visti. È l’esatto opposto di me: biondo, occhi celesti, sorriso smagliante, simpatico,
coinvolgente, mentre io ho occhi scuri, capelli altrettanto scuri, sorriso, be’, diciamo che ritengo il sorriso un movimento involontario dei muscoli facciali e, di solito, io non faccio nulla di involontario, dunque, sorridere mi risulta complicato. Simpatia? Mi chiamano Led, ghiaccio, perché dovrei essere simpatico? «Non hai idea di cosa abbiamo organizzato con i fratelli per il tuo bentornato.» «Spero sia nel perfetto stile della Setta.» «Oh, lo è! Sai che il Padre non vede l’ora di riabbracciarti. Per lui sei…» «Krum!» lo interrompo. Non mi piace che mi si debba definire figlio. Io non sono mai stato un figlio e non lo sarò mai. «Non ti dispiace se stasera userò uno dei tuoi regali, vero?» Mi volto verso di lui, faccio scivolare le lenti da sole sul naso e scopro gli occhi. «Stasera è tutto mio, Oscar.» «Nemmeno una?» «Nemmeno mezza.» «Ma che cazzo! Vuoi sempre tutto.» Un sorrisetto di vittoria mi schernisce il viso. Ecco, in questi casi sorridere mi piace, ma è più un modo per dire “vinco sempre io”. «Ci sono anche delle novità al Tempio.» «Ne parleremo a tempo debito.» Non mi va di discutere subito di lavoro, così alzo il volume di Sweet Dreams, ammutolendo immediatamente Oscar. Le chitarre riempiono l’abitacolo, alzo ancora il volume. Voglio perdermi nella musica e godermi queste precarie ore di libertà. So che quando tornerò al Tempio sarà come varcare la soglia di un’altra prigione. La mia prigione-paradiso. Ma è una prigione che ho scelto e non mi pento. Vivo bene così, sono grato per ciò che ho e, devo ammetterlo, ho molto. Tanto. Tutto.
Oscar preme sull’acceleratore, la Maserati dà spettacolo nelle vie di Milano, la mia testa è altrove. Non so dove. Non voglio nemmeno assecondare i miei pensieri. Penso solo alla batteria che scalpita, la voce di Manson che penetra la testa, alla donna che scoperò stanotte, quella che me lo succhierà mentre ne farò venire una sulle mie dita. Non due, non tre, ne voglio quattro. Imbocchiamo l’autostrada e, prima che me ne renda conto, vedo il cartello verde su cui spicca la scritta Venezia. L’Italia non è il mio paese, ma è l’unico posto in cui mi sento a casa. In Bulgaria non ci ho più rimesso piede e non so se lo farò mai. Di certo, ritornerò nella mia terra solo quando avrò fatto chiarezza con l’astio che nutro nei confronti delle mie origini. Caccio via quella parola. Tu non hai più origini. Un uomo che si sente figlio di niente è un uomo che vive a metà tra un’identità ignota e una troppo reale. Per ora, mi sento ciò che mi hanno detto di essere, per ora, non oso ammettere ciò che sono. Queste sensazioni mi stanno sconvolgendo. Ho sempre seguito alla lettera la filosofia inculcatami, non riesco proprio a capire perché adesso debba pormi certi quesiti. Fanculo Krum! «Eccoci a casa.» trilla Oscar. Casa. Be’, più che casa, io la chiamo paradiso. Nella foce del Naviglio del Brenta, a Mira, in provincia di Venezia, sorge il Tempio del Padre. Lo chiamiamo Tempio perché ha la stessa struttura architettonica dei templi greci. Questo luogo è paradisiaco. Ricordo ancora quando venni qui la prima volta e mi lasciai incantare dal silenzio rotto dalla fauna della zona. Le fronde si scuotevano appena, proprio come ora, innescando il mix di odori che mi ricorda il rifugio, il posto sicuro, il mio posto. Chiudo gli occhi e mi rivedo bambino e curioso, mentre mi lascio ammaliare dal rumore delle acque, quelle acque che conducono dritte a Venezia.
È tutto immoto, immutato, sono a casa. La Maserati percorre il lungo viale alberato, le ruote rumoreggiano sui ciottoli bianchi. Salici piangenti costeggiano il selciato, i giardinieri sono all’opera, sempre. La bellezza del Tempio non ha eguali. La pace che si respira qui non l’ho mai annusata da nessun’altra parte. E poi, eccola, la casa. Sorge su un alto basamento in pietra, sembra che si erga trionfante su un podio. La facciata principale è rivolta verso l’acqua, dove noto nuovi scafi ormeggiati. Scendiamo dall’auto e Oscar lascia al personale la chiave della Maserati. Alzo gli occhi verso la struttura e tiro un respiro di sollievo. Otto colonne schizzano verso l’alto, passarvi in mezzo dà una sensazione di potenza. Capisco perfettamente perché il Padre ha acquistato questa villa, lui si sente un dio. Tutti noi dobbiamo sentirci dèi. Questo è il nostro Olimpo.
2
AMBRA
È la mia prima volta, ma non è proprio così che l’avevo immaginata. La camera è colorata, ci sono quadri in stile pop art, divani in tessuto fantasioso, libri, disordine e svariati oggetti che mi distraggono. Credevo fosse come nei film, in cui ti trovi in un ambiente del tutto privo di sfumature, dove lo stile minimalista ti suggerisce di riempire il vuoto di parole, pensieri, confessioni.
Immaginavo lo psicologo come un uomo freddo, di una certa età, con la sua agendina in mano e la penna che batte sul foglio da riempire di tormenti altrui. Invece no. Sono in questo ufficio che comunica tutto fuorché aria deprimente. Tutto attorno a me è stimolante, e quasi vorrei essere io a porgere le domande alla donna eccentrica che mi guarda dal bordo dei suoi occhiali dalla montatura improponibile. Ha una gonna lunga nera, trasparente dalle ginocchia in giù, e una camicia dai mille colori. I suoi capelli ondulati rosso fuoco la fanno sembrare una Jessica Rabbit in età avanzata. Non troppo avanzata. Non mi stupisce che sia una cara amica di mia madre. Si accende una sigaretta e mi fissa come se stesse per raccontarmi qualche gossip. «Vuoi?» Anche l’accendino è eccentrico: rosa, con strass argentati. «No, grazie, non fumo.» Mi metto comoda, non sulla classica chaise longue che ti fa sembrare un turista in spiaggia, ma su un bel divano colmo di cuscini dallo stile arabeggiante. Se l’ufficio di una psicologa dovrebbe metterti a tuo agio, devo dire che qui mi sento davvero in un salotto di famiglia. «Quando vuoi, cara.» Sbuffa una nuvola di fumo e mi guarda con quegli occhi particolari, sembrano… viola. Possono essere viola? «Ehm, non saprei, dovrebbe farmi qualche domanda.» È così che funziona. Lo psicologo fa le domande, no? «Sei tu che sei venuta qui, cara.» Mi sorride, accentuando un’aria amichevole. Anche se i suoi toni potrebbero sembrare ostili, non è così che appare, per niente. «Mi dia un input.» So di cosa vorrei parlare, ma ho bisogno di qualcosa che sblocchi questa mia improvvisa incapacità di aprirmi. Di solito parlo, parlo e parlo, ma adesso, non so, forse sono solo condizionata dal fatto che, in genere, non parlo delle vere motivazioni per cui sono qui.
«Cos’è la cosa che odi di più?» Oh. «Riguardo a cosa?» «Riguardo a tutto. Alla mia domanda, cosa ti è venuto in mente, così,» schiocca le dita, «su due piedi?» Avrei una lista interminabile di cose che odio. «Odio…» mi porto una ciocca ondulata dietro l’orecchio e noto gli occhi della dottoressa fissi sulle mie dita. Bene, mi sta studiando. Chissà cosa vuol dire il mio gesto. Nervosismo. «Su, cara, non è difficile. Io odio le tettone rifatte, con tutto il rispetto per tua madre…» Le odio anch’io. Con tutto il rispetto per mia madre. «Odio… essere costretta. Non avere libertà di scelta, sentirmi manipolata, condizionata, intrappolata…» «Fantastico.» Fantastico? La guardo con un’espressione confusa. Lei mi sorride. È proprio strana. Si alza dalla sua poltrona e sparisce alle mie spalle, tornando con un pacco di pop corn. Non ci posso credere. Spegne la sigaretta nel posacenere, tira fuori dalla tasca il disinfettante liquido, lo versa sui palmi e li sfrega, per poi svuotare i fiocchi bianchi in una ciotola di vetro. «Mangia!» Prendo una manciata di pop corn e li sgranocchio. È il suo modo di mettermi a mio agio? «Cosa ci sarebbe di fantastico nelle mie parole?»
«Anche se sei stata titubante nella risposta, hai tirato fuori il nocciolo del problema. Molti pazienti ci mettono diversi incontri prima di svelare quali siano le loro paure.» «Lei mi ha chiesto cosa odio.» Sono perplessa. «La domanda non era riferita alle mie paure.» «Ciò che tu odi corrisponde alla tua paura. La paura si odia, ma c’è chi impara a trasformarla in qualcosa da poter… controllare.» «Lei potrebbe insegnarmi a controllare la paura?» «Hai detto che sono le cose odi.» Ma che ca… Mi sta confondendo. Che siano tutte manipolazioni da strizzacervelli? «Okay, ho capito!» Tiro un respiro e inspiro lentamente. Devo stare attenta, questa donna sa il fatto suo. Mi rendo conto che sono qui perché lei è in grado di aiutarmi e non di certo perché devo attuare una strategia di difesa. «Cos’hai capito, cara?» «Che, senza volerlo, ho parlato delle mie paure, perché queste sono ilproblema.» «Bingo!» trilla. Prende una manciata di pop corn e, a bocca piena, continua la seduta. «Sogni?» «Sì, ma non ricordo mai quello che sogno. Di solito…» Stiamo già entrando nel vivo del problema? «Di solito ricordo solo una cosa.» «Racconta.» Accavalla le gambe, come se stessi per parlarle del ragazzo rimorchiato a una festa. «I suoi occhi.» bisbiglio. «Mmh.» «Vedo solo i suoi occhi. Li ricordo perfettamente.» «Solo gli occhi?»
«Aveva un passamontagna che gli occultava il viso, perciò ricordo solo i suoi occhi e… il suo odore.» «Puzzava?» Fa un ghigno divertito. Non posso credere che stia parlando della mia esperienza in un modo così superficiale. «No. Aveva un buon odore.» «Cosa fa nel sogno?» «Mi fissa.» «Perché?» «Perché mi controlla.» «E questa è una cosa che odi.» «E che mi fa paura.» Tiro un altro respiro. Il solo ricordarlo mi mette i brividi e sento i peletti delle braccia rizzarsi solleticandomi. Non è una sensazione piacevole. «Avresti paura anche se ci fosse al posto suo un'altra persona?» «In che senso?» «Se uscissi con un uomo, un uomo profumato, e lui ti fissasse per ore, avresti paura?» Ho capito. Vuole sapere se la mia vicenda ha avuto ripercussioni nella mia vita quotidiana, in particolare, con altri uomini. «No, non avrei paura, ma mi darebbe fastidio.» «Perché?» «Perché mi ricorderebbe lui.» «No.» sgranocchia un’altra manciata di pop corn e mi trafigge dicendo: «Saresti infastidita perché non sarebbe lui.» Dio! È folle. «C-cosa? No, no… io non…» «Avevi paura di lui?» insiste. «Sì, no, io…»
«Avevi paura o no?» Si flette col busto verso di me e mi fissa con occhi esigenti. «No, io non…» «Tu non avevi paura di lui, ma dell’altro e della situazione. Temevi per il tuo destino, per il tuo corpo, per la tua vita, per la tua sanità mentale, per il tuo equilibrio, per…» «Okay!» La interrompo. Mi sembra troppo. Agito le mani in aria, alla ricerca di parole da acciuffare. Credevo che venendo qui avrei messo ordine nella mia testa, invece sto solo precipitando in un caos che non avevo minimamente pensato di scorgere. «Non mi venga a dire che ho quella cosa che voi chiamate sindrome di… di…» «Sindrome di Stoccolma.» «Quella!» «No, cara, non sei arrivata a quello stadio.» «Oh, grazie al cielo.» Rincuorata, sprofondo sul sofà. Sarebbe stato ignobile accettare una cosa del genere. Ignobile. Mi sfrego la fronte con le dita, la dottoressa continua a osservare tutti i miei movimenti, ma sento il peso dello stomaco farsi più leggero, anche se ancora provo quel senso di nausea perenne. «Lei crede che io non riesca a dimenticare l’accaduto per via del modo in cui lui mi ha trattata?» «Tua madre mi ha parlato della tua vicenda, chiedendomi di evitare di andare troppo in profondità, infatti non parleremo di quell’altra faccenda, anche perché ho avuto modo di comprendere che per il momento l’hai rimossa. Sto cercando di sorvolare su molti dettagli e intendo concentrarmi su quello che credo sia il nocciolo del problema: lui. Clara mi ha detto che lo sogni spesso, che hai fatto delle ricerche su di lui, che hai cercato di contattarlo e che vai spesso alla polizia a chiedere se hanno qualche novità.» Adesso la sua espressione mi preoccupa. «Penso che questa tua curiosità nei confronti del tuo rapitore sia…» «Insana.» «No, no, non voglio dire questo. Ma è importante comprendere perché vuoi a tutti i costi sapere chi era l’uomo dietro il passamontagna.»
Fisso un punto nel vuoto e prego che non mi faccia la domanda che mi ha tormentata per tutti questi anni. Cerco nel buio dei pensieri la bolla da far esplodere, per far uscire da essa tutti i miei tormenti. Ma proprio mentre provo a elaborare la mia strategia di difesa, la dottoressa mi tramortisce con quelladomanda. «Se dovessi incontrarlo, lo ringrazieresti o gli grideresti in faccia tutto il tuo disprezzo?» Le mie labbra si schiudono, il cuore ticchetta a ritmi eccessivi, sento i palmi delle mani inumidirsi e stringo i pugni, per evitare di toccare quelle dannate ciocche chiare che mi scivolano sul viso. Ma anche il gesto di intrappolare le dita nel palmo comunica più di mille parole. La testa mi dice di ragionare ed evitare di perdere il controllo delle emozioni, ma il cuore si sente pesante e ha bisogno di sfogarsi, di blaterare i suoi pensieri, di sputarli via per espellere il veleno di cui si sente pregno. Restando fissa su un oggetto strano – credo una statuetta che ricorda una posizione del kamasutra – comincio a tirar fuori la mole di parole che leggo nel cuore. Non voglio dover controllare più nulla, sento di poter dire ciò che voglio liberamente e, tremando, sospirando, battendo le palpebre, mi apro. «Lo ringrazierei per avermi evitato il peggio, ma poi lo riempirei di colpi, lo graffierei, lo morderei, lo prenderei a pugni, lo spingerei tanto forte da vederlo barcollare sotto ai miei colpi. Vorrei abbatterlo al suolo, per schiacciarlo con i miei piedi, come si fa con gli insetti viscidi e poi… poi lo guarderei con sdegno, cercando di raggiungere la sua anima e macchiarla del mio odio. Vorrei che si sentisse come mi sono sentita io, vorrei che vedesse l’oscurità di cui mi sento pervadere ogni giorno, vorrei che avesse la mia stessa paura e che temesse, ogni ora della sua vita, che qualcuno lo vada a prendere per portarlo via dalla sua ordinarietà, vorrei che…» «Va bene così, cara.» Sento le mani della dottoressa cingermi i polsi. Non mi sono resa conto che si è avvicinata a me e si è chinata sul tappeto. Mi massaggia il dorso delle mani e sento il tremolio del corpo affievolirsi. Sto sudando. Pensarlo, ricordarlo e rivederlo nella testa è qualcosa che provoca cambiamenti al mio corpo troppo eccessivi, troppo incontrollati. Non riesco mai a controllarmi, in
nessun senso. Mi rapisce con la mente, ancora. Dopo anni, mi sento rapita e trattenuta da lui. Sono ostaggio dei suoi occhi, reclusa nella morsa del ricordo. «Ho paura di non dimenticarlo mai.» Le mie parole escono come sussurri, mentre i miei occhi ruotano verso il viola delle iridi della dottoressa. «Non devi dimenticarlo, devi affrontarlo. Non si può cancellare un ricordo, le memorie restano, ma le immagini si possono rivedere tranquillamente se ammirate da un’altra prospettiva. Cercheremo di darti una nuova veste, un nuovo modo di vedere i tuoi ricordi. Ora, mia cara, te lo devo chiedere!» Si alza e indietreggia verso la sua postazione. Il cuore ha ripreso a battere naturalmente, ma mi sento ansiosa, so che sta per farmi una domanda ancora più destabilizzante delle altre. «Non sei costretta a rispondere se non vuoi, mi basta solo che tu lo dica a te stessa. Non è necessario che io lo senta.» Certo che no, lo capirebbe dalle mie movenze. «Mi dica.» Deglutisco con forza. Sono pronta. «Avevi solo sedici anni, giusto?» «Sì.» Si batte l’indice sotto il mento, guardando in giù, ma poi riporta i suoi occhi esperti su di me e, senza peli sulla lingua, dice: «Hai mai provato desiderio sessuale per il tuo rapitore?» Calore. Sangue che bolle. Mi gira la testa. Deglutisco ancora e… rispondo. «Sì.» ***
Sette anni prima Per fortuna ho convinto papà a darmi un giorno “libero”. Gerardo è una persona piacevole, non ho alcun problema con lui, se non fosse che sono costretta a ritrovarmelo ogni giorno davanti l’uscita della scuola. Alcune mie compagne di classe trovano esclusivo avere un autista. Io no! È una cosa che mi dà fastidio. Uff! Sono una privilegiata, okay, ma potrei sfruttare i miei privilegi come si deve? Per esempio, andando a scuola con un bel motorino e, soprattutto, per i fatti miei! Mi piacerebbe poter fare due chiacchiere con Marco, in assoluta pace e privacy. Ma no, deve esserci sempre quella statua di bronzo di Gerardo. Oggi mi godo la mia libertà. Papà mi ha detto: “vediamo come te la cavi nelle vesti di una studentessa normale”. Mancano dieci minuti al suono della campana, così scrivo un messaggio a Marco e gli chiedo di vederci. Magari mi accompagna lui a casa. O forse è meglio di no. Se vede dove abito potrebbe volermi solo per… be’, non voglio ripetere lo stesso errore che feci con Fabio. Mi ignorava totalmente, poi quando ha saputo di chi ero figlia e, soprattutto, quando ha visto papà che tornava a casa in elicottero, mi ha dichiarato amore eterno. A volte dovrei ascoltare le istruzioni di mia madre. “Gli uomini vorranno il tuo portafogli, non il tuo cuore”. Non fa che ripetermelo e io puntualmente le chiedo: “Tu hai voluto il cuore di papà?”. Una volta mi beccai un ceffone in pieno viso e fui costretta a scusarmi in cinque lingue diverse, ma lo feci solo perché la ferii davvero. Lei ama mio padre, lo so. Anche se le sue tette siliconate e lo stile di vita che fa, possono far intendere che abbia scelto il portafogli. La campana suona e mi precipito in corridoio. Urto contro qualche studente mentre nella confusione leggo il messaggio di Marco. “Torno a casa con Elisa”. Resto di sasso. Forse dovrei dirgli che ho una bella piscina all’aperto e un’altra al chiuso. Torno alla realtà e mi rendo conto che ciò che sono realmente non viene per niente apprezzato. Ma continuo a seguire il consiglio di mamma e a cercare di farmi conoscere per quella che sono e non per quello che ho. Nella mia unica giornata libera sono costretta a tornare a casa, oddio, in autobus.
Non l’ho mai preso, non so nemmeno dove comprare il biglietto. Rimpiango Gerardo e la berlina dai sedili in pelle color crema. Chi me lo ha fatto fare! Elisa chi diavolo è? Marco, sapessi cosa ti perdi! Mi incammino verso l’uscita. Saluto qualche compagna e invidio i loro motorini. Potrei averne cento, ma papà non ha alcuna intenzione di comprarmene uno. La sua natura protettiva è la mia condanna. Condanna, sì, mi sento condannata a essere la figlia di Alberto Livori, imprenditore di tutto e di più. Non esiste settore in cui la mia famiglia non abbia messo le mani. Chiunque darebbe l’anima per trovarsi nella mia posizione, ma io mi sento sempre come se dovessi gestire una vita troppo pesante, gigante. Per me le cose semplici sono impossibili, come adesso, che non ho la minima idea di dove sia la fermata del bus. Attendo un po’ fuori dalle mura del liceo, mi dà un certo fastidio camminare in mezzo all’ondata di studenti, così aspetto che la folla si plachi. Ecco, in questi casi potrei essere definita snob. Che me ne frega! Aspetto, mentre giocherello col telefonino. Decido di mandare un messaggio a Emma, la mia migliore amica che purtroppo non frequenta il liceo classico come me. Le racconto di Marco e della misteriosa Elisa. Lei mi risponde che devo lasciarlo perdere e, nel frattempo, mi rendo conto che il cortile della scuola si è completamente svuotato. Non ci sono più scie di studenti sul marciapiede e, per un istante, mi sento abbandonata. Cavolo! Dove sarà la fermata del bus? Intraprendo la strada seguendo il mio istinto, ma presto comprendo che una fermata non può di certo essere in una viuzza in cui ci passa a stento un’auto. Sei una stupida viziata! Non ho nessuna intenzione di chiamare Gerardo, sarebbe una sconfitta, e non ho nemmeno il coraggio di cercare papà. Riderebbe di me e della mia totale incapacità di sopravvivenza. Ma ho i soldi in tasca, ah! Perciò decido di chiamare un taxi, quando… Mi sento tirare alle spalle. Un braccio mi stritola il busto. Una mano mi circonda la bocca. Una stoffa umida… Un odore forte...
Sonnolenza.
3
KRUM
Elegante, possente, vestito di potere. Così appare il Padre a chiunque proietti lo sguardo sulla sua figura carismatica. È di spalle, riverso a contemplare il giardino oltre la grande finestra del suo studio. Non gli serve voltarsi per sapere che è in compagnia. Sente nell’aria ogni presenza. Sempre. Con le mani dietro la schiena, senza voltarsi, riempie il silenzio con la sua voce rassicurante, bassa, calmante. «Il mio guardiano è tornato.» E si volta, lentamente. Barba rasata, labbra carnose, occhi di un blu immobilizzante, sguardo severo. Mi irrigidisco, non perché sia nervoso, piuttosto per una forma di rispetto che nutro per quest’uomo. La compostezza è una delle cose che mi ha insegnato. «Lieto di averti soddisfatto.» rispondo. E mi sorride, il suo viso animato da una ventata di contentezza, diviene il mio bentornato. Ruota attorno alla grande scrivania e mi porge la mano. Sono felice di vedere che non intende strattonarmi come hanno fatto tutte le persone che ho
rivisto finora. Lui è glaciale, proprio come me. Il suo affetto si riversa nei gesti, nelle azioni, nella concretezza e non in inutili contatti fatti di nulla. «Accomodati, Krum.» Indica la poltrona e lo assecondo, mentre si sbottona la giacca e si siede sul suo trono. Apre la sua scatola di legno e mi offre uno dei suoi sigari cubani. L’aria si riempie dell’odore intenso dei sigari accesi. Ci fissiamo in silenzio per un po’, mentre mi osserva cercando di decifrare i miei pensieri. Questa è una cosa che detesto. Se c’è una persona al mondo in grado di spiare nella mia testa, quella è Leonardo Andolfi, il Padre. «Di qualunque cosa tu abbia bisogno, da ora in poi, non devi fare altro che chiedere.» «Io non chiedo mai.» «Per questo sei il mio preferito. Ciò che vuoi lo ottieni sempre, senza chiedere.» In effetti, i miei modi di fare riflettono perfettamente lo spirito della Setta. Avere tutto, senza chiedere mai. Mi rilasso sulla poltrona e porto il sigaro tra le labbra, il sapore non è dei migliori, ma è rilassante sentire il flusso bloccarsi alla gola e uscire in una nuvola biancastra. «Il tuo sacrificio ha portato i suoi frutti?» «Era esattamente come pensavamo. La campagna elettorale del tuo rivale è sostenuta dalla mafia.» Sbuffa un sorrisetto, è felice di saperlo. «Prove, Krum. Ci servono prove per dimostrarlo. Per il momento non voglio approfittare della tua disponibilità, hai già fatto abbastanza, ne riparleremo in un’altra occasione. Adesso mi interessa esprimere la mia gratitudine nei tuoi confronti. Non credo ci sarebbero state altre persone capaci di accettare di passare un anno in galera solo per compiacermi.» «La mia ubbidienza nei tuoi confronti è solo una minima parte di ciò che sono disposto a fare per il bene della Setta.» I suoi occhi si illuminano fieri. «La tua
candidatura come sindaco di Venezia è una questione seria e sono fermamente convinto che non esista persona migliore di te per ricoprire quel ruolo.» «La tua fedeltà mi commuove. Sei un esempio per la Setta. Mi piacerebbe poterti…» «Andrebbe contro le regole.» Lo interrompo, immaginando già cosa stia per dire. «Krum!» sbuffa. «Sono io che faccio le regole. Abbiamo la pergamena, è vero, ma posso sempre proporre ai membri il tuo ingresso.» Mi scuoto un tantino sulla sedia. «Mi sta bene essere un guardiano.» «Ne sono certo,» adesso ha l’aria furbastra, «i guardiani, per certi versi, hanno più potere dei membri perché…» mi incita a proseguire la frase. «Perché li controllano.» «Esatto. E tu sei fatto per controllare, è nella tua natura. Non sei nato per sottostare alle regole, non sei capace di agire seguendo schemi, di muoverti all’interno di un cerchio perfetto. No, Krum, tu sei imprevedibile, indomabile, detesti la rigidità.» «Quindi perché alludi sempre all’idea di eleggermi come membro della Setta?» «Mi piacerebbe che ci fosse qualcuno dopo di me.» Sta proponendomi di diventare il suo erede? «Hai solo quarantotto anni.» osservo. «Ma tu ne hai ventinove e sei sempre più giovane.» «Potrei morire prima di te.» Sorride, imbocca il sigaro e aspira una piccola quantità di fumo. «Non parliamo più di queste sciocchezze! Io sono immortale.» E se ne esce così. Insisto per informarlo di ciò che ho scoperto durante la mia reclusione. È proprio questa la ragione per cui ho passato un anno in carcere. Leonardo mi ha fatto arrestare per furto, allo scopo di inserirmi nella stessa struttura in cui era recluso un noto onorevole. Il politico in questione è uno dei leccapiedi del rivale di Leonardo.
Il Padre ha deciso di candidarsi per diventare sindaco di Venezia e sta cercando in tutti i modi delle prove che confermino i legami del suo rivale con associazioni mafiose. Ci tiene molto a questo progetto, non solo per la posizione che potrebbe ricoprire, ma anche perché crede nel Paese e in ciò che si può fare per migliorarlo. Lo spirito della nostra Setta è proprio questo: migliorare le nostre condizioni di vita. Le nostre. Mi ascolta attentamente, mentre appunta sulla sua agenda alcuni nomi che gli confido. Non è stato semplice memorizzare tutto nella testa, in carcere non potevo di certo scrivere ciò che scoprivo. Dovevo registrare tutto nella mente, al solo fine di informarlo delle mie scoperte. Mi sento fiero di me stesso perché ricordo tutto e sono ancor più soddisfatto del mio lavoro quando noto Leonardo inorgoglirsi sempre di più. Il fatto che apprezzi ciò che faccio per lui mi rende un uomo appagato. Il solo modo che ho per ricambiare tutte le sue premure è ubbidire ai suoi ordini. E mi viene in mente… Lei. Dannazione! È mai possibile che debba intrufolarsi nella mia mente almeno una decina di volte al giorno? Maledetta puttana. Leonardo si alza e io lo emulo. Allunga la mano verso di me e, quando la stringo, mi tira al suo petto dandomi una veloce pacca sulla spalla. Sento che questo piccolo gesto nasconde tutta la sua gratitudine. A volte gli bastano le parole per incantare i suoi interlocutori, è una delle sue straordinarie doti, ma, in questo caso, pare abbia perso la sua loquacità. «Grazie.» bisbiglia. «Qualsiasi cosa per la Setta.» Indietreggio e lo lascio ai suoi affari e, prima che apra la porta, lo sento dire: «Dà un’occhiata al tuo conto in banca.» Sorrido di sottecchi. Il mio compenso avrà cinque zeri. Attraverso i lunghi corridoi della villa, il pavimento di marmo lucido quasi riflette la mia figura. Il rumore dei miei passi echeggia fino agli alti soffitti impreziositi da affreschi rinascimentali. Quando venni qui la prima volta, Leonardo mi disse che
avrei vissuto all’interno di un museo. Non ero mai stato in un museo e all’epoca non ne compresi il significato, ma quando varcai l’ingresso del Tempio, mi resi conto che la parola museo equivaleva a bellezza. Conosco tutti i dipinti della villa, so a memoria i nomi degli artisti che hanno scolpito le statue di marmo chiaro dei corridoi, degli architetti che hanno realizzato l’enorme apertura a cerchio della cupola dell’ingresso. Ci sto sotto proprio ora. Mi fermo, alzo la testa e guardo il cielo azzurro macchiato da qualche nuvola. È come il Pantheon di Roma, stupefacente. La cupola ha un’apertura circolare che consente alla luce esterna di illuminare l’interno. Una favola. Anche la mia passione per l’arte la devo al Padre. Mentre sono concentrato a fissare l’oculo, sento la voce di Oscar echeggiare negli ampi stanzoni, fino a quando lo vedo materializzarsi di fronte a me in tutto il suo entusiasmo. «Non sei ancora pronto?» Mi dà un pugno amichevole sul petto e mi spinge via. «Forza, vai in camera tua, fatti una doccia e scendi per le nove, poi, be’… lo sai!» Proprio quando sto per replicare noto Manuel avanzare. Se c’è qualcuno che detesto della Setta, quello è proprio lui. Leccaculo colossale. Non ha un cervello proprio, non ha rispetto per i fratelli e credo non lo abbia nemmeno per se stesso. «Krum Botev.» Che fa, mi rinfresca la memoria? So come mi chiamo. «Manuel.» «Bentornato.» Che falso! Non lo ringrazio nemmeno. Ancora ricordo il modo in cui provò a… Diamine! Quella donna mi sta dando davvero fastidio. Lascio stare il ricordo e torno alla realtà, comincio ad averne abbastanza di pensarla. Manuel si passa una mano sulla testa rasata. I suoi tatuaggi sulle nocche attirano la mia attenzione, una volta non li aveva. «Stasera ti unisci a noi?» gli chiede Oscar. Ma che cazzo!
Poso il mio sguardo assassino sul mio amico. Sa che non ho piacere a circondarmi di idioti e cerco di fargli intendere che ha sbagliato a invitare Manuel, ma poi mi rendo conto che sono stato assente per un anno e che Oscar deve aver allacciato rapporti con persone diverse da me. Tu non c’eri, la tua vita era in stand by. Non posso dare la colpa a Oscar per aver fraternizzato con Manuel. «Non mi perderei la festa per niente al mondo.» dice il colosso. Lo stronzo si è fatto bello grosso, anche se ha l’aspetto da pitbull. Nonostante tutto io lo supero in altezza e questo mi dà una certa sicurezza. Banale, ma so che la superiorità fisica lo infastidisce. Continua a sfidarmi con lo sguardo. Non capisco perché, dopo tanto tempo, abbia ancora l’esigenza di avere uno scontro con me. Anni fa lo pestai così tanto che il Padre dovette punirmi per dare l’esempio. Ma era stata anche colpa mia se lui le aveva fatto del male. Stronza, esci dalla mia testa! «Vado a prepararmi.» dico, bruciando dalla voglia di sparire. «Ci vediamo più tardi.» Do uno scappellotto a Oscar e mi dirigo verso la grande scalinata che porta alle camere da letto. Salgo sino al nostro piano, quello dei guardiani, e mi stupisco di trovare la mia stanza esattamente come l’avevo lasciata. Non che avessi pensato a qualcosa di diverso ma… Cazzo! Dal bagno esce una pantera. Mi pietrifico davanti a una mulatta dalle curve assolutamente perfette. La mia festa di bentornato è appena iniziata. Oscar, ti adoro. Faccio un paio di passi verso quel corpo color cioccolato, avvolto da un body che è più decorativo che coprente. Lei si avvia verso il letto. Io la punto come se le stessi dando la caccia. Mi sfugge, si allontana, ma i nostri sguardi restano incatenati.
Devono averle detto che mi piace catturare le prede. Sapere che l’hanno istruita mi provoca già una scarica di eccitazione febbricitante. La mia prima scopata dopo un anno di seghe deve essere proprio come la voglio io: selvaggia. L’inseguimento finisce presto, la bella mulatta urta alla parete. L’ho catturata. Adesso faccio di lei ciò che voglio. Le afferro i capelli dietro la nuca e glieli tiro scoprendole il collo. Non ha un profumo che mi stimola, non ha alcun profumo. Ma che mi importa! Tiro di più e lei ansima. Bene, sarà peggio. La strattono e la spingo con violenza sul pavimento, il tonfo delle ginocchia che urtano fa fluire il sangue dritto laggiù, dove sono già duro da paura. Lei mi fissa, con la testa alzata verso di me che la guardo dall’alto. Attende un ordine. Porto le dita alla patta del jeans che sbottono e, in un attimo, lo tiro fuori. Le afferro di nuovo i capelli per la nuca, impugno la mia erezione e gliela sbatto sulle labbra, spalmandole le gocce di eccitazione lungo la linea della bocca. Mi accarezzo, mentre indugio a tirare i suoi ricci. Ha gli occhi arrossati, sto di certo esagerando nel tirarle i capelli. Il mio respiro diviene ritmato, le gambe si irrigidiscono. Mi massaggio ancora un po’ e le presso la punta del mio membro sulle labbra, costringendola a schiuderle. Lei risponde ingordamente e… Oh, sì, glielo ficco in bocca. Dentro, dentro, dentro, in profondità… fino alla gola. «Soffoca per me, puttana.» Chiudo gli occhi, ma non lo sto dicendo alla mulatta. *** Sofia, Bulgaria, diciannove anni prima. Qualcosa si rompe. Sarà la solita bottiglia di birra, penso. Il vetro che si frantuma non è l’unico rumore. Urla. Urla strazianti.
Ancora. No. «Krum.» La voce di papà sembra provenire direttamente dall’inferno. Prima di scappare, mamma diceva sempre che lui era il Diavolo e che quando il Diavolo chiama, o rispondi o subisci la sua ira. Salto giù dal letto e a piedi scalzi lo raggiungo. Cerco di schivare i rifiuti del giorno prima, del giorno prima ancora e di quello precedente. C’è puzza e il ronzio delle mosche sembra scavarmi i timpani. «Krum.» grida ancora, mentre una donna piange e lo prega di non fare quella cosa. «Sono qui.» gli dico, dal ciglio del salotto. Mi strofino gli occhi e metto a fuoco. La donna è a terra, il viso è colorato di rosso. È sangue. «Siediti!» mi ordina. Faccio come chiede e vado sul divano, caccio via con uno schiaffo una lattina di birra e mi siedo sull’angolino pulito. Lo devo guardare o mi punirà. Papà dice che fa parte della vita e che mi servirà per il nostro lavoro. Papà dice che si fa così. Papà mi spiega le cose. Papà vuole che io guardi bene. Papà mi ha detto che presto dovrò farlo anch’io e che queste cose si possono fare tra grandi e piccoli, tra donne e uomini, tra uomini e uomini. Così dice. «Stai attento.» esige. La donna sembra avere paura. Quella di ieri non era così. Quella di ieri era contenta. Questa piange, questa ha il sangue sulle labbra. Perché ha il sangue sulle labbra? Forse è caduta, penso. No. Bang!
Non è caduta. Papà le dà le botte. Spalanco gli occhi e sento il cuore che mi batte forte. Le altre volte è stato divertente, mi era piaciuto guardare. Papà aveva detto che potevo toccarmi. La prima volta mi sono vergognato, poi, quando ho visto papà contento l’ho fatto e mi è piaciuto. È stato bello. Ma oggi… oggi non mi piace tanto. Bang! Perché la colpisce? Se lei non vuole perché la tiene qui? «Papà!» È concentrato e non mi sente, la donna grida troppo forte. Vorrei chiedergli di fare più piano, perché si vede che le fa male. Non mi piacerà stavolta. Vorrei tornare a dormire. «Guarda, Krum. Devi guardare!» Papà si accorge che ho chinato il capo. Lo devo guardare. «Alcune volte sarà così.» dice. «Perché?» chiedo. «Perché ad alcune persone piace così.» «A me no.» «Non hai ancora visto.» Ha ragione papà. Come posso sapere se mi piace o no se non ho ancora visto? Mi imbroncio, non sono tanto convinto che possa piacermi come l’altra volta. Ma quando vedo papà che strappa la gonna della donna e la scopre, sento quella sensazione che punge laggiù. La donna continua a protestare e papà le tiene i polsi fermi sul pavimento. Guardo come muove le mani. Papà è forte, vorrei essere forte come lui. Vorrei poter tenere una donna ferma così come fa lui. Però lei piange. Non mi piace che piange. È più bello quando la donna lo accarezza. «Vedi, Krum?» Indica la parte pelosa della donna.
Gli poggia una mano proprio lì e io sospiro. Poi alza la mano e la mette in bella mostra. «È eccitata.» dice. «Gode.» Spalanco la bocca. Sono incredulo. Allora alla donna piace! Non lo capisco. Perché le piace se piange? Papà fa girare la donna a pancia in giù e mentre si toglie i vestiti io mi concentro sugli occhi di lei. Ha la faccia che preme sul pavimento. Si sporcherà. È sporco, è sempre sporco. Però guardo meglio e vedo che, anche se ha le lacrime agli occhi, le sue labbra sono aperte e sospirano come quelle della donna di ieri. Ha un viso che sembra... Sembra pronta. Papà tiene il suo cazzo in mano, è grosso – il mio non è ancora così grosso –, e lo porta dietro il sedere della donna. Sono un po’ confuso perché lei protesta, ma quando papà fa quella cosa, le grida della donna non sono più di terrore ma di piacere. Senza rendermene conto ho già le mani dentro le mutandine. Lei mi guarda, osserva cosa sto facendo. Mi sembra che le piaccia. Mi tocco e mi piace. La guardo e mi piace. Papà spinge dentro di lei e mi piace. Voglio farlo anch’io.
4
AMBRA
“Fa che non mi faccia il terzo grado. Fa che non mi faccia il terzo grado”. Continuo a ripetere nella mia testa mentre consegno il soprabito a Irina. «Bentornata a casa signorina Ambra.» Le sorrido, e dalle voci che provengono dal salotto, mi rendo conto che mamma ha ospiti. Sono salva. Per ora. La raffica di domande su come è andata la mia seduta dalla psicologa è rimandata di qualche ora. Vorrei correre via e fare un bagno in piscina, ma prima devo salutare il club delle riccone o mamma diverrà un’isterica quando andranno via. «Oh, eccola.» trilla, notandomi sull’uscio dell’ingresso del salotto. Ogni volta è la stessa storia. Mi mostra alle sue amiche come se fossi un meraviglioso premio che la vita le ha regalato. Sarebbe una cosa bella per una figlia, se non fosse che il suo modo di pavoneggiarsi si riferisce a quanto io sia perfetta, a quanto mi stiano bene i vestiti e i gioielli che mi compra e a quanto io possa essere un buon partito per i figli delle sue amiche. È così imbarazzante! «Buonasera a tutte.» saluto cordialmente. Le signore, intente a bere qualche tisana alle erbe, fanno tutte un cenno del capo. Sono tutte l’esatta fotocopia dell’altra. Ognuna di loro fa a gara a chi alza il mento in modo più elegante, a chi ondeggia i capelli nella posa più sexy, a chi mostra le gambe più snelle. Mia madre, tra loro, è di certo il capitano del club delle riccone. «Tesoro, vuoi prendere una tisana con noi?» chiede mamma. «No, grazie, sono molto stanca. Andrò a fare un bagno.» «Ho saputo che ti sei laureata col massimo dei voti.» mi dice la signora… mmh, boh, quella col caschetto biondo platino. Non faccio in tempo ad aprir bocca che mamma risponde al posto mio. Non posso fare a meno di storcere il naso. Che faccia quello che vuole!
«Ambra è stata la prima del suo corso. Ha avuto per tutta la carriera universitaria un unico voto: trenta. Sempre. Sono molto orgogliosa di lei. A volte mi chiedo da chi abbia preso.» Le donne sorridono alla sua battuta, ma sono sicura che pensino che non ho preso da mia madre. «Ha preso da Alberto.» osserva una signora dall’aria altezzosa. Altezzosa? Sono tutte altezzose. «Ha la mente del padre e la bellezza della madre.» Mia madre sembra essere più felice di sapere che ho ereditato la sua bellezza, piuttosto che la sua intelligenza. Sorrido, ringraziando in silenzio. «Oh, povero Alberto,» dice un’altra, «era davvero un grande uomo. Sono sempre i migliori a lasciarci per primi. La sua fondazione ha fatto tanto per quel villaggio in Africa. Come si chiamava, Clara?» «Non ricordo, ha un nome strano.» Certo che non lo ricorda! Quella fondazione non fruttava denaro. Lei ricorda solo le aziende che producono utili. Improvvisamente non ho più la capacità di sorridere, nemmeno per finta. Ogni volta che mi paragonano a mio padre sento di non meritare il confronto. Era un grande uomo, è verissimo, mentre io sono solo sua figlia. Non sono e non sarò mai all’altezza delle grandi cose che è stato capace di fare. Ho voglia di scappare. «Vi lascio conversare tra di voi.» dico e schiocco un bacio leggero sulla guancia fresca di mamma. Via, via e via. Mi danno fastidio quelle donne. In un battibaleno lascio il salotto e mi precipito in camera mia, con l’intenzione di prendere il costume da bagno e l’accappatoio. Un bel bagno in piscina riuscirà a placare l’ansia della giornata. Non faccio in tempo a uscire dalla camera che sento il cellulare suonare dalla borsetta. Sono tentata di lasciarlo lì, ma dopo aver spedito una miriade dicurriculum, immagino che possa essere qualche impresa che ha valutato la mia candidatura. Che
una ragazza come me, ereditiera di un impero mandicurriculum, può suonare strano, ma lo faccio solo per una questione di responsabilizzazione. Sarebbe troppo facile lavorare in una delle mie aziende, e poi, a dirla tutta, non ho nessuna capacità. Da qualche parte devo pur cominciare e un po’ di gavetta non mi farebbe male. Se mamma sa che ho speditocurriculum in giro per il mondo mi ripudia. Prendo il cellulare e noto il nome di Emma che lampeggia. Niente lavoro. La migliore amica chiama. Ecco, sono fregata, avrà in mente una delle sue assurdità. «Pronto.» «Abito sexy, maschera e voglia di trasgredire.» esordisce. «Ciao anche a te.» «Alle ventuno ti passo a prendere, ho i biglietti per una festa esclusiva, qualcosa di trasgressivo!» Lo dice quasi canticchiando. Beata lei che ha sempre voglia di sperimentare. A me non importa proprio nulla di nulla. «Emma, è stata una giornata pesante e non ho voglia di stare in mezzo alla gente…» «La mia migliore amica è una noia mortale.» «E la mia migliore amica è incorreggibile.» «Se io e te non fossimo tanto opposte, non ci sarebbe alcun divertimento.» Non oso immaginare come sarebbe stato se anch’io avessi avuto un briciolo della sua sfacciataggine. Con ancora in braccio l’accappatoio e il costume, mi affloscio sul letto e sospiro. «Stai sbuffando?» «Secondo te?» «Mi è arrivata una ventata di noia fino a qui.» «Cosa vuoi, Emma? Che devo fare? Mi devo ubriacare con te come l’altra volta? Ho vomitato anche l’anima e non ho nessuna intenzione di rivivere quel momento epico.» «Non è colpa mia se ti ubriachi anche con la coca cola!» «L’avevi corretta col rum.» le ricordo.
«Solo un pochino.» Mi mordo la lingua perché sto per assecondarla e una parte di me vorrebbe farmi tacere. «Dài!» strilla. «È Carnevale. La gente fa il giro del mondo per partecipare al Carnevale di Venezia e tu te ne vuoi stare rinchiusa nel tuo castello. Capisco che un vero principe dovrebbe arrampicarsi su per la torre, ma se non esci come farai a incontrare un bel giovanotto?» «Non me ne importa niente dei tuoi giovanotti!» ribatto, ricordando la sfilza di inutili individui di sesso maschile che mi ha presentato da quando ci conosciamo. «Non ho nessuna intenzione di presentarti qualcuno della mia scuderia. Oggi andiamo in un posto trasgressivo. Un luogo in cui nemmeno la tua amica esperta è mai stata.» Ancora con quella parola! Cosa ci sarà mai di tanto trasgressivo in un festa? Soprattutto a Venezia, nel periodo di Carnevale, dove ovunque c’è gente mascherata e balli in stile ottocentesco. «Che devo fare?» Mi sono arresa. Lo sapevo. Sei una stupida! «Scusa un attimo, devo saltare sul letto. Ho appena battuto ancora la tua apatia.» Non la sento per qualche secondo, mentre in sottofondo percepisco fruscii strani. Che stia davvero saltando sul letto? «Emma?» «Allora, ricapitoliamo: ti passo a prendere alle ventuno.» Lei mi passa a prendere? Il suo autista mi passa a prendere. «Metti un bel vestito, ehm, l’Armani, quello che ti ha regalato tua madre, quello nero con la scollatura…» «Sì, sì, lo ricordo.» «Porta una maschera, qualcosa che occulti totalmente il tuo viso, così siamo libere di trasgredire.» «La vuoi smettere di ripetere questa parola?»
«Oh, Ambra, se sapessi dove ho intenzione di portarti e se tua madre lo sapesse…» «Mi stai preoccupando.» «Dì la verità, ti piacerebbe vedere le sue tette esplodere per la rabbia.» E ride, ha una risata così squillante… Diamine, devo allontanare il cellulare dall’orecchio. «Sei una svergognata!» «Di brutto!» «Okay, allora mangio qualcosa e poi mi preparo. Ti aspetto alle ventuno. E non mandare mille messaggi che non ho il tempo di leggerli. Nemmeno i vocali. L’altro giorno mamma ti ha sentito mentre dicevi quella cosa di…» «Del cazzo di Luca?» Al ricordo divento ancora rossa per la vergogna. «Esatto.» «Oddio!» E scoppia a ridere ancora. «Non so cosa darei per vedere che faccia ha fatto Clara.» «Era inorridita.» «Che goduria!» «A dopo, scema.» «A dopo.» E mi fa una pernacchia. Mi getto di schiena sul letto e fisso i disegni del baldacchino. Li ho esaminati così tante volte che ne conosco ogni tratto a memoria. È stata una giornata intensa. L’incontro con la dottoressa mi ha messa in crisi. Non volevo ammettere certe cose, certi pensieri, certi desideri. Ma ormai l’ho fatto e qualcosa dentro di me comincia a percepire un rinnovato senso di leggerezza. Che sia stato positivo aver parlato ad alta voce di quel problema? Se Emma sapesse, troverebbe trasgressivo anche questo. Non glielo dirò mai. È troppo umiliante. Mi attivo improvvisamente e decido di cenare un po’ prima, giusto per avere il tempo di impazzire davanti allo specchio. Ho lo stomaco chiuso, ma prevedendo che
berrò qualcosa di alcolico, preferisco mangiare comunque o mi ritroverò a replicare la serataccia del rum e cola. Tiro fuori dall’armadio l’Armani. Non l’ho mai messo, stavolta credo proprio che mamma sarà contenta di vedermi con uno dei suoi regali addosso. Lei vive praticamente per queste cose: feste, sfilate, esibizionismo. Io invece sono come papà. Papà. Mi manca tanto. A volte penso che, ora che è morto, può vedere tutto quello che faccio dal cielo. Quando ero piccola mi diceva che i nostri antenati ci guardano da lassù e che ogni nostra azione è vista da loro e da Dio. Da bambina trovavo la cosa assai rincuorante, perché pensavo che tutti quegli occhi potessero proteggermi, ma adesso sento che potrei deluderlo. Ora lui sa cosa provo, conosce quel mio insano sentimento – che si è radicato dentro di me col tempo –, è a conoscenza di tutti i miei pensieri, e mi sento invasa, bloccata. È come se sapessi che lui mi guarda e che io debba controllarmi per non dargli un dispiacere. È morto, non ti vede, non ti sente, non c’è. Tuttavia, non lo voglio deludere ora più che mai. Perciò, cerco anche di spegnere i miei pensieri, perciò, mi ostino a sotterrare certi impulsi che manda il mio corpo, certe immagini che la mente crea. Una volta mi toccai, immaginando le mani di… Non pensarci. Lo deluderesti ancora. Afferro il vestito e lo poggio sul petto, rendendomi conto di quanto sia lungo. Lo lancio sul letto e scendo giù a sgranocchiare qualcosa. Evito mamma, sperando di incrociarla una volta vestita di tutto punto, così potrà soffermarsi su come appaio, piuttosto che su come mi sento. E invece mi stupisce. Quando mi vede scendere le scale, nel mio lungo abito nero Armani, mi viene incontro e dice: «Tesoro, non abbiamo ancora parlato della seduta con Venusia.»
Sono sorpresa. Credevo che avrebbe urlato “Oddio, come ti sta bene l’abito”. Mi accarezza una ciocca ondulata e mi cinge le spalle. Mi specchio nei suoi occhi che sono esattamente uguali ai miei: color oro. «Adesso sto uscendo. Ne riparliamo in un altro momento.» Stringo forte la pochette e lei intuisce il mio nervosismo. Scuote il capo, come se si sentisse offesa. «Tesoro, non devi mica dirmi cosa vi siete dette!» Ah, no? Non vuole sapere tutto per filo e per segno? Sto riscoprendo una donna nuova. «E cosa vuoi sapere?» «Solo se ti ha fatto bene parlarne.» replica con dolcezza. Adesso la guardo con amore. È così bella, elegante, mi sembra anche premurosa. Vorrei poter avere una mezz’oretta in più per raccontarle come mi sono sentita, senza scendere in quei dettagli che le farebbero venire un colpo. «Non è stato facile,» ammetto, «ma alla fine Venusia mi ha messo a mio agio e le parole sono uscite da sole.» «Ci ritornerai?» domanda speranzosa. «Certo, in fondo non abbiamo parlato molto.» «Avete parlato anche di papà?» «A quanto pare il problema principale è un altro.» Mi costa ammetterlo, ma è così. «Anche se papà è morto solo da un anno, non è a causa della sua perdita se ho gli incubi e se ho la necessità di trovare una soluzione al mio malessere.» «Hai accettato la sua morte.» Lo dice con rammarico. Le prendo la mano, notando che i suoi occhi si riempiono di dolore. Lei non lo ha mai accettato. È ancora così giovane, ha perso un marito troppo presto. «Mamma, non si può accettare la perdita di qualcuno che si ama.» Lei mi guarda con ammirazione. «Continua, quando parli così mi ricordi lui.» Non vorrei commuovermi, il trucco colerebbe. Devo essere forte e darle quell’illusione che papà sia qui a parlarle.
«Quando perdiamo qualcuno, non lo sentiamo lontano. Sappiamo che con quella perdita una parte di noi si è staccata dal nostro corpo, ma sappiamo anche che è solo una parte, perché il resto, la vera essenza delle persone che amiamo, è qui.» Le poggio con delicatezza una mano sul petto. Lei me la stringe e chiude gli occhi. Le ciglia le tremano e una goccia si affaccia scivolandole sulla gota. «Io lo sento sempre, per questo ho accettato la sua perdita. Ho accettato il fatto che non sia fisicamente presente, perché mi conforta saperlo nell’anima.» «Quanto gli somigli.» sussurra riaprendo gli occhi. «Vieni qui.» Mi stringe tra le braccia e io mi pento di ogni volta in cui l’ho chiamata nella mente “tettona” o “capo del club delle riccone”. È mia madre, mi ama, soffre con me e quanto me, dovrei fare di più per lei. Mi allontana e mi scruta con aria esigente. Tira un bel sospiro, si accarezza il collo con le dita e, civettando, dice: «Avrei messo la collana di perle, ma il punto luce è sobrio e non ti carica il decolté. Avrei anche fatto un’acconciatura, ma so che detesti che ti tocchino i capelli. Tutto sommato… mmh. Sei…» Oddio, non le piaccio? «Sei la visione più bella che i miei occhi abbiano mai visto. Ti sta benissimo. Sei divina. Fammi vedere la scollatura sulla schiena!» Mi prende la mano e mi fa volteggiare, come se stesse facendomi danzare. «Oh, Ambra, sei meravigliosa.» Faccio un giro completo e mi viene spontaneo dirle ciò che penso. «Grazie mamma.» «E di cosa?» A volte ha un modo di parlare così stralunato. Mi fa sorridere. «Di essere la mia mamma.» «Oh!» Fa un gesto con la mano, dando uno schiaffetto all’aria, poi veniamo interrotte da Irina che dice che l’auto della signorina Rocca mi attende in giardino. Do un bacio a mamma e mi precipito verso quella scellerata della mia amica. Saluto con un cenno il suo autista, notando che non è lo stesso dell’altra volta. Questo è davvero bono! Lo ha cambiato? Suo padre deve aver scoperto la tresca col precedente. Di certo con questo nuovo autista non ha fatto un torto a Emma.
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